Le attese delle pronunce del giudice costituzionale di fronte alla questione ambientale
Di Alfredo Montagna – Magistrato (Corte di cassazione)

Pubblicato su Ambiente & Sviluppo n. 42007 (si ringrazia l’autore)

1. Il ricorso al giudice costituzionale

La questione della compatibilità costituzionale, delle disposizioni ambientali introdotte dal legislatore nazionale, per violazione degli artt. 3 e 117 della Costituzione, stante la loro ontologica non rispondenza alle previsioni comunitarie, è emersa negli ultimi tempi come “l’ultima spiaggia” cui l’interprete del diritto può guardare per potere poi applicare una normativa nazionale coerente e  “sistematicamente” funzionale.

Pur tuttavia la risposta del giudice delle leggi, da un lato per l’ entrata in vigore medio tempore del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, dall’altro per altre ragioni che si evidenzieranno in prosieguo, non ha sino ad oggi prodotto gli effetti sperati; vedremo conseguentemente quali spazi residuino ed in relazioni a quali aspetti specifici.

La nostra ricostruzione prende le mosse dagli interventi della corte di cassazione che, per l’autorevolezza dell’organo remittente e rappresentando il punto di approdo di una lunga elaborazione concettuale, hanno fatto sperare (ed in parte continuano a farlo) in un risultato favorevole.

Infatti la Corte di cassazione aveva sollevato, con ordinanza 14 dicembre 2005, depositata il 16 gennaio 2006 con il n. 1414/2006 e con riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, una prima questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2002, n. 178, e che, con un sistema legislativo ampiamente criticabile in quanto utilizza occasioni normative del tutto diverse per introdurre modifiche a disposizioni eterogenee, aveva introdotto “l'interpretazione autentica” della nozione di rifiuto di cui all'art. 6 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).  Ciò era avvenuto in un procedimento nel quale il ricorso per cassazione era stato proposto da due imputati avverso la sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere che li aveva dichiarati colpevoli del reato continuato di cui all'art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997 per aver smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non pericolosi senza la prescritta autorizzazione; i fatti erano consistiti segnatamente nella vendita, da parte del primo dei ricorrenti, del siero di latte derivante dall'attività produttiva di un caseificio - sostanza che era stata qualificata come rifiuto, in quanto residuo del processo di lavorazione - all'altro imputato, titolare di azienda zootecnica, che lo aveva destinato ad alimento per bovini.

Una ulteriore occasione di rimessione si è avuta con l’ordinanza 24 novembre 2005, dep. 24 marzo 2006 n. 10328, Italiano, della stessa terza sezione,con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, del d. lgs  05/02/1997 n. 22, come modificato dall’art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426, anche in questo caso per contrasto con gli artt. 11 e 117 Costituzione. La disposizione citata impone l’obbligo dell’iscrizione all’Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti solo per “le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi”. Chiamata a valutare una ipotesi nella quale il trasporto era relativo a materiali di risulta dell’attività edilizia svolta in forma professionale dall’imputato, la Corte ha osservato che la Direttiva 91/156/CEE prevede, all’art. 12, che “gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad autorizzazione”. Peraltro a tale punto della Direttiva si era data esatta attuazione con il decreto n. 22, allorché era stato previsto che “le imprese che svolgono a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse prodotti…devono essere iscritte all’Albo”. Inopinatamente il legislatore ha operato la modifica di tale disposizione con l’art. 1, comma 19, della legge 426 del 1998, che ha portato alla disposizione sopra riportata (tra l’altro riportata nel nuovo d. lgs 152 del 2006).  La Corte ha mostrato di condividere sul punto le perplessità già espresse dalla Corte di Giustizia con la sentenza 9 giugno 2005 che, nella procedura di infrazione promossa dalla Commissione, aveva affermato che il nostro paese era venuto meno agli obblighi imposti con le direttive in materia di rifiuti consentendo l’esercizio in tale ipotesi senza obbligo di iscrizione all’Albo, ritenendo di rimettere la questione alla Corte Costituzionale per il dedotto contrasto con i principi costituzionali.

 
2. l’intervento sulla nozione di rifiuto

Va a questo punto ricordato, sia pure in maniera sintetica, che nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la nozione di “rifiuto”[1] erano state riprodotte originariamente nell’art. 6, comma 1 – lett. a), del D. Lgs. 5.2.1997, n. 22 (che ha recepito le modifiche del 1991 alle due direttive comunitarie sui rifiuti) secondo cui “è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Il primo elemento essenziale della nozione di “rifiuto” era costituito, pertanto, dall’appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A), ma sottolineando come l’elenco delle 16 categorie di rifiuti in esso contenuto non fosse esaustivo ed avesse un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato “A) – Parte 1” comprendeva due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti. 

Il secondo elemento, collegato all’atteggiamento del detentore, e relativo alle tre diverse previsioni del concetto di “disfarsi”, aveva trovato “interpretazione autentica” nell’art. 14 del  D.L. 8.7.2002, n. 138, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178, secondo il quale per:

a)“si disfi” deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997; 

b) “abbia deciso di disfarsi” deve intendersi: la volontà di destinare sostanze, materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997; 

c) “abbia l’obbligo di disfarsi” deve intendersi: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi)

La stessa normativa prevedeva, introducendo una doppia deroga alla nozione generale di rifiuto, che le fattispecie di cui alle lettere b) e c) non ricorressero – per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo – ove sussistesse una delle seguenti condizioni:

1) riutilizzato nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;

2) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997.

 

3. e l’atteggiamento della suprema corte

Rispetto a tale situazione normativa, ed una volta sottolineato come le deroghe introdotte dal secondo comma dell’art. 14 riguardano solo le ipotesi “abbia deciso” e “abbia l’obbligo di disfarsi” e non anche l’ipotesi “si disfi”[2], si erano determinate una serie di posizioni interpretative che affrontavano, anche a livello di giurisprudenza di legittimità, l’argomento della nuova definizione di rifiuto applicabile nell’ordinamento interno

Secondo un primo orientamento la normativa nazionale del 2002 non si sarebbe potuta applicare in quanto in contrasto con la definizione di rifiuto elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, e fra l’altro contenuta nel Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993 n. 259 (sui trasporti transfrontalieri), attesa la natura della fonte (regolamento, e come tale direttamente applicabile nell’ordinamento degli Stati membri ai sensi dell’art. 249 (ex 189) del Trattato) che la contiene[3], criticata in modo esplicito sul punto da una successiva pronuncia della stessa terza sezione[4].  Una posizione condivisa dalla corte in più occasioni. con l’affermazione che  “la definizione di rifiuto comunitaria non possa essere interpretata secondo i criteri dettati dalla nostra normativa nazionale[5].

Diversamente si era sostenuto come  le nuove disposizioni fossero vincolanti per il giudice in quanto introdotte con atto avente pari efficacia legislativa della precedente normativa sebbene fosse stata modificata la nozione di rifiuto dettata dall’art. 1 della Direttiva 91/156/CEE e ripresa come tale dalla previdente disposizione nazione del 1997[6]. L’argomentazione si fondava sul rilievo che la Direttiva 91/156 non fosse autoapplicativa (self executing) e che in proposito non potesse adirsi direttamente la Corte di Giustizia per acquisire una interpretazione pregiudiziale ex art. 234 (ex 177) atteso che a dovere essere interpretata era non già la norma europea, bensì quella nazionale; con la conseguenza che unico strumento operativo, peraltro attivato, rimaneva quello della procedura di infrazione contro lo Stato italiano ed il successivo ricorso alla Corte di Giustizia in caso di non adeguamento dello Stato al parere motivato della stessa Commissione, ai sensi dell’art. 226 (già 169) del Trattato di Roma[7].

Una ulteriore e articolata metodica di approccio al problema risultava in altra pronuncia della corte[8], che muoveva dalla lettura delle numerose decisioni della Corte Europea di Giustizia le cui decisioni (siano esse di condanna per inadempimento dello Stato oppure interpretative del diritto comunitario) sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia. Ma la Corte di Cassazione mostrava di avvicinarsi a quella che sarà la terza e definitiva opzione interpretativa con la decisione Maretti (cit., e che si presenza come una evoluzione delle tesi illustrate nella pronuncia Passerotti, dello stesso estensore), ove si osservava  come la pronuncia che precisi o integri il significato di una norma comunitaria abbia la stessa efficacia di quest’ultima, così da essere direttamente ed  immediatamente efficace nell’ordinamento nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata; conseguentemente se tale efficacia sussiste il giudice nazionale non può più applicare la norma interna, ma ove l’interpretazione abbia riguardato una norma comunitaria priva di efficacia diretta il giudice nazionale dovrebbe ancora applicare la norma interna a meno di non sollevare eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. (per la cui opzione la decisione Maretti propende, anche se nel caso specifico giudica la questione irrilevante avendo nel merito condiviso la natura di rifiuto dei materiali in questione).

Ed è così  che l’ulteriore punto di approdo diviene la rimessione alla Corte Costituzionale operata dalla Corte con le ordinanze n. 1414, Rubino e 10328, Italiano, di cui sopra

 
4. le precedenti perplessità del giudice di merito

L’approdo cui il giudice di legittimità mostra di essere giunto agli inizi del 2006 era stato preceduto da una serie di ordinanze della magistratura di merito. Infatti con ordinanze del 2 febbraio 2005 del Tribunale di Terni nel procedimento penale a carico di F.A. ed altro, del 14 marzo 2005 del Tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di G.L., del 29 giugno 2005 del Tribunale di Terni nel procedimento penale a carico di A.N. e del 9 novembre 2005 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti nel procedimento penale a carico di M.B., erano state sollevate questioni di legittimità costituzionale sia dell'art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, come convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, ma altresì dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione).

Infatti la legge n. 308 del 2004 mentre manteneva espressamente fermo il disposto dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 (art. 1, comma 26, della legge), già medio tempore censurato dalla Corte europea, escludeva nel contempo taluni materiali, qualificabili come rifiuti dalla relativa disciplina; ciò con l'art. 1, comma 29, che, aggiungendo una lettera q-bis) all'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, poneva un principio esattamente contrario, qualificando come “materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche” i “rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali e internazionali, nonché i rottami scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche sopra menzionate”, così che in pratica, reiterando la regola già respinta dalla Corte di giustizia, i rottami ferrosi dovevano essere sottoposti al regime delle materie prime e non a quello  dei rifiuti, in presenza di determinate caratteristiche merceologiche e siano destinati in modo oggettivo ed effettivo all'impiego nei cicli produttivi siderurgici o metallurgici.

In relazione al più noto di tali procedimenti va ricordato come a seguito di ricorso in via pregiudiziale, ex art. 234 del Trattato CE, proposto dallo stesso giudice a quo, la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, ha ritenuto l'anzidetta “interpretazione autentica” contrastante con la definizione di cui all'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE, in quanto atta a sottrarre alla qualificazione come rifiuto dei residui di produzione o di consumo corrispondenti a detta definizione. In particolare nel caso Niselli il giudice remittente aveva rilevato la esistenza di un contrasto tra la disposizione penale interna e gli obblighi di matrice comunitaria contenuti in Direttive, peraltro sprovviste di effetti diretti[9], ipotizzando un potere disapplicativo della legge penale contrastante con l’obbligo comunitario, e ciò in quanto la norma penale “viziata” aveva sostituito una precedente disposizione nazionale conforme al diritto comunitario.

La tesi del giudice remittente, argomentata con sottile finezza giuridica dall’Avvocato generale Kokott, partiva dal dato che in questo caso non si sarebbe creato un vuoto normativo effetto della disapplicazione, bensì la riespansione della norma penale nazionale (compatibile) abrogata dall’intervento di modifica incompatibile con il diritto comunitario, la conseguenza sarebbe stata la sanzionabilità di condotte non in ragione delle previsioni della direttiva. ma della legge penale previgente, illegittimamente abrogata ed illegittimamente sostituita[10].

 

5. le non risposte della Corte

Purtroppo già in questo caso la Corte costituzionale ordinava la restituzione ai giudici rimettenti degli atti alla luce del sopravvenuto mutamento normativo operato con il decreto 152 del 2006 che reca una nuova disciplina della gestione dei rifiuti,
integralmente sostitutiva di quella già contenuta nel d. lgs. n. 22 del 1997, rilevando l’espressa  abrogazione della norma censurata di cui all'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, e la introduzione, nel contempo, di una nuova definizione del concetto di "materia prima
secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche"
, che riconduce in tale nozione
anche "i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero", solo a
condizione che quest'ultimo sia "completo" (art. 183, comma 1, lett. u), così da rendere inevitabile una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza
delle questioni sollevate.[11].

Infatti il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006, emanato in attuazione della delega conferita dall'art. 1 della legge n. 308 del 2004, reca, nella parte quarta (Norme in tema di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati), una nuova disciplina della gestione dei rifiuti, integralmente sostitutiva di quella già contenuta nel d.lgs. n. 22 del 1997; più specificamente, per quanto in questa sede più interessa, il citato d.lgs. n. 152 del 2006 ha da un lato espressamente abrogato, all'art. 264,comma 1, lettera l), la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, direttamente coinvolta nello scrutinio di costituzionalità, e dall’altro introdotto,all'art. 183, comma 1, lettera u), una definizione del concetto di “materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche” contrassegnata da elementi di novità rispetto alla corrispondente definizione di cui alla lettera q-bis) dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, censurata da tutti i rimettenti: risultando tale definizione arricchita di requisiti aggiuntivi, destinati, come tali, a circoscrivere la portata del concetto definito e, correlativamente, il novero dei materiali sottratti al regime dei rifiuti.

Oltre alla puntualizzazione per cui la definizione attiene alla materia prima secondaria “la cui utilizzazione è certa e non eventuale, ed al rinvio ad apposito decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per l'individuazione delle “specifiche nazionali e internazionali” (ulteriori rispetto alle specifiche “CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO”, di cui alla precedente definizione) cui i rottami debbono rispondere al fine di poter fruire della qualificazione in parola, la disposizione del d. lgs n. 152, al numero 1), riconduce alla nozione di “materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche” i “rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero”, solo a condizione che quest'ultimo sia “completo”, elemento che non figurava nella disposizione precedente. Inoltre la definizione in esame si presenta correlata a quella, di nuova introduzione, di “materia prima secondaria” (di tipo generale, senza ulteriori specificazioni), contenuta nella lettera q) del medesimo art. 183, comma 1, ove si qualifica come tale la “sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell'articolo 181”, ossia della norma che regola il recupero dei rifiuti, la quale, a sua
volta, al comma 12, prevede che “la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero[12]. In proposito va altresì ricordata dall'abrogazione della direttiva 75/442/CEE ad opera della nuova direttiva in materia di rifiuti 2006/12/CE del 5 aprile 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea del 27 aprile 2006, ed entrata in vigore il 17 maggio 2006, la quale reca, all'art. 1, paragrafo 1, lettera a), una definizione di rifiuto
differenziata dalla precedente solo per una variante (sostituzione della espressione “abbia deciso ... di disfarsi” con l'altra “abbia l'intenzione ... di disfarsi”).

Da ciò la conseguente restituzione degli atti vanno restituiti ai giudici emittenti ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce dello ius superveniens.

Analogamente è avvenuto con riferimento alla prima delle ordinanze della Corte di Cassazione, atteso che ordinanza della Corte Costituzionale n. 458 del 13 dicembre 2006[13], il giudice delle leggi ha restituito alla Corte di cassazione, ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata, la questione della compatibilità costituzionale della disciplina nazionale sui rifiuti nei suoi rapporti con il diritto comunitario, affinché la stessa operi una nuova valutazione della questione alla luce delle nuove disposizioni introdotte dal decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152. Sotto questo più generale profilo va ricordato come oltre alla citata abrogazione, ex art. 264, comma 1, lettera l), della norma di interpretazione autentica di cui all'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, il medesimo decreto legislativo abbia introdotto, all'art. 183, comma 1, lettera n), una nuova definizione di “sottoprodotto”, sottratto a determinate condizioni all'applicazione della disciplina sui rifiuti; una definizione che si pone in parte in linea di ideale continuità con la disposizione censurata, ma se ne discosta sotto diversi profili, sul piano della formulazione e dei contenuti precettivi, e della quale, peraltro, si prevede una abrogazione totale.

Una terza occasione di intervento si era avuta a seguito della questione di legittimità costituzionale dell'art. 53-bis del decreto n. 22 del 1997, introdotto dall'art. 22 della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale), nella parte in cui puniva con la reclusione da uno a sei anni “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti”, sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari. Secondo il giudice a quo la configurazione della fattispecie delittuosa in termini di reato di pericolo, soggettivamente connotato dal dolo specifico dell' ”ingiusto profitto”, avrebbe richiesto il rigoroso rispetto dei canoni di tipicità e determinatezza in riferimento sia alla descrizione della condotta, sia alla previsione dell'elemento psicologico, diversamente da quanto riscontrabile nella disposizione in oggetto, la cui indeterminatezza non sarebbe stata emendabile in via interpretativa, con conseguente violazione dei principi di tassatività della fattispecie penale e del diritto di difesa; con riferimento al primo profilo, il rimettente aveva sostenuto inoltre come la formula “ingenti quantitativi”, descrittiva di uno degli elementi costitutivi della fattispecie, risultava talmente indeterminata da rimettere all'arbitrio dell'interprete l'identificazione del comportamento incriminato, e con essa il contenuto precettivo della norma, di modo che condotte identiche sarebbero potute essere considerate penalmente rilevanti, o non, in ragione della scelta del singolo giudice. Inoltre, a giudizio del gip di Bari, la formulazione della norma sarebbe risultata generica con riguardo sia alla modalità di realizzazione dell'illecito, indicata con l'utilizzo dell'avverbio “abusivamente”, senza specificazione a quali tra i divieti previsti dalla normativa a tutela dell'ambiente si dovesse fare riferimento, sia all'oggetto della condotta, stante la mancata precisazione della tipologia dei rifiuti (?) cui si riferiva, sia, infine, al connotato tipizzante le “attività continuative ed organizzate”, di fatto non distinguibili dal “ previo allestimento di mezzi” già previsto nella norma come elemento di connotazione della condotta medesima.

Anche in questo caso la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione, con ordinanza 7 giugno 2006 n. 271, est. Silvestri, in quanto purtroppo il giudice rimettente, infatti, dopo aver affermato di aver fatto applicazione della norma censurata nel giudizio a quo, non aveva chiarito quali provvedimenti fosse ancora chiamato ad adottare sulla base della medesima disposizione, né aveva precisato in quale fase si trovasse il processo principale; omissioni, queste, che hanno impedito alla Corte Costituzionale di valutare la rilevanza della questione esaminabile per la coincidenza della disposizione censurata con lo ius superveniens di cui al decreto 152 del 2006.

Infine  il giudice delle leggi aveva dichiarato, con ordinanza 21 giugno 2006 n. 245, est. Tesauro,  il non luogo a provvedere sull'istanza di sospensione degli artt. 63, 64, 101, comma 7, 154, 155, 181, commi da 7 ad 11, 183, comma 1, 186, 189, comma 3, 214, commi 3 e 5,
del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recanti disposizioni concernenti le autorità
di bacino distrettuale, gli accordi di programma per la definizione dei metodi di
recupero, e per le procedure semplificate di smaltimento, di taluni rifiuti, gli scarichi
derivanti dalle imprese agricole e le tariffe per il servizio idrico, proposta dalla Regione
Emilia-Romagna nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale promosso in
riferimento agli articoli 11, 76, 117, 118 Cost., ed ai principi di leale collaborazione e di
ragionevolezza, nonché ai principi ed alle norme del diritto comunitario. In questo caso, nel sollecitare l'esercizio del potere di sospensione delle norme impugnate, la Regione ricorrente, a giudizio della Corte, ha prospettato in maniera sostanzialmente assertiva la sussistenza dei relativi presupposti, omettendo di svolgere argomenti in grado di indurre la Corte costituzionale ad eventualmente adottare, d'ufficio, i provvedimenti di cui agli artt. 35 e 40 della legge n. 87 del 1953.

 

6. le occasioni che residuano

Allo stato la Corte Costituzionale non ha dato risposta alla già citata ordinanza 24 novembre 2005, dep. 24 marzo 2006 n. 10328, Italiano, della stessa terza sezione[14],con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, del d. lgs  05/02/1997 n. 22, come modificato dall’art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426, disposizione che impone l’obbligo dell’iscrizione all’Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti solo per “le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi”. Una previsione ripresa dal vigente art. 21, comma 5, del decreto 3 aprile 2006 n. 152, prevede che “l’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento  delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi…”; sulle ragioni di incompatibilità comunitaria di tale disposizione si è già detto sub. § 1.

La seconda questione attiene al regime delle cd. terre e rocce da scavo, rispetto al quale la Commissione Tributaria Regionale della Toscana ha sollevato eccezione di legittimità costituzionale con ordinanza 12 giugno 2006[15], in procedimento attinente allo smaltimento di terra e rocce da scavo prodotte in conseguenza dell’attività di costruzione del tratto Bologna- Firenze della linea ad alta velocità Milano-Napoli (cd TAV).

La disciplina in materia trova nel d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, la sua fonte originaria, in quanto questo aveva classificato “i materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e scavi” come rifiuti speciali, ai sensi dell’art. 2, comma 3 punto 3.

Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 “ i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo” sono stati classificati come rifiuti speciali. Lo stesso decreto Ronchi prevedeva poi all’art. 8 (relativo alle esclusioni) che “i materiali non pericolosi che derivano dall’attività di scavo” fossero esclusi dalla normativa sui rifiuti (ex comma 2 lett. c). Questa esclusione fu oggetto di critica da parte della Commissione Europea, così che con il cd Ronchi bis (d. lgs 389 del 1997) i commi 2, 3 e 4 dell’art. 8 del d. lgs 22/1997 venivano abrogati (ex art. 1, comma 9).  Il quadro di coerenza della disciplina nazionale con quella comunitaria prevedeva così che i materiali provenienti dall’attività di scavo rientrassero fra i rifiuti, con la ulteriore specificazione che quelli pericolosi avessero la qualificazione di rifiuti speciali.

Con una Circolare ministeriale veniva operata una prima deroga alla disciplina, prevedendosi che le terre e rocce da scavo fossero qualificate come rifiuti allorché superassero limiti di concentrazione di inquinamento stabiliti dal D.M. 25 ottobre 1999 n. 471, ed in presenza di specifiche condizioni di riutilizzo (e sul punto basti richiamare il principio di legalità, ed in particolare di riserva di legge, per una valutazione sulla legittimità di tale modifica normativa).

A fronte di una giurisprudenza di legittimità che aveva visto la terza sezione della corte di cassazione adottare una interpretazione ritenuta restrittiva in tema di terre e rocce da scavo, il legislatore interveniva, con una tecnica che in materia di rifiuti si è ripetuta innumerevoli volte, con la legge 23 marzo 2001 n. 93, che introduceva due ulteriori ipotesi di esclusione dal regime dei rifiuti (ex art. 10), e tra queste la lettera f bis), che escludeva, in quanto disciplinate da specifiche disposizioni di legge, “le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti”.

La materia subiva dopo poco un ulteriore intervento con la legge 21 dicembre 2001 n. 443 (cd legge obiettivo o legge Lunardi), che forniva l’interpretazione autentica dell’art. 7, comma 3 lett. b, del decreto Ronchi (vigente sin dalla sua entrata in vigore) e dell’art. 8, comma 1 lett. f bis, (introdotto dalla citata legge 93 del 2001). In realtà fornendo l’interpretazione delle ipotesi in cui le terre e rocce da scavo non costituiscono rifiuti, la legge Lunari non poteva fornire altra interpretazione se non quella dell’art. 8, relativo alle esclusioni, in quanto l’art. 7 attiene alla classificazione dei rifiuti (urbani o speciali, pericolosi o non pericolosi), con la conseguenza che la legge 443 del 2001 fornisce l’interpretazione autentica della esclusione al regime dei rifiuti introdotta con la legge n. 93 del 2001 (indipendentemente dalle ulteriori considerazioni sulla natura o meno di interpretazione o di innovazione di tale intervento).

Il quadro veniva nuovamente sottoposto ad ulteriore interpretazione con la legge comunitaria 2003 (legge 31 ottobre 2003 n. 306), che modificava nuovamente la lettura delle due citate disposizioni (e qui valgano analogicamente le medesime osservazioni).

Sostanzialmente il quadro normativo non è mutato con la entrata in vigore (il 29 aprile 2006) delle Norme in materia ambientale introdotte dal decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152; infatti l’art 186 prevede che: “le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti….solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalla attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste  nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale…”. 

 

7.e le ragioni per una risposta positiva per l’ambiente

Indubbiamente in relazione alle questioni non ancora affrontate dalla corte costituzionale è legittimo attendersi una risposta nel merito, in quanto l'intervenuta abrogazione delle pregresse disposizioni, ad opera dell'art. 264, comma 1, lettera i) del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, non costituisce impedimento all'esame della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione Tributaria di Firenze, la cui ordinanza è sia successiva all’entrata in vigore del citato d. lgs n. 152 sia riferita ai nuovi contenuti normativa, ma consente altresì al giudice delle leggi di affrontare le questioni dedotte dalla corte di cassazione con l’ordinanza Italiano, in quanto le disposizioni oggetto di censura sono state integralmente trasfuse nel medesimo decreto.

In questi casi la giurisprudenza della Corte ha in più occasioni affermato come il proposto giudizio incidentale di costituzionalità dovesse essere deciso con riferimento alla nuova disposizione; ed in questi termini risulta essersi espressa[16] nel dichiarare inammissibile  la  questione di legittimità costituzionale dell'art.  61, commi 4 e 5, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n.    30    (Codice  della  proprietà  industriale),  sollevata,  in riferimento  agli  articoli  3,  41  e  42  della Costituzione, dalla Commissione  dei ricorsi contro i provvedimenti dell'Ufficio italiano brevetti e marchi, lì dove la dichiarazione risulta infatti effettuata con riferimento alla nuova disposizione, sostitutiva del precedente art. 3, comma 8,

del  decreto-legge  15 aprile 2002, n. 63 (Disposizioni finanziarie e fiscali  urgenti  in  materia  di  riscossione, razionalizzazione del sistema    di    formazione  del  costo  dei  prodotti  farmaceutici, adempimenti    ed    adeguamenti    comunitari,    cartolarizzazioni, valorizzazione  del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture), convertito,  con  modificazioni,  nella legge 15 giugno 2002, n. 112, abrogata dall’art. 246, comma 1, lett. mm), dello stesso decreto n. 3; e ciò anche  in ipotesi di "sostanziale" riproduzione, come affermato in precedenza con le sentenze n. 135  del  2003 e n. 25 del 2002.

Pur tuttavia su questo quadro di riferimento rischiano di andare ad incidere le tanto sospirate e mai adottate disposizioni correttive ed integrative del predetto decreto legislativo 152, consentite in base all’articolo 1, comma 6, della legge 15 dicembre 2004, n. 308, che ha delegato il governo alla redazione del cd. Testo Unico. In tema un primo modesto intervento correttivo si è avuto con il decreto legislativo 8 novembre 2006 n. 284, in g. u. 24 novembre 2006 n. 274, concernente l’introduzione di un regime transitorio conseguente alla soppressione della Autorità di bacino disposta dall’art. 63, comma 3, la soppressione dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, la proroga del termine per l’adeguamento dello Statuto del Conai ai principi del “testo unico”. 

Un secondo interevento era sembrato dovere giungere di li a poco, in quanto si intendeva determinare la chiusura di numerose procedure di infrazione comunitaria allo stato pendenti nei confronti dell’Italia ed evitare così il rischio di pesanti condanne da parte della Corte di Giustizia, ma per il quale in realtà  si sta soltanto concludendo l’esame da parte della Conferenza unificata. Ma a questo intervento ne seguiranno altri, come preannunciato dalla commissione per la riforma del codice ambientale, di cui un primo (il terzo della serie) per la Parte II, relativa alle procedure per la valutazione ambientale strategica, per la valutazione d’impatto ambientale e per l’autorizzazione ambientale integrata, e da ultimo un secondo (il quarto della serie) con modifiche di nuovo alla Parte IV sui rifiuti, ma altresì alla disciplina delle acque, delle immissioni nell’atmosfera, in tema di danno ambientale, ed infine alla parte iniziale dei principi (che ci saremmo aspettati precedesse le riflessioni di settore)[17].

Ma chi si occupa di ambiente ha sviluppato l’arte della perseveranza, abituato da tempo a convivere con un panorama normativo in continua evoluzione (o involuzione), frutto più di spinte corporative che di quella “piena e coerente attuazione delle direttive comunitarie” declamata dall’art. 1, comma ottavo lett. e), della legge delega ambientale n. 308 del 2004.

 
21 febbraio 2007
                                                 Alfredo Montagna


[1]  Per una trattazione sistematica della nozione e della disciplina sui rifiuti si rinvia a A. Montagna, voce Rifiuti (gestione dei), Enc. Giur. Treccani, Aggiornamento 2004

[2] Cass. Sez. III 12 novembre 2003 n. 1723, dep. 3 febbraio 2004, Puppo, inedita

[3] Cass. Sez. III  27 novembre 2002 n. 2125, Ferretti, in CED Cass. 223291

[4] Cass. Sez. III 4 marzo 2005, dep. 13 maggio 2005 n. 17836, Maretti, ivi, 231640.

[5] Cass. Sez. III 10 febbraio 2005 n. 9503, Montinaro e Cass. Sez. III 22 febbraio 2005 n. 11127, Conti, inedite

[6] Cass. Sez. III. 13 novembre 2002 n. 4052, Passerotti, in Ced Cass, n. 223532; a tale impostazione hanno aderito successivamente ulteriori decisioni del giudice di legittimità, sovente in modo acritico come Cass. sez. III 27 ottobre 2004, dep. 25 novembre 2004 n. 45582, p.m. in proc. Sollo, inedita

[7] In senso conforme al dictum della decisione Passerotti si sono espresse poi Cass. Sez. III 29 gennaio 2003 n. 4051, Ronco, ivi, 223604; Cass. Sez. III 22 gennaio 2003, Costa; 11 febbraio 2003, Mortellaro; 31 luglio 2003, Agogliati e 9 ottobre 2003, De Fronzo, tutte su specifiche questioni di merito

[8] Cass. Sez. III 15 gennaio 2003 n. 17656, Gonzales, in Ced Cass. 224716, ripresa da Cass. Sez. III 11 novembre 2004 n. 48402, p.g. c/ Brugnolaro;

[9] Questa condizione delle Direttive originava un ulteriore problematicità, in quanto per una direttiva inidonea a creare posizioni giuridiche per il cittadino, in quanto senza effetti diretti, si pretendeva di generare un effetto di diretta applicazione nell’ordinamento interno. Per una più approfondita disamina dei rapporti diritto comunitario-diritto nazionale si rinvia a A. Montagna, Il difficile cammino verso un diritto penale europeo minimo, in Cass. pen., 2007,

[10] Come espressamente affermato nelle conclusioni al  paragrafo 58 della pronuncia 

[11] Ordinanza 20 giugno 2006, n. 288, Est. Flick.

[12] La Corte di cassazione ha ribadito come tra le operazioni di recupero siano comprese la cernita o la selezione, sino al compimento delle quali si conserva la natura di rifiuto (Cass. Sez. III 15 giugno 2006, dep. 9 ottobre 2006, n. 33882, p.m. in proc. Barbati.

[13] dep. il 28 dicembre 2006 e pubblicata sulla g. u. del 3 gennaio 2007

[14] in G. U. 11 ottobre 2006, 1 serie speciale, pag. 69

[15] in G. U. 7 febbraio 2007, 1 serie speciale,  pag. 115.

[16] Corte Costituzionale sentenza  n. 345 del 2005

[17] In questo continuo assestamento normativo non va dimenticata la legge  27 dicembre 2006 n. 296, legge finanziaria 2007, nella quale una serie di disposizioni interessano gli operatori ambientali, quali i commi 183, sulla tassa sui rifiuti solidi urbani, 184, contenente proroga del  decreto discariche, 868 in tema di danno ambientale, 1110 relativo al protocollo di Kyoto, 1117 sulle fonti energetiche rinnovabili, per tacere di altri minori.