Il primo decreto legge sull’ambiente del nuovo governo. Al peggio non c’è mai fine

di Gianfranco AMENDOLA

 

Il decreto legge n. 2 (“Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale”) “ritenuta la straordinaria necessita' e urgenza di adottare misure per fronteggiare le problematiche relative alla gestione dell'ex Ilva” nonchè di “prevedere misure anche di carattere processuale e procedimentale finalizzate ad assicurare la continuita' produttiva degli stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale” viene emanato, con effetto immediato, dal nuovo governo il 5 gennaio 2023 e dispone, nel capo II, che, qualora per la salvaguardia di salute e ambiente, fosse necessario interdire l’attività o sequestrare in tutto o in parte un impianto inquinante dichiarato di interesse strategico nazionale1 dal Presidente del Consiglio dei ministri, si proceda, invece, alla prosecuzione dell’attività sotto il controllo di un commissario; precisando, subito dopo, che “in ogni caso, le sanzioni interdittive non possono essere applicate quando pregiudicano la continuità dell'attività” svolta in questi impianti, se “l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”; aggiungendo che “il modello organizzativo si considera sempre idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi quando nell'ambito della procedura di riconoscimento dell'interesse strategico nazionale sono stati adottati provvedimenti diretti a realizzare, anche attraverso l'adozione di modelli organizzativi, il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuita' dell'attivita' produttiva e di salvaguardia dell'occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute, dell'ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi.” Insomma, in questi impianti, per continuare ad inquinare basta adottare un “modello organizzativo idoneo a bilanciare” gli interessi economici dell’impresa con i diritti alla salute ed all’ambiente: formulazione, con ogni evidenza, del tutto astratta, molto ampia e talmente generica da apparire sostanzialmente inesistente e non verificabile.

Di più. Il decreto legge aggiunge che, comunque, se vi è stato un sequestro di stabilimento (o parti di esso) di interesse nazionale, il giudice dispone comunque la prosecuzione dell’attività tramite amministratore giudiziario “se, nell'ambito della procedura di riconoscimento dell'interesse strategico nazionale, sono state adottate misure con le quali si e' ritenuto realizzabile il bilanciamento tra le esigenze di continuita' dell'attivita' produttiva e di salvaguardia dell'occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi”: insomma, in questo caso non si richiede neppure che venga attuato il bilanciamento ma basta aver adottato misure con cui “si ritiene realizzabile” (ovviamente dalla impresa) questo bilanciamento. E non basta. Perché, qualora questo non sia stato fatto, interviene direttamente il giudice: non per bloccare ma per far continuare l’attività inquinante. Infatti, “ ove necessario per realizzare un bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attivita' produttiva e di salvaguardia dell'occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute, dell'ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi, il giudice detta le prescrizioni necessarie, tenendo anche conto del contenuto dei provvedimenti amministrativi a tal fine adottati dalle competenti autorità”.

Insomma, appare evidente, a questo punto, che quello che conta per il nostro governo e la sua maggioranza è la continuità della produzione -e cioè l’interesse economico e commerciale dell’impresa- che viene addirittura equiparato -anzi deve bilanciarsi- in modo totalmente generico ed indeterminato, con i diritti costituzionalmente garantiti alla salute ed all’ambiente. Né influisce su questa conclusione la foglia di fico, -non a caso, in questo contesto, del tutto marginale e generica-, secondo cui queste disposizioni non si applicano “quando dalla prosecuzione può derivare un concreto pericolo per la salute o l'incolumità pubblica ovvero per la salute o la sicurezza dei lavoratori non evitabile con alcuna prescrizione”. Tanto è vero che -dulcis in fundo- “in ogni caso, il provvedimento…, anche se negativo e' trasmesso, entro il termine di quarantotto ore, alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero delle imprese e del made in Italy e al Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica.”; e, se si tratta di “provvedimento con cui il giudice abbia escluso o revocato l'autorizzazione alla prosecuzione, o negato la stessa in sede di istanza di revoca, modifica o rivalutazione del sequestro precedentemente disposto, nonostante le misure adottate nell'ambito della procedura di riconoscimento dell'interesse strategico nazionale”, esso “può essere oggetto di impugnazione ai sensi dell'articolo 322-bis del codice, anche da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero delle imprese e del made in Italy o del Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica” e “sull'appello avverso il provvedimento di cui al primo periodo decide, in composizione collegiale, il tribunale di Roma”. Coprendo, come tocco finale, tutti gli eventuali illeciti con la garanzia di una generale impunità. Infatti, “chiunque agisca al fine di dare esecuzione ad un provvedimento che autorizza la prosecuzione dell'attivita' di uno stabilimento industriale o parte di esso dichiarato di interesse strategico nazionale…, non e' punibile per i fatti che derivano dal rispetto delle prescrizioni dettate dal provvedimento dirette a tutelare i beni giuridici protetti dalle norme incriminatrici, se ha agito in conformita' alle medesime prescrizioni” (art. 7).

E inutile dire, a questo punto, che la normativa appena esposta appare senza alcun dubbio in contrasto con tutti i dettami della Costituzione ad iniziare dall’art. 41, il quale non parla di alcun “bilanciamento” ed afferma, senza ombra di dubbio, che le esigenze economiche e produttive non possono mai prevalere sul diritto alla salute.

Del resto, questo decreto legge si inserisce perfettamente, ampliandolo, nel solco già aperto, partendo dal caso ILVA, dal nostro legislatore, con il decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 convertito con legge 24 dicembre 2012, n. 231, recante: <<Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale>>, il quale, in sostanza, autorizzava la prosecuzione, senza alcun immediato intervento, di una attività accertata come causa di malattie e morti2. E, non a caso, è stato sottoposto due volte al vaglio della Corte Costituzionale ed una volta a quello della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che, partendo dalla questione ILVA, hanno affermato importanti principi generali a proposito del valore ambiente, del diritto alla salute e del diritto al lavoro.

A questo proposito, è interessante notare che la prima a parlare di “bilanciamento” è stata proprio la Corte costituzionale, la quale nel 2013 evidenziava la necessità di “un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, precisando, subito dopo, che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”. Occorre, invece, secondo la Corte del 2013, garantire “un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto” (sentenza 9 maggio 2013, n. 85) 3.

La stessa Corte, tuttavia, cinque anni dopo (sentenza n. 58 del 23 marzo 2018), veniva chiamata ad occuparsi del cd. decreto Ilva del 20154, il quale, con una motivazione che richiamava il “bilanciamento” della sentenza del 2013, consentiva, a fronte della promessa di un piano di risanamento entro un mese, la prosecuzione dell’attività dell’Ilva, nonostante il provvedimento di sequestro preventivo emesso dall’autorità giudiziaria nei confronti dell’azienda per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori. Questa volta la Corte metteva da parte i “bilanciamenti” e i “diritti tiranni” del 2013, per affermare decisamente che il diritto alla salute attiene alle esigenze basilari della persona e deve essere immediatamente tutelato; tanto più che l’art. 41 della Costituzione, quando si parla di salute, non privilegia alcun bilanciamento e afferma, senza ombra di dubbio, che le esigenze economiche e produttive non possono mai prevalere sul diritto alla salute5. E, di conseguenza, evidenziava che, con queste normative di favore, “il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.)”. Aggiungendo significativamente che “il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona.”.

Peraltro, sulla stessa problematica si pronunciava, un anno dopo, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo6, cui si erano rivolti 180 cittadini tarantini che lamentavano l’impatto delle immissioni nocive provenienti dallo stabilimento Ilva di Taranto sulla salute della cittadinanza e sull’ambiente locale, evidenziando l’inerzia dello Stato nell’impedire la lesione di diritti fondamentali dei cittadini quali il diritto alla salute (art. 2 Convenzione) e del diritto alla vita privata sotto il profilo del diritto all’ambiente (art. 8 Conv.); ottenendo una sentenza la quale concludeva, in sostanza, che lo Stato italiano non aveva messo in atto le misure atte a proteggere il diritto al rispetto della vita privata dei cittadini, né aveva fornito agli stessi un rimedio interno efficace per la difesa di tale diritto, violando con la propria condotta gli artt. 8 e 13 della Convenzione; precisando, in particolare, che l’art. 8 comporta l’obbligo per lo Stato di attuare un bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello individuale, adottando una idonea regolamentazione dell’attività inquinante al fine di assicurare la protezione effettiva dei cittadini. In proposito, la CEDU precisa che allo Stato compete un certo margine di apprezzamento in quanto deve tener conto del “giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti dell’individuo e della società nel suo complesso”; ma ritiene che, in ogni caso, “spetta allo Stato giustificare, con elementi precisi e circostanziali, le situazioni in cui determinate persone devono sostenere pesanti oneri in nome degli interessi della società”.

Infine, il tema del “bilanciamento” si è posto a livello europeo anche con riferimento al principio di precauzione, sancito dall’art. 174, comma 2, del Trattato di Amsterdam, il quale, come evidenziato dalla Corte UE7 e dal Consiglio di Stato8, impone che “quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi”; e pertanto esso “impone alle autorità interessate di adottare, nel preciso ambito dell’esercizio delle competenze loro attribuite dalla normativa pertinente, misure appropriate al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la salute, la sicurezza e l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici9. Altro che bilanciamento.

E’, quindi, in questo quadro complessivo che va valutato il decreto in esame. E allora appare del tutto evidente la sua totale incompatibilità con i principi costituzionali ed europei in tema di tutela della salute e dell’ambiente. Tanto più che da pochi mesi il nostro paese ha finalmente introdotto, anche formalmente, la tutela dell’ambiente in Costituzione sancendo, nell’art. 9 che “la Repubblica … tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.” E riformulando l’art. 41 nel senso che “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute e all’ambiente.La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali…” . Esattamente il contrario di quanto stabilisce il decreto legge in esame.

Ma c’è di più. Perché questa volta vi è palese contrasto anche con il principio sancito dall’art. 25 della Costituzione secondo cui “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge “ e cioè dal giudice che la legge individua in base a criteri certi ed oggettivi relativi al territorio in cui è stato commesso il fatto; mentre il decreto, come abbiamo visto, stabilisce che per gli impianti dichiarati di interesse strategico nazionale, addirittura la decisione finale sulla vita, sulla sicurezza e sulla tutela dell’ambiente dei cittadini da essi avvelenati venga demandata, in sede centrale, a Roma, che certamente non è in grado di rendersi conto della gravità della situazione locale.

Molto altro ci sarebbe da dire, anche perché questo decreto non si preoccupa affatto di come deve essere eseguito. Ad esempio, nel caso di impianto strategico attualmente già sottoposto a sequestro, il giudice ha il dovere di notiziare il Consiglio dei Ministri per l’eventuale invio degli atti al Tribunale di Roma (al riesame)? E cosa si deve fare per impugnare l’eventuale decreto del Tribunale di Roma?

Speriamo solo che qualcuno ci ripensi almeno in sede di conversione in legge del decreto. Per ora possiamo solo dire che, dopo questo ineffabile inizio, il nuovo governo ci ha dimostrato che al peggio non c’è mai fine.

1 in cui sono occupati un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno

2 Cfr. in proposito, anche per richiami, il nostro Ilva, salute, ambiente e Costituzione, in www.industrieambiente.it, gennaio 2013. Per una riflessione più ampia anche in relazione ai rapporti politica-magistratura, cfr. il nostro, La magistratura e il caso Ilva : prime riflessioni, in Questione Giustizia 2012, n. 5. In dottrina, si rinvia a Questione Giustizia, n. 2/2014, ed. Franco Angeli, Milano: Obiettivo: Il diritto alla salute alla prova del caso Ilva, con contributi di: B. DEIDDA-A. NATALE, Introduzione: il diritto alla salute alla prova del caso Ilva. Uno sguardo di insieme, S. PALMISANO, Del «diritto tiranno». Epitome parziale di un’indagine su cittadini già al di sopra di ogni sospetto, A. CIERVO, Esercizi di neo-liberismo: in margine alla sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva, L. MASERA, Dal caso Eternit al caso Ilva: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale, S. BARONE-G. VENTURI, Ilva Taranto: una sfida da vincere, G. ASSENNATO, Il caso «Taranto» e il rapporto ambiente-salute nelle autorizzazioni ambientali, P. BRICCO, Le logiche della magistratura e del diritto, le ragioni dell’impresa e del lavoro.

3 Cfr. in proposito, anche per richiami, e per le osservazioni critiche, il nostro Ilva, salute, ambiente e Costituzione, cit.

4 art. 3 del dl n. 92 del 2015, abrogato e riprodotto in maniera identica, come osserva la stessa Corte, dal dl 83 del 2015

5 Per approfondimenti e richiami, cfr. DE VITO, La salute, il lavoro, i giudici, in Questione Giustizia, 24 marzo 2018 e il nostro Ilva e il diritto alla salute.La Corte costituzionale ci ripensa?, ivi , 10 aprile 2018

6 CEDU, sez. 1, sentenza Cordella e altri c/ Italia, 24 gennaio 2019 in www.echr.coe.int. In dottrina cfr., anche per richiami, CARRER, Le armi spuntate dell’Italia contro l’inquinamento: la condanna della Corte EDU nel caso ilva … in www.giurisprudenzapenale.com, 19 febbraio 2019

7 CGCE, 9 settembre 2003, Monsanto, e 10 aprile 2014, Acino

8 Consiglio di Stato n. 4227/2013 e 826/2018

9Trib. UE, sez. 1, 16 settembre 2013, Animal Trading Company