TAR Abruzzo, Sez. I, n. 682, del 11 luglio 2013
Beni Culturali.Vincolo archeologico e limitazioni legali della proprietà

Relativamente al vincolo archeologico, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell'affermare che il sostrato archeologico del terreno non costituisce un attributo del bene, suscettibile di apprezzamento economico, per la ragione che "le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico (...) ritrovate nel sottosuolo" fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c.c. e artt. 44- 49 legge 1089/1939) e la presenza nel sottosuolo di beni di riconosciuto interesse archeologico comporta una limitazione -non indennizzabile- alle facoltà del proprietario del suolo (art. 840 c.c.). Dunque, il vincolo archeologico «non è assimilabile ai vincoli c.d. espropriativi o di inedificabilità relativi a beni singoli», ma «si iscrive, a differenza di questi ultimi, tra le limitazioni legali della proprietà ed ha, quindi, natura conformativa, rientrando nell'area di riserva (relativa) di legge stabilita dall'art. 42, 2° comma, Cost., per garantire, mediante interventi diretti o attributivi di analoghi poteri all'autorità amministrativa, l'aderenza della proprietà privata alla funzione sociale, che concorre alla sua strutturazione e ne fonda la copertura costituzionale. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 00682/2013 REG.PROV.COLL.

N. 00340/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 340 del 2012, proposto da: 
Domenico Pasetti, Laura Marinucci, rappresentati e difesi dall'avv. Marcello Russo, con domicilio eletto presso avv. Francesco Camerini in L'Aquila, via Garibaldi,62;

contro

Ministero per i Beni e le Attività Culturali [Soprintendenza Per i Beni Archeologici dell'Abruzzo Ufficio Vincoli Sede di Chieti; Direz.ne Reg.le dell'Abruzzo], rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, presso la sede della stessa domiciliata per legge in L'Aquila, Complesso Monumentale S. Domenico;

per l'annullamento

del decreto in data 29.3.2012 n. 376

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero Per i Beni e Le Attivita' Culturali e di Soprintendenza Per i Beni Archeologici dell'Abruzzo Ufficio Vincoli Sede di Chieti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 marzo 2013 il dott. Alberto Tramaglini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



FATTO

I ricorrenti premettono di avere acquistato con atto pubblico del 30.7.2010 un appezzamento di terreno in comune di Capestrano, libero da vincoli di qualsiasi genere, esteso complessivamente mq. 16.000 ed avente destinazione agricola.

Con nota 19.1.2011 la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Abruzzo ha loro comunicato che detto terreno era stato identificato nell’anno 2003 come area sepolcrale con tombe a fossa, con presenze in una zona di resti murari, forse di epoca romana. La nota aggiungeva che un intervento di scavo condotto con il consenso del proprietario nel settembre 2010 aveva portato all’esplorazione di 56 sepolture intatte con corredi funebri datati fra il VI ed il II secolo a.c., precisando trattarsi di necropoli di nuova individuazione. Si dava atto della richiesta avanzata dalla proprietà di provvedere a scavi di verifica a proprie spese, ritenendo tuttavia trattarsi di proposta non praticabile per i rischi di danneggiamento che ne sarebbero derivati. La nota informava che non era pertanto possibile alterare lo stato dei luoghi, riservando l’adozione di formali misure di salvaguardia.

Con decreto 7.9.2011 veniva quindi disposta l’occupazione del terreno per la durata di 30 giorni finalizzata allo svolgimento di ricerche archeologiche.

Con nota 19.10.2011 la Soprintendenza riassumeva gli accertamenti effettuati assicurando il ripristino e la riconsegna al proprietario, precisando che, in attesa dell’apposizione di formale vincolo archeologico, non sarebbe stato possibile lavorare il terreno per un profondità superiore a 40cm.

Con nota 19.12.2011 veniva comunicato l’avvio del procedimento finalizzato al vincolo dell’area a tutela e salvaguardia dei resti archeologici e del contesto ambientale circostante.

Con nota 21.12.2011 veniva riscontrata precedente nota di osservazioni a cui seguivano ulteriori osservazioni ed infine il decreto 29.3.2012, che concludeva il procedimento con l’apposizione del vincolo.

I ricorrenti ne chiedono l’annullamento deducendo vizi tanto di carattere procedurale (artt. 2 e 7 l. 241/1990) che attinenti al contenuto del provvedimento.

Si è costituito in giudizio il Ministero resistente che ha depositato gli atti del procedimento.

In vista dell’udienza di discussione parte ricorrente, con memoria, ha ulteriormente illustrato le proprie conclusioni.

'DIRITTO'

DIRITTO

1. E’ opportuno esaminare preliminarmente la seconda parte del ricorso con cui è censurato il contenuto del provvedimento di vincolo, mentre l’altra questione, introdotta con l’invocazione delle norme relative all’obbligo di tempestiva comunicazione di avvio del procedimento, in quanto (come appresso si dirà) insuscettibile di determinare l’annullamento del provvedimento, sarà oggetto di successiva trattazione.

1.1 – Il provvedimento impugnato si articola nei seguenti termini:

- riferisce “indagini di scavo che hanno portato al rinvenimento di 59 sepolture, intatte, riferibili all’età del Ferro (VIII-I sec. a.C.)” e, in superficie, un frammento di ascia risalente all’Età del rame (IV-III millennio a.C.), effettuate nel settembre 2010;

- menziona una “breve campagna di scavi” condotta tra il 10-25 ottobre 2010, come da relazione allegata, in due settori dell’area: quello meridionale “ha portato alla luce alcuni ambienti murari di età romana verosimilmente pertinenti ad una villa…”, con sovrastanti “numerose sepolture, in ottimo stato di conservazione, di età medievale”, mentre il saggio effettuato al centro dell’area “ha permesso di identificare la presenza di almeno una dozzina di sepolture a fossa e, forse, di una tomba a grotticella, tipologicamente del tutto simili a quelle scavate nel settembre 2010 nella porzione settentrionale del sito”, assumendo “l’attribuzione del sepolcreto al I millennio a.C.”;

- evidenzia che “i dati acquisiti … documentano la presenza di resti archeologici pertinenti a necropoli e ad abitato riferibili a diversi periodi storici in tutta l’area”;

- cosicché, disattese le osservazioni presentate dei proprietari nel corso del procedimento, dichiara che i suddetti “resti archeologici (strutture e necropoli) … rivestono carattere particolarmente importante ai sensi degli artt. 2,3,4,10,comma3 lett.a), 13,14,15 del D.Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004”, consentendo “esclusivamente lavorazioni agricole che non incidano per una profondità superiore a ml 0,40 dal piano di campagna”, precisando “che per le stesse dovrà essere richiesto preventivo parere della Soprintendenza” e dettando ulteriori prescrizioni limitative per l’immobile urbano e per eventuali interventi sulla rete acquedottistica.

1.2 - Con una serie articolata di censure parte ricorrente contesta il vincolo.

Vanno disattese le doglianze che, sull’assunto che ogni reperto storico non possa essere considerato bene culturale (3° motivo), deducono il difetto di istruttoria, di motivazione e di violazione dei principi di proporzionalità, adeguatezza, legittimo affidamento, erroneo bilanciamento degli interessi e di applicazione delle norme del Codice dei beni culturali.

Gli atti, infatti, illustrano adeguatamente l’interesse archeologico del sito, essendo stato evidenziato “che i dati acquisiti nei diversi interventi di scavo documentano la presenza di resti archeologici pertinenti a necropoli e ad abitato riferibili a diversi periodi storici in tutta l’area interessata dal presente provvedimento”, nonché le ragioni per cui sono in esso interdette arature superiori ad una certa profondità (“in quanto i piani di inumazione delle sepolture possono variare, come si è visto nell’indagine preliminare del settembre 2010, tra i 50 e i 200cm di profondità”: nota Sopr. 19.1.2011).

1.3 - Anche il motivo con cui si deduce la violazione del principio di sussidiarietà in riferimento alle competenze in materia facenti capo ai vari gradi di pianificazione in ambito regionale è infondato. Ciò in quanto il vincolo culturale aggiunge, in applicazione di norme di settore, un ulteriore livello di tutela rispetto a quello derivante da atti di pianificazione nell’esclusiva considerazione degli specifici valori di quella determinata area, senza che abbia a tali fini rilevanza la questione della reale esistenza “di una diffusa e speciale vocazione (archeologica) del territorio di Capestrano” (così pag. 18 del ricorso). Né, d’altra parte, il provvedimento si occupa di disciplinare il possibile utilizzo a vigneto dell’intero territorio comunale, limitandosi ad evidenziare le ragioni per cui un simile uso agricolo è ritenuto incompatibile con la preservazione del sito (“oltre ad essere causa di possibili danneggiamenti, verrebbe a precludere per il futuro la possibilità di indagare stratigraficamente il sito” (nota Soprintendenza 19.1.2011).

1.4 - Si dubita ulteriormente che le indagini siano state accurate, che i (pochi ed incerti) reperti rinvenuti giustifichino la dichiarazione di interesse culturale, che le attribuzioni a varie epoche storiche siano attendibili, che altri siti con analoghe caratteristiche abbiano subito lo stesso tipo di intervento.

Chiarito che in materia, non essendo implicate valutazioni tipiche della discrezionalità amministrativa, non è prospettabile una disparità di trattamento rispetto ad ipotetiche situazioni analoghe, va osservato che gli accertamenti effettuati non pretendono di essere definitivi e che gli stessi atti evidenziano la necessità di ben più approfondite indagini: “l’indagine di scavo per essere considerata definitiva ai fini di una bonifica archeologica del terreno, dovrà … essere condotta in modo esaustivo e completo, per tutta la profondità necessaria, in tutta l’area oggetto dei lavori” (nota Sopr. 19.1.2011). Che il terreno non sia stato esplorato nella sua totalità ma solo saggiato è un’evidenza che scaturisce dagli atti, il che tuttavia non rende illegittimo il vincolo se la valutazione di quanto fino ad allora emerso ha confermato la rilevanza dei ritrovamenti. Deve infatti ritenersi la legittimità del vincolo archeologico anche nell'ipotesi di consistente probabilità d'esistenza dei beni suscettibili di protezione (cfr. Tar Campania, Salerno, sez I, 3 marzo 2011, n. 397).

1.5 - Nel prosieguo della censura, e diffusamente in tutto il corpo del ricorso, i ricorrenti contestano l’estensione del vincolo, sostenendo che, invece di “congelare” il bene a tempo indeterminato (misura di per sé ritenuta in contrasto con lo spirito, se non con la lettera, della recente normativa a sostegno delle iniziative imprenditoriali), occorreva “esporre un programma di utilizzo nel senso di valorizzazione dell’interesse culturale” visto che la norma di settore “non può –anche in base ai principi costituzionali (artt. 41-42)- imporre la custodia di singoli beni come reliquie non vivibili né utilizzabili, impedendo l’attività economica … senza una chiara visione di contesto”. Sarebbe “evidente che reperti di modesto interesse su una sola area, seppure risalenti a tempi remoti, non presentano interesse artistico, storico, archeologico ed etnoantropologico (art. 10 D.L.vo 22.1.2004 n. 42)” in assenza di un motivazione che consideri il “contesto complessivo di un programma magari a tempi differiti ma con riferimenti certi”, dovendo i vincoli essere “provati e motivati in relazione all’utilizzo concreto che di essi si intende fare”. Evidenziano ulteriormente l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedono vincoli permanenti sostanzialmente espropriativi, allorché le caratteristiche visibili del terreno non siano in grado di rivelare tale natura (pagg. 20-23).

1.6 - Sembra potersi desumere dagli atti che l’amministrazione prefiguri un sito di rilevante interesse archeologico, caratterizzato da una necropoli dell’età del ferro, resti di mura romane e sepolture di epoca medievale, che deve essere ancora adeguatamente esplorato per verificare “la possibilità” di rinvenire “strutture murarie o comunque manufatti di pregio” (nota Sopr. 21.12.2011).

La necessità di ulteriori indagini evidenzia che il provvedimento mira alla preservazione dello stato di fatto in vista di future misure dirette all’esplorazione del sito ed alla valorizzazione dei reperti. Quali che possano essere gli esiti di siffatte indagini -che i rinvenimenti si esauriscano cioè in cose mobili asportabili (“manufatti di pregio”) sì da consentire la “bonifica” del sito, oppure che la natura dei reperti sia tale (“strutture murarie”) da non consentirne il trasferimento in altro luogo ed imporre invece una valorizzazione inloco- resta il fatto che le facoltà dominicali sono pressoché azzerate, essendo soggetto a preclusioni anche l’uso agricolo mentre le limitate attività astrattamente consentite sono esplicitamente assoggettate ad un penetrante controllo pubblico, con un insieme di facoltà residue che evidenziano che il diritto reale a cui fanno capo è svuotato di ogni apprezzabile contenuto. Drasticamente limitata anche la facoltà di coltivare l’area, residua essenzialmente la mera soggezione alle indeterminate attività che l’amministrazione si è riservata di effettuare in un altrettanto indeterminato futuro (“si propone pertanto un vincolo diretto di assoluta non alterazione dello stato di fatto del terreno”: cfr. proposta allegata al provvedimento).

E, tuttavia, la natura conformativa del vincolo è costantemente ribadita in giurisprudenza, mentre correlativamente si afferma che la decisione di espropriare beni soggetti a vincolo archeologico non costituisce un obbligo per l’amministrazione ma il risultato di una scelta eminentemente discrezionale, tendenzialmente e normalmente insindacabile dal giudice amministrativo (in tali termini T.A.R. Trentino Alto Adige, 23 febbraio 2012, n. 65). Si precisa poi che “l’atto che impone il vincolo archeologico (così come quello impositivo di un vincolo artistico, storico, ambientale, paesistico) è rivolto a salvaguardare un’area facente parte di un’intera categoria di beni, sottoposti dalla legge ad un peculiare regime giuridico, per le loro predeterminate caratteristiche oggettive (cfr. Corte Cost., 20 maggio 1999, n. 179), e che di conseguenza la fattispecie non è riconducibile ad una limitazione senza indennizzo al diritto di proprietà” (Cons. St., sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 6791). Si è in altri termini in presenza di “un vincolo conformativo della proprietà non soggetto a decadenza e volto, principalmente, a conservare i singoli beni e l'area in cui si trovano alla loro insita natura” (TAR Trentino 65/2012, cit.). Si tratta di un vincolo “che rivela una qualità insita nel bene, sì che la proprietà su di esso è da intendere limitata fin dall'origine; ed il vincolo è da considerare conformativo, non soggetto a decadenza, perciò incidente sul valore del bene in sede di determinazione dell'indennizzo per un’eventuale espropriazione” (Cassazione, sez. I, 20 novembre 2012, n. 20383, che ricorda trattarsi di “principi ormai del tutto consolidati”).

In particolare “relativamente al vincolo archeologico, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell'affermare che il sostrato archeologico del terreno non costituisce un attributo del bene, suscettibile di apprezzamento economico, per la ragione che "le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico (...) ritrovate nel sottosuolo" fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c.c. e artt. 44- 49 legge 1089/1939) e la presenza nel sottosuolo di beni di riconosciuto interesse archeologico comporta una limitazione -non indennizzabile- alle facoltà del proprietario del suolo (art. 840 c.c.) (Cass., n. 12551 del 2000).

Dunque, il vincolo archeologico «non è assimilabile ai vincoli c.d. espropriativi o di inedificabilità relativi a beni singoli», ma «si iscrive, a differenza di questi ultimi, tra le limitazioni legali della proprietà ed ha, quindi, natura conformativa, rientrando nell'area di riserva (relativa) di legge stabilita dall'art. 42, 2° comma, Cost., per garantire, mediante interventi diretti o attributivi di analoghi poteri all'autorità amministrativa, l'aderenza della proprietà privata alla funzione sociale, che concorre alla sua strutturazione e ne fonda la copertura costituzionale» (Cass., n. 7630 del 1994; analogamente, Cass., n. 8593 del 2003; n. 5513 del 2000; n. 5060 del 1998; n. 483 del 1998; n. 3451 del 1993; n. 7091 del 1988)” (in tali termini Cass., sez. I, 23 settembre 2005 n. 18681).

L’interesse in parola non è perseguito attraverso l’esercizio di discrezionalità, dovendo l’amministrazione effettuare il mero riconoscimento dell’interesse culturale ex art. 13 cod. b.c.a. e quindi applicare la disciplina dettata dalla legge, la quale ha direttamente provveduto all’individuazione dell'equilibrio costituzionale tra i contrapposti interessi, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenza di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali ex art. 9 Cost. (così Cass. 20383 cit.).

Alla luce di tali principi, che il collegio non ha motivo di mettere in discussione, è perciò manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale, trattandosi di limitazioni comunque conseguenti alla natura della cosa piuttosto che derivanti da scelte dell’amministrazione.

1.6 - Si tratta di principi che peraltro resistono alle innovazioni legislative invocate dai ricorrenti, visto che non è possibile desumere nemmeno dal c.d. decreto “Cresci Italia” (d.l. 24.1.2012 n. 1) l’incompatibilità del vincolo delineato dal Codice b.c.a. con l’abolizione di divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati e non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite e con una interpretazione dei medesimi “in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità”. I ricorrenti in buona sostanza pretendono che la loro iniziativa economica non venga impedita a tempo indeterminato dalla presenza dei resti, ritenendo che i suddetti principi di proporzionalità ed adeguatezza imponessero all’amministrazione di effettuare scavi completi “tali da rendere un quadro chiaro della situazione” e quindi di trasportare in luoghi di conservazione ed utilizzo il “materiale eventualmente recuperato nell’interesse pubblico”. Ritengono in palese violazione di tali esigenze il fatto che il provvedimento non se ne faccia carico, limitandosi a congelare a tempo indefinito la situazione immutata, così trasformando i reperti in “reliquie inviolabili”.

Si tratta di argomentazioni di evidente buon senso: se i reperti consistono in “materiale” asportabile essi devono essere conservati, fruiti e valorizzati in luoghi idonei in modo da liberare l’area dai resti ottimizzando l’interesse pubblico col minimo sacrificio di quello privato; se è invece il sito stesso a dover essere valorizzato per la presenza di strutture inamovibili, avere un chiaro quadro della situazione potrebbe consentire una più puntuale delimitazione delle zone di interesse ed aprire alla possibilità di “rilasciare” le parti che non presentino tali caratteristiche. Ma si tratta di scelte che, deve ritenersi, attengono al merito dell’azione amministrativa (e segnatamente alla disponibilità di risorse da cui dipende la possibilità di programmazione degli interventi), che non sono perciò censurabili in questa sede. Non si vede comunque quale alternativa vi fosse al vincolo di conservazione, essendo incompatibile con l’intero sistema di protezione la possibilità che l’area venga lasciata al libero dispiegarsi delle facoltà dominicali nel caso l’amministrazione non sia nelle condizioni di effettuare un “pronto intervento” di indagine e recupero dei resti e così minimizzare l’impatto negativo sul proprietario. D’altra parte la mera conservazione dello stato di fatto, se non consente l’attuale valorizzazione dei reperti, ne permette tuttavia la preservazione e la possibilità di recupero ed utilizzo futuro. Tale funzione di conservazione e trasmissione non implica il trattamento dei reperti “come reliquie inviolabili” e la vanificazione del vincolo, sembrando anzi l’essenza stessa del c.d. interesse culturale quale protetto, ai sensi dell’art. 1 del Codice, dall'art. 9 Cost., “il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell'ordinamento, assume il detto valore come primario (cfr. Corte Cost. 94/1985 e 359/1985): cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro” (Cass. 20383 cit.).

La ricordata natura del vincolo, il suo afferire alla cosa caratterizzandola fin dall’origine, il valore primario dell’interesse tutelato conducono, in definitiva, al rigetto delle esaminate censure.

2. Con i primi due motivi di ricorso i ricorrenti prospettano le conseguenze negative che si sono trovati a subire a causa del fatto che il procedimento è stato avviato solo dopo che essi avevano acquistato il terreno (2010) e non, come invece ritengono dovesse essere, allorché una serie di indizi avevano evidenziato, fin dal 2003, l’interesse archeologico dell’area. Deducendo la violazione degli artt. 2 e 7 L. 241/1990, dell’art. 14 d.lgs. 42/2004 nonché travisamento dei fatti e sviamento, i ricorrenti riconducono il suddetto comportamento alla violazione dell’obbligo di comunicare tempestivamente l’avvio del procedimento e di concluderlo in un tempo predeterminato.

Sostengono che l’amministrazione avesse l’obbligo di effettuare la suddetta comunicazione fin da quando furono constatate le “anomalie” del terreno che facevano attendibilmente presumere l’esistenza dei resti archeologici. La comunicazione è ritenuta essere infatti necessaria sia ai fini partecipativi “sia perché, essendo a conoscenza di un procedimento vincolistico (o espropriativo, sanzionatorio o prescrittivo) il proprietario non può sottacerlo all’eventuale acquirente…”, che invece, mancando tale conoscenza, “legittimamente lo ha venduto come libero da vincoli e atti pregiudizievoli” (pagg. 8 e ss.).

Dell’esistenza di tali indizi non è stato peraltro informato neanche il Comune, che in quel periodo (2003) aveva adottato il PRG (2002), così impedendo che la presenza di reperti fosse adeguatamente inserita (e pubblicizzata) nello strumento urbanistico in itinere. Sostengono ulteriormente che, decorrendo il termine per concludere il procedimento ex art. 2 l. 241/1990 dall’accertamento del 2003, ne emergerebbe l’evidente ritardo con cui il provvedimento è stato assunto. Infatti, si sostiene, “il termine non decorre dalla comunicazione di avvio del procedimento, ma dal suo effettivo inizio e dalla notitiafacti per attività doverosa”.

La congiunta violazione di tali obblighi avrebbe impedito la conoscenza delle caratteristiche essenziali dell’oggetto del successivo contratto di compravendita e perciò indotto ad un acquisto che altrimenti non sarebbe stato effettuato. Ne deriverebbe l’invalidità del provvedimento e la responsabilità per i danni ex art. 2bis l. cit.

2.1. La questione prospettata con l’invocazione della normativa sul procedimento attiene quindi all’attività dell’amministrazione che, pur avvedutasi da lungo tempo (“a partire dell’anno 2003”: cfr. relazione per la proposta di vincolo) di “anomalie di forma rettangolare … riconoscibili come tombe a fossa di cronologia generalmente compresa tra VII e I sec. a. C.” (così di nuovo la relazione), ha avviato le misure dirette alla salvaguardia del sito proprio in conseguenza dell’acquisto del terreno da parte dei ricorrenti finalizzato all’impianto di un vigneto.

Che le censure in esame non possano tuttavia condurre all’annullamento del provvedimento emerge dall’orientamento giurisprudenziale che ritiene essere del tutto legittimi eventuali controlli tecnici, accertamenti ed ispezioni svolti in fase pre-procedimentale senza la partecipazione del diretto interessato, poiché lo stesso - a seguito della comunicazione di avvio del procedimento - verrà, poi, informato delle attività suddette e sarà, dunque, messo in grado di intervenire e di verificare e/o contestare la veridicità o l'esattezza degli accertamenti compiuti, facendo valere le proprie ragioni (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1224). O che avverte che le garanzie di partecipazione procedimentale non vanno intese in senso meccanico o formalistico, cosicché l'eventuale omissione di tale obbligo da parte dell'Amministrazione assume una rilevanza meramente formale quando non vi è alcuna prova dell'apporto concreto che la partecipazione avrebbe potuto comportare (cfr. Cons. St., sez. IV, 19 novembre 2012 n. 5822).

Il contraddittorio sulla sussistenza dell’interesse culturale, che è stato assicurato nella maniera più piena dal momento in cui l’amministrazione si è determinata ad adottare atti formali, non ha messo in evidenza che le attività precedenti fossero tali da richiedere l’attivazione degli strumenti di garanzia procedimentale. In termini di garanzie non vi è stata, quindi, alcuna violazione, né d’altra parte i ricorrenti lamentano che la dedotta ritardata comunicazione abbia impedito di prospettare fatti ed argomentazioni in grado di influire sulla valutazione dell’interesse culturale ex art. 13 d.lgs. 42/2004. Né essi sostengono che, laddove il proprietario avesse potuto partecipare alle operazioni preliminari, l’esito del procedimento sarebbe stato diverso. Sostengono, invece, che la mancata tempestiva comunicazione ha determinato il loro coinvolgimento in un procedimento dal quale, altrimenti, si sarebbero tenuti fuori.

Deve pertanto escludersi (ex art. 21 octies, comma 2, l. 241/1990) che, laddove fondate, le suddette deduzioni possano condurre all’annullamento dell’atto.

Neanche il dedotto sviamento riesce ad evidenziare un vizio di legittimità del provvedimento, perché è pur vero che il procedimento ha subito un’accelerazione in conseguenza dell’acquisto dell’area da parte dei ricorrenti, ma ciò non è stato per perseguire fini diversi da quelli istituzionali bensì proprio a tutela dell’interesse pubblico, per assicurare cioè la preservazione della cosa in pericolo imminente di essere ora compromessa dall’attività agricola dell’interessato. Dalla prospettiva pubblicistica il mutamento di proprietario non ha quindi determinato una diversa valutazione dell’interesse culturale, ma ha invece imposto un immediato intervento a tutela di tale incontestato interesse.

In quanto dirette a sostenere la domanda di annullamento le predette censure vanno perciò disattese.

3. Le medesime argomentazioni sono poste altresì a sostegno della spiegata domanda risarcitoria.

Il ricorso consente infatti di individuare un petitum sostanziale che coincide con la domanda di risarcimento del danno subito in conseguenza del procedimento condotto in violazione delle suddette regole procedimentali. Si tratta del danno, prospettato ex art. 2bis l. 241/1990, derivante dal fatto che, laddove il procedimento fosse stato iniziato e quindi portato a conclusione nei termini che si ritiene decorressero dal 2003, la qualità dell’area sarebbe stata di pubblico dominio cosicché parte ricorrente si sarebbe determinata diversamente. Analogamente può dirsi per la mancata comunicazione al Comune e per qualunque altra doglianza che contesti il carattere “riservato” del procedimento nel periodo anteriore all’acquisto. Tutte le suddette deduzioni hanno in comune la prospettazione del danno subito da chi era estraneo all’attività amministrativa e che, non allertato da idonee forme di pubblicità, si è ritrovato ad essere soggetto passivo del provvedimento.

Si ritiene, in altri termini, che il provvedimento sia viziato per il fatto stesso di aver colpito chi non era la “giusta parte” del procedimento. Il mancato tempestivo avvio del procedimento, la conseguente ritardata conclusione, la violazione dei principi di pubblicità e trasparenza di cui all’art. 1 l. 241/1990, la mancata segnalazione a Comune e Provincia (che, oltre a valutarne l’inserimento nei piani urbanistici di loro competenza, artt. 7 e 9 L.R. 18/1983, avrebbero potuto a loro volta dare ulteriore pubblicità alla cosa, senza che a ciò evidentemente ostasse il fatto che il PRG di Capestrano fosse stato già adottato all’epoca del primo sorvolo: così, invece, nota Sopr. 19.12.2011), sono tutte deduzioni perciò funzionali a sostenere l’illegittimità del provvedimento limitativo in quanto diretto nei confronti di soggetto divenuto proprietario ignorando, per omissioni imputabili all’amministrazione, le già riconosciute qualità dell’area.

Si tratta quindi dell’azione risarcitoria conseguente a tale complessiva causa di illegittimità del provvedimento. Per quanto si tratti di vizio inidoneo a perturbare la valutazione dell’interesse pubblico e a determinare perciò l’annullamento dell’atto, non di meno il suddetto complesso di censure mette comunque in discussione la legittimità dell’iter procedimentale, e quindi del provvedimento conclusivo, prospettandone conseguenze risarcitorie. La domanda è perciò riconducibile a quella prevista dall’art. 30, 2° comma, d.lg. 104/2010: si tratta cioè del risarcimento del danno derivante dall’illegittimo/mancato esercizio dell’attività amministrativa.

E’ infatti è da ritenere che l’art. 21octies l. 241/1990 abbia unicamente escluso che i vizi formali, in quanto non influenti sul contenuto del provvedimento, possano determinare l’annullamento di un atto comunque aderente alla funzione assegnatagli, ma non abbia inteso anche sancire l’assoluta irrilevanza di tali vizi. La fattispecie in esame evidenzia quanto essi siano invece rilevanti ai fini della valutazione di legittimità del provvedimento. Sono cioè dedotti vizi che attengono alla legittimità dell’atto (non potendo che qualificarsi illegittimo un provvedimento che, a causadei suddetti vizi formali, avesse leso la sfera giuridica di un soggetto che non era la “giusta parte” del procedimento) ed alla connessa responsabilità per danni ai sensi del richiamato art. 30, comma 2, cod. proc. amm.

3.1 – Quanto al merito della questione, il collegio ritiene di muovere dalla constatazione che la presenza dell’oggetto di tutela di cui si discute, il bene archeologico, è rimasta nota alla sola amministrazione per tutto il periodo 2003-2010, il che ha posto quest’ultima nella posizione di detentrice esclusiva di informazioni relative alle qualità essenziali di un’area privata.

E’ il primo inconveniente della tesi che sostiene l’irrilevanza dell’attività precedente il formale avvio del procedimento: la sola presenza del rischio che una siffatta conoscenza privilegiata possa diventare essa stessa oggetto di traffici e di indebite posizioni di vantaggio sembra essere tale da imporre tempi ben più stretti alla formalizzazione degli atti, e quindi alla loro pubblicità e divulgazione. L’eventualità che l’area potesse essere oggetto di contratti tra privati induce d’altronde, in ossequio ai canoni di trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa nonché al generale dovere di protezione e di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., ad analoghe conclusioni.

Vari argomenti fanno cioè ritenere che un procedimento avviato così in ritardo, in quanto colpisce soggetto diverso da quello individuabile allorché il suo presupposto sorse, sia per ciò solo illegittimo. Tale affermazione presuppone che la fattispecie in esame consenta l’individuazione di “un momento” determinativo dell’obbligo di procedere, di modo che i comportamenti difformi possano essere qualificati in termini di omissioni o ritardi.

Va sul punto rilevato che il vincolo in questione deriva dall’accertamento tecnico di una certa qualitas dell’area (art. 13 del Codice b.c.), riscontrata la quale il provvedimento finale è del tutto necessitato. Nell’ambito del procedimento non entrano quindi in discussione apprezzamenti discrezionali coinvolgenti la comparazione tra interessi diversi (come peraltro sottolinea la circolare ministeriale esibita dalla resistente). Il che vuol dire che, individuato l’oggetto di potenziale interesse archeologico, non vi sono scelte da compiere, valutazioni da effettuare, interessi da soppesare. L’area che sarà oggetto di vincolo è individuata per le sue caratteristiche intrinseche e non già per effetto di una qualche scelta amministrativa.

L’attività dell’amministrazione perciò consiste essenzialmente in un “riconoscimento”, effettuato il quale si è con ciò stesso individuato lo specifico bene privato oggetto dell’azione amministrativa e si è altresì determinato il presupposto che impone di procedere. Il procedimento impositivo, senza alcun margine di scelta, segue necessariamente l’accertamento.

Nei suddetti procedimenti è cioè individuabile un momento in cui lo sviluppo ulteriore diventa necessitato, analogamente a quanto avviene nei procedimenti avviati su istanza di parte: in entrambi i casi sorge il dovere di dar corso all’iter in dipendenza di un presupposto esterno, in un caso l’istanza, nell’altro, come osserva parte ricorrente, una notitia facti (cfr. art. 2, co. 1, primo periodo, l. 241/1990). Un’indicazione in tal senso nella normativa di settore è rintracciabile nell’art. 14, comma 1, d.lgs. 42 del 2004: se la “motivata richiesta” della regione o di altro ente territorialedetermina l’avvio del procedimento, si deve desumere che analogo effetto sia prodotto dall’accertamento autonomo dell’interesse archeologico di un sito, tale che “il procedimento … debba essere iniziato d'ufficio” (art. 2 cit.).

La rilevazione di significativi indizi di presenze archeologiche nel sottosuolo fa quindi sorgere il potere ed il dovere di adottare ogni misura idonea ad evitarne il danneggiamento. Sembra essere in ciò implicita la necessità di adeguate comunicazioni al proprietario in modo da assicurarsi che effettivamente costui non arasse a profondità maggiori di quelle in atto, ma ciò che soprattutto rileva è che fin dall’origine l’area è stata attratta nella dimensione pubblica con le conseguenti intrinseche limitazioni di utilizzo. La mancanza, nel periodo 2003-2010, di un’attività formalizzata non significa cioè che l’area fosse considerata priva di interesse pubblico o libera per tutti gli usi. Tale silenzio è invece conseguenza del contingente rilievo che, considerato il tipo di attività agricola praticata, la formalizzazione dell’iter non si rendeva (ancora) necessaria ai fini della salvaguardia del sito. Ma ciò che è essenziale è che il potere pubblico fosse già in atto, essendo presenti tutti i presupposti perché l’area divenisse, all’evenienza, oggetto di procedimenti amministrativi di tutela, anche attraverso “note interlocutorie, finalizzate a scongiurare la distruzione … -anche involontaria- dei beni archeologici sepolti…”( nota 19.12.2011).

L’immediata attrazione del bene nel regime pubblicistico genera quindi una sequenza di attività necessitate: una volta individuato il sito l’amministrazione può anche limitarsi alla sorveglianza senza assumere determinazioni verso l’esterno, certo è che se si profilassero attività private in grado di pregiudicare l’interesse protetto si imporrebbero formali misure di salvaguardia. Gli atti evidenziano che le esplorazioni e l’adozione di atti formali di salvaguardia sarebbero state sicuramente anticipate qualora fosse stato il precedente proprietario a manifestare l’intenzione di voler impiantare, all’epoca, un vigneto o effettuare analoga attività agricola implicante scavi in profondità.

3.2 - Ed è ciò che il seguito della vicenda ha fedelmente dimostrato: l’area “è stata identificata nel 2003, grazie ai monitoraggi in elicottero” a causa di anomalie del terreno. Si trattava di indizi talmente significativi che “i due saggi di scavo più settentrionali [hanno] intercettato il medesimo nucleo sepolcrale peraltro già perfettamente evidente nelle foto aeree” (così la relazione della proposta di vincolo). L’amministrazione si è in seguito limitata, considerato il tipo di coltivazione fino al allora praticato, alla mera sorveglianza, tant’è che nel suddetto periodo gli atti non menzionano alcun tipo di attività. Ciò fino a che “il recente cambiamento di proprietà … pone il problema dello scassato per l’impianto di un vigneto” E’ tale evento che ha reso necessarie le successive indagini sul posto, l’occupazione dell’area ed infine la formalizzazione del procedimento di vincolo (che sia tale evento a determinare il mutamento di approccio alla questione da parte dell’amministrazione emerge in molti passaggi degli atti: “… il terreno era, da sempre, coltivato a maggese. Il passaggio di proprietà, avvenuto nel corso dell’anno 2010, del terreno, acquistato dal viticoltore Domenico Pasetti, poneva il problema di futuri lavori agricoli a quota più profonda per realizzare l’impianto di un vigneto”, rel. cit.).

Dagli atti emerge altresì che la suddetta attività di ispezione, indagine e determinazione conclusiva si è svolta in un lasso di tempo relativamente breve, che avrebbe ben potuto interamente esaurirsi in tutta la precedente fase.

Dopo aver constatato indizi dell’esistenza di una necropoli (“che non potevano di per sé fornire la certezza che le tombe fossero ancora conservate al di sotto dello strato superficiale, dal momento che spesso –al momento degli scavi- tali tombe si rivelano essere state spogliate già in antico o sconvolte da lavori agricoli più profondi, risultando pertanto essere semplici fosse ormai vuote: nota Sopr. 21.12.2011), è evidente che erano necessarie esplorazioni del luogo che confermassero l’effettivo valore archeologico dell’area (“Tali indizi c.d. negativi … sono numerosissimi in Abruzzo, ma non di per sé sufficienti a provare la presenza di un sito archeologico ancora conservato, sì da avviare le procedure di tutela diretta previste dal D.Lgs. 42/2004”: ivi).

Ma non è emersa alcuna ragione per cui tali attività, in quanto necessarie e comunque propedeutiche al vincolo, siano state effettuate a distanza di così tanto tempo e solo a causa del mutamento di proprietà e non invece nell’immediatezza del rinvenimento. In altri termini, la possibilità di effettuare esplorazioni analoghe a quelle attuate nel 2010 era altrettanto matura per tutto il periodo successivo alla rilevazione degli indizi, come testimonia l’evidente assenza di ulteriori indagini per tutto il periodo antecedente il mutamento di proprietà. La conoscenza che si aveva della situazione nel 2010 (in epoca anteriore alle “indagini di scavo” effettuate nel settembre di quell’anno, primo atto di verifica degli indizi del 2003) era cioè del tutto analoga a quella del 2003.

Nella fattispecie è perciò facilmente constatabile che le attività poste in essere in danno del ricorrente sarebbero state del tutto identiche ove effettuate a suo tempo nei confronti del proprietario dell’epoca. L’unica evoluzione che la situazione negli anni ha subito è stato il mutamento di proprietà ed il diverso uso che il nuovo proprietario si proponeva, mentre nulla di significativo è avvenuto nel versante pubblicistico.

3.3 - Le suddette considerazioni consentono di individuare un nucleo essenziale di attività doverosa che informa il procedimento. La constatazione che la salvaguardia del bene è doverosa evidenzia il sorgere del presupposto che rende necessaria l’azione amministrativa e che fa ritenere che il potere, per quanto non ancora formalizzato, sia già in atto.

L’attività di tutela assume carattere necessitato anche riguardo all’individuazione dell’evento per cui il “procedimento debba iniziare d’ufficio” (art. 2 l. 241/1990). Non era cioè affidato all’amministrazione il potere discrezionale di fissare il momento più opportuno nell’arco 2003-2010 in cui effettuare comunicazioni, sopralluoghi, verifiche e dare formale avvio al procedimento. Il delineato sistema di protezione presuppone invece un fatto (che è stato ripetutamente individuato nel quadro di indizi che denotava la presenza della necropoli, pacificamente risalente al 2003) per cui il procedimento, senza margini di scelta, doveva essere iniziato d’ufficio.

L’unica valutazione a cui tale obbligo era subordinato era quella -di tipo tecnico, propria della disciplina di riferimento- relativa al grado di attendibilità degli indizi ed alla consistenza del relativo interesse archeologico. Si è già constatato che da subito gli indizi in questione denotavano con sufficiente grado di probabilità la presenza di una necropoli, restando solo da verificarne lo stato di conservazione ed in particolare che non fosse stata spogliata o danneggiata nel corso dei secoli. Gli atti del procedimento hanno adeguatamente dimostrato che, compiute le suddette preliminari valutazioni, non vi era null’altro da fare se non effettuare le verifiche sul luogo, vale a dire “esternalizzare” l’attività di tutela.

Il vizio degli atti del procedimento e, conseguentemente, del provvedimento finale deriva quindi dalla considerazione che vi erano tutti i presupposti perché la medesima attività amministrativa che hanno subito i ricorrenti si svolgesse tempo prima nei confronti del proprietario dell’epoca. In tali termini è configurabile il ritardato avvio del procedimento e la connessa inottemperanza agli obblighi di comunicazione, visto che il carattere doveroso della funzione ed il contenuto necessitato del provvedimento portano ad escludere che l’amministrazione disponesse di margini di manovra in ordine a modalità e tempi della sua azione. Non è infatti emersa alcuna ragione per cui un procedimento ad esito necessitato non sia stato avviato con l’immediatezza commisurata al valore da tutelare ed agli interessi privati suscettibili di entrare in gioco e perché non siano state quindi disposte all’epoca le necessarie verifiche sul sito, effettuate solo nel 2010.

Per quanto si tratti di vizio inidoneo ad intaccare la legittimità del nucleo provvedimentale rivolto alla tutela dell’interesse pubblico, per quanto si tratti –cioè- di omissione/ritardo che in nulla ha viziato la corretta valutazione dell’interesse culturale del sito, nondimeno sussiste una violazione di regole procedimentali che determina l’illegittimità del provvedimento. Il ritardo e le omissioni anzidette, in quanto causa dell’illegittimità del provvedimento nonché del danno ingiusto che ne è derivato, determinano altresì la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione.

Il danno consiste nello svuotamento di contenuto delle facoltà dominicali determinato dal provvedimento viziato nei suddetti termini: ove legittimamente condotto il procedimento avrebbe visto nel ruolo di parte privata il dante causa dei ricorrenti e questi avrebbero conservato il prezzo pagato per l’acquisto.

In assenza di ulteriori deduzioni sul punto, lo stesso va determinato in base al prezzo di acquisto del terreno in questione (con relativi accessori) desunto dall’atto pubblico, detratto il valore attuale del fondo (determinato in misura pari all’indennità di esproprio), che l’amministrazione dovrà quantificare e quindi offrire ex art. 34, co. 4, c.p.a. nel termine di 60 giorni dalla notificazione della presente sentenza.

5. Considerato l’esito complessivo del giudizio, la specificità della questione, il mancato svolgimento di attività difensiva da parte della resistente, le spese di giudizio vanno interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, rigetta la domanda di annullamento; accoglie la domanda risarcitoria e per l’effetto condanna l’amministrazione resistente a pagare la corrispondente somma determinata secondo i criteri indicati in motivazione. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in L'Aquila nella camera di consiglio del giorno 13 marzo 2013 con l'intervento dei magistrati:



'P.Q.M.'

Saverio Corasaniti, Presidente

Alberto Tramaglini, Consigliere, Estensore

Maria Abbruzzese, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 11/07/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)