Cass. Sez. III n. 14268 del 8 aprile 2016 (Ud 3 feb 2016)
Pres. Rosi Est. Gai Ric. Altea
Ambiente in genere.Occupazione demanio marittimo

La fattispecie di cui all'art. 1161 cod. nav. si applica anche a chi abbia protratto l'abusiva occupazione da altri precedentemente iniziata

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 28 gennaio 2015, la Corte d'appello di Cagliari ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Cagliari che aveva condannato A.M., alle pene di legge, in ordine ai reati di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. c) (capo A) e art. 1161 cod. nav. (capo C) accertati in località (OMISSIS), per avere eseguito lavori edilizi senza permesso di costruire su preesistente fabbricato abusivo in zona sottoposta a plurimi vincoli paesaggistici, e per avere occupato abusivamente un'area del demanio marittimo.

2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso personalmente A. M. e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

2.1. Con il primo motivo censura la sentenza impugnata per erronea applicazione della legge penale in relazione al rigetto dell'istanza di concessione del beneficio di cui all'art. 168 bis cod. pen.. La Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto la non applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore, e ciò alla luce del principio dell'applicazione retroattiva della lex mitior, alla luce dell'interpretazione della Corte EDU del disposto dall'art. 7 C.E.D.U., secondo cui detto principio va inteso non solo nel senso dell'irretroattività della legge penale più severa, ma anche della retroattività della legge penale meno severa, esegesi condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità.

2.2. Con il secondo motivo deduce il ricorrente la violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all'inosservanza o erronea applicazione delle legge penale con riferimento alla configurazione dell'intervento edilizio quale nuova costruzione, trattandosi di mero intervento di ristrutturazione edilizia per cui è richiesta solo la comunicazione di inizio di attività ed illogicità della motivazione.

2.3. Con il terzo motivo deduce il ricorrente la violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) con riferimento alla inosservanza o erronea applicazione delle legge penale in relazione alla configurazione del reato di cui all'art. 1161 cod. nav. e carenza di motivazione sul punto, avendo la corte territoriale argomentato la sussistenza del reato con richiamo alla circostanza che l' A. aveva continuato, con il possesso nell'immobile alla morte del padre, l'occupazione abusiva del demanio.

2.4. Con il quarto motivo censura la sentenza in punto trattamento sanzionatorio nella parte in cui ha escluso la possibilità di mitigare il trattamento sanzionatorio e la concessione delle circostanze attenuanti generiche.

3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia rigettato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è manifestamente infondato.

5. La censura sulla mancata concessione del beneficio di cui all'art. 168 bis cod. pen. è infondata, avendo la Corte d'appello fatto applicazione dei principi univocamente affermati dalla Corte di cassazione.

La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova venne avanzata davanti ai giudici di appello, essendo nelle more entrata in vigore la L. 28 aprile 2014, n. 67; la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile la richiesta richiamando il principio, espresso dalla Corte di Cassazione, secondo cui il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un "iter" processuale alternativo alla celebrazione del giudizio e l'assenza di una disciplina transitoria non consente di superare lo sbarramento introdotto dagli artt. 3 e 4 della L. 28 aprile 2014, n. 67, preclusivo in ordine alla proponibilità della richiesta nel giudizio di impugnazione.

La motivazione della Corte territoriale merita conferma avendo fatto applicazione dei principi affermati, e ribaditi anche da recenti pronunce, secondo cui nel giudizio di impugnazione davanti alla Corte d'appello o alla Corte di cassazione, l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova, di cui all'art. 168-bis cod. pen., perchè il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un "iter" processuale alternativo alla celebrazione del giudizio (Sez. 5, n. 35721 del 09/06/2015, Gasparini, Rv. 264259; Sez. 3, n. 27071 del 24/04/2015, Frasca, Rv 263815; Sez. 2, n. 26761 del 09/03/2015, Lariccia, Rv 264221) non più configurabile nel giudizio di impugnazione.

Il Collegio, nel dare continuità ai principi affermati rileva che, con riferimento alla tematica dell'applicazione retroattiva della lex mitior, come risultante dall'interpretazione del disposto dall'art. 7 C.E.D.U., come interpretato dalla Corte EDU, secondo cui detto principio va inteso non solo nel senso dell'irretroattività della legge penale più severa, ma anche della retroattività della legge penale meno severa, è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 240 del 2015 che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 464-bis c.p.p., comma 2, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova - introdotto dalla L. n. 67 del 2014 ai processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della nuova norma. Secondo i giudici delle legge, l'art. 464-

bis cod. proc. pen. riguarda esclusivamente il processo ed è espressione del principio "tempus regit actum". Il principio potrebbe essere derogato da una diversa disciplina transitoria, ma la mancanza di questa - prosegue la Corte - non è certo censurabile in forza dell'art. 7 C.E.D.U.. Ha poi riaffermato, il Giudice delle leggi, il principio secondo cui la retroattività della lex mitior, come in generale "le norme in materia di retroattività contenute nell'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo", concerne le sole "disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono" (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; nello stesso senso, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia) e perciò "è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità".

6. Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata sull'affermazione della responsabilità penale per i reati contestati. I motivi sono manifestamente infondati. Oltre a riprodurre le medesime argomentazione già esposte dinanzi ai giudici di merito, e dagli stessi vagliate e correttamente disattese, la censura sull'affermazione di responsabilità più che volta a denunciare vizi riconducibili al disposto di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), mira a sollecitare nuovamente una valutazione alternativa delle risultanze processuali non praticabile in questa sede (S.U. n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv 226074). La motivazione a sostegno della affermazione della responsabilità e della infondatezza della censura svolta nei motivi di appello, circa la configurazione dell'intervento edilizio realizzato quale intervento di manutenzione ordinaria, consistito nel mero restauro dei pilastri della veranda esistente, e non di nuova costruzione, non presta il fianco a censure di illogicità e/o contraddittorietà. La corte territoriale ha correttamente argomentato che, sulla base delle emergenze processuali, l'intervento abusivo era consistito nella ristrutturazione e nell'ampliamento di un preesistente fabbricato abusivo mai demolito, con edificazione di cinque pilastri di cemento armato; i manufatti realizzati costituivano nuova costruzione, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e) D.P.R. cit., con ampliamento della sagoma esistente e modifica dei prospetti dell'immobile, la motivazione è, dunque, puntuale e corretta giuridicamente. Allo stesso modo è congruamente motivata l'affermazione della responsabilità penale per l'occupazione arbitraria del demanio marittimo avendo il ricorrente continuato nel possesso dell'immobile, che già occupava abusivamente il demanio marittimo. Egli ha, dunque, continuato ad occupare abusivamente il demanio marittimo, in quanto la fattispecie di cui all'art. 1161 cod. nav. si applica anche a chi abbia protratto l'abusiva occupazione da altri precedentemente iniziata (Sez. 3, n. 2879 del 14/11/2013 Anfuso Rv. 258379). La fattispecie incriminatrice, infatti, sanziona la condotta consistente nell'occupare senza titolo, cioè nel limitare o impedire la fruibilità di un'area demaniale, senza che, ai fini dell'attualità della violazione, abbia rilievo quale soggetto abbia dato avvio alla violazione stessa e in quale momento.

7. Infine manifestamente infondate sono le censure sul trattamento sanzionatorio e sulla dosimetria della pena, avendo la corte territoriale adeguatamente motivato il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche richiamando i precedenti penali e l'adeguatezza del trattamento sanzionatorio, non ulteriormente mitigabile avuto riguardo alla circostanza che il giudice di primo grado aveva dichiarato l'estinzione del reato contravvenzionale, con remissione in pristino, non avvedendosi che era stata contestata la contravvenzione di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 bis, con conseguente trattamento sanzionatorio definito sin troppo mite per un intervento abusivo in zona dichiarata di rilevante interesse pubblico già con D.M. 27 agosto 1980.

8. Il ricorso di A.M. deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen.. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2016.
Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2016