La riforma dell’abuso d’ufficio: dalla paura della firma alla firma senza paura?

di Giuseppe DE NOZZA

Relazione avente ad oggetto gli approfondimenti sulla recente giurisprudenza in materia di abuso d’ufficio, depositata in occasione dello svolgimento del corso codice P 22025, tenutosi a Scandicci presso la Scuola Superiore della magistratura il 24 marzo del 2022

LA RIFORMA DELL’ABUSO D’UFFICIO: DALLA PAURA DELLA FIRMA ALLA FIRMA SENZA PAURA?

1) Introduzione p. 1; 2) il nuovo catalogo delle fonti normative la cui violazione dà luogo al riformato abuso d’ufficio, p. 3; 2). 1 la rilevanza dei principi generali ed, in particolare, di quello di cui all’art. 97 della Costituzione, p. 3; 2). 2 la rilevanza della fonte regolamentare ed il presupposto del procedimento di “minima eterointegrazione”, p. 5; 3) l’atto vincolato, nella specie il permesso di costruire: i casi esaminati da Cassazione Sezione 3, n. 26834, dell’8.9.2020, Barletta, e Cassazione Sezione 6, n. 31873, del 17/9/2020, Pieri, p. 7; 4) l’atto discrezionale: l’uso distorto del potere, p. 9; 5) l’atto discrezionale: il cattivo uso del potere, p. 10; 6) gli indici dell’intenzionalità del dolo e la doppia ingiustizia dell’evento di danno e di vantaggio, p. 12; 7) l’abuso d’ufficio per violazione dell’obbligo di astensione, p. 14; 8) l’abuso d’ufficio in materia di subappalto: un’applicazione concreta in tema di ampiezza dei poteri del responsabile del procedimento, p. 17; 9) l’abuso d’ufficio e l’intercettazione, p. 18; 10) l’estensibilità alle fattispecie di concussione, corruzione ed induzione indebita della regola introdotta dall’art. 23 del Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, p. 20; 10) la sentenza del 18 gennaio 2022, n. 8, della Corte Costituzionale, p. 21; 11) la prospettiva di un’ulteriore riforma – la firma senza paura, p. 23.

  1. Introduzione.

Approfondire la giurisprudenza recente in tema d’abuso d’ufficio è obiettivo che impone una preliminare scelta di metodo e, cioè, quella del criterio al quale fare ricorso per orientare l’approfondimento.

Si può scegliere un criterio squisitamente cronologico ed, in tal caso, il dies a quo è l’8 settembre del 2020, data della sentenza n. 26834 ( Barletta) della Sezione 3 della Suprema Corte di Cassazione, in tema di attività vincolata del pubblico agente, ed il dies ad quem è il 18 gennaio del 2022, data del deposito della sentenza n. 8 della Corte Costituzionale, investita del giudizio di legittimità della riforma.

Si può far ricorso anche ad un criterio che tenga separato il piano degli elementi costitutivi della fattispecie da quello che attiene, invece, alla prova dell’esistenza di essi, riproponendo, quindi, la distinzione tra diritto penale sostanziale e processuale.

Si può, infine, fare ricorso ad un criterio che provi a tenere distinti il piano degli elementi della fattispecie incisi dalla novella da quello, invece, degli elementi che sono rimasti fuori dal raggio d’azione di essa, ad un criterio, quindi, che orienti l’approfondimento passando in rassegna gli arresti giurisprudenziali secondo una scansione coincidente con quella utilizzata dal Legislatore per riscrivere il perimetro della fattispecie.

La scelta del terzo criterio è stata indotta dall’esigenza di provare a dare organicità alla presente trattazione, esigenza ancor più pressante sul terreno del reato di abuso d’ufficio, terreno ove il giudizio di tipicità del fatto concreto è tremendamente tecnico e, quindi, complesso e parimenti tecnico e complesso è quello sulla prova della sussistenza del reato.

Quale sia la scelta, però, tale approfondimento non può che prendere avvio dal 17 luglio del 2020, data di entrata in vigore del Decreto Legge 16 luglio del 2020, n. 76, recante “ misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, convertito con modificazioni dalla Legge 11 settembre del 2020, n. 120.

Il titolo II del Decreto Legge reca la denominazione “ Semplificazioni procedimentali e responsabilità” ed è articolato in quattro distinti capi, dei quali tre destinati alle “semplificazioni procedimentali” e l’ultimo alla “ responsabilità”.

Il capo IV, a sua volta, si compone, degli artt. 21 e 22, in tema, rispettivamente, di responsabilità erariale e di controllo concomitante della Corte dei Conti ed, infine, dell’art. 23, recante le “ modifiche all’art. 323 del c.p.”.

La riforma incide solo sulla prima parte del primo comma dell’art. 323 del c.p., testualmente prevedendo che: “ all’art. 323, primo comma, del codice penale, le parole ““di norme di legge o di regolamento””, sono sostituite dalle seguenti: ““di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ””.

La struttura dell’articolato normativo è sin troppo chiara, così chiara da renderne parimenti evidente anche l’obiettivo perseguito dal Governo, che è quello di creare tutte le condizioni perché la macchina amministrativa della nostra Repubblica possa procedere ad un ritmo più sostenuto, condizione necessaria perché ancor più rapido possa essere il passo delle imprese e, quindi, dell’economia nel suo complesso, in tal modo provandosi a rimettere in marcia un Paese economicamente provato dall’emergenza pandemica.

Tale necessità impone di emancipare il pubblico agente dalla sindrome della paura della firma, creando le condizioni necessarie perché possa firmare “ senza paura”.

Se chiara è la finalità perseguita dal Governo, parimenti chiara è quella perseguita dal Legislatore della conversione, anche se non completamente sovrapponibile alla prima.

Nel disegno di Legge n. 1883 di conversione del Decreto, si legge testualmente, infatti, che la riforma mira “ a definire in maniera più compiuta la condotta rilevante ai fini del reato di abuso d’ufficio”.

Il disegno di Legge, quindi, è ispirato anche o solo dall’esigenza di rendere più tipica e tassativa la fattispecie, evidentemente ritenuta ancora non sufficientemente precisa.

Lo sforzo in favore della semplificazione e della tassatività si è concentrato sull’elemento oggettivo del reato, lasciando immutata la configurazione del dolo, quella dell’evento di danno o di vantaggio ed, infine, la cornice edittale, anche nella variante prevista per il ricorrere dell’aggravante ad efficacia comune del secondo comma.

L’effetto prodotto è una parziale abolitio criminis, sulla cui portata ed estensione gli arresti giurisprudenziali della Corte di Cassazione aprono scenari sui quali ci si soffermerà nel prosieguo e, con ogni probabilità, non messi in preventivo dal legislatore.

Non inciso dalla riforma è anche l’abuso in atti d’ufficio per violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi previsti dalla Legge, abuso che, con ogni probabilità, per le ragioni che si esporranno nel prosieguo, “ potrebbe ed a certe condizioni” vivere una nuova fase, una fase cioè di rivitalizzazione indotta da una metodica d’indagine che valorizzi una massima d’esperienza e, cioè, quella in forza della quale il pubblico agente, che fa consapevolmente ed intenzionalmente cattivo uso o uso distorto del suo potere, ancor prima che agire a favore o contro l’interesse di un terzo, agisce a favore di un suo interesse complessivamente inteso e non necessariamente dal contenuto patrimoniale.

Di certo potrà rivelarsi complicato portare tale interesse ad emersione, considerata la non spendibilità di tutti gli strumenti d’indagine previsti dal Codice, o forse non strategico considerata la brevità del termine di prescrizione, ma parimenti ragionevole è riflettere sul se un mutato quadro normativo non debba avere quale ineludibile corollario anche un mutato approccio all’investigazione preliminare.

Nella prospettiva di un’ulteriore riforma del reato, quella di cui si sono fatti promotori i disegni di Legge Ostellari, Parrini e Santangelo ed, in particolare il primo di essi, manterrà vigenza solo l’abuso d’ufficio per la sola violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.

Medio tempore, in attesa del se e del come si materializzerà il nuovo intervento di riforma, la nuova fattispecie ha superato il vaglio di legittimità costituzionale in relazione all’art. 77 della Costituzione, essendo stata giudicata - anche nella ratio - omogenea e coerente con la restante parte dell’articolato normativo che l’ha introdotta.

  1. Il nuovo catalogo delle fonti normative la cui violazione dà luogo al riformato abuso d’ufficio.

La formulazione normativa vigente della prima parte dell’art. 323 del c.p. prevede che “ salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla Legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi …….”

2). 1 La rilevanza dei principi generali ed, in particolare, di quello di cui all’art. 97 della Costituzione.

Il tema costituisce, con ogni probabilità, uno dei terreni più accidentati dal punto di vista interpretativo.

Il tenore testuale del novellato non pare lasciar spazio a parametri di valutazione della condotta del pubblico agente diversi da quello ancorato ad una regola di condotta espressamente prevista da una fonte primaria ed avente il carattere della specificità.

Ed è proprio sul terreno dei principi generali ed, in particolare, di quello di buon andamento ed imparzialità del pubblico agente di cui all’art. 97 della Costituzione, che attecchirà o meno il novum introdotto dalla riforma.

E’ piuttosto evidente, infatti, che, ove si riconosca a quel principio – al pari di un qualsivoglia altro principio generale - l’idoneità ad operare quale parametro di valutazione della condotta del pubblico agente, la portata dell’intervento di riforma può uscirne significativamente ridimensionata.

Se l’obiettivo perseguito dal Legislatore, infatti, è quello di riscrivere il perimetro della fattispecie limitandone lo spettro applicativo, riconoscere a quel principio, di per sé solo, la capacità di colorare di tipicità l’operato del pubblico agente ha quale inevitabile conseguenza che qualsivoglia fonte normativa, anche di rango non primario quale quella regolamentare, può recuperare cittadinanza nel riformato art. 323 del c.p. 1

D’altro canto non è immaginabile di poter confinare in un angolo il principio cardine ed informatore dell’operato della pubblica amministrazione complessivamente considerata, la cui forza e portata precettiva è stata riconosciuta e ribadita, anche in costanza di riforma, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza 2.

Secondo l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale richiamato, quindi, anche alla regola di cui all’art. 97 della Costituzione può riconoscersi il carattere di norma di Legge precettiva, quello di norma di Legge che impone al pubblico agente una regola di condotta e, soprattutto, quello di norma di Legge precisa e, cioè, avente tutti i caratteri distintivi del nuovo parametro di valutazione della condotta del pubblico agente introdotto con la riforma.

Si è scritto di terreno accidentato dal punto di vista interpretativo perché l’intervento di riforma è stato innestato in un sistema di diritto vivente per il quale l’operato del pubblico agente che si pone in conflitto con l’art. 97 della Costituzione è da valutarsi tipico ai sensi del primo comma dell’art. 323 del c.p.

E, quindi, è sufficiente avere ben chiaro l’obiettivo perseguito dal legislatore della riforma per desumerne la sostanziale novazione di quel sistema e, quindi, per addivenire alla conclusione che, per effetto dell’entrata in vigore della riforma e dei fini da essa perseguiti, la violazione dell’art. 97 della Costituzione non è più violazione di Legge penalmente tipica.

Nelle righe e tra le righe della sentenza della Corte di Cassazione Sezione F., n. 42640 del 17/8/2021, Amato, si coglie la presa di consapevolezza di questo intricato nodo interpretativo proprio lì ove si legge che “ ….al di là dell’eliminazione del riferimento a norme regolamentari, che non assume rilievo nel caso di specie…., è necessario, in particolare, considerare il tema della qualificazione della regola, che deve essere specifica e non lasciare margini di discrezionalità, dovendosi verificare in che modo tale formulazione possa concretamente incidere in senso restrittivo rispetto al precedente orientamento interpretativo e produrre, se del caso, effetti di parziale depenalizzazione di condotte pregresse” (p. 9).

2). 2 La rilevanza della fonte regolamentare ed il presupposto del procedimento di “minima eterointegrazione”.

Nella nuova formulazione dell’art. 323 del c.p. non vi è più alcun riferimento alla fonte regolamentare, che, quindi, pare essere fuoriuscita dall’orbita della nuova fattispecie.

Sul tema, però, è sopravvenuta la sentenza n. 33240 dell’16.2.2021, della Sezione 6 della Cassazione, Del Principe, che può avere la forza di aprire uno scenario interpretativo con ogni probabilità non preventivato dal legislatore della riforma.

Ad essere oggetto di ricorso la sentenza di una Corte d’Appello che aveva confermato la condanna del dirigente di un comune ritenuto responsabile del delitto di abuso d’ufficio, anche per violazione dell’obbligo di astensione, per aver predisposto un bando di gara, presieduto la relativa commissione esaminatrice ed, infine, dichiarato vincitrice di concorso la nipote, con la quale aveva, altresì, provveduto a stipulare il relativo contratto di collaborazione coordinata e continuativa, disponendone per due volte il rinnovo alla scadenza.

La violazione di Legge ascritta era quella dell’art. 7 del D.Lvo n. 165 del 2001 nonché quella dell’art. 45 del regolamento degli uffici e dei servizi del comune.

La prima delle due norme citate consente all’amministrazione pubblica, al fine di soddisfare esigenze non fronteggiabili con il personale in servizio, di stipulare contratti di lavoro autonomo con esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria.

La seconda, invece, è stata emanata per riempire di contenuto la prima ed a questo fine prevede che possa essere considerato portatore di una particolare e comprovata specializzazione anche universitaria il candidato che abbia conseguito la laurea magistrale o, in subordine, quella accompagnata da master universitari coerenti con le professionalità richieste.

Nel caso di specie, il vulnus normativo era stato contestato soprattutto in relazione alla norma regolamentare, emanata al comprensibile fine di conferire il crisma della compiutezza e precisione a quella primaria.

E’ questo il terreno sul quale, secondo la sentenza in commento della Suprema Corte, può attecchire il c.d. procedimento di “ minima eterointegrazione”, che non entra in frontale contrasto con la nuova fattispecie al ricorrere di un presupposto e, cioè, la tipicità e la tassatività della norma di condotta che si assume violata in via principale.

Al ricorrere di esso, vi è lo spazio per una minima eterointegrazione del contenuto della fonte primaria - da parte della norma sottoposta ed interposta - “ che si risolva…solo in una specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito dalla norma primaria” (p. 7).

Il fatto di reato per il quale era stato proposto ricorso permaneva, quindi, tipico anche in costanza di vigenza della nuova formulazione dell’art. 323 del c.p., essendosi limitata la fonte regolamentare a “… spiegare cosa dovesse intendersi per comprovata specializzazione anche universitaria” (p. cit.).

A maggior ragione, il fatto permaneva tipico anche ai sensi della seconda parte del primo comma dell’art. 323, non essendo stato inciso l’abuso d’ufficio per violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.

La sentenza d’appello veniva annullata stante il sopraggiungere medio tempore della prescrizione.

E’, quindi, specifica, secondo la sentenza in commento, anche la regola di condotta di fonte primaria che definisce in modo compiuto il suo perimetro applicativo, lasciando un minimo spazio alla fonte regolamentare al solo fine di specificare dal punto di vista tecnico di uno o più dei segmenti della condotta.

Si è utilizzato, in esordio del paragrafo – e non a caso –, il termine “ scenario interpretativo” perché il procedimento di minima eterointegrazione della fonte secondaria può avere uno spettro applicativo estremamente largo e diffuso, dando luogo ad una sostanziale rinascita della fonte regolamentare quale parametro di qualificazione della condotta abusiva.

Non può di certo escludersi l’esistenza di casi nei quali il legislatore si sia spinto, nello sforzo di tipicità e tassatività, sino al punto di definire anche il dettaglio della norma, ma il dato esperienziale insegna che, di regola, il legislatore “delega” alla fonte regolamentare la funzione di riempirne il contenuto.

L’arresto in commento, però, fissa un criterio idoneo al regolamento dei confini tra l’area della nuova tipicità e l’area, invece, attratta nell’orbita dell’abolitio criminis parziale.

Può ragionevolmente ipotizzarsi, infatti, che non possa più fungere da parametro di qualificazione della condotta abusiva la c.d. norma di “ rilevanza legislativa indiretta” e, cioè, quella che, invece, che definire in modo compiuto la regola di condotta, si limita esclusivamente ad imporre l’osservanza di una regola di condotta la cui tipizzazione è, invece, demandata alla fonte regolamentare, come avviene, di regola, nel caso del bando di gara.

E che, sulla base del medesimo criterio, non possano più assurgere a parametro di qualificazione della condotta abusiva le linee guida emanate da un’Autorità indipendente con regolamento o i cosiddetti “ meri atti di normazione flessibile” (il c.d. soft law), quali, ad esempio, le linee guida dell’ANAC 3.

Il precedente giurisprudenziale citato assume rilevanza anche sotto un ulteriore e non meno rilevante profilo, che attiene all’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, che, qualche mese dopo l’entrata in vigore della riforma, aveva escluso la legittimità del procedimento di eterointegrazione, anche di minimo respiro.

E’ il caso della sentenza della Sezione 6, n. 442 del 9.12.2020, Garau, sulla quale ci si soffermerà nel prosieguo, che, seppur in modo incidentale, sul tema dell’eterointegrazione, aveva assunto una posizione decisamente più netta, testualmente affermando che “ la nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione delle modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione mediata di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero cattivo uso del potere – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa” (p. 5).

Per poi consolidarsi su questo orientamento favorevole all’ammissibilità dell’eterointegrazione in versione “soft” con Cassazione Sezione 6, n. 1606 dell’11/11/2021, Iovine, sulla quale si scriverà nel prosieguo.

  1. L’atto vincolato, nella specie il permesso di costruire: i casi esaminati da Cassazione Sezione 3, n. 26834, dell’8.9.2020, Barletta, e Cassazione Sezione 6, n. 31873, del 17/9/2020, Pieri.

La sentenza Barletta è la prima in ordine di tempo ad essersi pronunciata sulla riforma dell’abuso d’ufficio.

Ad essere oggetto di ricorso era stata l’ordinanza di un Tribunale del Riesame che aveva confermato l’ordinanza del GIP di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di abuso d’ufficio, contestato in relazione a tre permessi a costruire rilasciati in assenza di pianificazione urbanistica di attuazione, più nello specifico per sopravvenuta perdita di efficacia - per decorso del termine decennale di vigenza - del prescritto piano particolareggiato.

Il piano particolareggiato aveva cessato di essere efficace nell’anno 2016, mentre i permessi a costruire erano stati rilasciati due nel 2017 ed uno nel 2018.

La violazione di Legge contestata era quella dell’art. 12 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, violazione che si assumeva essersi consumata a seguito di un accordo collusivo tra il pubblico agente che aveva rilasciato i permessi a costruire e l’imprenditore beneficiario nonché l’uomo di fiducia di quest’ultimo.

Inequivoca la presa di posizione della sentenza, che concludeva nel senso che la riforma non avesse sortito alcun effetto sulla tipicità del fatto oggetto di ricorso, che rimaneva tale anche a seguito della nuova formulazione dell’art. 323 del c.p.

Gli atti amministrativi oggetto d’incolpazione erano, infatti, espressione di una regola di condotta prevista da un atto avente forza di Legge specifica e per l’applicazione della quale non residua per il pubblico agente margine alcuno di discrezionalità.

I tre permessi a costruire erano stati rilasciati, infatti, in violazione dell’art. 12 del D.P.R. 6 giugno 2011, n. 380, a tenore del quale “ il permesso a costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico edilizia vigente”, più nello specifico in assenza del pur necessario - perché prescritto - piano particolareggiato.

Il tenore letterale della norma è piuttosto chiaro nel configurare tale potere senza l’attribuzione al pubblico agente di alcun margine di discrezionalità, come, del resto, confermato dal successivo art. 13 a tenore del quale “ il permesso a costruire è rilasciato dal dirigente o dal responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici”.

Più sofisticato il ragionamento della Corte sul terzo requisito della regola di condotta prevista dall’art. 13, quello, cioè, del dover essere tale norma anche specifica, cioè precisa, puntuale, stante il rinvio in essa contenuto a fonti normative di rango non primario, quali i regolamenti o, addirittura, gli strumenti urbanistici, fonti che il legislatore della riforma – quanto meno nelle intenzioni - ha espunto dallo spettro applicativo della nuova fattispecie.

Sul tema questo il principio di diritto espresso, rectius ribadito, dalla Suprema Corte, secondo la quale “ deve ribadirsi che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti d’ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità all’indirizzo consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (Sezione 6, n. 11620 del 25.1.2007, Pellegrino)……” (p. 10).

Le plurime violazioni di legge erano state consumate nel quadro di un accordo collusivo tra il pubblico agente ed i privati, accordo la cui dimostrazione aveva, quindi, connotato le violazioni di Legge del requisito del dolo intenzionale, accordo la cui esistenza era stata desunta dal rilievo che “ il pubblico ufficiale si era prodigato per rilasciare, con anomala celerità in quanto l’iter amministrativo non era stato ancora completato, un permesso a costruire, consegnato nelle mani del….., per impedire il sequestro dell’area, sulla quale erano in corso lavori in assenza di permesso a costruire, mentre era in corso un sopralluogo della polizia municipale la mattina del 3 aprile del 2017” (p. 6).

Il ricorso, quindi, veniva rigettato.

La sentenza Pieri è, invece, la seconda in ordine di tempo ad essersi pronunciata sulla riforma dell’abuso d’ufficio.

Ad essere oggetto di ricorso era, in questo caso, la sentenza di una Corte d’Appello che aveva confermato la condanna per il reato di abuso d’ufficio, contestato, questa volta, in relazione ad un permesso a costruire rilasciato in violazione del piano strutturale comunale e del regolamento urbanistico comunale, essendosi autorizzata la costruzione di una rimessa in zona agricola nonché la trasformazione d’uso della medesima.

Il tema è, quindi, anche in questo caso, quello del permesso a costruire, del suo essere stato configurato quale atto vincolato, espressione di un potere conferito al pubblico agente da una regola di condotta espressa e specifica e per l’applicazione della quale non residua alcun margine di discrezionalità.

Identiche, quindi, le conclusioni e, quindi, il principio di diritto affermato, rectius ribadito.

La nota di specialità di questo arresto giurisprudenziale è costituita dalla prova dell’intenzionalità del dolo, che non necessariamente richiede la prova dell’esistenza di un accordo collusivo tra il pubblico agente ed il privato ma ben può ricavarsi dall’ “ obiettiva macroscopicità delle violazioni di legge, ma anche dalla loro reiterazione, indice plausibile della direzione della azione” (p. 4).

Il ricorso, quindi, veniva dichiarato inammissibile.

  1. L’atto discrezionale: l’uso distorto del potere.

Il primo arresto giurisprudenziale a spendersi diffusamente sul tema è la sentenza della Sezione 6, n. 442 del 9/12/20, Garau.

Ad essere oggetto di ricorso la sentenza di una corte d’appello che aveva confermato la condanna per abuso d’ufficio del dirigente apicale di un’azienda ospedaliera che aveva, con più atti amministrativi, illegittimamente (nella prospettazione del giudice di merito) dequalificato il servizio di prevenzione e di protezione da struttura complessa in struttura semplice, al fine di demansionare la posizione giuridica ed economica del dirigente di tale servizio, che, per l’effetto, aveva perso la relativa indennità di posizione ed aveva subito l’irrigidimento del vincolo gerarchico.

Ad essere censurati d’illegittimità erano stati più atti amministrativi dal contenuto squisitamente organizzativo, deliberati al fine precipuo di pregiudicare il dirigente del servizio, fine ritenuto provato in ragione di più elementi di natura obiettiva quali l’assenza di una seria ed urgente finalità riorganizzativa del servizio ed il persistente diniego del pubblico agente ad incontrare, per chiarimenti, il dirigente del servizio e le rappresentanze sindacali.

La sentenza d’appello, al pari di quella di primo grado, veniva annullata perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato.

Ad esser venuta meno, medio tempore, era stata, infatti, la violazione di Legge perché ad esser ritenuto provato era stato un fatto continuato di abuso posto in essere non in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste da una fonte primaria.

L’abuso era stato individuato in una sequenza di atti amministrativi dal contenuto squisitamente organizzativo, ritenuti espressione, però, da parte della Suprema Corte, di una legittima potestà di riorganizzare l’azienda ospedaliera attribuita al suo direttore apicale, che di quella discrezionalità amministrativa aveva fatto uso senza travalicarne il c.d. limite esterno e, quindi, senza spingersi sul terreno nel quale il fatto avrebbe mantenuto tipicità anche con la nuova formulazione del 323 del c.p.

Il richiamo al mancato superamento del limite esterno è l’occasione per distinguere il campo del cattivo uso del potere da quello dell’uso distorto di esso, da individuarsi, quest’ultimo, nell’esercizio del potere (o del servizio) per il perseguimento di un interesse oggettivamente difforme e collidente con quello per il soddisfacimento del quale il potere è stato attribuito.

Sia che tale forma di patologia dell’esercizio del potere la si definisca “ distorsione funzionale dal fine pubblico”, sia che la si definisca “sviamento di potere”, “eccesso di potere estrinseco” o “ violazione del limite esterno della discrezionalità amministrativa”, la sostanza permane identica e, cioè, l’uso del potere pubblico per una causa diversa da quella che ne ha fondato l’attribuzione permane fatto tipico anche per la nuova formulazione dell’art. 323 del c.p.

Il permanere della tipicità è intimamente correlato al fatto che l’uso della discrezionalità per una causa diversa da quella che ha fondato l’attribuzione del potere indizia una situazione nella quale la discrezionalità non è reale ma meramente “apparente”, cioè una situazione nella quale il potere esercitato nel concreto non è attribuito al pubblico agente che lo esercita, il quale, quindi, pone in essere una condotta che integra gli estremi della forma più grave di violazione di legge, quella, per l’appunto, sull’attribuzione del potere 4.

In tal caso, ad essere violata è una norma espressamente prevista da una fonte primaria e sufficientemente tipica e tassativa, perché individua il soggetto pubblico al quale conferisce un potere funzionale al soddisfacimento di un predeterminato interesse pubblico.

Di qui l’autonomia concettuale tra il requisito della violazione di Legge quale elemento costitutivo del reato di abuso in atti d’ufficio e quello di violazione di Legge quale vizio tipico dell’atto amministrativo.

  1. L’atto discrezionale: il cattivo uso del potere.

Il primo arresto giurisprudenziale in ordine di tempo a spendersi diffusamente sul tema è, anche in questo caso, la sentenza della Sezione 6, n. 442 del 9/12/20, Garau, che traccia il confine tra il cattivo uso del potere discrezionale e l’uso distorto di esso, attribuendo al primo lo spazio elettivo di intervento della riforma del 2020 ed al secondo il terreno della perdurante tipicità del concreto agire del pubblico agente.

E’ il primo arresto giurisprudenziale in ordine di tempo a perimetrare l’intervento di riforma, cogliendo nel riferimento alle regole di condotta espresse e specifiche - dall’applicazione delle quali non residuino margini di discrezionalità - la nuova linea di confine tra l’esercizio della pubblica funzione (o del pubblico servizio) sottratto al sindacato del giudice penale e l’esercizio ancora suscettibile di tale sindacato.

Si legge testualmente: “ In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione “di norme di legge e di regolamento”, si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione della responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa questa nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati – dell’interesse pubblico primario da perseguire in concreto…..La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione delle modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso”– la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa” (p. 5).

Il corollario della formulazione di tale principio di diritto è costituito dalla parziale “abolitio criminis”, perché, non più previsti dalla Legge come reato, tutti i fatti che, in costanza della previgente formulazione dell’art. 323 del c.p., erano stati giudicati tipici anche in relazione alla violazione di regole di condotta dall’applicazione delle quali residuavano margini di discrezionalità per il pubblico agente.

Come sostenuto da autorevole dottrina, l’intervento di riforma si propone di disegnare il nuovo “ assetto…..nel delicato rapporto tra ambito del controllo del giudice penale e discrezionalità amministrativa” 5 .

Il tenore testuale della norma parrebbe piuttosto chiaro ed univoco nel senso che il ricorrere di uno spazio anche minimo di discrezionalità valga ad escludere l’astratta configurabilità del reato.

Secondo parte della dottrina, si è in presenza di un elemento negativo del fatto tipico della nuova fattispecie, “ la cui sussistenza viene in radice meno se tale elemento (il potere discrezionale) ricorre” 6 .

E tale sussistenza è destinata a venir meno in radice - come del resto si legge nel richiamato principio di diritto - anche ove residui un margine di discrezionalità (non amministrativa ma) tecnica e, cioè, di quella particolare specie di valutazione comparativa che è governata da regole dal contenuto tecnico.

Salvo il caso, come evidenziato da parte della dottrina7, che “ la regola tecnica non sia trasfusa in un’improbabile regola di comportamento specifica e “rigida”, di fonte primaria; ma anche in tal caso permarrà l’insindacabilità del “nucleo valutativo” del giudizio tecnico. E così, la palese erroneità del giudizio in sede concorsuale sul valore di un prodotto scientifico, che sia pure foriero di rilevanti intuizioni per la comunità internazionale, non è suscettibile di integrare la condotta tipica dell’abuso d’ufficio, pur essendo in ipotesi affetto da illegittimità in sede amministrativa, entro i limiti della ragionevolezza nell’applicazione della regola tecnica”.

E tale sussistenza è destinata, infine, a venir meno anche ove venga in rilievo quel nucleo della discrezionalità costituito dall’agire libero della funzione nelle scelte di opportunità, quelle scelte, cioè, non regolate dalla legge attributiva del potere e che attengono alla vera e propria cura dell’interesse e, cioè, ove venga in rilievo il c.d. merito amministrativo, ambito di valutazione, a differenza della discrezionalità tecnica, sottratto anche al sindacato del giudice amministrativo 8.

  1. Gli indici dell’intenzionalità del dolo e la doppia ingiustizia dell’evento di danno e di vantaggio .

Il contenuto del dolo e il requisito della c.d. “ doppia ingiustizia” non sono stati interessati dall’intervento di riforma, con ogni probabilità perché sia l’uno che l’altro non considerati bisognevoli di un ulteriore sforzo in termini di tipicità.

Quello del dolo e della sua prova costituisce, nel concreto dell’applicazione della fattispecie, il banco di prova più impegnativo per l’interprete perché è necessario fornire la prova al di là di ogni ragionevole dubbio che il pubblico agente abbia orientato il suo agire in direzione di un interesse privato senza ricevere in cambio né la promessa né la dazione di una qualsivoglia forma di utilità e che tanto abbia fatto senza, nel contempo, essere neanche portatore di un personale interesse o tornaconto.

Il raggiungimento di tale obiettivo di prova ben può coesistere con uno scenario investigativo che denunci l’incapacità di portare ad emersione il potenziale concorrente interesse del pubblico agente, il quale, a fronte di tale incapacità, beneficia di un più favorevole giudizio di tipicità.

La valutazione degli arresti giurisprudenziali che si sono pronunciati sul tema della prova del dolo intenzionale genera un risultato piuttosto univoco e, cioè, che l’intervento di riforma pare non aver inciso su questo terreno né direttamente né di riflesso.

Il riferimento è a Cassazione Sezione 5, n. 37517 del 2/10/2020, Danzè, a Cassazione Sezione 6, n. 8057 del 28/1/2021, Asole, ed, infine, a Cassazione Sezione F., n. 42640 del 17/8/2021, Amato.

Sul medesimo tema, poco meno di un anno prima dell’avvento della novella, si era pronunciata anche Cassazione Sezione 6, n. 51127 del 17/9/2019, Camastra.

Possono distinguersi due piani concettualmente autonomi e, cioè, quello sul quale coesistono l’interesse pubblico che ha fondato l’attribuzione del potere e quello del terzo che, dalla condotta del pubblico agente, ne ricava soddisfacimento o danno.

E quello, invece, sul quale l’interesse del terzo si muove ed ispira il pubblico agente in “solitudine”, quello sul quale, cioè, il pubblico agente dirotta l’esercizio della pubblica funzione senza curarsi dell’interesse pubblico e, soprattutto, in assenza di un suo personale interesse.

Quanto al primo dei due piani, il rapporto di forza in concreto tra i due interessi segna il confine tra il dolo diretto od eventuale - e, quindi, l’insussistenza del fatto – ed il dolo intenzionale e, quindi, il compiuto giudizio di tipicità del fatto.

La sentenza Danzè ribadisce il principio consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui, se il perseguimento dell’interesse pubblico costituisce l’obiettivo principale del pubblico agente, il dolo finisce per atteggiarsi in modo solo diretto od eventuale e non con quell’intensità che contraddistingue l’agire della pubblica funzione concepito ed attuato con il fine precipuo di recare un vantaggio o un danno ingiusto all’interesse del terzo.

Il caso sottoposto al vaglio della Corte era quello di un Sindaco che aveva disposto la proroga dei rapporti di lavoro a tempo determinato, anche in favore del coniuge, in quanto indispensabile a garantire l’effettivo esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza su tutto il territorio comunale, per le gravi carenze di organico del comando di polizia municipale, caso in relazione al quale la Corte aveva ritenuto immune da censure la sentenza di una Corte d’Appello che aveva escluso la configurabilità del reato in punto di mancanza di prova dell’intenzionalità del dolo del pubblico agente.

Su questo specifico aspetto della degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale si era pronunciata, poco prima dell’intervento di riforma, anche Cassazione Sezione 6, n. 51127 del 17/9/2019, Camastra, (p. 6).

Quale che sia nel concreto il rapporto di forza con l’interesse pubblico, la prova dell’intenzionalità del dolo può ricavarsi da una serie di indici fattuali, che la sentenza Danzè non si sottrae dall’indicare e ricapitolare, nello sforzo di costruire un catalogo di essi il più possibile esaustivo.

L’intenzionalità del dolo può ricavarsi in primis (ma non necessariamente solo) dalla prova dell’esistenza di un accordo di tipo collusivo tra il pubblico agente ed il privato che si intende favorire, ma anche da ulteriori e diversi indici fattuali (che non devono necessariamente coesistere) costituiti “ dall’evidenza, dalla reiterazione e dalla gravità delle violazioni; dalla competenza dell’agente; dai rapporti fra l’agente ed il soggetto favorito; dall’intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice del comportamento dell’agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente stesso” (p. 16).

Cassazione Sezione F., n. 42640 del 17/8/2021, Amato, si è posta in scia con la sentenza Danzè nel definire come estraneo al perimetro della riforma il terreno del dolo di vantaggio o di danno, arricchendo il catalogo di ulteriori indici fattuali desunti dalla specificità del caso concreto da essa esaminato e, cioè, nella specie, con il riferimento “ al conflitto d’interessi nel quale versava il ricorrente in ragione dell’incarico professionale assunto nella concomitante causa civile, tale da disvelare il surrettizio intendimento perseguito” ; nonché, in adesione alla pronuncia della Corte del merito, con il riferimento al fatto che “ in precedenza il ricorrente non aveva mai adottato misure analoghe, non potendo dunque invocare consolidate pressi al di fuori dell’isolato caso in esame, connotato dal rilevato conflitto d’interessi” (p. 19 per entrambi i citati testuali).

Nello specifico, al giudizio della Corte era stata rimessa la sentenza di una Corte del merito, che aveva confermato la condanna in primo grado per abuso d’ufficio di un amministratore pubblico che, in violazione dell’art. 7 della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. e), e dell’obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio, aveva disposto la requisizione di un immobile oggetto di controversia tra il suo proprietario ed una società patrocinata dall’amministratore pubblico, con contestuale assegnazione dell’immobile ad una famiglia in precedenza sfrattata, la quale, nel contempo, era stata onerata del pagamento di una somma di denaro da versarsi su un libretto bancario, che avrebbe dovuto essere intestato alle due parti della controversia in attesa delle determinazioni del giudice civile.

La sentenza Danzè, nel valutare il profilo della “ doppia ingiustizia”, coglieva l’occasione per escludere dalla sfera d’incidenza del novum normativo anche il requisito della doppia ed autonoma ingiustizia, che deve connotare “ l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimità della condotta (ex plurimis, Cass. Sez. 6, n. 10133 del 17/2/2015)” (p. 18).

Conforme, sia in tema di effetti della riforma che di indici fattuali da cui desumere la prova del dolo intenzionale ed, infine, in tema di requisito della doppia ingiustizia, anche Cassazione Sezione 6, n. 8057 del 28/1/2021, Asole.

  1. L’abuso d’ufficio per violazione dell’obbligo di astensione .

L’abuso per violazione dell’obbligo di astensione è materia non incisa dalla riforma.

La prima in ordine di tempo a manifestare tale convincimento è la sentenza della Cassazione Sezione 6, n. 16782 del 17 novembre del 2020, Olivieri.

Ad essere oggetto di ricorso era stata la sentenza di una Corte del merito che aveva confermato la condanna per il reato di cui all’art. 323 del c.p. per violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio.

Nello specifico, tale interesse era stato individuato nell’accertata esistenza di una grave inimicizia tra il direttore generale di un’azienda sanitaria ed uno degli aspiranti al ruolo di direttore di un’unita operativa complessa.

L’aspirante pretermesso si era doluto della partecipazione alla procedura del direttore generale, al quale addebitava la violazione dell’obbligo di astenersi pur in presenza di ragioni di grave inimicizia.

Il caso sottoposto al vaglio della Corte ha costituito l’occasione per fare “il punto della situazione” sulle due fattispecie di abuso previste dall’art. 323 del c.p.

La prima manifestazione della condotta “non in iure” è costituita dalla violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.

La seconda è costituita dalla violazione dell’obbligo di astensione in tutti gli altri casi in cui è prescritto, in tal caso operando la norma penale secondo lo schema della norma penale in bianco, anche in relazione a casi di obbligo di astensione introdotti da disposizioni normative di futura emanazione.

L’esistenza di una condotta “non in iure” - la prova, quindi, dell’illegittimità del mezzo utilizzato per perseguire il risultato di danno o di vantaggio ingiusto – non esaurisce la dimensione oggettiva delle due forme di abuso, dovendosi, al pari di quanto previsto nella prima parte del comma primo, materializzarsi anche il secondo ed autonomo requisito d’ingiustizia dell’evento di danno o di vantaggio, l’essere stati prodotti, cioè, sia l’uno che l’altro, “contra ius”.

All’annullamento della sentenza senza rinvio con la formula perché il fatto non sussiste si addiveniva al culmine di un percorso motivazionale che dava conto, da un lato, dell’insussistenza di un “interesse proprio” e del correlato obbligo di astensione in capo al direttore generale, dall’altro della mancata esplorazione da parte del giudici del merito della restante parte dell’elemento oggettivo e, cioè, di quella parte facente leva sulla struttura di reato di evento e non di mero pericolo anche della fattispecie di abuso per violazione dell’obbligo di astensione.

In ordine al primo dei due profili, si traccia netto il confine tra l’inimicizia grave generata dalla dimensione professionale del rapporto, sia essa lavorativa, scientifica o accademica, e quella, invece, attecchita nella dimensione privata del rapporto.

Solo alla prima, in scia ad un orientamento conforme e consolidato anche nella giurisprudenza civile (sui contenuti del requisito della grave inimicizia previsto dall’art. 51, n. 3 del c.p.c.) e di quella amministrativa, può riconoscersi, secondo la sentenza in commento, la forza di minare l’imparzialità dell’organo valutativo e non anche alla seconda, manifestazione fisiologica del concreto e quotidiano svolgersi di un rapporto meramente privato e personale.

Nel caso oggetto di ricorso, la grave inimicizia era venuta ad esistenza in ragione di visioni antagoniste dal punto di vista professionale, diametralmente opposte, anche manifestate pubblicamente, tra i due contendenti.

In altri termini, il pubblico agente valutatore era portatore da tempo di un giudizio di disistima professionale nei confronti del valutato, generatosi, però, in seno alla componente professionale del rapporto tra i due.

Del tutto inesplorato dai giudici del merito veniva, invece, giudicato il limitrofo terreno di prova, quello, cioè, della doppia ingiustizia, che avrebbe imposto la dimostrazione, anche a voler ritenere esistente una grave inimicizia generata da ragioni personali, che “ fosse stato cagionato un danno ingiusto ulteriore e, cioè, che se quella valutazione per quel concorso fosse stata fatta da un dirigente diverso e non “inquinato”, cioè non in posizione di conflitto, l’esito sarebbe stato diverso” (p. 9) .

La pertinenza all’elemento oggettivo del reato di abuso per violazione dell’obbligo di astensione del requisito della doppia ingiustizia veniva ribadita anche da Cassazione Sezione 6, n. 26429 del 14/4/2021, Ronconi, secondo cui “ …la violazione dell’obbligo di astensione da parte del pubblico Ministero non integra di per sé il requisito del danno ingiusto, in quanto il difetto d’imparzialità assume rilevanza a condizione che si traduca in accuse pretestuose e palesemente insussistenti nonché in iniziative del tutto prive di fondamento, strumentali rispetto al perseguimento di finalità persecutorie o, comunque, improntate ad un iniquo esercizio dei poteri processuali” (p. 5).

Il caso portato al vaglio della Corte era quello di un Pubblico Ministero al quale era stato contestato l’esser venuto meno all’obbligo di astenersi in relazione alla trattazione di un procedimento penale per maltrattamenti in famiglia e per lesioni personali, nel quale risultava persona offesa una donna con la quale il pubblico ministero aveva instaurato una relazione sentimentale.

Il Pubblico Ministero era stato ritenuto responsabile dal giudice di primo grado ed era stato, invece, mandato assolto da quello d’appello per mancanza di prova sull’elemento oggettivo, costituito dall’ingiustizia dell’evento di danno asseritamente arrecato al marito ricorrente e parte civile del processo.

La Cassazione confermava la sentenza d’appello argomentando che “ ..sarebbe stato necessario quanto meno dedurre se ed in che misura la presenza di un pubblico ministero in conflitto d’interessi con l’imputato abbia concretamente arrecato un danno ingiusto a quest’ultimo, sia pur con riguardo al mero trattamento processuale deteriore rispetto a quello di cui questi avrebbe altrimenti goduto……. Lo svolgimento del procedimento, pertanto, è tale da non denotare specifiche irregolarità causalmente collegabili alla mancanza di imparzialità del Pubblico Ministero” (p. 5).

Quanto ai contenuti ed alla natura dell’interesse, è tema sul quale ha preso posizione Cassazione Sezione F. n. 42640, del 17/8/2021, Amato, secondo cui “ l’interesse rilevante deve riguardare il pubblico agente o i suoi prossimi congiunti e deve essere riconoscibile prima dell’atto, ben potendosi peraltro avere riguardo ad interessi di qualsiasi natura e, dunque, a quello legato al proficuo esito di una controversia nella quale il soggetto svolga un mandato professionale (può farsi rinvio sulla natura dell’interesse a Cassazione Sezione 6, n. 1316 del 19/11/1997) (p. 16).

Quanto all’obiettiva esigenza di riempire di contenuto la nozione di “ prossimo congiunto”, può richiamarsi in ausilio, secondo una parte della dottrina, l’art. 307 del c.p., comma IV, dettato in tutt’altra materia, a tenore del quale “ agli effetti della legge penale, si intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii ed i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini , allorché sia morto il coniuge e non via sia prole” 9 .

La rilevanza penale della violazione dell’obbligo di astensione – obbligo la cui previsione è funzionale e strumentale alla realizzazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa – ricorre anche nel caso in cui ad essere violato è l’obbligo di astenersi negli altri casi in cui tale obbligo è prescritto.

Il riferimento è, a mero titolo esemplificativo, all’art. 6 bis della Legge n. 241 del 1990, che prevede l’obbligo di astenersi in capo al pubblico agente (sia quello preposto all’emanazione del provvedimento finale sia quello preposto al compimento di un qualsivoglia atto endoprocedimentale) che sia portatore di una situazione di conflitto d’interessi, anche solo potenziale.

Ma anche all’art. 7 del D.P.R. 16 aprile del 2003, n. 62, avente ad oggetto il regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, e all’art. 11 del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, recante il regolamento avente ad oggetto le norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi.

Le due fonti normative citate hanno carattere e natura di regolamento e, quindi, non essendo stata incisa la seconda parte del primo comma dell’art. 323 del c.p., la fonte regolamentare permane, anche dopo la riforma, quale parametro di valutazione dal quale continuare a poter desumere l’eventuale illegittimità del mezzo utilizzato.

Sul tema della persistente rilevanza, in questa materia, della fonte regolamentare, si è pronunciata anche Cassazione Sezione 6, n. 7007 dell’8/1/2021, Micheli, secondo la quale “ diversamente, per l’altro profilo contestato, quello della violazione dell’obbligo di astensione, il fatto conserverebbe rilevanza penale atteso che, rispetto a tale specifica condotta, nulla è cambiato rispetto al passato, assumendo rilevanza la violazione di detto obbligo anche ove prescritto da norme secondarie, regolamentari, come quelle contenute nel codice di comportamento dei pubblici dipendenti di cui al DPR 16 aprile 2013, n. 62” (p. 24).

  1. L’abuso d’ufficio in materia di subappalto: un’applicazione concreta in tema di ampiezza dei poteri del responsabile del procedimento.

Sul tema si è pronunciata Cassazione Sez. 6, n. 1606 dell’11/11/2021, Iovine, che ha definito l’ampiezza della portata precettiva dell’art. 10, comma II, del Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.

La norma prevede che il responsabile del procedimento “ svolge tuti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, ed alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.

Il tenore testuale della norma non consente, secondo la Corte, di ritenere di pertinenza di tale complessa funzione anche “ l’obbligo di verifica, da parte del responsabile del procedimento, dell’assetto societario della ditta subappaltatrice, non essendo, peraltro, previsti correlati oneri di comunicazione a riguardo da parte della ditta appaltatrice alla stazione appaltante; né d’altra parte tale specifico obbligo di controllo si desume dalle condizioni previste per il rilascio dell’autorizzazione al subappalto” (p. 6).

Il caso era quello del responsabile unico del procedimento ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 323 del c.p. per aver, rilasciando l’autorizzazione al subappalto, omesso di vigilare sull’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società assegnataria dell’appalto e la società appaltatrice in ragione di un rapporto di compartecipazione societaria.

La sentenza di condanna del RUP veniva annullata con la formula perché il fatto non sussiste in ragione della ritenuta insussistenza di una violazione di Legge, essendosi attribuita alla norma in questione da parte del giudice del merito un perimetro decisamente più ampio di quello tracciabile in forza del suo tenore testuale e letterale.

  1. L’abuso d’ufficio e l’intercettazione .

La fattispecie di reato di cui all’art. 323 del c.p. non consente il ricorso allo strumento dell’intercettazione, essendo la relativa cornice edittale fissata nel massimo con la pena della reclusione sino a quattro anni.

La sentenza della Cassazione Sezione 6, n. 36420 del 19/1/2021, Mazzone, interviene sul tema dell’utilizzabilità - a fini di prova dell’abuso d’ufficio - dei risultati dell’intercettazione in origine disposta, ad esempio, per il delitto di corruzione, nel caso in cui i contenuti delle captazioni non abbiano suffragato l’originaria incolpazione provvisoria ed abbiano, quindi, imposto la necessità di una riqualificazione del fatto in senso più favorevole alla persona sottoposta alle indagini.

Il tema è da sempre di più che rilevante attualità e concretezza perché richiama quel variegato spettro di casi nei quali le prime emergenze investigative appaiono convergere nella direzione, ad esempio, di un mercimonio della funzione pubblica mentre quelle conclusive non suffragano l’ipotesi iniziale, ipotesi inevitabilmente soggetta, quindi, a retrocedere sul terreno del meno grave delitto di cui all’art. 323 del c.p.

Quel variegato spettro di casi nei quali, quindi, l’intercettazione sia stata, ad esempio, autorizzata per il delitto di corruzione e non abbia sortito gli esiti preventivati, non avendo fornito prova del mercimonio della funzione pubblica, lasciando, così, spazio ad una contestazione di reato basata sull’uso cattivo o distorto del pubblico potere.

Alla sostanziale identità del fatto dal punto di vista storico fa da contraltare una provvisoria iniziale qualificazione giuridica in termini di maggiore gravità, che cede, poi, il passo, al termine dell’intercettazione, ad una qualificazione giuridica in termini di minore gravità del fatto, in ipotesi in termini di abuso d’ufficio, reato per il quale non è consentito il ricorso allo strumento dell’intercettazione telefonica.

Alla medesimezza del fatto storico si salda la medesimezza del procedimento penale, che ha un profilo genetico fondato, ad esempio, sul delitto di corruzione ed uno finale di presa d’atto dei risultati delle captazioni che non hanno suffragato l’ipotesi iniziale.

Il principio di diritto enunciato nella sentenza Mazzone, in scia ed in linea con i precedenti arresti giurisprudenziali sul tema, è nel senso che, al ricorrere di casi di tal fatta, i risultati dell’intercettazione sono utilizzabili “ sempre che, all’atto della verifica da parte del giudice, nel momento genetico dell’intercettazione ovvero al momento delle proroghe, sussistessero i presupposti previsti dalla legge per disporre il mezzo di ricerca della prova ed, in particolare, i gravi indizi di reato” (p. 5).

Quindi la necessità di riqualificare in termini meno gravi il fatto - così come stagliatosi al termine dell’intercettazione telefonica - non ha quale immancabile corollario l’inutilizzabilità dei risultati dell’intercettazione se, al momento dell’avvio dell’intercettazione, gli elementi portati dal PM al vaglio del GIP si prestavano ragionevolmente e seriamente ad essere qualificati, seppur in via provvisoria, in termini, ad esempio, di corruzione.

Nel diverso caso nel quale, invece, “ fin dall’inizio emerga la diversità storica del fatto ovvero sia seriamente prospettabile, sulla base degli atti, una differente qualificazione giuridica del fatto” (p. 6), riemerge con tutta la sua forza il limite previsto dall’art. 266 del c.p.p. e, quindi, con esso l’inutilizzabilità dei risultati dell’intercettazione.

Nel caso sottoposto al vaglio della Corte, conclusi i primi accertamenti, sia dal PM richiedente che dal GIP autorizzante era stata valorizzata – e qualificata giuridicamente in termini di corruzione – una situazione di diffusa illegalità e di asservimento di alcuni dipendenti di un pubblico ufficio agli interessi di una serie di utenti privati.

All’originaria provvisoria incolpazione di corruzione aveva fatto subentro quella di abuso d’ufficio per alcune delle persone sottoposte alle indagini preliminari, per le quali lo svolgimento dell’intercettazione non aveva prodotto elementi obiettivi sufficienti a cristallizzare il mercimonio della pubblica funzione.

Il richiamato clima di diffusa illegalità valorizzato nella fase genetica non veniva ritenuto, però, dalla Suprema Corte, provvisto di quei tratti salienti che consentono, pur in presenza di una riqualificazione, di salvare i risultati dell’intercettazione, perché “ il clima di diffusa illegalità che regnava all’interno ……e che sarebbe stato avallato anche, nella qualità dal …. non per ciò ridonda sulla base indiziaria oggettiva che costituisce il fondamento del provvedimento di autorizzazione, base che deve essere ancorata ad una precisa realtà di fatto che si deve investigare in quanto corrispondente ad un reato per il quale sono ammissibili le operazioni di intercettazione” (p. 7).

I risultati dell’intercettazione erano stati valorizzati dal PM per richiedere sul fondamento di essi l’adozione di una misura cautelare personale per abuso d’ufficio, ma non dal GIP che quella richiesta aveva rigettato ritenendole non utilizzabili, stante il limite di ammissibilità del ricorso a tale strumento previsto dall’art. 266 del c.p.p.

Avverso la pronuncia del GIP il PM aveva fatto ricorso al Tribunale del Riesame che lo aveva accolto, ritenendo, invece, utilizzabili i risultati dell’intercettazione e, quindi, applicando la misura cautelare della sospensione dal pubblico ufficio.

Veniva proposto, quindi, ricorso contro la decisione del Tribunale del Riesame, che la Corte accoglieva annullando l’ordinanza applicativa della misura cautelare.

Nella sentenza si tracciava, anche, il confine tra due piani concettualmente distinti e, cioè, quello dei presupposti di utilizzo dei risultati dell’intercettazione autorizzata, nel medesimo procedimento, per la prova di un fatto poi oggetto di riqualificazione in termini di minore gravità e quello dei presupposti di utilizzo della medesima fonte di prova in un procedimento “ nelle ipotesi nelle quali, rispetto al fatto reato per cui sono state autorizzate le intercettazioni, emergano fatti reato diversi ed ulteriori per effetto delle captazioni eseguite ed è in tale contesto che le Sezioni Unite (Cavallo ndr) hanno fissato le condizioni necessarie per utilizzare i risultati delle captazioni al fine di provare tali fatti”, costituite dall’essere gli stessi “ connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata in origine disposta, sempreché’ rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 del c.p.p.” (p. 5).

  1. L’estensibilità alle fattispecie di concussione, corruzione ed induzione indebita della regola introdotta dall’art . 23 del Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76.

Il tema è quello del se alla novella del luglio del 2020 debba riconoscersi la forza di aver riscritto non solo il primo comma dell’art. 323 del c.p. ma addirittura l’intero statuto dei reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e, cioè, se il principio in forza del quale assumono rilevanza penale solo le condotte in violazione di una regola espressa e specifica di fonte primaria, non contemplante margini di discrezionalità, sia estensibili anche alle fattispecie di concussione, corruzione ed induzione indebita.

E’ il tema sul quale si è pronunciata la sentenza della Sezione 6, n. 8036 del 18 novembre del 2020, Montini, che ha escluso la portata generale del principio informatore del nuovo primo comma dell’art. 323 del c.p.

Si è valorizzato il tenore del dato testuale delle tre fattispecie, piuttosto univoco nell’illuminare la ratio comune alle tre fattispecie, che puniscono la strumentalizzazione della pubblica funzione, sia di quella esercitata in coerenza con l’interesse pubblico che ha fondato l’attribuzione del potere sia di quella esercitata contro di esso.

Tra tutte è proprio la struttura della fattispecie di corruzione per esercizio della funzione di cui all’art. 318 del c.p. a render chiaro ed evidente che anche l’esercizio della pubblica funzione che non abbia travalicato né i limiti interni né quelli esterni della discrezionalità amministrativa può assumere rilevanza penale se è stato fatto oggetto di mercimonio o, più in generale, di strumentalizzazione.

Ad una ratio obiettivamente diversa risponde, invece, la novella che ha riscritto la fattispecie, espungendo dallo spettro applicativo del primo comma dell’art. 323 il cattivo uso del potere pubblico.

  1. La sentenza del 18 gennaio 2022, n. 8, della Corte Costituzionale .

A promuovere il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma I, del Decreto Legge 16 luglio del 2020, n. 76, è stato il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Catanzaro, con ordinanza del 6 novembre del 2020, giudice richiesto del rinvio a giudizio di cinque persone imputate di concorso in plurime condotte in abuso d’ufficio.

Alle cinque persone era stata ascritta la plurima violazione dell’art. 323 c.p. in relazione al principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, in relazione all’art. 35, comma 3, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in tema di procedure ad evidenza pubblica nonché, infine, in relazione a più norme di fonte regolamentare in materia di requisiti per la partecipazione alle pubbliche selezioni e di attribuzione di punteggi.

Nel caso specifico si trattava di tre pubblici agenti accusati di aver intenzionalmente favorito, nella qualità di membri di una commissione esaminatrice, gli altri due coimputati nell’ambito di una procedura per il conferimento degli incarichi di dirigente medico, garantendo, dapprima, l’ammissione degli stessi alla procedura sebbene privi del richiesto titolo di specializzazione e, successivamente, la loro collocazione in posizione utile nella graduatoria finale, con l’attribuzione di un punteggio superiore a quello assegnato ai candidati con titoli equipollenti o addirittura superiori.

In costanza di vigenza del riformato primo comma dell’art. 323 del c.p., gli imputati avrebbero dovuto essere mandati assolti con la formula perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato, esito diametralmente antagonista rispetto a quello emergente dalle risultanze dall’investigazione preliminare, univoche nel convergere nella direzione della sostenibilità dell’accusa nel successivo dibattimento.

Le questioni di legittimità costituzionali, oltre che rilevanti nel giudizio principale, erano da reputarsi, a parere del giudice rimettente, non manifestamente infondate sotto un triplice ordine di profili.

Il primo di essi rimandava all’art. 77 della Costituzione, di cui si sospettava la violazione da parte del legislatore ordinario per due distinte ragioni.

La prima veniva indicata nell’estraneità della norma censurata e del suo oggetto al restante corpus normativo nel quale era stata inserita, corpus dal quale la norma si assumeva, da parte del giudice a quo, avulsa anche sotto il profilo della ratio ispiratrice dell’intervento complessivo di riforma del Governo.

Ed anche ove tale estraneità dell’art. 23 del Decreto Legge fosse stata giudicata meno intensa di quanto prospettato dal giudice rimettente, il sospetto del contrasto con l’art. 77 ritraeva linfa anche dal fatto che l’intervento di riforma aveva operato nella direzione di depenalizzare condotte prima penalmente rilevanti e tanto nonostante l’assenza del presupposto costituito dalla straordinaria necessità ed urgenza del provvedere con le forme del decreto legge.

Il secondo ed il terzo dei profili chiamavano in causa gli artt. 3 e 97 della Costituzione.

La denunciata violazione del principio di uguaglianza era da cogliersi, a parere del giudice remittente, ancora una volta sotto un duplice ordine di ragioni.

La prima di esse investiva il trattamento difforme, ingiustificato ed irragionevole tra il pubblico agente titolare di un potere discrezionale e quello, invece, titolare di un potere vincolato nell’an, nel quid e nel quomodo, il quale ultimo continuava a rispondere del delitto in questione benchè i casi di agire vincolato della funzione amministrativa non siano, né sotto il profilo quantitativo né sotto quello qualitativo degli interessi pubblici a presidio dei quali venivano attribuiti, significativi e rilevanti.

Al contrario, rimaneva senza alcun presidio di tipo penale l’amplissimo terreno della discrezionalità amministrativa e, quindi, il terreno delle scelte qualitativamente e quantitativamente più rilevanti della pubblica amministrazione, terreno sul quale, quindi, il pubblico agente, per effetto della riforma, poteva liberamente muoversi al pari di un privato, con la medesima ampiezza del potere dispositivo di quest’ultimo e tanto nonostante il primo, a differenza del secondo, fosse investito non della responsabilità del perseguimento di un qualunque interesse privato ma di un interesse pubblico.

La riforma, quindi, finiva per depotenziare in concreto la forza del principio di buon andamento e dell’imparzialità dell’agire amministrativo.

Il percorso ermeneutico del Giudice delle Leggi prende le mosse da un dato di scenario e, cioè, quello della c.d. “burocrazia difensiva” o dell’“amministrazione difensiva” o ancora della sindrome della “ paura della firma”, e, cioè, dalla ritenuta diffusa propensione dei pubblici agenti a non esercitare il potere loro attribuito rimanendo, quindi, inerti o ad esercitarlo assumendo decisioni meno impegnative perché ancorate alla prassi consolidata nel tempo, nel timore che un’assunzione o una maggiore assunzione di responsabilità possa esporli al peso economico, morale e di energia del promovimento a loro carico di un giudizio penale.

Proprio tale diffusa propensione porterebbe “ significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”.

Per scongiurare tale propensione il legislatore aveva messo in campo l’intervento di riforma nel 1997, ma le intenzioni del legislatore avevano dovuto “ fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase inziale di ossequio allo spirito della novella, è virata verso interpretazioni estensive degli elementi della fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare ed a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale” (p. 10).

Il riferimento prima implicito e poi immediatamente dopo espresso era al principio di cui all’art. 97 della Costituzione, assurto a parametro di valutazione della legittimità della condotta del pubblico agente ma, soprattutto, al c.d. uso distorto del potere e, quindi, al permanere del giudizio di rilevanza penale della discrezionalità amministrativa esercitata contro la causa attributiva del potere.

E’ la ritenuta sussistenza di questo dato di scenario – in piena sintonia valutativa con il Governo - che agisce da argomentazione cardine per indurre la Corte Costituzionale a dichiarare non fondata la rimessa questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 77 della Costituzione.

Il corpus normativo costituito dal Decreto Legge n. 76 del 2020 viene valutato come un complesso di norme eterogenee destinate ad incidere in più campi e settore, ma accomunate, senza eccezione di sorta, da una finalità comune, da un obiettivo comune, che è quello di “ promuovere la ripresa economica del paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica” (p. 16).

Finalità comune esternatasi nei lavori preparatori, dichiarata nel preambolo del Decreto Legge e dichiarata dal Governo al momento del varo di quest’ultimo.

La promozione della ripresa economica del Paese ha richiesto necessariamente un intervento del legislatore anche sul fronte della responsabilità penale, nel senso di limitarne l’oggetto, la fonte ed il relativo contenuto, al chiaro ed omogeneo fine di ridimensionare la “ paura della firma”, che avrebbe potuto agire, in assenza di riforma, da contrappeso alla volontà ed alla necessità di far ripartire il Paese.

E’ proprio l’esigenza “ di far ripartire celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che – nella valutazione del Governo e del Parlamento – ha impresso ad essa (l’esigenza di contrastare la “paura della firma” n.d.r.) i connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può considerarsi irragionevole od arbitraria” (p. 17).

Le questioni di legittimità costituzionale articolate in relazione agli artt. 3 e 97 della Costituzione venivano, invece, dichiarate inammissibili stante la preclusione del poter pronunciare sentenze in malam partem nella materia penale.

La parte nevralgica del percorso motivazionale seguito per escludere l’incostituzionalità dei contenuti della norma val la pena di essere riportata testualmente: “ La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte…Questa Corte ha già applicato, peraltro, i ricordati principi all’evoluzione legislativa dell’abuso d’ufficio, dichiarando inammissibili, con la sentenza n. 448 del 1998, questioni analoghe a quelle ora in esame, sollevate in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 97), aventi ad oggetto l’art. 323 del c.p., come riformulato – anche allora in senso restrittivo – dalla Legge n. 234 del 1997” (p. 18).

  1. La prospettiva di un’ulteriore riformala firma senza paura.

Solo per esigenze di completezza ed organicità della presente relazione, si è ritenuto di spendere anche poche ulteriori riflessioni de iure condendo, utili a comprovare quanto travagliata sia (e sarà) l’esistenza del delitto d’abuso d’ufficio.

Al vaglio del Parlamento vi sono il disegno di Legge Ostellari del Partito della Lega (n. 2145), Parrini del Partito Democratico (n. 2324) ed, infine, Santangelo del Movimento 5 Stelle (n. 2279), che si muovono in una direzione comune, quella di riscrivere ancora una volta la fattispecie di reato dell’art. 323 del c.p. in chiave ulteriormente restrittiva, potenziando l’effetto di parziale abolito criminis già introdotto dalla novella del luglio del 2020.

I tre disegni di legge sono stati depositati rispettivamente in data 22 marzo 2021, 19 luglio 2021 e 15 giugno 2021 e, cioè, in un arco temporale di poco inferiore ad un anno dall’entrata in vigore della riforma.

Il disegno di legge Ostellari, ove approvato, comporterebbe l’abrogazione della prima parte del primo comma dell’art. 323 del c.p. nonché l’abrogazione della seconda forma di abuso d’ufficio per violazione dell’obbligo di astensione e, cioè, di quella in relazione ai casi nei quali la fattispecie opera quale norma penale in bianco.

Residuerebbe l’abuso per violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, seppur privato del riferimento, tutto da interpretare, allo svolgimento delle funzioni o del servizio con il quale esordisce la formulazione attuale dell’art. 323 del c.p.

Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge Ostellari, relazione che si è diffusamente spesa sugli effetti della novella del 2020, si legge: “ A pochi mesi di distanza dalla riforma della fattispecie di cui all’art. 323 del c.p., operata con il decreto semplificazioni, sono emersi i primi problemi applicativi evidenziati nella sentenza della Corte di cassazione Sezione 6, n. 442 dell’8 gennaio del 2021, la quale, pur evidenziando come il nuovo art. 323 abbia un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione delle modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice tanto l’inosservanza dei principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario …quanto il sindacato del mero cattivo uso del potere….fa riemergere la distinzione tra “limiti interni” e “limiti esterni” della discrezionalità, (distinzione n.d.r.) destinata quindi a riaprire un nuovo fronte di incertezza giurisprudenziale con il connesso rischio che la magistratura penale, ancora una volta, incuneandosi su una distinzione di carattere giurisprudenziale assolutamente labile, finisca col dare sfogo all’inaccettabile velleità di sostituire le proprie valutazioni a quelle attinenti il merito amministrativo coperte dalla cosiddetta riserva di amministrazione… Sarebbe allora più opportuno e coraggioso, al fine di evitare pericolosi conflitti giurisprudenziali, oltre che per realizzare una vera e propria semplificazione dell’attività amministrativa dando coraggio agli operatori degli apparati pubblici, eliminare qualsiasi sindacato del giudice penale sui provvedimenti vincolati oltre che discrezionali (soprattutto dal momento che la giurisprudenza citata dimostra come l’obiettivo perseguito dal legislatore del decreto semplificazioni sia stato conseguito solo in parte)…….”.

Il disegno di legge Parrini si muove sul medesimo terreno, prevedendo l’introduzione del secondo comma dell’art. 323 del c.p., a tenore del quale l’abuso d’ufficio a carico del Sindaco si configura solo in presenza di un ulteriore attributo della norma la cui violazione è suscettibile di dar luogo alla commissione del reato e, cioè, quello dell’esser norma di condotta relativa a competenze espressamente attribuite al Sindaco.

Il disegno di Legge Santangelo, infine, investe la funzione del Sindaco quale ufficiale di governo, introducendo, dopo il comma 1 dell’art. 54 del TUEL, il comma 1 bis, a tenore del quale il Sindaco, quale ufficiale di governo, nell’esercizio delle funzioni di cui al comma I, risponde esclusivamente per dolo o colpa grave per violazione dei doveri d’ufficio.

In data 20 ottobre del 2021, le Commissioni prima e seconda riunite del Senato hanno deliberato la trattazione congiunta dei tre disegni di legge.

Brindisi, 22 marzo 2022.

Giuseppe DE NOZZA

1 Sul punto testualmente si legge in N. PISANI, La riforma dell’abuso d’ufficio nell’era della semplificazione”, in Diritto penale e processo n. 1/2021 , p. 17, che “ ….colpisce la tenacia con cui si continuano a riproporre interpretazioni che - utilizzando l’art. 97 della Costituzione come un bypass amministrativo verso un universo di norme amministrative, anche di soft law – producono di volta in volta nuove “edizioni” del precetto penale in spregio al paradigma della riconoscibilità; del medesimo avviso anche A. MERLO, Lo scudo di cristallo: la riforma dell’abuso d’ufficio e la riemergente tentazione “naturalizzatrice” della giurisprudenza”, in Diritto penale contemporaneo n. 1 del 2021, p. 79.

2 G. L. GATTA, Da “Spazza Corrotti” a “basta paura”: il decreto semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal governo “salve intese” (e la riserva di Legge?), in Sistema Penale 17 luglio del 2020, p. 6); per quanto concerne la Giurisprudenza, in tal senso Sezioni Unite n. 155 del 29/9/2011, Rossi, che recepiva un orientamento consolidato nelle pronunce delle Sezioni semplici, orientamento che aveva tratto origine dalla sentenza della Cassazione Sezione 6, n. 41215 del 14/6/2001, Artibani, ed era proseguito con Cassazione Sezione 6, 2 aprile 2015, n. 27816, Di Febo, secondo la quale ultima “ in tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di Legge può essere integrato anche dall’inosservanza del principio costituzionale d’imparzialità della PA, nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale ed all’incaricato del pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione”.

3 N. PISANI, cit., p. 15 e ss.

4 In dottrina si sono conformemente espressi sulla persistenza della rilevanza penale dell’abuso per violazione del limite esterno della discrezionalità A. PERIN, Imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, La legislazione Penale, anno 2020, 23 ottobre del 2020, p. 8; N. PISANI, cit., p. 13 e ss., che, a titolo esemplificativo, richiama il caso del compimento di un atto di fotosegnalazione da parte di un ufficiale di polizia giudiziaria in assenza dei presupposti di legge e per finalità meramente vessatoria; A. D’AVIRRO, Il labirinto della discrezionalità nel nuovo reato di abuso d’ufficio, in Diritto penale e processo n. 7/2021, p. 934, di commento alla sentenza in analisi; G. AMATO, Sforzo del giudice è salvaguardare l’ambito della rilevanza penale, in Guida al Diritto, 12, 27 marzo 2021, p. 87, e del medesimo autore L’irrilevanza penale trova un limite nell’uso distorto del potere pubblico , in Guida al Diritto, anno 2021, fascicolo 5, p. 92, di commento alla sentenza Garau. Di avviso nettamente contrario sul punto è, invece, A. MERLO, cit., p. 80, ove, a commento della medesima sentenza e sempre sul tema della persistente tipicità dell’eccesso di potere c.d. estrinseco, si legge testualmente che “ con tale precisazione – peraltro di nessun rilievo per la decisione del caso concreto – i giudici della nomofilachia sembrano già preparare il terreno per una nuova avanzata che consenta di recuperare al dominio del penale quei territori di liceità appena riconquistati dal legislatore”.

5 N. PISANI, cit., p. 10.

6 T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza penale web 2020, p. 10.

7 N. PISANI, cit., p. 12.

8 N. PISANI, cit., p. 11.

9 C. PAGELLA, Abuso d’ufficio, una nuova riforma? Guida alla lettura dei disegni di Legge Ostellari, Parrini e Santangelo, in Sistema penale, 10 dicembre del 2021, p. 3; più in generale sulla riforma della medesima autrice anche La cassazione sui “margini di discrezionalità” nel riformato abuso d’ufficio, Sistema penale, fascicolo del 16 aprile del 2021; la Cassazione sull’abolitio criminis parziale dell’abuso d’ufficio ad opera del “decreto semplificazioni”, Sistema Penale, fascicolo del 19 maggio del 2021, a commento della sentenza Garau; Abuso d’ufficio e violazione di norme regolamentari: la Cassazione delinea i limiti di ammissibilità dello schema di “eterointegrazione ”, in Sistema penale, fascicolo del 9 dicembre del 2021.