Cass. Sez. III n. 16446 del 27 aprile 2011 (Ud. 16 mar. 2011)
Pres. Ferrua Est. Ramacci Ric. Ciappi
Acque. Reflui provenienti da attività domestiche
L’indicatore della provenienza dei reflui da attività domestiche è concetto chiaramente riferito alla convivenza e coabitazioni di persone ma non può prescindere, specie quando riguarda grandi comunità (alberghi, ospedali etc.), da una considerazione anche delle effettive caratteristiche chimiche e fisiche delle acque reflue, che devono essere corrispondenti non tanto per quantità, quanto per qualità a quelli derivanti dai comuni nuclei abitativi.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale
Composta dagli Ill.rni Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giuliana FERRUA Presidente
Dott. Mario GENTILE Consigliere
Dott. Renato GRILLO Consigliere
Dott. Giulio SARNO Consigliere
Dott. Luca RAMACCI Consigliere Est.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
- sul ricorso proposto da: CIAPPI Antonio nato a Firenze il 28/10/1954
- avverso la sentenza emessa il 15/1/2008 dal Tribunale di Firenze Sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Luca Ramacci
- Udito il Pubblico Ministero nella persona del Dott. Mario Fraticelli che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso
- Sentito il difensore Avv. Marco BARONE del Foro di Prato
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 3 marzo 2009 Il Tribunale di Firenze, in composizione monocratica, condannava alla pena pecuniaria CIAPPI Antonio per il reato di cui all'articolo 137, comma primo D.L.vo n.152/06, con riferimento al previgente articolo 59, primo e secondo comma D.L.vo n.152/99 in quanto, quale rappresentante e direttore operativo della SIAF, svolgente il servizio di confezionamento e smistamento del vitto dell'ospedale S.M.A. di Ponte a Niccheri, effettuava lo scarico di acque reflue industriali con recapito nella fognatura del nosocomio contenenti, peraltro, sostanze inquinanti in concentrazioni superiori a quelle indicate dalla legge.
Lo stesso, unitamente ad altri imputati, veniva invece assolto da altri reati contestati.
Avverso tale decisione il CIAPPI proponeva ricorso per cassazione.
Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge con riferimento all'ordinanza dibattimentale pronunciata all'udienza del 15 gennaio 2008, per l'insufficiente indicazione del requisito di cui alla lettera c) dell'articolo 552 C.P.P., lamentando che le condotte contestate ai capi a) e b) della rubrica erano tra loro incompatibili, la prima riguardando la violazione della disciplina sui rifiuti e la seconda quella sulle acque mediante immissione di rifiuti solidi ed acque reflue nel medesimo corpo ricettore.
Tale era l'imprecisione, osservava, che nella motivazione della sentenza il giudice era caduto in contraddizione rilevando la inesattezza dell'imputazione e, conseguentemente, l'errore in cui era incorso nel rigettare l'eccezione.
Rilevava, inoltre, che la condotta contestata era una e non poteva essere ricondotta contemporaneamente a due diverse fattispecie.
Da tale nullità del decreto di citazione derivava pertanto, a suo avviso, la nullità dell'intero giudizio di primo grado.
Con un secondo motivo di ricorso deduceva violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla lettura, ritenuta erronea, degli articoli 2, comma primo, lettere g) ed h) e 59 del D.Lv. 152\99 che aveva determinato la conseguente qualificazione dei reflui prodotti come reflui industriali mentre al contrario, essendo costituiti esclusivamente da acque provenienti dal lavaggio di vassoi e stoviglie, dovevano considerarsi di natura domestica e, come tali, soggetti alla relativa disciplina.
Si trattava, aggiungeva, di scarichi comunque assimilabili ai sensi dell'articolo 28, comma settimo, lettera e) del menzionato D.Lv. 152\99 in relazione all'articolo 6, comma primo, lettera b) della L. Regione Toscana 21 dicembre 2001 n. 64 e del D.P.G. Reg. Toscana n. 28\r del 23 maggio 2003 che, al punto 18, include tra i reflui assimilabili ai domestici quelli prodotti dalle attività di mensa e fornitura di pasti preparati.
Rilevava, inoltre, la liceità dell'utilizzazione del trituratore ai sensi dell'articolo 33, comma terzo D.Lv. 1152\99 e la inutilizzabilità delle analisi valorizzate dal giudice di prime cure per essere state le stesse effettuate per altri scopi e, comunque, in punto diverso da quello individuato dalla normativa allora vigente.
Con un terzo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine all'articolo 45 D.Lv. n.152\99, non avendo il giudice correttamente individuato il soggetto tenuto a richiedere l'autorizzazione allo scarico che era di pertinenza dell'ospedale, gravando così sui responsabili del nosocomio l'onere di richiedere l'autorizzazione necessaria.
Aggiungeva che, sul punto, a nulla rilevava il contenuto del contratto di locazione dei locali stipulato con l'ospedale, in quanto le autorizzazioni alle quali il contratto si riferiva erano quelle attinenti all'attività propria della società e non anche quelle relative agli scarichi, che restavano di esclusiva pertinenza del nosocomio.
Insisteva, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Occorre osservare, con riferimento all'ordinanza impugnata, che la stessa non merita le censure mosse dal ricorrente, in quanto la formulazione dell'imputazione era perfettamente conforme al disposto dell'articolo 552 lettera c) C.P.P. poiché l'enunciazione del fatto contestato era inequivocabile.
Nel capo A dell'imputazione riportata in sentenza è, infatti, contestata la violazione della disciplina sui rifiuti sostanziatasi nello smaltimento non autorizzato in fognatura di rifiuti organici solidi provenienti dall'attività svolta mentre, nel capo B, la contestazione attiene alla violazione della disciplina di tutela delle acque dall'inquinamento e concerne lo scarico di reflui con recapito nella fognatura.
Si tratta di condotte distinte e la distinzione è stata correttamente effettuata dal Pubblico Ministero secondo principi consolidati in tema di rapporti tra la disciplina sulla tutela delle acque e quella dei rifiuti.
La questione dei rapporti tra le normative che regolano le due materie è stata ampiamente trattata anche sotto la vigenza delle disposizioni, ormai abrogate, contenute nella legge 319\76 e nel D.P.R. 915\82 giungendo a differenti soluzioni che hanno poi richiesto l'intervento delle Sezioni Unite di questa Corte e quello, successivo ed adesivo, della Corte Costituzionale.
L'analisi delle due discipline è poi proseguita nel tempo, tenendo in considerazione l'evoluzione successiva della disciplina di settore, con riferimento al D.Lv. 152\09 e, da ultimo, al D.Lv. 152\2006 più volte modificato dagli interventi correttivi susseguitesi.
Il dibattito è stato peraltro particolarmente animato con riferimento ai "rifiuti liquidi" poiché, per quelli allo stato solido, è stata sempre indubbia l'applicazione della disciplina sui rifiuti.
Prescindendo quindi dal ripercorrere le tappe di un percorso interpretativo che, per quanto accidentato, è giunto, almeno per il momento, ad individuare alcuni tratti distintivi inequivocabili tra le diverse discipline, occorre rilevare che la condotta contestata al capo A della rubrica conteneva precisi riferimenti normativi al reato di abbandono di rifiuti mediante l'indicazione dall'articolo 256, comma secondo D.Lv. 152\2006 ed al previgente articolo 51, comma secondo D.Lv. 22\97, nonché al divieto di smaltimento di rifiuti, anche se triturati, in pubblica fognatura previsto da entrambe le disposizioni normative menzionate.
Il riferimento all'abbandono di rifiuti poteva essere poi agevolmente collocato nell'ipotesi dell'immissione" che, secondo la dottrina, si configura mediante il rilascio episodico, in acque superficiali e sotterranee, di qualsiasi rifiuto sia solido che liquido.
Del tutto diversa la condotta contestata sub B, attinente ad un vero e proprio scarico di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili con recapito finale in rete fognaria senza alcuna interruzione del nesso funzionale e diretto con il corpo ricettore e la riferibilità al titolare dello scarico, secondo una nozione ormai comune.
Di tale distinzione ha, peraltro, tenuto conto il giudice di prime cure, pervenendo all'assoluzione del ricorrente per la violazione relativa alla disciplina sui rifiuti.
In definitiva, l'imputazione contestata disponeva dei necessari requisiti di chiarezza e precisione della norma processuale che erroneamente si è ritenuto violata.
Altrettanto evidente appare la infondatezza del secondo motivo di ricorso.
Il giudice di prime cure, con argomentazioni in fatto del tutto coerenti e logiche e, come tali, non censurabili in sede di legittimità, ha chiarito preliminarmente che la ritenuta assimilabilità dello scarico era fondata su valutazioni posteriori alla cessazione dell'uso del trituratore, quando le caratteristiche qualitative dello scarico erano differenti e che non poteva assumere rilevanza, nel giudizio, la medesima qualificazione attribuita in relazione ad una diversa unità produttiva facente capo alla medesima società.
Ha poi considerato la natura dei reflui come risultante dagli atti processuali qualificandoli come industriali ed escludendone l'assimilabilità alle acque reflue domestiche.
Per quanto riguarda le diverse categorie di acque reflue, all'epoca contemplate dall'articolo 2 del D.Lv. 152\99, si ricorda che sulla distinzione tra acque reflue "domestiche" ed "industriali" la giurisprudenza di questa Corte ha osservato che entrambe le tipologie possono derivare da attività di servizi, con la conseguenza che l'elemento determinante di distinzione va individuato nella derivazione prevalente delle acque reflue dal metabolismo umano e da attività domestiche, come si ricava anche dalla lettura dell'articolo 28, settimo comma, lettera e) del D.Lv. 152\99.
Da ciò consegue che la nozione di acque reflue industriali va ricavata dalla diversità del refluo rispetto alle acque domestiche ed in essa rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente alla coabitazione ed alla convivenza di persone, al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche (Sez. III n. 42932, 2 dicembre 2002).
Tenuto conto del principio in precedenza richiamato, che il collegio condivide, occorre procedere ad alcune considerazioni ulteriori in ordine alla distinzione tra acque reflue domestiche ed industriali osservando che la differenza ed il conseguente diverso trattamento da parte del legislatore tiene conto della minore potenzialità inquinante dei reflui che provengono da attività domestiche e dal metabolismo umano.
Ciò posto, deve osservarsi che, nella fattispecie, deve sicuramente escludersi la provenienza dei reflui dal metabolismo umano poiché tale provenienza è caratterizzata dall'essere il risultato di reazioni chimiche e fisiche dell'organismo delle persone, tale essendo in estrema semplificazione, il processo metabolico.
Va inoltre chiarita la portata dell'altro indicatore della provenienza dei reflui da attività domestiche che è concetto chiaramente riferito alla convivenza e coabitazioni di persone, come si è detto, ma che non può prescindere, specie quando riguarda grandi comunità (alberghi, ospedali etc.), da una considerazione anche delle effettive caratteristiche chimiche e fisiche delle acque reflue che devono essere corrispondenti non tanto per quantità, quanto per qualità a quelli derivanti dai comuni nuclei abitativi.
Nel caso di specie il provvedimento impugnato evidenzia che alcuni parametri riscontrati nelle analisi disposte dallo stesso imputato un superamento dei limiti di legge anche di dieci volte superiore a quelli di cui alla tabella 3 dell'allegato 5 al D.Lv. 152\09.
Tali analisi, ancorché non rilevanti ai fini di una contestazione del reato di superamento dei limiti che, infatti, non è stato contestato, risultano tuttavia indicative della effettiva qualità delle acque prodotte dall'attività svolta dal ricorrente.
La decisione impugnata risulta immune da censure anche con riferimento alla esclusione della assimilabilità dei reflui scaricati dal ricorrente alle acque reflue domestiche.
In particolare, il giudice di prime cure risulta aver correttamente applicato il disposto dell'articolo 28 D.Lv. 152\99 e della L. Reg. Toscana 21dicembre 2001, n. 64 vigenti all'epoca dei fatti.
La disciplina nazionale prevedeva infatti, all'articolo 28, comma settimo l'assimilazione alle acque reflue domestiche di alcune categorie di acque specificamente indicate ed, in particolare, alla lettera e) stabiliva l'assimilabilità delle acque aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale.
Non si tratta, quindi di una assimilazione automatica perché, come correttamente indicato nella decisione impugnata, risultava sottoposta a due condizioni: la corrispondenza qualitativa e l'espressa previsione della normativa regionale.
E' evidente che, nel caso di specie, per le ragioni in precedenza indicate, la prima delle condizioni sicuramente difettava in considerazione della qualità intrinseca dei reflui.
Tuttavia anche la normativa regionale escludeva ogni automatismo di assimilazione.
Il Regolamento Regionale 23 maggio 2003, n. 28 di attuazione dell'art. 6 della LR 21.12.2001, n. 64 (Norme sullo scarico di acque reflue ed ulteriori modifiche alla LR 1 dicembre 1998, n. 88) prevedeva infatti, all'articolo 17 che "le acque reflue scaricate dagli insediamenti di cui alla tabella 1 dell'allegato 1 al presente regolamento hanno caratteristiche qualitative equivalenti ad acque reflue domestiche sempreché rispettino tutte le condizioni di cui all'allegato 1".
L'allegato 1 indicava, al punto 18 della Tabella 1 l'attività relativa a "mense e fornitura di pasti preparati" ma sempre nel rispetto delle condizioni vincolanti di cui alle colonne C e D e delle ulteriori condizioni necessarie, riportate in nota, che dovevano essere indicate come prescrizioni nell'autorizzazione.
Tale titolo abilitativo, tuttavia, non era stato conseguito dalla società rappresentata dal ricorrente.
Come risulta dal provvedimento impugnato, con apprezzamento in fatto, almeno fino a quando rimase in uso il trituratore dei rifiuti organici non era stata richiesta alcuna autorizzazione ed il riconoscimento successivo riguardava una situazione di fatto completamente diversa, poiché il ricorrente dopo aver constatato l'esito delle analisi (la sentenza impugnata riferisce di ammissioni rese dallo stesso nel corso di un interrogatorio in data 28 dicembre 2006), cessò l'uso del tritarifiuti per procedere a forme diverse di smaltimento.
Peraltro è il caso di osservare che anche l'uso di tale apparecchiatura non era sempre consentito poiché l'articolo 33, comma terzo del D.Lv. 152\99 testualmente stabiliva che "non e' ammesso lo smaltimento dei rifiuti, anche se triturati, in fognatura , ad eccezione di quelli organici provenienti dagli scarti dell'alimentazione umana, misti ad acque domestiche, trattati mediante apparecchi dissipatori di rifiuti alimentari che ne riducano la massa in particelle sottili, previa verifica tecnica degli impianti e delle reti da parte dell'ente gestore". Era quindi richiesta una preventiva verifica dell'ente gestore finalizzata ad accertare il carico delle immissioni sull'impianto fognario e del rispetto di tale condizione non si fa menzione ne in sentenza né, tantomeno, in ricorso.
Per quanto riguarda, inoltre, la individuazione del soggetto tenuto alla richiesta di autorizzazione, deve osservarsi che il tenore dell'articolo 45 D.Lv. 152\99 vigente all'epoca è inequivocabile.
L'autorizzazione e' rilasciata, recitava il primo comma, al titolare dell'attività da cui origina lo scarico.
Il contenuto dell'articolo evidenzia che le finalità del regime autorizzatorio degli scarichi sono quelle di consentire alle autorità competenti una preventiva verifica della compatibilità dello scarico con le esigenze di tutela delle acque dall'inquinamento, cosicché l'autorizzazione viene rilasciata al titolare dell'attività, come osservato da questa Corte in altra occasione "...previo controllo delle qualità soggettive di affidabilità a garanzia, già nella fase preliminare, dell'effettiva osservanza delle prescrizioni imposte dalla legge e di quelle aggiuntive imposte dall'autorità che provvede al rilascio dell'autorizzazione" (Sez. III n. 2877, 25 gennaio 2007).
E' dunque evidente la stretta e logica correlazione tra attività svolta, titolare della stessa ed autorizzazione allo scarico.
Tale circostanza trova implicita conferma anche nel contenuto ulteriore del menzionato comma secondo dell'articolo 45 laddove, in presenza di un consorzio per l'effettuazione comune dello scarico, l'autorizzazione e' rilasciata in capo al consorzio medesimo ma restano ferme le responsabilità dei singoli consorziati e del gestore del relativo impianto di depurazione in caso di violazione delle disposizioni del decreto.
Si tratta, in questo caso, di una eccezione espressamente prevista in ragione della particolare natura degli enti consortili finalizzata ad una semplificazione procedurale che prevede il rilascio di un unico titolo abilitativo ben distinguendo, tuttavia, le posizioni dei singoli consorziati in tema di responsabilità.
In tutte le altre ipotesi dovrà farsi riferimento allo specifico caso concreto in relazione alla tipologia e modalità degli scarichi singoli o unificati in modo distinguibile o indistinguibile.
Nel caso in esame viene presa in considerazione la autonomia fisica e qualitativa dello scarico rispetto all'impianto fognario dell'ospedale, alla quale ben poteva ritenersi corrispondente un altrettanto autonomo regime autorizzatorio specie in considerazione del fatto, non ignorato dal primo giudice, che lo scarico del nosocomio aveva caratteristiche del tutto diverse perché relativo ad acque reflue domestiche.
Va poi aggiunto, in conclusione, che sulla base delle argomentazioni in precedenza richiamate la sentenza impugnata si presenta immune anche dai dedotti vizi di motivazione.
L'apparato argomentativo sul quale il giudice fonda il suo convincimento appare solido, coerente ed immune da cedimenti logici e fornisce ampia e dettagliata indicazione delle ragioni che hanno condotto all'affermazione di penale responsabilità dell'imputato.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma il 16 marzo 2011
DEPOSITATA IN CANCELLERIA Il 27 APR. 2011