Divisione ereditaria e prescrizioni urbanistiche

di Ennio MORO

 

Anche allo scioglimento della comunione di diritti reali, disciplinata dall’art. 1111 c.c., si applica la nullità prevista dall’art. 17 della L. 28.2.1985, n. 47 con riferimento a vicende negoziali inter vivos relative a beni immobili privi della concessione edificatoria.

Tale nullità ha carattere assoluto (ed è quindi rilevabile d’ufficio e deducibile da chiunque vi abbia interesse) in quanto il regime normativo, nel sancire la prevalenza dell’interesse pubblico alla ordinata trasformazione del territorio rispetto agli interessi della proprietà e nel mirare a reprimere e scoraggiare gli abusi edilizi, limita l’autonomia privata e non dà alcun rilievo allo stato di buona o cattiva fede dell’interessato (Cass. Civ. n. 630/03).

A questo punto vien di fatto chiedersi se la nullità ex art. 17 L. 47/85 trovi applicazione anche nel caso di divisione ereditaria.

A riguardo, si osserva che, diversamente che per i terreni (per i quali l’art. 18 L. 47/85, oggi l’art. 30 D.P.R. 380/01, dispone che “le disposizioni dell’articolo non si applicano alle divisioni ereditarie”), per i fabbricati l’art.17 L. 47/85 si riferisce agli “atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali”, dunque, sia per terminologia utilizzata (“scioglimento della comunione” espressione onnicomprensiva), sia per assenza di altre norme che ne escludano l’applicazione alla fattispecie della divisione ereditaria, si potrebbe cadere nell’errore di ritenere la norma applicabile tanto alla divisione comune che a quella ereditaria.

Ma così non è.

La S. C., con ben due pronunce (Cass. Civ. nn. 15133/01 e 2313/10), ha affermato che la nullità di cui all'art. 17 L. 47/85 con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili privi della concessione edificatoria, tra le quali sono da ricomprendere anche gli atti di “scioglimento della comunione di diritti reali”, è da ritenersi limitata ai soli atti tra vivi, rimanendo quindi esclusa dall’ambito di applicazione della norma tutta la categoria degli atti mortis causa e di quelli non autonomi rispetto ai medesimi, tra i quali si deve ritenersi compresa anche la divisione ereditaria, quale atto conclusivo della vicenda successoria.

Segnatamente, la S. C. ha precisato che non può restare senza rilievo il fatto che nel caso di scioglimento di comunione ereditaria l’art. 17 L. 47/85, pur riguardando anche gli atti di “scioglimento della comunione di diritti reali”, limita espressamente il proprio campo oggettivo d’applicazione ai soli atti tra vivi lasciando, quindi, fuori tutta la categoria degli atti mortis causa. E’ evidente che la divisione ereditaria, pur attuandosi successivamente alla morte del de cuius, costituisce evento terminale della vicenda successoria e, quindi, rispetto a questa non può considerarsi autonoma. Tale rilievo trova conferma anche nel dato positivo offerto dall'art. 757 c.c. che assegna efficacia retroattiva alle attribuzioni scaturenti dall'atto divisionale di cui trattasi. D’altronde, diversamente opinando, si perverrebbe ad irragionevoli differenze di trattamento rispetto ad ipotesi sostanzialmente omogenee, non potendosi in alcun modo giustificare l'esigenza dell'applicazione della norma alla divisione ereditaria e la non applicazione di essa alla divisione operata del testatore oppure l'applicazione della norma al caso di attribuzione ereditaria di un edificio a più soggetti e la non applicazione di essa all'ipotesi di attribuzione ereditaria dello stesso edificio ad un solo soggetto.

Il motivo della diversa disciplina tra atti tra vivi (ricompresi nella norma) ed atti mortis causa (esclusi) è invero dovuta al fatto che la comunione ereditaria costituisce una ipotesi di comunione incidentale, nel senso che essa non trae origine da un atto volontario dei partecipanti ma direttamente da una previsione di legge.

E’ pertanto impensabile che possano reputarsi atti speculativi gli atti mortis causa, non tanto perché solitamente i beneficiari degli atti mortis causa sono persone vicine al de cuius per ragioni di parentela o di affettività, quanto soprattutto perché non può ritenersi, strutturalmente, atto speculativo quello destinato a disciplinare l’attribuzione del proprio patrimonio con effetto dal proprio decesso. L’atto speculativo presuppone l’esistenza in vita di colui che intenda speculare, non la sua morte; ed ancora, costituisce dato acquisito sia che l’incertezza derivante dalla comunione ereditaria abbia carattere transitorio perché destinata a finire naturalmente con la divisione, sia che la sostituzione di una porzione in titolarità esclusiva allo stato di comunione dell’asse rappresenti il momento ultimo delle quote ideali sulla proprietà indivisa.

Va detto altresì che la divisione ereditaria è esclusa anche dal campo di applicazione della nullità prevista dall'art. 40 L. 47/85 in quanto che detta disposizione, pur specificando le singole categorie di atti fra vivi aventi ad oggetto diritti reali cui essa si riferisce, non prevede fra essi lo scioglimento delle comunioni (Cass. Civ. nn. 14764/05 e 2313/10).

D’altronde, è lapalissiano che la nullità civilistica del contratto è l’extrema ratio e la sua applicazione non può aversi al di fuori dello stretto perimetro delineato dal legislatore.

 

(27 gennaio 2014)