TAR Toscana Sez. III n. 853 del 14 giugno 2019
Urbanistica.Aree destinate a standard di verde pubblico

Gli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio. Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una destinazione a verde privato


Pubblicato il 14/06/2019

N. 00853/2019 REG.PROV.COLL.

N. 00180/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 180 del 2015, proposto da
Roberto Bandini, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Carrozza e Cristina Napoli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Claudio Bargellini in Firenze, piazza dell'Indipendenza 10;

contro

Comune di Cecina, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Enrico Amante, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, viale Spartaco Lavagnini 13;

per l'annullamento

- dell'ordinanza n. 251 del 26.11.2014, con cui il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha annullato in autotutela la SCIA presentata al prot. 20183 il 22.07.2014 dal Sig. Roberto Bandini per l'avvio dell'attività di realizzazione di una recinzione in pali e rete metallica in area a verde privata ubicata in Cecina, via Abelardo;

- dell'ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha disposto il divieto di prosecuzione delle attività di cui alla SCIA innanzi richiamata;

- di ogni altro atto e/o provvedimento presupposto, connesso, collegato e consequenziale ancorché incognito se ed in quanto lesivo degli interessi del ricorrente.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Cecina;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 marzo 2019 il dott. Pierpaolo Grauso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il ricorrente, signor Roberto Bandini, è proprietario nel Comune di Cecina di un’area inedificata, di forma rettangolare, posta in fregio alla via Pietro Abelardo. Essa ha destinazione urbanistica a verde pubblico secondo il regolamento urbanistico comunale approvato con deliberazione consiliare del 27 marzo 2014, che il signor Bandini ha impugnato in parte qua mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ancora non definito.

Il presente giudizio origina, invece, dall’impugnazione che il ricorrente propone avverso i provvedimenti adottati dal Comune a fronte dell’iniziativa, da lui formalizzata con S.C.I.A. del 22 luglio 2014, di recintare l’area in questione sull’unico lato libero (quello al confine con la pubblica via, essendo gli altri lati già delimitati dai muri di cinta delle proprietà limitrofe).

Si tratta in particolare dell’ordinanza n. 177 del 21 agosto 2014, con la quale è stata inibita la prosecuzione dell’attività, e della successiva ordinanza n. 251 del 26 novembre 2014 di “annullamento” in autotutela della S.C.I.A., ambedue motivate – in estrema sintesi – con riguardo all’esigenza di tutelare l’uso pubblico gravante sull’area, che verrebbe a essere impedito dalla recinzione.

1.1. Si è costituito in giudizio per resistere al gravame il Comune di Cecina.

1.2. La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione nella pubblica udienza del 27 marzo 2019, preceduta dallo scambio fra le parti di memorie difensive e repliche.

2. Il ricorso è affidato a tre motivi in diritto.

Con il primo motivo, il signor Bandini lamenta che dalla destinazione urbanistica a verde pubblico il Comune farebbe illegittimamente derivare un vincolo di inedificabilità assoluta e di asservimento del fondo alla pubblica utilità, al punto da precludere al proprietario l’esercizio dello jus excludendi alios e, in definitiva, di privarlo del suo diritto. L’inutilizzabilità del bene rispetto alla sua destinazione naturale eccederebbe la portata stessa della destinazione a verde, usualmente a carattere conformativo, traducendosi in un vero e proprio vincolo espropriativo comportante l’azzeramento del diritto dominicale e imposto al di fuori della ordinaria sequenza procedimentale disciplinata dal d.P.R. n. 327/2001, senza limiti di durata e senza indennizzo. La recinzione, peraltro, non ostacolerebbe il perseguimento dello scopo della destinazione a verde, che sarebbe quello di preservare l’equilibrio tra aree edificate e non edificate, e il Comune avrebbe agito trascurando di operare il doveroso bilanciamento fra l’interesse del proprietario e gli interessi generali, privilegiando esclusivamente questi ultimi.

Con il secondo motivo, il ricorrente contesta l’esistenza dell’uso pubblico affermato dal Comune. I legittimi proprietari dell’area ne avrebbero sempre liberamente disposto e tale disponibilità non potrebbe dirsi venuta meno per effetto della destinazione a verde pubblico, inidonea a incidere sul diritto di proprietà. Il ricorrente contesta altresì la ricostruzione storica operata nei provvedimenti impugnati, secondo cui il terreno in questione sarebbe stato destinato alla cessione volontaria in favore del Comune nell’ambito del più ampio intervento edificatorio che diede vita all’urbanizzazione della zona cittadina di riferimento. E ribadisce come sia illogica la pretesa del Comune di conseguire la piena ed esclusiva disponibilità del fondo pur in assenza di un idoneo provvedimento ablatorio, ovvero di accertamento giurisdizionale della proprietà pubblica dello stesso.

Con il terzo motivo, infine, è dedotta l’insufficienza, contraddittorietà e perplessità della motivazione dei provvedimenti impugnati, la quale non consentirebbe di comprendere se l’annullamento della S.C.I.A. sia dipeso dalla destinazione dell’area a verde pubblico, dalla ritenuta proprietà pubblica del terreno o, ancora, dalla mancata formalizzazione, a suo tempo, della sua cessione gratuita all’amministrazione.

2.1. Replica la difesa del Comune di Cecina che l’area oggi di proprietà del ricorrente sarebbe destinata sin dal 1973 all’uso pubblico (verde e parcheggi), essendo stata individuata come dotazione di standard urbanistici a servizio di un consistente intervento di edificazione residenziale. La destinazione a verde pubblico sarebbe stata conservata da tutti gli strumenti urbanistici succedutisi nel tempo e il Comune avrebbe sempre provveduto ai necessari interventi di manutenzione e sistemazione. L’adibizione alla fruizione collettiva troverebbe conferma nelle caratteristiche obiettive del fondo, collocato in margine alla viabilità pubblica, aperto al transito pedonale collettivo e da sempre oggetto di libero utilizzo da parte della cittadinanza.

Ostativa alla recinzione del fondo sarebbero, in definitiva, sia la destinazione urbanistica di zona, sia l’effettiva e risalente adibizione del terreno al soddisfacimento degli interessi generali, configurante un’ipotesi di dicatio ad patriam.

2.1.1. Ricostruite le contrapposte posizioni delle parti, in punto di fatto osserva il collegio come il germe della questione da dirimere sia effettivamente risalente nel tempo, collocandosi nell’anno 1973, quando il terreno oggi di proprietà del ricorrente Bandini venne “irrevocabilmente” (sic) donato al Comune di Cecina dai signori Armida, Mafalda e Romilda Genito, e Raffaellina e Antonio Errico, i quali, in attesa dell’accettazione del Comune, si impegnarono a “mantenere ferma la loro donazione… irrevocabile per tutto il tempo necessario per il comune ad accettare”: si veda l’atto del 26 luglio 1973 a rogito del notaio Pazzaglia di Castagneto Carducci, con il quale, contemporaneamente, i donanti avevano acquistato il bene. La donazione esplicitava che il bene sarebbe stato da destinare a strade e verde pubblico, destinazione che compariva già nel contestuale atto di provenienza.

Non avendo il Comune, a quel che risulta, mai accettato la donazione, la particella è stata acquistata nel 2005 dalla I Sorbizzi S.r.l. e da questa poi ceduta, nel 2014, al signor Bandini. Nessuna delle due compravendite menziona la destinazione a parcheggio e verde pubblico che compariva nel rogito del 1973, mentre entrambe rinviano agli allegati certificati di destinazione urbanistica, dai quali l’area risulta essere stata dapprima inserita in zona “B1 – Edilizia esistente” del P.R.G. in vigore nel 2004 e, successivamente, nel sottosistema territoriale I2, U.T.O.E. 9, del Piano strutturale del 2007.

Attualmente, l’area è destinata a standard di “verde pubblico esistente” che le deriva dal regolamento urbanistico approvato dal Comune nel 2014. È dunque errata la qualificazione contenuta nella S.C.I.A. presentata dal ricorrente, ove si parla di area a “verde privato”.

Dal canto loro, gli atti impugnati prima che alla destinazione urbanistica hanno riguardo, lo si è accennato, all’esistenza di un diritto di uso pubblico formatosi attraverso l’utilizzo collettivo del bene come area verde al servizio della collettività indeterminata dei cives, protratto da tempo immemorabile e accompagnato dall’idoneità del bene stesso a soddisfare esigenze di carattere generale, nonché confermato dalla ripetuta esecuzione di interventi manutentivi (taglio dell’erba, piantumazione di alberi) da parte del Comune. L’ordinanza del 26 novembre 2014 fa espressamente risalire le origini dell’uso pubblico del terreno all’epoca dell’urbanizzazione di quell’area cittadina e all’iniziale previsione del suo acquisto gratuito alla mano pubblica, poi non verificatosi; e parimenti ascrive a tale previsione iniziale la giustificazione dell’attuale destinazione a verde del terreno.

Ora, è ben possibile scorgere nel contratto di compravendita/donazione del 1973 e negli impegni assunti in quella sede dagli allora proprietari un principio di prova della messa a disposizione del terreno in favore della collettività. Ai fini di causa, non giova tuttavia approfondire se ci si trovi in presenza della costituzione di una servitù pubblica per dicatio ad patriam, che, com’è noto, prescinde dalle ragioni e dalle intenzioni sottese al comportamento del proprietario, il quale assoggetti volontariamente e in modo non precario un bene all’uso pubblico.

A essere irrimediabilmente incompatibile con la chiusura del fondo è, infatti, la sua destinazione a standard di verde pubblico esistente, che sembra voler prendere atto di una situazione in essere e della quale i provvedimenti comunali danno comunque conto.

Gli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio. Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una destinazione a verde privato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4148; id., sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6656).

Se poi la destinazione impressa al fondo di proprietà del ricorrente presenti natura conformativa o espropriativa, con tutto quel che ne consegue in termini di durata e di indennizzabilità, è questione che non dipende dalla compressione di singole facoltà dominicali, ma, più in generale, dal contenuto delle attività consentite al proprietario dalla disciplina urbanistica dell’area. In ogni caso, essa non rileva ai fini della presente decisione e andrà risolta in altra sede.

Indipendentemente dalla prova certa dell’esistenza del diritto di uso pubblico rivendicato dall’amministrazione resistente, il divieto di prosecuzione dell’attività opposto dal Comune al ricorrente appare dunque frutto di una scelta legittima ed anzi obbligata, come legittimo è il successivo “annullamento” della S.C.I.A., ancorché non necessario una volta esercitato il potere inibitorio (nel sistema delineato dall’art. 19 della legge n. 241/1990, l’intervento in autotutela disciplinato dal quarto comma ha una funzione rimediale rispetto al mancato esercizio del potere inibitorio di cui al terzo comma).

3. In forza di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso non può trovare accoglimento.

3.1. Le spese di lite vanno integralmente compensate, stante l’obiettiva peculiarità della fattispecie.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 27 marzo 2019 con l'intervento dei magistrati:

Saverio Romano, Presidente

Gianluca Bellucci, Consigliere

Pierpaolo Grauso, Consigliere, Estensore