Cass. Sez. III n. 51006 del 9 novembre 2018 (UP 15 giu 2018)
Pres. Cavallo Est. Galterio Ric. Girardi
Acque.Individuazione delle acque reflue industriali
Nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive, in tale accezione dovendosi ricomprendere tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, né si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane anche se venute in contatto con sostanze o con materiali. Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche. Devono pertanto pacificamente ritenersi rientranti nella nozione di acque reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come nella specie, dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 28.9.2017 la Corte di Appello di Bologna ha integralmente confermato la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Piacenza che aveva dichiarato Andrea Girardi colpevole dei reati di cui agli artt. 137 e 256, 2 comma d. lgs. 152/2006 per avere, in qualità di titolare dell’Azienda agricola La Padana, effettuato scarichi di acque reflue industriali derivanti dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti all’allevamento di tacchini (capo a) e per aver depositato, senza la prescritta autorizzazione, rifiuti pericolosi di vario genere sul piazzale dell’azienda e sul terreno circostante, in modo incontrollato (capo b), condannandolo alla pena di € 5.000 di ammenda per il reato di cui al capo a) ed otto mesi di arresto per il reato di cui al capo b)
Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art.173 disp. att. c.p.p..
1. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, l’insussistenza del reato di cui all'articolo 137 decreto legislativo 152/2006, in quanto - incontrovertibile il dato che tale imputazione discende dall'esito di una ispezione e dalla documentazione fotografica in atti, secondo cui i dipendenti dell'azienda provvedevano al lavaggio della pavimentazione di un capannone utilizzando pompe a pressione ad acqua che veniva convogliata in una tubatura che sfociava poi in un terreno agricolo - difetterebbe nel caso in esame un sistema stabile di collettamento, sicché, atteso il carattere occasionale dell'operazione, manca una prova chiara della penale responsabilità dell’imputato. A ciò si aggiunge la non qualificabilità delle acque provenienti dal lavaggio del capannone in cui veniva impiegata come industriale, potendo contenere al massimo residui di materia organica e non certo lòe sostanze chimiche che connotano la pericolosità delle acque reflue;
2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, l’insussistenza del reato sub B (articolo 256, 2 comma decreto legislativo 152/2006), attesa l'assenza di una prova certa della disponibilità da parte dell'imputato dell'area in cui erano allocati i rifiuti.
3. Con il terzo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 131-bis cod. pen. e al vizio motivazionale, il diniego della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, sussistendo tutti i presupposti richiesti dalla norma, ovverosia la mancanza di abitualità e la lieve offensività, non potendosi ritenere che il mero riferimento alla natura dei rifiuti sia sufficiente a fondare le ragioni del giudicante, sul quale incombe la relativa dimostrazione.
4. Con il quarto motivo lamenta l’omessa pronuncia sulla richiesta della sospensione condizionale della pena, il cui diniego da parte del primo giudice non risultava essere stato motivato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Il primo motivo è inammissibile per la genericità delle censure che, nel riprodurre pedissequamente il contenuto delle doglianze articolate con i motivi di appello, non si confrontano con le puntuali argomentazioni spese dalla Corte distrettuale in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 137 decreto legislativo 152/2006.
I giudici di merito hanno infatti accertato, con riferimento alla natura delle acque, provenienti dal lavaggio dei capannoni, adibiti all’interno dell’azienda agricola, all’allevamento dei tacchini come le stesse confluissero nei tombini di raccolta siti sul piazzale e convogliate con tubazione interrata in un fossato di raccolta, così realizzandosi l’immissione abusiva, in quanto non autorizzata, sanzionata dall’art. 137, comma primo, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
Ciò posto la tesi sostenuta dalla difesa secondo cui le acque in questione non possano ritenersi industriali, contrasta con la consolidata interpretazione di questa Corte, cui ha fatto puntuale riferimento la sentenza impugnata, secondo cui nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive, in tale accezione dovendosi ricomprendere tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, né si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane anche se venute in contatto con sostanze o con materiali (Sez. 3^, n. 12865 del 05/02/2009, Bonaffini, Rv. 243122). Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014 - dep. 23/01/2015, Verbicaro, Rv. 262006).
Devono pertanto pacificamente ritenersi rientranti nella nozione di acque reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come nella specie, dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali.
Né ha pregio l’ulteriore doglianza, secondo cui l’occasionalità delle immissioni renderebbe inapplicabile la normativa contestata, tenuto conto che ad avviso della difesa le fotografie fornite dagli ispettori incaricati del sopralluogo non fornirebbero la prova chiara delle immissioni. Non è certo l’episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione in esame, rilevando invece ai fini della sua configurabilità l’esistenza, attesa la sua natura di reato di pericolo, di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell’ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo (Sez. 3, n. 45634 del 22/10/2015 - dep. 17/11/2015, Mora Fulgido, Rv. 265971).
2. Del pari generico è il secondo motivo le cui doglianze sono la puntuale trasposizione di quelle articolate con l’atto di appello, puntualmente disattese dalla sentenza impugnata. Quello che rileva ai fini della configurabilità del reato di deposito incontrollato di rifiuti è, così come correttamente affermato dalla Corte distrettuale, l’attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti, dovendosi considerare tali i materiali ammassati alla rinfusa, senza autorizzazione alcuna, sull'area di cui l'imputato abbia la disponibilità, senza che rilevi, in relazione al rapporto sussistente tra l’imputato e l’area adibita a deposito incontrollato, allorquando non si proceda a confisca della stessa, che si tratti di un possesso di fatto ovvero di una detenzione qualificata da un sottostante rapporto negoziale.
3. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche per il terzo motivo volto a contestare il diniego della speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Dal momento che il giudizio in ordine alla ricorrenza della causa di non punibilità prevista dall’art.131 bis c.p. si configura come un apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità se non in presenza di motivazione incongrua o contraddittoria, deve escludersi che la compiuta rappresentazione da parte dei giudici distrettuali delle plurime ragioni evidenziate a fondamento del diniego, costituite dalla natura pericolosa dei rifiuti, dal contemporaneo sversamento delle acque reflue nel terreno in assenza di autorizzazione e degli specifici precedenti penali dall’imputato siano inficiate da qualsivoglia vizio motivazionale, che la stessa difesa non riesce neppure a configurare. Con la suddetta motivazione viene infatti dato conto tanto della offensività della condotta in ragione dei danni ambientali con essa provocati, quanto dell’abitualità della condotta del prevenuto sotto il duplice profilo sia diacronico, avuto riguardo alle precedenti condanne per reati afferenti anch’essi alla normativa ambientale, sia sincronico stante la pluralità dei reati ascrittigli. Al di là di ogni altra considerazione è pacifico che la causa di esclusione della punibilità non possa essere applicata, ai sensi del terzo comma dell’art.131-bis, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi"), quali si configurano il capo a) ed il capo b) dell’imputazione, poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez. 5, n. 26813 del 10/02/2016 - dep. 28/06/2016, Grosoli, Rv. 267262).
4. Anche il quarto motivo deve essere dichiarato inammissibile. Nessun obbligo di motivazione poteva ritenersi a carico della Corte territoriale, con conseguente inconfigurabilità di alcun deficit argomentativo in ordine al diniego di sospensione condizionale della pena, la quale risulta essere stata solo genericamente invocata con i motivi di appello, senza cioè essere suffragata da specifici elementi idonei a qualificare la fondatezza della domanda.
Va infatti rilevato che la specificità che deve caratterizzare i motivi di appello, seppur valutata alla luce del principio del "favor impugnationis", deve comunque contrapporre alle ragioni poste a fondamento della decisione impugnata argomentazioni che attengano agli specifici passaggi della motivazione della sentenza ovvero concreti elementi fattuali pertinenti a quelli considerati dal primo giudice, e non può quindi limitarsi a confutare semplicemente il "decisum" del primo giudice con considerazioni generiche ed astratte. Invero la specificità che deve caratterizzare i motivi di appello va intesa in rapporto alla funzione stessa dell'impugnazione, ed implica perciò, al fine di delineare i presupposti legittimanti l’invocata riforma del provvedimento oggetto di gravame, l’indicazione quantomeno nelle linee essenziali delle ragioni volte a sollecitare una diversa risposta del giudice adito in secondo grado rispetto alle valutazioni del primo giudice che debbono perciò essere espressamente confutate o sovvertite sul piano logico o giuridico e che, quand’anche si risolvano nella reiterazione delle richieste svolte in primo grado, devono comunque confrontarsi con le considerazioni ivi contenute attraverso una puntuale contestazione (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 - dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 268822).
Segue all’esito del ricorso la condanna del ricorrente a norma dell’art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 15.6.2018