Giustizia ambientale e giustizia climatica: così vicine, così lontane

di Alberto GALANTI

pubblicato su Ordine internazionale e diritti umani. Si ringraziano Autore ed Editore.

Sommario: 1. Introduzione. 2. Le fonti normative: la Costituzione della Repubblica italiana. 3. Segue: le fonti sovranazionali. 4. Il “carbon budget, l’obbligazione climatica e la “climate litigation”. 5. I casi più famosi di “climate litigation” in materia civile e di diritti umani. 6. La Giustizia climatica in Italia: il caso «Giudizio Universale». 7. La giustizia climatica in materia penale. 8. Clima e ambiente. 9. Inquinamento e disastro ambientale. 10. Il delitto di «ecocodio». 11. Conclusioni e ipotesi

1. Introduzione

L’ultimo decennio ha visto, soprattutto in Italia, una forte implementazione dello strumentario penale (normativo e sanzionatorio) a tutela dell’ambiente.

In particolare, chi scrive ha già sottolineato come con la legge n. 68 del 22 maggio 2015 (rubricata “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”) il legisla­tore «ha espresso a chiare note l’intenzione di spostare il baricentro della normativa penale direttamente sulle matrici ambientali e le loro interazioni»1.

Accanto alla tutela delle matrici ambientali e della loro sinergica integrazione, nell’ultimo decennio si è tuttavia fatta strada la tendenza ricercare la tutela anche delle persone a fronte dei registrati cambiamenti climatici, fenomeno che ha preso il nome di «climate litigation» (v. infra) e che potrebbe definirsi come la sottoposizione a un giudice di una questione giuridica afferente al tema del cambiamento climatico, in cui gli attori attribuiscono i conseguenti effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana ad attori pubblici (gli Stati nazionali o altri organismi pubblici) o privati (aziende private, spesso multinazionali).

Tale trend ha per ora interessato la sola giustizia civile.

Scopo della presente riflessione è verificare, dopo una rapida analisi dello “stato dell’arte” della giustizia climatica, se sia possibile ipotizzare, per il prossimo futuro, una analoga espansione anche nel diritto penale.

Operazione preliminare è tuttavia costituita dalla verifica delle fonti del diritto alla protezione degli individui a fronte dei cambiamenti climatici.

2. Le fonti normative: la Costituzione della Repubblica italiana

Il punto di partenza non può che essere rappresentato dalla Costituzione della Repubblica italiana e le sue successive modificazioni, e in particolare la L.C. n. 1/2022.

Come si è già avuto modo di sottolineare2, che l’ambiente costituisse, nella costituzione «vivente», un bene primario dell’ordinamento giuridico italiano, è stato affermato dalla Consulta oltre 35 anni fa in riferimento all’articolo 9 della Costituzione.

La Consulta, in particolare, con la nota sentenza n. n. 641/1987 ha riconosciuto nell’ambiente «un bene immateriale che ha rilevanza giuridica soltanto per il riconoscimento contenuto nella stessa legge n. 349 del 19869 e che rientra fra le res communia omnium … unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità».

Per il Giudice delle leggi, il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in va­rie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione. L’ambiente è quindi «protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è ne­cessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto. Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo a coloro che lo hanno in cura, specifici obblighi di vigilanza e di interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la tutela concreta ed efficiente. L’ambiente è, quindi, un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme. Non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. “beni liberi”, è fruibile dalla collettività e dai singoli».

Con sentenza n. 378/2007, la Corte ha spostato nettamente in avanti il baricentro della sua giurisprudenza, affermando che «quando si guarda all’ambiente come ad una “materia” di riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti. In questo senso, del resto, si è già pronunciata questa Corte con l’ordinanza n. 144 del 2007, per distinguere il reato edilizio da quello ambientale».

Ha rilevato la dottrina 3 come oggetto di tutela, secondo la Corte, sia la “biosfera”, che «viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via. Occorre, in altri termini, guardare all’ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto»4.

Come appare evidente, la Corte si è spostata da una concezione «statica» dell’ambiente, ad una «dinamica», in cui i suoi vari componenti interagiscono sinergicamente in modo sistemico.

Dal canto suo, la Cassazione civile ha ritenuto che «l’ambiente in senso giuridico costituisce un insieme che pur comprendendo diverse componenti si distingue ontologicamen­te da questi e si identifica in una realtà priva di consistenza materiale, ma espres­siva di un autonomo valore collettivo»5.

Tuttavia, lo stesso nome «ambiente» non compariva nella nostra Carta Fondamentale se non, a seguito della riforma del 2001 del Titolo V della Carta (l.c. n. 3/2001), come indicato tra le materie di potestà legislativa esclusiva dello stato (art. 117).

Con la legge Costituzionale del 2022, invece, all’articolo 9 è stato aggiunto il seguente comma: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” (c.d. “unborn generations”).

All’articolo 41, secondo comma, si è poi precisato che l’esercizio dell’attività economica privata è libero, ma non può svolgersi «in modo da recare danno alla salute, all’ambiente».

Il riferimento alle generazioni future può, prima facie, sembrare pleonastico, o tutt’al più una «norma manifesto».

Al contrario, la norma introduce un vero e proprio “diritto pubblico soggettivo” in favore delle generazioni “to come”. Sul punto, la dottrina ha affermato che «la vera specificità dell’ambiente come bene giuridico collettivo, che lo distingue dai beni giuridici individuali, è che non è limitato alle generazioni attuali, ma le trascende, poiché l’ambiente è una condizione per la vita delle generazioni future, non solo nel senso della sussistenza, ma anche per il godimento e l’esercizio dei beni giuridici di tali generazioni»6.

Sottolinea, l’Autore ultimo citato, come la pietra angolare di un nuovo modo di pensare ai diritti fondamentali a beneficio delle future generazioni, risiede nel diritto alla vita, da intendersi tuttavia non più in modo “antropocentrico”, centrato sull’umano attuale, bensì sulle generazioni future, l’equilibrio del pianeta e il regno della vita. In questo senso, conclude l’Autore, «biodiversità ed equilibrio climatico sono tutte risorse legate all’interdipendenza con il futuro dell’umanità».

Altri 7 hanno sottolineato come «nel momento in cui si prevede che la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, in qualche modo si inseriscono nell’art. 9 Cost. sia una responsabilità intragenerazionale, sia una intergenerazionale», a sottolineare la natura (anche) “diacronica” del diritto all’ambiente.

La modifica all’articolo 41 Cost. è altrettanto importante perché consente di superare, almeno in parte, le pronunce della Corte Costituzionale sul c.d. “Caso Ilva”.

Con la sentenza n. 85/2013, relativa alla vicenda Ilva di Taranto, la Corte aveva risolto il conflitto tra l’articolo 32 e l’articolo 41 della Costituzione ritenendo necessario operare, di volta in volta, «un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso», precisando che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri». Secondo la Corte del 2013, occorreva garantire «un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto».

Con la successiva sentenza n. 58/2018, la Corte Costituzionale ha ritenuto che non può «ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Per essere tale, il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012)».

Nel caso di specie, il Giudice delle leggi riteneva che l’attività d’impresa «ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona».

Con la modifica ultima della Costituzione, l’ultimo arresto assume contorni più decisi: non è stabilito che, a priori, l’ambiente e la salute debbano sempre prevalere rispetto all’iniziativa economica privata, ma nel procedere al bilanciamento tra i due valori costituzionali, nella ideale «stadera» su cui operare il balancing si è inserito un punto di arresto inferiore, al di sotto del quale non si può scendere, quello del danno all’ambiente o alla salute.

3. Segue: le fonti sovranazionali: l’obbligazione climatica e i diritti umani

Sul versante delle fonti del diritto internazionali e sovranazionali, va in primis considerato l’articolo 3 del Trattato UE, secondo cui «nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo … allo sviluppo sostenibile della Terra” e “promuove “la solidarietà tra le generazioni», in modo simmetrico al nuovo stile dell’articolo 9 della Costituzione nazionale.

Inoltre, l’Italia, con legge n. 65/1994, ha ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 (UNFCCC), nota anche come “Accordi di Rio” e, con legge n. 204/2016 (v. infra , par. 4), l’Accordo di Parigi sul clima del 2015 (Accordo di Parigi); tali accordi sono stati altresì ratificati da parte dell’UE.

L’UNFCCC e l’Accordo di Parigi hanno stabilito che gli Stati membri hanno l’obbligo di contrastare efficacemente i cambiamenti climatici globali, fissando soglie precise e tempi altrettanto precisi.

L’Unione europea, dal canto suo, «ha anche adottato specifici Regolamenti in materia climatica, primi fra tutti i nn. 2018/842 , 2018/1999 e 2020/852 . In essi, i contenuti di mezzi e risultato delle obbligazioni climatiche internazionali (a partire dai doveri di mitigazione nella finestra temporale del 2030 per il 2050 con l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura a non più di 1,5°C massimo 2°C) sono testualmente tradotti in un vincolo giuridico euro-unitario, giustiziabile ai sensi dell’art. 258 TFUE e con efficacia interna agli Stati»8.

La citata dottrina evidenzia come ai vincoli imposti dai citati Regolamenti UE «devono dunque sottostare gli Stati, ma lo devono fare “onorando”, come intitola proprio il Regolamento 2018/842, l’Accordo di Parigi. Ecco allora che la ratio del diritto climatico “europeizzato” risulta strumentale all’effettivo adempimento delle fonti del diritto climatico internazionale. Questo significa che gli obblighi europei non si sostituiscono alle obbligazioni climatiche di UNFCCC e Accordo di Parigi, bensì le “specificano” all’interno dello spazio giuridico europeo, in ordine al contenuto (“ridurre” le emissioni) e al termine temporale per adempiervi (il 2030): e le “specificano” ovviamente nel rispetto del riparto di competenze, di cui agli artt. 4 (n. 2 lett e ) e 191 TFUE».

Tale profilo amplia, decisamente, lo spettro dell’azionabilità di pretese relativo al rispetto di obblighi sempre più stringenti in capo agli Stati.

Quale fonte subnormativa, va senz’altro ricordato il Report del “Panel intergovernativo sul cambiamento climatico” (IPCC panel, composto da membri di 192 Paesi, tra cui anche l’Italia), il quale è l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa della valutazione scientifica dei cambiamenti climatici, espressamente deputato a predisporre rapporti di valutazione completi sullo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche e socio-economiche sui cambiamenti climatici, sui loro impatti e sui rischi futuri, e sulle opzioni per ridurre il ritmo dei cambiamenti climatici in atto9.

4. Il “carbon budget, l’obbligazione climatica e la “climate litigation”

Correlato agli obiettivi di riduzione del cambiamento climatico è il concetto di “Carbon Budget”. Esso consiste nella quantificazione del livello di gas serra ancora emettibile per non superare, rispetto alla concentrazione di CO2 equivalente esistente, un determinato aumento della temperatura globale (“target”). Più basso è il target (ad esempio, contenimento dell’aumento della temperatura entro +1,5°C), minore sarà il “Carbon Budget” disponibile rispetto a target più elevati (per esempio contenimento entro +2°C).

Detto in altro modo, il “Carbon Budget” è dato dalla differenza tra il livello di concentrazione di CO2-eq già esistente ed il livello massimo di concentrazione in atmosfera compatibile con il target di aumento della temperatura concordato10.

Come è stato rilevato in dottrina11, da tutte queste fonti scaturisce la c.d. «obbligazione climatica» gravante sugli Stati, caratterizzata da una struttura tridimensionale in cui rilevano «il sistema climatico statale, ossia l’area di emissioni di gas a effetto serra, il fattore tempo, vale a dire il termine entro cui adempiere all’obbligo, che nel contesto dell’Unione europea implica il drastico abbattimento delle emissioni entro il 2030 per confidare nel raggiungimento della neutralità climatica nel 2050, i soggetti coinvolti, sia della presente che delle future generazioni»12.

Tale obbligazione non può che scaturire dal continuo rinvio a dati scientifici esterni al diritto, che può rinvenirsi «nei primi tre articoli della UNFCCC: l’art. 1 si affida alla scienza per stabilire il significato di concetti rilevanti ai fini della Convenzione, quali il cambiamento climatico, i sistemi climatici, emissioni e gas serra; l’art. 2 afferma che l’obiettivo ultimo della Convenzione è quello di stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane nel sistema climatico. Un tale obiettivo non può che essere in linea con le conclusioni dell’IPCC che chiariscono l’entità della riduzione e il limite temporale relativo agli obiettivi fissati; l’art. 3 nell’enunciare il principio di “precauzione climatica”, stabilisce gli obiettivi e il metodo che gli Stati devono perseguire attraverso un approccio science based , ossia, attraverso un rinvio alla scienza. La norma individua, altresì, una causalità materiale affidata alle evidenze scientifiche e, cioè, all’identificazione da parte della scienza dei rischi di danni gravi o irreversibili che devono essere scongiurati, cui si aggiunge l’analisi del rapporto costi-benefici a livello mondiale»13.

Non può, inoltre, non sottolinearsi, in uno con la dottrina, che «il cambiamento climatico costituisce anche un problema di diritti umani. Le siccità e gli altri fenomeni climatici estremi, oltre a gravi danni per la vita e la salute, hanno un enorme impatto sulla sicurezza alimentare – il diritto umano a essere liberi dalla fame – e stanno causando numerosi eventi migratori»14, circostanza che, come si vedrà in appresso, sposta il focus dell’attenzione (anche) verso la Corte europea dei diritti dell’Uomo.

Tale correlazione tra inadempimento dell’obbligazione climatica e violazione dei diritti umani costituisce la base legale della tutela giurisdizionale, come si vedrà nei paragrafi che seguono.

L’attestarsi della scienza verso posizioni di deciso riferimento degli sconvolgimenti climatici all’attività antropica, l’affermarsi nella coscienza collettiva dell’esistenza di una obbligazione climatica in capo agli stakeholders pubblici e l’aggravarsi dei fenomeni di riscaldamento globale o comunque di estremizzazione dei fenomeni climatici, ha dato quindi vita, negli ultimi anni, ad un fenomeno nuovo, la c.d. «climate litigation», locuzione che si riferisce a procedimenti giudiziari che riguardano specificamente la mitigazione del cambiamento climatico, l’adattamento o la scienza del cambiamento climatico15.

È stato evidenziato in dottrina 16 come le strategie processuali possono essere suddivise in “climate-aligned” e “non-climate-aligned”: «nel primo gruppo si inseriscono tutti i contenziosi che hanno come scopo quello di incentivare standard ambientali più elevati e progetti più ambiziosi. Nel secondo, invece, rientrano tutte quelle argomentazioni che chiedono un risarcimento per danni e/o che si basano sul mancato rispetto degli obblighi relativi ai diritti umani (se gli accusati sono organi statali) o due diligence (se si rivolgono a pratiche aziendali)».

L’insieme di tali azioni ed iniziative processuali prende il nome di “giustizia climatica”17.

Secondo l’UNEP, la piattaforma (background) degli attori in giudizio (plaintiffs) sta diventando sempre più eterogenea: alle ONG e ai partiti politici si aggiungono bambini, anziani, migranti e popolazioni indigene18.

Tale fenomeno investe tanto i giudici nazionali quanto quelli sovranazionali, e segnatamente la Corte di giustizia UE e la Corte EDU.

Sul punto, la dottrina 19 ha evidenziato che i giudici europei (CEDU e Corte di giustizia UE) «sono regolatori del rischio nella doppia dimensione “bipolare”, del rapporto tra attore e convenuto, e “multipolare”, dello scenario fattuale del cambiamento climatico20. Tuttavia, il compito dei giudici europei è “dichiarare”, ma non “annullare” atti, l’approccio “multipolare” appare percorribile perché, di fatto, più simbolico che effettivo. Il mancato rispetto della responsabilità climatica condivisa in termini di violazione dei diritti umani CEDU permetterà, infatti, di consolidare parametri normativi già esistenti, accertati in una proiezione di specificazione regionale. Niente di più. Per andare oltre, sarà necessario riutilizzare quella giurisprudenza convenzionale in sede domestica dei singoli Stati, dove provare a invocare l’interpretazione “climaticamente orientata” del parametro CEDU nel quadro di specifiche responsabilità civili o pubbliche di diritto interno».

La giustizia civile, in particolare, ha subito in proposito una drastica impennata su scala mondiale.

4. I casi più famosi di “climate litigation” in materia civile e di diritti umani

Un primo respiro di “aria nuova”, in Europa, si è avuto verso la fine del 2019. Ci si riferisce al c.d. “Caso Urgenda”, giudicato dalla Corte di Cassazione olandese (Climate case Urgenda, proc. 19/00135, sentenza 20 novembre 2019), chiamata a confermare o riformare la sentenza della Corte di Appello con cui lo Stato era stato condannato a ridurre, entro la fine del 2020, le emissioni di gas serra provenienti dal suolo olandese di almeno il 25% rispetto al 199021.

La Corte olandese, con un approccio «rivoluzionario», ha ritenuto che secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), uno Stato contraente è obbligato dalle disposizioni della Convenzione (artt. 2 e 8) ad adottare misure adeguate quando esiste un rischio reale e immediato per la vita o il benessere delle persone e lo Stato è consapevole di tale rischio.

L’obbligo di adottare misure adeguate si applica, e questo è uno degli snodi fondamentali della pronuncia, «anche quando si tratta di rischi ambientali che minacciano un gran numero di persone o la popolazione nel suo insieme, anche se i rischi si materializzeranno solo nel corso del lungo termine».

La Corte ricorda anche che i Paesi Bassi sono parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 (UNFCCC, nota anche come “Accordi di Rio”), il cui obiettivo è di mantenere la concentrazione di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire uno sconvolgimento del sistema climatico dovuta all’azione umana. La Convenzione si basa sulla premessa che tutti i Paesi membri devono adottare misure per prevenire il clima cambiamento, in conformità con le loro specifiche responsabilità e opzioni. Ogni paese è quindi responsabile pro quota.

Ciò significa, prosegue la Corte, che un paese non può sfuggire alla propria parte della responsabilità in ordine alle misure da adottare sostenendo che, rispetto al resto del mondo, le sue proprie emissioni sono di portata relativamente limitata e che una loro riduzione comporterebbe uno scarso impatto su scala globale.

La Corte olandese conclude nel senso che «lo Stato è obbligato a conseguire la riduzione dei gas serra, a causa del rischio di pericolosi cambiamenti climatici che potrebbero avere un grave impatto sulla vita e il benessere dei residenti nei Paesi Bassi».

L’espresso riferimento alla Convenzione EDU, unitamente all’affermazione della potenziale responsabilità dello Stato verso un numero indeterminato di cittadini, ha gettato un sasso nello stagno, la cui onda lunga, come si vedrà tra poco, è arrivata a Strasburgo.

Anche la Corte Costituzionale tedesca è intervenuta con la sentenza resa nel marzo-aprile 2021 nel caso Neubauer et al. contro Germania (Neubauer et al. versus Germany), concernente l’ambito di applicazione dell’articolo 20a della Costituzione della Repubblica Federale di Germania, secondo cui «lo Stato tutela, assumendo con ciò la propria responsabilità nei confronti delle generazioni future, i fondamenti naturali della vita e gli animali mediante l’esercizio del potere legislativo, nel quadro dell’ordinamento costituzionale, e dei poteri esecutivo e giudiziario, in conformità alla legge e al diritto»22.

La causa era stata intentata da gruppi di attivisti tedeschi, altri minori e cittadini del Nepal e del Bangladesh, i quali ritenevano che la Legge Federale sul Clima del 2019 (Bundes -Klimaschutzgesetz) perseguisse obiettivi di riduzione delle emissioni insufficienti per scongiurare i peggiori effetti della crisi climatica, e di violare quindi i diritti e libertà fondamentali protetti dalla Costituzione.

Nello specifico, i principali diritti rivendicati includono il diritto alla vita ed all’integrità fisica, alla proprietà ma anche ad un «futuro rispettoso della dignità umana» e ad un «ecologico minimo standard di vita».

La Corte tedesca ha ritenuto fondata l’azione solo con riferimento la violazione del «principio di proporzionalità» della disposizione riguardante la riduzione delle emissioni dopo il 2030. In questo caso la Legge Federale sul Clima, pur perseguendo gli obiettivi di riduzione delle emissioni con degli strumenti legislativi considerati appropriati dalla Corte, finiva per “scaricare” un peso eccessivo sui diritti e le libertà della cittadinanza dopo il 2030, per via del target troppo basso pre-2030.

In pratica, il legislatore tedesco avrebbe ripartito in modo iniquo i costi della lotta al cambiamento climatico tra la presente generazione e quelle future23. La Corte, in particolare, ritiene che gli obbiettivi individuati dall’Accordo di Parigi abbiano “rilevanza costituzionale”, vincolando il legislatore a mettere in atto le riduzioni necessarie al fine di rimanere ben al di sotto dei 2° di aumento della temperatura globale individuati dall’Accordo come soglia massima.

In seguito al giudizio, il Parlamento tedesco ha modificato il paragrafo 3 della Legge Federale sul clima nell’agosto 2021, innalzando i target di riduzione delle emissioni: 65% entro il 2030 e 88% entro il 2040.

Il caso più importante è però costituito dalla causa Duarte Agostinho et al c/ Portogallo + 32 24, in cui i ricorrenti (sei giovani portoghesi) denunciano dinanzi alla Corte EDU che 33 Stati firmatari del Trattato di Parigi del 2015 (tra cui l’Italia), il cui preambolo stabilisce tra i “considerando” che «le parti dovrebbero, quando agiscono per affrontare i cambiamenti climatici, rispettare, promuovere e considerare i rispettivi obblighi in materia di diritti umani, diritto alla salute, diritti delle popolazioni indigene, comunità locali, migranti, bambini, ecc.», sarebbero venuti meno al loro obbligo di limitare il cambiamento climatico tramite la riduzione delle emissioni di gas serra (greenhouse gas emissions), in modo da riportare le emissioni al periodo pre-rivoluzione industriale, così violando gli articoli 2, 8 e 14 della CEDU. La causa è attualmente all’esame della Grande Camera.

Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, intervenuto quale terzo interessato, nel premettere che grazie alla giurisprudenza della Corte sugli articoli 2 e 8 della Convenzione, quest’ultima già ricomprende in larga parte il diritto ad un ambiente salubre, sottolinea che la Convenzione è uno «strumento vivo», le cui disposizioni devono essere interpretate e applicate in modo da rendere pratiche ed efficaci le sue salvaguardie, per poi concludere che:

- il degrado ambientale, e in particolare il cambiamento climatico, possono pregiudicare il diritto alla vita, il diritto alla vita privata e familiare, la libertà da trattamenti inumani o degradanti e il divieto di discriminazione. Il cambiamento climatico ha anche un impatto significativo su una varietà di aspetti sociali ed economici e diritti culturali;

- l’impatto negativo sempre più evidente del cambiamento climatico sui diritti umani pone quale onere speciale sugli stati di adottare misure preventive concrete, piuttosto che seguire un approccio frammentario che si limita a reagire ai reclami individuali;

- l’accordo di Parigi e altri strumenti chiave del diritto ambientale internazionale dovrebbero essere considerati come parametri di riferimento per valutare la performance degli Stati nell’adempimento dei propri obblighi in materia di diritti umani;

- la natura straordinaria del cambiamento climatico e le conseguenti sfide per i diritti umani creano la necessità di adeguare la tutela offerta dalla Convenzione: un’interpretazione rigorosa e formalistica dei requisiti di accesso quando sono in gioco violazioni umane causate dai cambiamenti climatici, in particolare quando si tratta di bambini, avrebbe l’effetto indesiderato di privarli ogni ragionevole prospettiva di cercare e ottenere un risarcimento per le violazioni dei loro diritti umani e delle libertà fondamentali enunciate nella Convenzione.

La Corte di giustizia dell’Unione europea, al contrario, si è attestata su posizioni di retroguardia. Nella sentenza del 25 marzo 2021 (C-565/19, Armando Carvalho e al. c. Parlamento e Consiglio), la Corte, adita da ricorrenti di diversi Paesi dell’Unione per l’annullamento di tre atti di diritto derivato (Direttiva n.2018/410, Regolamento n. 2018/841 e Regolamento n. 2018/842), con cui l’Unione aveva adottato gli obiettivi di contenimento delle emissioni assunti dagli Stati membri sulla base dell’Accordo di Parigi, ha dichiarato inammissibile il ricorso.

I ricorrenti ritenevano che «sull’Unione europea gravasse un obbligo giuridico di evitare le violazioni dei diritti fondamentali causate dai cambiamenti climatici, attivandosi per eliminare le cause dei cambiamenti medesimi»25.

La Corte, tuttavia, ha ritenuto che non sussistesse la legittimazione attiva dei ricorrenti ai sensi dell’articolo 263, par. 4, TFUE, ossia il requisito del c.d. “ direct and individual concern” (ossia che l’atto, pur non essendo adottato nei confronti del ricorrente, lo riguardi direttamente e individualmente), che, secondo la Corte, non può ritenersi soddisfatto per il solo fatto che la misura impugnata interferisca con il godimento di un diritto fondamentale avente carattere individuale.

Si tratta di una occasione persa. Chi scrive si augura che non manchi, nel prossimo futuro, un intervento “di merito” della Corte di giustizia UE.

5. La Giustizia climatica in Italia: il caso «Giudizio Universale»

Anche l’Italia sta giocando il suo ruolo nei casi di climate litigation . Nel caso “A Sud vs Stato Italiano”, l’Italia è stata citata in giudizio per non aver adempiuto la sua c.d. “obbligazione climatica”, consistente nell’adempimento degli obblighi assunti con la Convenzione UNFCCC e l’Accordo di Parigi, ma anche scaturenti dai report IPPC e dai regolamenti comunitari.

Gli attori, in particolare, dopo aver ampiamente illustrato i contenuti dell’obbligazione climatica dello Stato italiano, e la sua asserita violazione, impostano la causa nei termini di violazione degli articoli 2043, per non avere adottato azioni, né assunto provvedimenti adeguati al conseguimento della stabilità climatica mediante un abbattimento delle emissioni antropogeniche di CO2-eq compatibile con gli obiettivi previsti dagli accordi internazionali e, in particolare, per non avere attuato, né programmato, le misure necessarie per contenere l’aumento della temperatura globale a +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, individuati dallo Special Report del 2018 dell’IPCC, confermati poi dalle acquisizioni della migliore scienza, come soglia di tollerabilità e di sicurezza per il sistema climatico, limite invalicabile per garantire la tutela degli ecosistemi naturali, della sanità e del benessere del genere umano.

In subordine, si lamenta la violazione dell’art. 2051 c.c., in quanto lo Stato italiano riveste lo status di «custode della cosa» e, segnatamente, dell’ambiente. Esso sarebbe infatti titolare delle competenze funzionali per controllare ed eliminare qualsiasi aumento di emissioni e influire su tutte le condotte umane all’interno del proprio territorio, quindi nel contesto climatico italiano. La custodia statale, oltre ad essere qualificata dallo specifico status del soggetto cui è imputata, è altresì titolata dalla stessa UNFCCC, che pone espressamente a carico dello Stato il dovere (l’obbligo) di custodia del sistema climatico, articolato nei doveri primario e secondari costitutivi della obbligazione “complessa” di protezione.

Il processo è iniziato in questi giorni, e potrebbe costituire un leading case per l’Italia.

6 . La giustizia climatica in materia penale

Va doverosamente premesso che applicare alla giustizia penale gli standard relativi alla giustizia civile è operazione estremamente complessa. Ed infatti, esistono problemi sia di natura sostanziale che processuale che rendono davvero difficile ipotizzare (allo stato) la «giustiziabilità diretta» in sede penale pretese relative al cambiamento climatico.

Il diritto penale, in primo luogo, è vincolato dal principio di legalità: nullum crimen sine lege26.

In secondo luogo, è ancorato al principio secondo cui la responsabilità penale è “personale”, con esclusione di responsabilità oggettiva o “di posizione”: in altre parole, occorre che il reato sia posto in essere con azioni o omissioni, ovvero in violazione dei doveri scaturenti da una “posizione di garanzia” scaturente dalla legge, da atto amministrativo o da accordo negoziale.

Sotto il versante processuale, poi, va sottolineata la grande differenza di “ standard probatorio” tra processo civile e processo penale: mentre il primo (con grande approssimazione) è retto dalla regola del “più probabile che non”, il secondo è dominato dal principio costituzionale dell’art. 111, secondo cui la responsabilità penale va provata “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Ciò determina la necessità di provare che l’evento (in senso materiale o giuridico) sia legato da un nesso di causalità con la condotta attiva ovvero omissiva dell’agente di reato.

Occorrerebbe, in altre parole, dimostrare che:

1. è prevista come reato la condotta di chi ostacola o ritarda le azioni volte alla mitigazione dei cambiamenti climatici;

2. che vi sia prova (almeno come “fatto notorio”) che i cambiamenti climatici “estremi” siano riconducibili alla pressione antropica;

3. che esiste una “obbligazione climatica” in capo allo Stato o al soggetto privato;

4. che tale soggetto sia venuto meno a tale obbligazione;

5. che l’evento di altri reati (come, ad esempio, ipotesi di disastro ambientale, quale quello che si è abbattuto questa estate sulle Marche) sia causalmente ricollegabile all’inerzia dello Stato;

6. che, in caso di condotta alternativa corretta, l’evento non si sarebbe verificato.

Come appare evidente, la strada è fortemente in salita (per usare un eufemismo).

Del resto, la dottrina ha chiaramente evidenziato la differenza di fondo che sussiste tra “giustizia climatica” e “giustizia ambientale”27.

Ciò non significa che non sussistano strumenti “indiretti” che consentano comunque un accesso alla giustizia climatica, sia sotto un profilo “oggettivo”, che sotto un profilo “soggettivo”.

In altre parole, se il sistema penale non è ancora pronto per una “giustizia climatica”, occorre valutare se sia possibile utilizzare lo strumento della “giustizia ambientale” per ottenere, indirettamente, una tutela della prima.

Ma per comprendere ciò, occorre partire da una premessa.

7 . Clima e ambiente

Presupposto, per valutare la percorribilità dell’ipotesi formulata, è verificare se i due termini, ossia «ambiente» e «clima», esprimano concetti, in tutto o in parte, sovrapponibili.

In dottrina si è affermato che essi esprimono concetti correlati ma distinti. Si è detto, in particolare28, che il clima, attendendosi alla definizione dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, costituisce la «statistically significant variation in either the mean state of the climate or in its variability, persisting for an extended period» («variazione statisticamente significativa o nello stato medio del clima o nella sua variabilità, che persiste per un periodo prolungato»). Ancora, si è detto che il clima rappresenta il contesto in cui si trovano gli elementi che compongono l’ambiente, però è da essi distinto. La qualità del suolo, delle acque o dell’aria può mutare con il cambiamento climatico, ma si tratta per l’appunto di piani distinti29.

In realtà, l’opinione espressa, a modesto avviso di chi scrive, risente di un vizio di fondo.

Essa, infatti, confonde la nozione di «clima» con quella di «cambiamento climatico».

Il Clima viene infatti definito (definizione ufficiale fornita dalla Organizzazione meteorologica mondiale , OMM) come «lo stato medio del tempo atmosferico a varie scale spaziali (locale, regionale, nazionale, continentale, emisferico o globale) rilevato nell’arco di almeno 30 anni».

Il «sistema climatico» comprende l’atmosfera (l’aria), l’idrosfera (l’acqua), la criosfera (i ghiacci e i ghiacciai), la litosfera (il suolo), la biosfera (gli esseri viventi) e i processi tra queste sfere.

L’ambiente, a sua volta, non è definito a livello nazionale se non per aspetti particolari della legislazione.

La Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 378/2007, ebbe ad affermare che oggetto di tutela costituzionale è la «biosfera»30.

L’articolo 5 del d. lgs. n. 152/2006 definisce l’ambiente, ai limitati fini di cui al Testo Unico, come «l’alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesag­gistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti».

Come appare evidente, gli elementi climatici sembrano appartenere ad una nozione ampia del bene ambiente, sia perché ne partecipano e le condizioni di vita e salute delle diverse matrici, sia perché esso stesso, nelle sue componenti fisiche (i fattori climatici), ne costituisce parte essenziale.

Deve quindi concludersi nel senso che sussiste la astratta possibilità di applicazione della normativa in materia ambientale anche al clima senza incorrere nel divieto di applicazione analogica in malam partem, previsto in materia penale.

Tuttavia, oltre alle difficoltà dianzi evidenziate, nel caso in cui si dovesse ritenere lo Stato, o altri enti pubblici, responsabili, non sarebbe possibile esercitare nei loro confronti l’azione penale per gli illeciti amministrativi da reato ai sensi del decreto legislativo n. 231/2001 (ove inclusi nel catalogo del decreto), posta l’espressa esclusione prevista dall’articolo 1, comma 3 («[Le disposizioni di cui al presente decreto …] non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale»).

Sul punto, chi scrive ritiene che sia possibile, astrattamente, una tutelabilità in sede penale contro i cambiamenti climatici solo laddove risulti soggettivamente e oggettivamente ascrivibile a persone fisiche individuate uno dei delitti previsti dalla legislazione penale ambientale, i cui principali istituti si analizzeranno nel paragrafo che segue.

8 . Inquinamento e disastro ambientale

Come cennato, la l. n. 68/2015 ha introdotto una serie di delitti concernenti l’ambiente nel codice; tra di essi, i più rilevanti sono sicuramente l’“inquinamento ambientale” e il “disastro ambientale”.

Nel rinviare a più penetranti contributi31, basti ai presenti fini evidenziare che il primo di essi (previsto all’articolo 452- bis cod. pen. nella forma dolosa e nell’articolo 452- quinquies in quella colposa) sanziona con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 la condotta di «chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili:

1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sot­to-suolo;

2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

È inoltre previsa una aggravante se il fatto è commesso su zone sottoposte a vincolo ambientale.

Senza scendere in dettaglio, il reato di inquinamento prevede, quale evento, in primo luogo una «compromissione o deterioramento» della matrice ambientale; in realtà i due termini costituiscono sostanzialmente una endiadi: essi descrivono infatti in lingua italiana il termine inglese «damage», o quello francese «dommage», utilizzati nella Direttiva 99/2008/CE (art. 3, lettera a) nella definizione del reato (offence) di danneggiamento ambientale. La stessa Cassazione32, del resto, riconosce che i due termini «indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti in quanto si risolvono entrambi in una alterazione, ossia in una modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema».

Essi, inoltre, devono essere «significativi e misurabili», laddove anche in questo caso i due vocaboli formano una sorta di endiadi: «significativo e misurabile» altro vuol dire se non «effettivo»: la coppia di aggettivi utilizzati dal legislatore nazione serve a tradurre nel linguaggio normativo italiano il termine «substantial» contenuto nel testo inglese della direttiva n. 99/2008/CE e riferito al danneggiamento ambientale.

Nella formulazione della norma troviamo quindi l’evento descritto attraverso due endiadi composte da una coppia di vocaboli (compromissione/deteriora-mento, significativo/misurabile) che traducono la locuzione inglese «substantial damage».

Estranea alla fattispecie in parola è la «tendenziale irreversibilità» del danno, non rilevando «la possibilità di reversione del danno, anche se tale reversione avvenga non per opera dell’uomo, ma per la capacità della cosa di riacquistare la sua funzionalità nel tempo»33, se non come «uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’art. 452- quater cod. pen.»34. Come è stato icasticamente osservato35, «deterioramento e compromissione sono concetti diversi dalla “distruzione”; non equivalgono, in ultima analisi, a una condizione di “tendenziale irrimediabilità” che ... la norma non prevede».

La fattispecie di disastro ambientale, invece (art. 452- quater cod. pen., e, nella forma colposa, 452-quinquies) sanziona con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque, fuori dai casi previsti dall’articolo 434, «abusivamente cagio­na un disastro ambientale»; costituiscono disastro ambientale, alternativamente:

1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;

2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti parti­colarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;

3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’esten­sione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”.

Come già si è avuto modo di evidenziare36, i due primi eventi si pongono in senso «naturalistico», quali immutazioni del reale. In particolare, si richiede in entrambi i casi una «alterazione dell’equilibrio di un ecosistema», che in un caso deve esse­re «irreversibile», e nell’altro la cui eliminazione risulti «particolarmente onerosa» (in senso tecnico ovvero economico o gestionale/amministrativo) e «conseguibile solo con provvedimenti eccezionali» (c.d. «reversibilità complessa»).

Secondo la dottrina, in entrambi i casi si è in presenza di «una modifica significa­tiva, ad opera di un fattore esterno, dell’originario assetto dell’ecosistema che, agendo sul suo equilibrio, cioè sulla stabilità del suo stato, ne altera la interazione funzionale delle singole componenti»37 .

Il disastro sarà irreversibile sia quando le modifiche occorse all’ecosistema non possono essere elise neppure da attività riparatrici (irreversibilità assoluta «in senso proprio»), sia quando occorra, per una sua eventuale reversibilità, «il decorso di un ciclo temporale talmente ampio, in natura, da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano» (irreversibilità assoluta «in senso improprio»)38.

Il terzo possibile evento riguarda qualsiasi comportamento che, ancorché non produttivo degli specifici effetti descritti nei numeri precedenti - poiché, altrimenti, come rilevato da più parti in dottrina, una simile previsione sarebbe superflua - «determini un’of­fesa alla pubblica incolumità di particolare rilevanza per l’estensione della com­promissione o dei suoi effetti lesivi, ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo».

La Corte precisa, tuttavia, che la collocazione di tale condotta nell’ambito dello specifico delitto di disastro ambientale «deve necessariamente ritenersi riferita a comportamenti comunque incidenti sull’ambiente, rispetto ai quali il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta una diretta conseguenza, pur in assenza delle altre situazioni contemplate dalla norma»39.

Come si è già affermato40, per come la norma è costruita, ci si trova di fronte ad un caso di inquinamento ambientale così grave da determinare una offesa alla pubblica incolumità: pertanto, il «danno», che dovrà in ogni caso essere sussistente, non consisterà solo nell’alterazione irreversibile (in senso assoluto o relativo) dell’equili­brio di un ecosistema, ma dovrà comportare, per l’estensione della compromis­sione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo, un pericolo per la pubblica incolumità.

Ciò, del resto, conferma la so­stanziale «progressione criminosa» esistente tra le due fattispecie incriminatrici. E quindi l’«estensione della compromissione» avrà riguardo all’aspetto «quantitativo» del danno alla matrice ambientale. Al contrario, l’estensione degli «effetti lesivi» avrà ri­guardo all’aspetto più marcatamente «qualitativo»; infine, il numero delle persone offese o esposte a pericolo rimanda al c.d. «disastro sanitario»41, e considera alternativamente l’ipotesi del pericolo concreto (messa in pericolo di un numero indeterminato di persone) e del danno (offesa ad un numero rilevante di persone).

9 . Il delitto di «ecocodio»

I due delitti di cui al paragrafo precedente esistono nell’ordinamento italiano e in qualche altro ordinamento (l’inquinamento ambientale è stato implementato in tutti i Paesi aderenti all’UE, mentre il disastro no, in quanto non previsto dalla Direttiva 2008/98/CE), ma non in quello sovranazionale.

Tuttavia, a livello internazionale, si è fatta strada l’idea di sanzionare i più gravi attacchi all’ambiente mediante la previsione di un reato «universale»: quello di «ecocidio».

Va premesso che, correttamente, in dottrina si evidenzia come «il dibattito sul reato di ecocidio è assolutamente necessario e pertinente, ma la sua funzione risiede nella protezione degli elementi che compongono l’ambiente di fronte ad attacchi sistematici e generalizzati, non nella protezione del clima»42.

Ad ogni modo, il termine venne coniato negli anni settanta del secolo scorso 43 per indicare i più gravi attacchi all’ambiente.

Nel giugno 2021, l’ Independent Expert Panel for the Legal Definition of Ecocide ha infatti definito l’ecocidio come «qualsiasi atto illecito o doloso commessi con la consapevolezza che esiste una sostanziale probabilità che tali atti causino un danno grave e diffuso o a lungo termine all’ambiente».

Secondo il Panel, per «intenzionale» si intende un’incosciente mancanza di rispetto per un danno che sarebbe chiaramente eccessivo rispetto ai benefici sociali ed economici previsti; per «grave» si intende un danno che comporta alterazioni, perturbazioni o danni molto gravi a qualsiasi elemento dell’ambiente, compresi gravi impatti sulla vita umana o sulle risorse naturali, culturali o economiche; per «diffuso» si intende un danno che si estende al di là di un’area geografica limitata, che attraversa i confini dello Stato o che è subito da un intero ecosistema o specie o da un gran numero di esseri umani; per «lungo termine» si intende un danno irreversibile o che non può essere riparato attraverso il recupero naturale entro un periodo di tempo ragionevole; per «ambiente» si intende la Terra, la sua biosfera, criosfera, litosfera, idrosfera e atmosfera, nonché lo spazio esterno.

Come rammenta la dottrina44, questa è la definizione legale di ecocidio che gli esperti, riuniti nella coalizione “Stop ecocide”, nel giugno 2021 chiedono di inserire nello Statuto di Roma, cioè il trattato che definisce i principi, la giurisdizione, la composizione e le funzioni della Corte penale internazionale45.

L’inclusione dell’ecocidio nello Statuto di Roma aggiungerebbe un nuovo reato al diritto penale della Corte penale internazionale, il primo a essere adottato dopo il 1945.

La proposta avrebbe un enorme impatto giuridico e simbolico: «il gruppo di esperti raccomanda un nuovo paragrafo nel preambolo dello Statuto per introdurre i danni ambientali e il loro legame con i sistemi naturali e umani. E propone l’aggiunta dell’articolo 8 ter, cuore della definizione di ecocidio. La struttura della definizione proposta è simile all’articolo 7 “Reati contro l’umanità”: il primo paragrafo definisce il crimine elencando i punti salienti, il secondo paragrafo spiega in che modo interpretare i termini usati46».

Come appare evidente dalla formulazione, il delitto di ecocidio costituirebbe una sorta di «super-disastro» ambientale.

Si assisterebbe così ad una progressione criminosa inquinamento ambientale → disastro ambientale → ecocidio, a fronte di danni via via più gravi alle matrici ambientali e agli ecosistemi.

Va peraltro evidenziato come l’Assemblea generale dell’Onu ha adottato all’unanimità una risoluzione che chiede alla Corte internazionale di giustizia (ICJ), la più alta corte giudiziaria delle Nazioni Unite, un parere consultivo 47 che cerchi di stabilire le basi legali per la giustizia climatica e quali siano gli obblighi degli Stati rispetto al cambiamento climatico48.

D’altro canto, in data 29 marzo 2023 il Parlamento europeo ha adottato una posizione unanime sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, includendo una definizione di ecocidio come «qualsiasi comportamento che provochi danni gravi e diffusi o di lunga durata o irreversibili sarà trattato come un reato di particolare gravità e sanzionato come tale in conformità con gli ordinamenti giuridici degli Stati membri» e chiedendone l’inclusione nel catalogo dei reati inclusi nella nuova Direttiva UE che sostituirà la 2008/98/CE.

10. Conclusioni e ipotesi

Allo stato attuale appare molto difficile, ai limiti dell’impossibile, prevedere la possibilità di azionare in sede penale pretese punitive nei confronti di soggetti pubblici e privati che siano venuti meno alle loro obbligazioni climatiche.

È tuttavia possibile, astrattamente, ipotizzare l’eventualità che possano essere attivate in sede penale pretese civili mediante l’esercizio dell’azione civile in sede penale, quando la responsabilità del soggetto convenuto sia riconducibile ad uno dei delitti evidenziati al paragrafo che precede49.

Sarà quindi necessario allegare che il delitto di inquinamento o disastro (e, in prospettiva futura, di ecocidio) sia stato determinato o co-determinato (ex art. 41 comma secondo cod. pen.) dall’inottemperanza all’obbligazione climatica, con l’evidente difficoltà della dimostrazione del nesso causale tra inadempimento ed evento dannoso.

Potrebbe essere possibile, nel caso di processo promosso nei confronti di soggetti privati, per lo Sato costituirsi parte civile ai sensi dell’articolo 311 del d. lgs. 152/2006, che riserva allo Stato, e per esso al Ministro dell’ambiente, la legittimazione attiva all’azione di risarcimento del danno ambientale in senso stretto.

Così come analoga facoltà sarebbe attribuita all’ente pubblico territoriale che per effetto della condotta illecita abbia subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, diverso da quello ambientale (così Corte Costituzionale, sentenza n. 126/2016).

Anche i singoli cittadini potrebbero agire in giudizio per la lesione di altri diritti soggettivi «diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale»50. Tra questi diritti spicca, ovviamente, quello a vivere in un “ambiente salubre”, che si è visto ricavarsi dal combinato disposto degli articoli 9 e 32 Cost.51.

Inoltre, pretese di vario tipo potrebbero essere fatte valere da soggetti portatori di interessi collettivi, quali le «associazioni di pro­tezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni» (art. 13, comma 1, della legge 349/1986) individuate con decreto del Ministero dell’ambiente sulla base delle finalità pro­grammatiche e dell’ordinamento interno democratico previsto dallo statuto, le quali (art. 18, comma 5) possono «intervenire nei giudizi per danno am­bientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi», intervento che va identificato in quello previsto dall’articolo 91 del codice di procedura penale, a mente del quale «gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali, anterior­mente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato».

Inoltre la giurisprudenza, soprattutto amministrativa, ha ampliato la platea delle associazioni cui è riconosciuta la facoltà di intervento52, ritenendo che 53 «nel nostro ordinamento opera un duplice sistema di accertamento della legittimazione ad agire delle associazio­ni ambientaliste, nel senso che il potere di individuazione ministeriale, conferito dall’art. 13 della L. 349 del 1986, non esclude il potere del giudice di applicare direttamente la norma di cui all’art. 18, accertando, caso per caso, la sussistenza della legittimazione in capo ad una determinata associazione54.

Viene quindi riconosciuta legittimazione attiva a quelle associazioni, non rico­nosciute a livello nazionale, che:

a) perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale;

b) abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità;

c) dispongano di un’idonea struttura organizzativa;

d) dispongano di un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (c.d. “vicinitas”).

Gli enti e le associazioni ambientaliste possono anche costituirsi parte civile, ossia esercitare l’azione civile in sede penale55. In questo caso, il metro della legittimazione attiva delle associazioni ambientaliste è caratterizzato dalla riconducibilità delle stesse alla rappresentanza di “interessi collettivi”, ossia “interessi legittimi” la cui lesione può essere fonte di responsabilità aquiliana «giacché il danno ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. è quello che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, e in particolare senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo»56.

Diverso è il caso in cui convenuto possa essere lo Stato, per essere venuto meno all’obbligazione climatica.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, in proposito, ha esplicitamente stabilito 57 la sussistenza di un preciso obbligo positivo a carico dello stato di prendere tutte le misure necessarie a evitare rischi per la vita, in quanto l’art. 2 della Convenzione impone allo stato un dovere “primordiale” di dotarsi di un apparato legislativo e amministrativo tale da dissuadere a condotte che mettono in pericolo la vita dell’individuo.

Nella sentenza, la Corte ritenne che questo obbligo «deve essere interpretato come valevole nel contesto di tutte le attività, pubbliche o non, suscettibili di costituire un pericolo per il diritto alla vita, a fortiori per le attività industriali, pericolose per natura, quali lo sfruttamento dei siti di stoccaggio dei rifiuti».

Nella circostanza la Corte «ha distinto tra obblighi di prevenzione delle violazioni del diritto alla vita come risultato delle attività pericolose (c.d. «aspetto sostanziale» del diritto alla vita) ed obblighi di risposte giudiziarie effettive alle violazioni del diritto alla vita conseguenti alle attività pericolose (c.d. «aspetto procedurale» del diritto alla vita). Tra gli obblighi sostanziali, la dottrina individua «un “livello primario” di tutela, quale dovere a carico dello Stato di conformare il proprio ordinamento giuridico in maniera tale da dissuadere i consociati dalla commissione di reati contro la vita, attraverso la predisposizione di un quadro legislativo ed amministrativo (legal framework) finalizzato a prevenire le violazioni della Convenzione, e un “livello secondario” quale dovere delle autorità pubblica di prevenire nel caso concreto la violazione (nel caso del diritto alla vita, il dovere da parte dell’autorità di polizia di prevenire nel singolo caso le aggressioni al bene vita in pericolo)»58.

È quindi possibile astrattamente ipotizzare che, laddove condotte negligenti dello Stato abbiano concretizzato un venir meno da parte dello Stato-apparato degli obblighi di apprestare una tutela primaria a vantaggio dei cittadini (di cui va fornita la prova), sia possibile per i soggetti danneggiati citare l’ente pubblico quale responsabile civile per ottenere il risarcimento del danno.

1 A. Galanti, I delitti contro l’ambiente , Pacini Giuridica, 2021, pag. 59.

2 A. Galanti, I delitti contro l’ambiente , cit., pag. 11.

3 Così F. Albanese, Il diritto di accesso agli atti e alle informazioni ambientali , in lexambiente.it, 2/10/2015.

4 Corte Costituzionale, sentenza n. 378/2007, cit.

5 Sez. 3 civ., sentenza n. 4362 del 09/04/1992.

6 D. Borrillo, La tutela delle generazioni future nel diritto ambientale europeo , in HAL Open Science, p. 1-2.

7 L. Bartolucci, Le generazioni future (con la tutela dell’ambiente) entrano “espressamente” in Costituzione , su Forum Costituzionale, 03/05/2022.

8 M. Carducci, Libertà “climaticamente” condizionate e governo del tempo nella sentenza del BVerfG del 24 marzo 2021 , in lacostituzione.info, 3/05/2021.

9 L’ultimo Report è datato marzo 2023, e, per il medio termine, stabilisce che «Il cambiamento climatico è una minaccia per il benessere umano e la salute del pianeta (attendibilità molto elevata). L'opportunità di garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti si sta rapidamente chiudendo (attendibilità molto elevata). Lo sviluppo resiliente al clima integra l'adattamento e la mitigazione per promuovere uno sviluppo sostenibile per tutti per far progredire lo sviluppo sostenibile per tutti, ed è reso possibile da una maggiore cooperazione internazionale, compreso un migliore accesso a risorse finanziarie adeguate, in particolare per regioni, settori e gruppi vulnerabili, nonché una governance inclusiva e politiche coordinate (elevata attendibilità). Le scelte e le azioni messe in atto in questo decennio avranno un impatto ora e per migliaia di anni (elevata attendibilità).

e per migliaia di anni (attendibilità elevata)».

10 La definizione di “carbon budget” è mutuata dall’atto di citazione del processo “A Sud/Italia”, pag. 29.

11 M. F. Cavalcanti, Fonti del diritto e cambiamento climatico: il ruolo dei dati tecnico-scientifici nella giustizia climatica in Europa, in DPCE online, n. 2/2023, p. 332.

12 Così S. Baldin, P. Viola, L’obbligazione climatica nelle aule giudiziarie. Teorie ed elementi determinanti di giustizia climatica , in DPCE online, n. 3/2021, p. 612.

13 M. F. Cavalcanti, Fonti del diritto e cambiamento climatico, cit., p. 333.

14 A. N. Martín, Don’t look up: le risposte del diritto penale alla crisi climatica , in Sistema penale, n. 10/2022, p. 50.

15 Fonte: sito istituzionale dell’U.N. Enviromental Program (UNEP).

16 Vedi V. Napoli, Climate change litigation: il punto, in www.lasvolta.it . Il riferimento è al report pubblicato il 30 giugno 2022 dai ricercatori del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment e del Centre for Climate Change and Economics and Policy.

17 Il termine apparve per la prima volta nello scritto di K. Bruno, J. Karliner, C. Brotsky, Greenhouse Gangsters vs. Climate Justice , San Francisco, 1999. Secondo gli Autori, “giustizia climatica” significa:

1. eliminare le cause del riscaldamento globale e permettere alla Terra di continuare a nutrire le nostre vite e quelle di tutti gli esseri viventi. Ciò comporta una radicale riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di altri gas a effetto serra.

2. opporsi alla distruzione operata dai “banditi dell'effetto serra” (greenhouse gansters) in ogni fase del processo di produzione e distribuzione.

3. fornire assistenza alle comunità minacciate o colpite dai cambiamenti climatici

4. far sì che i Paesi industrializzati, che storicamente e attualmente sono i maggiori responsabili del riscaldamento globale, guidino la trasformazione.

Sul concetto si rinvia, tra gli altri, a T. Jafry (a cura di), Routledge Handbook of Climate Justice, Abingdon, 2019; J. Peel, H. M. Osofsky, A Rights Turn in Climate Change Litigation? , in Transnational Environmental Law, 2018, p. 37 ss.; M. Carducci, La ricerca dei caratteri differenziali della “giustizia climatica” , in DPCE online, n. 2020/2, il quale, a pagina 1346, evidenzia «la separazione lessicale, apparentemente banale ma tutt'altro che scontata, tra “giustizia” (“ambientale”, “climatica” ed “ecologica”) e “contenzioso” (“ambientale”, “climatico” ed “ecologico”), dato che il primo rappresenta il frutto della elaborazione del formante dottrinale, di derivazione giuridica e sociologica, mentre il secondo riflette le dinamiche reali del solo formante giurisprudenziale, così come analizzato dal primo».

18 In dottrina M. Carducci, La ricerca dei caratteri differenziali, cit., p. 1355, rileva come i cases siano articolati secondo una struttura “ad albero” su nove livelli:

«1. collocazione geografica della controversia;

2. natura del convenuto (Stato, impresa, privato);

3. attori del contenzioso (cittadini e associazioni, amministrazioni locali, investitori pubblici o privati, azionisti o gruppi di azionisti di Corporation);

4. contenuti del contenzioso (includendovi temi i più diversi: dalla tutela dei diritti umani all’accesso alle informazioni, alla regolarità delle autorizzazioni amministrative, ecc.);

5. parametro utilizzato (fonti internazionali, Duty of Care, Due Diligence di fonte interna, contratti);

6. comportamento censurato (commissivo, negligente, omissivo);

7. responsabilità giuridica eccepita (contrattuale, extracontrattuale, oggettiva);

8. lesione concreta lamentata (disturbo della quiete pubblica, turbativa dei diritti d'uso e godimento di proprietà, immissione in commercio di prodotto difettoso, superamento soglie di emissione, fumi e immissioni moleste, arricchimento senza causa, atti emulativi e abuso di diritto, trasparenza e verità nella informazione);

9. evento dannoso lamentato (locale, come conseguenza di emissioni globali di CO2, oppure il contrario, globale, in quanto incremento proveniente dal comportamento locale)».

19 M. Carducci, I giudici europei tra emergenza climatica e “consequenzialismo ”, in lacostituzione.info, 08/04/2021.

20 Richiamando E.R. De Jong, Tort Law and Judicial Risk Regulation. Bipolar and Multipolar Risk Reasoning, in Light of Tort Law’s Regulatory Effects, in European Journal of Risk Regulation , 2018, p. 14 ss.

21 Per un approfondimento sull’importanza del caso, v. N. Rodríguez García, Responsabilidad del Estado y cambio climático: el caso Urgenda c. Países Bajos , in Revista catalana de dret ambiental, n. 2/2016, p. 1 ss.; P. Minnerop, Integrating the “Duty of Care” under the European Convention on Human Rights and the Science and Law of Climate Change: the Decision of The Hague Court of Appeal in the Urgenda Case , in Journal of Energy & Natural Resources Law, Vol. 37, 2019, p. 149 ss.; T. Scovazzi, L’interpretazione e l’applicazione ambientalista della Convenzione europea dei diritti umani, con particolare riguardo al caso Urgenda , in Riv. giur. amb., 2019, p. 619-633; F. Passarini, Ambiente, CEDU e cambiamento climatico, nella decisione della Corte Suprema dei Paesi Bassi nel caso Urgenda, in Dir. um. dir. int., 2020, p. 377-385; M. Morvillo, Climate change litigation e separazione dei poteri: riflessioni a partire dal caso Urgenda , in Forum di Quaderni costituzionali, 28 maggio 2019.

22 Per dei commenti sulla sentenza v. A. Rossa, I diritti delle generazioni future: il caso Neubauer et al. contro Germania , reperibile al sito www.strali.org, 15 giugno 2022; F. Cittadino, Il caso Neubauer e la recente riforma dell’art. 9 Cost., in lacostituzione.info, 14/07/2022; M. Carducci, Libertà “climaticamente” condizionate e governo del tempo , loc. cit.; L.M. Tonelli, La sentenza del 24 marzo 2021 del Bundesverfassungsgericht sul cambiamento climatico e la riforma dell’art. 9 Cost. in Italia: profili di convergenza tra l’ordinamento costituzionale tedesco e quello italiano , reperibile al sito www.diritti-cedu.unipg.it, 13 dicembre 2022.

23 F. Cittadino, Il caso Neubauer, cit., sottolinea come la Corte tedesca abbia evidenziato «non tanto una violazione diretta (obbligo di tutela positiva) delle disposizioni invocate dai ricorrenti, ma piuttosto una violazione dell’obbligo (negativo) per lo Stato di astenersi dall’interferire con le libertà fondamentali».

24 Sul caso Duarte e sullo stato della giustizia climatica v. W. Galka, Apocalypse Now: Climate Change, Eco-anxiety and Art.3 ECHR’s Prohibition of Degrading Treatment , consultabile on line sul sito della Oxford University, 22 dicembre 2022; R. Luporini, A. Savares, International Human Rights Bodies and Climate Litigation: Don't Look up? , in RECIEL, 2022; B. Mayer, Climate change mitigation as an obligation under human rights treaties? , in AJIL, 2021, p. 409 ss.

25 Così F. Gallarati, Caso Carvalho: la Corte di Giustizia rimanda l’appuntamento con la giustizia climatica , in DPCE online, n. 2/2021, p. 2605 ss.

26 Per una panoramica sull’origine del principio nella scienza penalistica italiana e nella Costituzione, v. G. Marini, Nullum crimen, nulla poena sine lege , in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978; P. G. Grasso, Il principio «nullum crimen sine lege» nella Costituzione italiana , Milano, 1972; F. Cordero, Legalità penale, in Enc. giur. , XVIII, Roma, 1990; G. Vassalli, Nullum crimen, nulla poena sine lege , in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, p. 281 ss; M. Boscarelli, Nullum crimine sine lege, in Enc. giur ., XXI, Roma, 1990.

27 M. Carducci, La ricerca dei caratteri differenziali della “giustizia climatica” , in DPCE on line, n. 2/2020, p. 1345 ss.

28 A. N. Martín, Don’t look up, cit., p. 49.

29 Ibidem, p. 54.

30 A. Galanti, I delitti contro l’ambiente, cit., p. 11.

31 A. Galanti, I delitti contro l’ambiente, cit., p. 67 ss.; L. Siracusa, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “‘ecodelitti”: una svolta “‘quasi’” epocale per il diritto penale dell’ambiente , in Diritto Penale Contemporaneo, 9 luglio 2015; A. Manna, La legge sui c.d. eco–reati: riflessioni critiche di carattere introduttivo , in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa (a cura di), Trattato di Diritto penale, Parte generale e speciale, Riforme 2008–2015 , Torino, 2015, p. 971 e ss.; L. Cornacchia, Inquinamento ambientale , in L. Cornacchia, Il nuovo diritto penale dell’ambiente , Zanichelli, 2018, p. 90.

32 Cass. Sez. 3^ Pen., n. 46170 del 21/09/2016, Simonelli, Rv. 268059 – 01.

33 Cassazione, Sez. 4^ Pen., n. 9343 del 21 ottobre 2010, Valentini; conf.: Sez. 3^ Pen., n. 15460 del 10/02/2016, Ingegneri, Rv. 267823.

34 Cassazione, Sez. 3^ Pen., n. 18934 del 15/03/2017, Catapano.

35 Cassazione, Sez. 3^ Pen., n. 50018 del 19/09/2018, Izzo, Rv. 274864 – 01.

36 A. Galanti, I delitti contro l’ambiente, cit., p. 92.

37 L. Ramacci, Il nuovo disastro ambientale, sul sito www.lexambiente.it, 10 novembre 2017.

38 Così M. Riccardi,I “disastri ambientali”: la Cassazione al crocevia tra clausola di salvaguardia, fenomeno successorio e concorso apparente di norme, in Diritto penale contemporaneo, n. 10/2017, p. 329 ss.

39 Cassazione, Sez. 3^ pen., n. 29901 del 03/07/2018, Nicolazzi.

40 A. Galanti, I delitti contro l’ambiente, cit., pp. 95-96.

41 Su cui v. Cassazione, sez. 1^ Pen., n. 7941 del 19/02/2015, Schmidheiny (il famoso “caso Eternit”).

42 A. N. Martín, Don’t look up, cit., p. 49.

43 Il termine, come evidenzia la dottrina (R. Guida, Ecocidio, una definizione giuridica , consultabile on line sul sito www.ecointernazionale.com , 10 Gennaio 2022) venne coniato nel 1970 dal biologo statunitense Arthur Galston per descrivere i danni causati dal cosiddetto “agente arancio”, un defoliante che l’esercito Usa sparse in enormi quantità sulle foreste tropicali durante la guerra del Vietnam. Nel 1973 fu Richard Falk, docente di Diritto internazionale a fornire la prima analisi legale di questo termine e a coniare il termine di «ecocidio» (R. A. Falk, Environmental Warfare and Ecocide - Facts, Appraisal and Proposals , in Rev. belg. dr. int., annex 1, p. 21–24, 1973).

44 R. Guida, loc. cit.

45 Rileva l’Autrice come il gruppo, presieduto dall’avvocato Philippe Sands QC (Regno Unito) e dalla giurista delle Nazioni Unite ed ex procuratrice Dior Fall Sow (Senegal), è stato convocato alla fine del 2020 in un momento fortemente simbolico, 75 anni dopo che i termini “genocidio” e “crimini contro l’umanità” furono usati per la prima volta a Norimberga.

46 R. Guida, loc. cit.

47 Tra le competenze della International Court of Justice rientra infatti anche quella di fornire pareri agli organi delle N.U. (Assemblea generale delle Nazioni Unite, Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o Istituti specializzati delle Nazioni Unite), i quali costituiscono uno dei principali strumenti con cui si accerta l'esistenza di norme internazionali. L’Italia, in data 25 novembre 2014, ha depositato presso il Segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite la dichiarazione di accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte internazionale di giustizia, prevista dall’art. 36, par. 2, dello Statuto della stessa Corte.

48 V. il documento «Human rights in the face of the climate crisis: a youth-led initiative to bring climate justice to the International Court of Justice», VV.AA., luglio 2022, riportato il 3 aprile 2023 sul sito Ambientenonsolo: «Giustizia climatica: risoluzione ONU chiede parere consultivo alla Corte internazionale».

49 Sul tema dell’azione civile nei processi per reati ambientali si rinvia a quanto già scritto: A. Galanti (a cura di), La tutela civile in sede penale , Wolters Kluwer, 2022, p. 229 ss.

50 Cassazione, Sez. 3^ Pen., sentenza n. 911 del 10/10/2017, dep. 2018, Tombari.

51 Sul punto v. G. Alpa, Il diritto soggettivo all’ambiente salubre: nuovo diritto o espediente tecnico?, in Resp. civ. prev., 1998, p. 4.

52 Sul punto si rinvia a quanto scritto ne La tutela civile in sede penale , cit., p. 237 ss.

53 TAR Piemonte, Sez. 2^, sentenza 26 maggio 2008, n. 1217.

54 cfr. sul punto, Consiglio di Stato, sez. 2^, sentenza 7 febbraio 1996, n. 182.

55 V. Galanti, op. ult. cit., p. 239.

56 Cassazione, SS.UU. Civili, sentenza 22 luglio 99, n. 500.

57 Grande Camera, sentenza 30/11/2004, Oneryildiz c. Turchia, ric. n. 48939/1999.

58 V. Manca, La tutela delle vittime da reato ambientale nel sistema Cedu: il caso Ilva, Riflessioni sulla teoria degli obblighi convenzionali di tutela , in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2018, p. 260 ss.