Cass. Sez. III n. 46693 del 21 novembre 2023 (UP 9 nov. 2023)
Pres. Ramacci Est. Scarcella Ric. Castagnino
Caccia e animali.Illecita detenzione di esemplari di specie protette
La documentazione cui si riferisce la legge 150\92 è quella diretta a dimostrare la conformità del prodotto alle prescrizioni della normativa a tutela delle specie animali e vegetali protette (di cui alla convenzione di Washington del 3 marzo 1973 ed al Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio del 9 dicembre 1996, e successive attuazioni e modificazioni), ossia in particolare i certificati o licenze di importazione o esportazione ed i relativi provvedimenti autorizzativi o certificativi previsti dal Regolamento, e più in generale tutta la documentazione diretta alla identificazione del prodotto stesso, sotto il profilo della sua provenienza, della sua commerciabilità, della sua legittima detenzione.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 28 febbraio 2023, il Gip presso il Tribunale di Genova ha condannato Castagnino Roberto alla pena di euro 7.000 di ammenda in relazione ai reati di cui all’art. 2 L.S. 150/1992, per avere, in violazione di quanto previsto dal regolamento CEE numero 338/1997 del Consiglio del 9 dicembre 1996 e successive attuazioni e modificazioni, detenuto presso la propria abitazione, in assenza della prescritta documentazione, due esemplari vivi appartenenti alla specie python molurus bivittatus (pitone moluro), rientranti nelle specie di cui all’allegato B del predetto Regolamento, rendendo impossibile accertare la legale acquisizione e la provenienza dei due animali, in Genova il 14 ottobre 2022. La decisione veniva assunta a seguito della richiesta di rito abbreviato presentata in sede di opposizione al decreto penale di condanna.
2. Avverso tale sentenza l’imputato proponeva, tramite il difensore di fiducia, ricorso per cassazione; in particolare:
2.1. Col primo motivo di ricorso lamenta erronea applicazione degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, per avere il giudice deciso in sede di abbreviato sulla base (anche) di documentazione trasmessa dal pubblico ministero dopo l’opposizione a decreto penale di condanna, non messa a conoscenza della difesa;
2.2 Con il secondo motivo lamenta violazione dell’articolo 521 cod. proc. pen. in quanto il ricorrente è stato condannato per un fatto diverso da quello contestato (documentazione inidonea, secondo l’imputazione; inesistente, secondo la sentenza);
2.3. Con il terzo motivo, lamenta violazione dell’articolo 2, comma 1, lettera f), L. 150/1992 in quanto il giudice pretenderebbe un tracciamento delle varie cessioni degli animali, in realtà non richiesto dalla legge;
2.4. Con il quarto motivo, lamenta violazione di legge per avere il giudice, nella discussione, concesso diritto di replica al pubblico ministero, nonostante la Difesa si fosse associata alle sue iniziali richieste;
2.5. Con il quinto motivo, lamenta violazione di legge in riferimento al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis cod. pen.
3. Il Procuratore generale presso questa Corte, con requisitoria scritta depositata in data 29.09.2023, ha chiesto il rigetto del ricorso. La prima doglianza non è condivisibile. In punto, va evidenziato che la allegazione censurata è priva di sanzione processuale. In punto, la doglianza è del tutto generica, esponendo la sanzione processuale della inutilizzabilità senza citare e menzionare la norma violata ai fini del profilo di inutilizzabilità richiesto. Non solo. Difetta in punto ogni articolata censura sulla decisività dell’utilizzo di tali atti da parte del decidente ai fini che rilevano. Menzione del tutto assente nella specie. Omologhe considerazioni valgono per il secondo motivo. La sentenza è conforme ai principi esegetici in materia per i quali in punto non vi è violazione dell’art. 521 secondo comma c.p.p., allorquando la sentenza si adegua al principio per il quale non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nell'ipotesi in cui la richiesta modifica costituisca una mera variazione dell'originaria contestazione (Sez. 3, n. 1960 del 28/06/2017). Inoltre (Sez. 3 , n. 7146 del 04/02/2021), il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e poi ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità, rendendo impossibile per l'imputato difendersi, laddove la possibilità di visionare il fascicolo rende evidente tale possibilità, sicché il presunto mutamento non viola il principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen., non incidendo tale diversità in modo significativo, per essere le parti a conoscenza del fatto sulla base degli atti di indagine. Il terzo motivo è infondato. Il ricorrente ripercorre i motivi di dissenso rispetto alla sentenza, già abbondantemente analizzati dal decidente. Al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel "dissenso" sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per un presunto vizio di erronea valutazione in punto di elemento soggettivo con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte del Giudice di legittimità. Il controllo di legittimità non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 - dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745). E sotto tale profilo la decisione non merita censura. Adeguatamente il decidente si è conformato al principio esegetico per il quale per integrare reato di cui all'art. 2 legge 150/1992 non è sufficiente la mancanza o l'irregolarità di ogni e qualsiasi tipo di documentazione relativa al prodotto ma occorre che si tratti della documentazione specificamente prevista dai regolamenti comunitari, come adeguatamente riportato e documentato. Il reato previsto dall'art. 2, lett. f), della legge 7 febbraio 1992, n. 150, come modificato dall'art. 2 del d. lgs. 18 maggio 2001, n. 275, punisce il fatto di chi, in violazione di quanto previsto dal Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio, del 9 dicembre 1996, e successive attuazioni e modificazioni, per gli esemplari appartenenti alle specie elencate negli allegati B e C del Regolamento medesimo e successive modificazioni, «detiene, utilizza per scopi di lucro, acquista, vende, espone o detiene per la vendita o per fini commerciali, offre in vendita o comunque cede esemplari senza la prescritta documentazione, limitatamente alle specie di cui all'allegato B del Regolamento». Orbene è di tutta evidenza, come facilmente si ricava dalla lettera e dalla ratio delle disposizioni in esame, che la documentazione in questione è quella diretta a dimostrare la conformità del prodotto alle prescrizioni della normativa a tutela delle specie animali e vegetali protette (di cui alla convenzione di Washington del 3 marzo 1973 ed al Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio del 9 dicembre 1996, e successive attuazioni e modificazioni), ossia in particolare i certificati o licenze di importazione o esportazione ed i relativi provvedimenti autorizzativi o certificativi previsti dal Regolamento, e più in generale tutta la documentazione diretta alla identificazione del prodotto stesso, sotto il profilo della sua provenienza, della sua commerciabilità, della sua legittima detenzione. Il decidente ha motivato adeguatamente sul punto rilevando inferenze importanti come la carenza o addirittura falsità e irregolarità documentale prodotta nonché adoprando ai fini del decidere il mancato tracciamento che rileva probatoriamente, diversamente da quanto opinato nel ricorso. Nella specie, alcuna prova ha fornito sul punto l’imputato che invero non era in possesso di alcuna documentazione che tracciasse l’origine lecita degli animali, anzi producendo documentazione falsa ed irregolare. L’imputato non era in possesso della documentazione al momento in cui riceveva i rettili, ma la recuperava solo dopo il controllo subito. Il quarto motivo non è condivisibile. La presunta violazione è priva di sanzione processuale e non rileva ai fini della decisività della questione. Il quinto motivo non è condivisibile. Il decidente motiva sulla plurima violazione, trattandosi di due animali di specie protetta e sulle particolari modalità offensive della condotta, tralaticiamente fondata su documentazione irregolare per supportarne la legittima detenzione. Corretto è il richiamo alle modalità di detenzione che non assicuravano la fuga dell’animale. La decisione è in linea con i presupposti costitutivi richiesti dall’istituto e con la configurazione di modalità e condotte successive al fatto contestato tali da essere prese in considerazione secondo la nuova formulazione dell’istituto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. Quanto al primo motivo, esso è inammissibile per genericità.
Come noto, accanto alla norma citata dal ricorrente (art. 430 cod. proc. pen., che si applica solo dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio), esiste un’altra disposizione, l’articolo 419, comma 2, il quale prevede che, dopo la notifica della data di udienza preliminare da parte del GIP, l’imputato e il pubblico ministero possono «presentare memorie e produrre documenti», senza che tali produzioni siano seguite da avvisi alle altre parti (che, potendo consultare il fascicolo nella cancelleria del giudice, ben possono verificarne la presenza); tale disposizione è applicabile anche al giudizio abbreviato, stante il richiamo contenuto all’articolo 441, comma 1, del codice di rito, per cui si deve ritenere possibile la produzione di memorie e documenti fino alla decisione del Giudice in ordine alla ammissione al rito contratto.
Il ricorrente non si perita di chiarire se, e per quali motivi, ritenga tale norma inapplicabile al caso di specie, posto che la produzione documentale del pubblico ministero (13/02/2023) è intervenuta tra la data dell’opposizione a decreto penale (21/12/2022) e quella dell’ammissione al rito abbreviato (23/02/2023). Peraltro, la giurisprudenza ha chiarito che nel corso dell'udienza preliminare, la produzione di nuovi documenti non soggiace al limite temporale di cui all'art. 127 cod. proc. pen., fino a cinque giorni prima dell'udienza, essendo la produzione ammissibile fino all'inizio della discussione, ai sensi dell'art. 421, comma 3, cod. proc. pen., senza che ciò comporti lesione del contraddittorio, potendo la controparte chiedere al giudice, a fronte della nuova produzione, un'attività di integrazione probatoria ex art. 422, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 41012 del 20/06/2018, Rv. 274083 – 02; Sez. 3, n. 44011 del 24/09/2015, Rv. 265072 – 01).
Inoltre, come evidenziato dal P.G., la disposizione censurata è priva di sanzione processuale.
3. A ciò va aggiunto che la doglianza è del tutto generica, non solo perché eccepisce la sanzione processuale della inutilizzabilità senza citare e menzionare la norma violata ai fini del profilo di inutilizzabilità richiesto, ma anche, e soprattutto, perché non chiarisce la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato. Questa Corte, nella sua più autorevole composizione, ha infatti già affermato che in tema di ricorso per cassazione, è onere della parte che eccepisce l'inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l'inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416 – 01).
4. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
In rubrica era contestato all’imputato, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, di avere detenuto due esemplari di pitone moluro «in assenza della prescritta documentazione».
A pag. 6 della motivazione si precisa che l’imputato «non era in possesso di alcuna documentazione che tracciasse l’origine lecita degli animali».
Non è dato quindi comprendere in cosa consisterebbe la contestata violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
5. Il terzo motivo è invece infondato.
Il reato previsto dall'art. 2, lett. f), della l. 7 febbraio 1992, n. 150, come modificato dall'art. 2 del d. lgs. 18 maggio 2001, n. 275, punisce il fatto di chi, in violazione di quanto previsto dal Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio, del 9 dicembre 1996, e successive modifiche ed integrazioni, per gli esemplari appartenenti alle specie elencate negli allegati B e C del Regolamento medesimo e successive modificazioni, «detiene, utilizza per scopi di lucro, acquista, vende, espone o detiene per la vendita o per fini commerciali, offre in vendita o comunque cede esemplari senza la prescritta documentazione, limitatamente alle specie di cui all'allegato B del Regolamento» (il corsivo è del Collegio).
La «documentazione» in questione, come evidenziato dal P.G., è quella diretta a dimostrare la conformità del prodotto alle prescrizioni della normativa a tutela delle specie animali e vegetali protette (di cui alla convenzione di Washington del 3 marzo 1973 ed al Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio del 9 dicembre 1996, e successive attuazioni e modificazioni), ossia in particolare i certificati o licenze di importazione o esportazione ed i relativi provvedimenti autorizzativi o certificativi previsti dal Regolamento, e più in generale tutta la documentazione diretta alla identificazione dell’esemplare stesso, sotto il profilo della sua provenienza, della sua commerciabilità, della sua legittima detenzione.
Il decidente ha motivato adeguatamente sul punto.
A pagina 3 della sentenza chiarisce che i documenti esibiti dal Castagnino dovevano ritenersi «irrilevanti perché non consentivano di risalire all’origine lecita della detenzione».
A pag. 4 precisa che la documentazione è quella che consente di dimostrare la conformità della detenzione alla Convenzione di Washington del 1973 e al Reg. UE n. 338/1997, ossia quella «diretta alla identificazione dell’esemplare stesso, sotto il profilo della provenienza, della sua commerciabilità, della sua legittima detenzione»; nel caso di specie, a pag. 2 della sentenza si legge che le dichiarazioni raccolte successivamente dall’imputato «risultavano generiche in quanto riportavano solo la specie e il sesso dell’esemplare – gli animali non erano univocamente identificati con un sistema di marcatura in base alla vigente normativa – e non permettevano, quindi, agli operanti di effettuare alcun accertamento».
Il giudice concludeva nel senso che la documentazione prodotta dall’imputato (pag. 5) «è apparsa del tutto non corrispondente al vero» (segue spiegazione).
Il ricorrente non si confronta affatto con la doviziosa motivazione del provvedimento, limitandosi ad una generica contestazione di un obbligo di tracciabilità, di cui la sentenza non parla.
5.1. In diritto, peraltro, non vi è dubbio che l’esegesi normativa operata, secondo cui è punita anche la semplice detenzione anche senza fini di lucro, è del tutto logica e risponde, del resto, alla ratio legis, dovendosi a tal fine rilevare che l’introduzione della lett. f) dell’art. 2 è frutto nella novella normativa adottata dal D.lgs. 18 maggio 2001, n. 275 (Riordino del sistema sanzionatorio in materia di commercio di specie animali e vegetali protette, a norma dell'articolo 5 della L. 21 dicembre 1999, n. 526), pubblicato nella Gazz. Uff. 11 luglio 2001, n. 159, che, con l’art. 2 sostituì l'articolo 2 della l. 7 febbraio 1992, n. 150, modificata dal decreto-legge 12 gennaio 1993, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 marzo 1993, n. 59.
Per effetto di tale ultima disposizione, infatti, come già questa Corte aveva avuto di rilevare, a differenza del vecchio testo dell'art. 2, l. 7 febbraio 1992, n. 150, che qualificava come reato anche la semplice detenzione di esemplari vivi o morti degli animali selvatici e delle piante, o loro parti o prodotti derivati, indicati nell'allegato a), appendici II e III, e nell'allegato c), parte seconda, del regolamento C.E.E. n. 3626/82, e successive modificazioni, il testo del medesimo art. 2, così come sostituito dall'art. 2 D.L. 12 gennaio 1993, n. 2, convertito con modificazioni nella legge 13 marzo 1993, n. 59, prevedeva come reato non più la semplice detenzione, ma soltanto la "detenzione per la vendita" (Sez. 3, n. 4152 del 04/12/1996, dep. 1997, Rv. 207036 – 01). Il D. lgs. n. 275/2001, tuttavia, sostituendo integralmente l’art. 2, l. 150 del 1992, ha, invece, reintrodotto la rilevanza penale della semplice “detenzione” limitatamente alle specie di cui all'allegato B del Reg. (CE) 9 dicembre 1996, n. 338/97 (Regolamento del Consiglio relativo alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio), pubblicato nella G.U.C.E. 3 marzo 1997, n. L 61, entrato in vigore il 3 marzo 1997, individuando, poi, oltre alla detenzione, una serie di ulteriori condotte vietate (“utilizza per scopi di lucro, acquista, vende, espone o detiene per la vendita o per fini commerciali, offre in vendita o comunque cede esemplari senza la prescritta documentazione”).
La lettura difensiva, secondo cui il termine detenzione dovrebbe essere letto unitamente alla locuzione “per scopi di lucro” è contraria all’esegesi piana della disposizione, posto che, se così fosse, non vi sarebbe stata ragione alcuna per il Legislatore del 2001 di differenziare la detenzione “semplice” dalla detenzione “per la vendita o per fini commerciali”, condotta parimenti contemplata dalla stessa lett. f) della disposizione citata, che, all’evidenza, è sinonimo di detenzione per scopi di lucro, essendo tali scopi insiti nel detenere “per la vendita o per fini commerciali”. Deve, conclusivamente, ritenersi che l’art. 2, comma 1, lett. f), l. 157 del 1992, nella sua attuale formulazione, già applicabile all’epoca dei fatti, punisce (e puniva) la semplice detenzione, contrariamente all’esegesi sostenuta dalla difesa.
5.2. Quanto al requisito della tracciabilità, contestato dalla difesa, non vi è dubbio che l’esegesi normativa condotta dal giudice sia corretta, come già evidenziato dallo stesso PG nella sua requisitoria scritta. La documentazione cui si riferisce la norma violata è quella diretta a dimostrare la conformità del prodotto alle prescrizioni della normativa a tutela delle specie animali e vegetali protette (di cui alla convenzione di Washington del 3 marzo 1973 ed al Regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio del 9 dicembre 1996, e successive attuazioni e modificazioni), ossia in particolare i certificati o licenze di importazione o esportazione ed i relativi provvedimenti autorizzativi o certificativi previsti dal Regolamento, e più in generale tutta la documentazione diretta alla identificazione del prodotto stesso, sotto il profilo della sua provenienza, della sua commerciabilità, della sua legittima detenzione. Le due dichiarazioni di cessione ai fini CITES esibite, peraltro, sono state ritenute - con motivazione non sindacabile in questa sede perché frutto di apprezzamenti di fatto scevri da illogicità manifeste – del tutto irrilevanti in quanto non consentivano di risalire all’origine lecita della detenzione. I soggetti da cui il Castagnino risultava aver ricevuto i due pitoni (Giustiniano, quale primo cedente a tali Farci e Bolognesi; questi ultimi, quali successivi cedenti al Castagnino), rendevano infatti dichiarazioni inidonee a ricollegare i due pitoni sequestrati al Castagnino ai documenti di cessione che riportavano indicazioni generiche, recando solo la specie ed il sesso dell’esemplare, non essendo univocamente identificati con un sistema di marcaggio in base alla vigente normativa. Il Castagnino, anzitutto, perché riferiva di aver ricevuto i due pitoni da un soggetto non meglio identificato a duna fiera senza fornire informazioni utili. Il Farci, cui il Giustiniano aveva ceduto uno dei due pitoni sequestrati al Castagnino, pur riconoscendo il documento di cessione 15.02.2020, riferiva di non aver rilasciato a quest’ultimo alcun documento all’atto della cessione dell’animale non sapendo fosse necessario, tant’è che aveva messo il Castagnino con il Giustiniano richiesto dall’imputato mentre era in corso il controllo. Il Bolognesi, dal canto suo, pur riconoscendo il documento di cessione 15.02.2020, dichiarava anch’egli di non aver consegnato al Castagnino alcun documento non sapendo fosse necessario. Infine, gli accertamenti successivi, che avrebbero dovuto confermare la legale ricezione dei due pitoni all’originario cedente Giustiniano all’allevatore, tale Scaffidi Antonino, avevano avuto esito negativo, in quanto nelle dieci dichiarazioni di cessione prodotte dallo Scaffidi, inerenti 24 esemplari ceduti, non risultava il nome del Giustiniano. Da qui, la logica conclusione del giudice, secondo cui mancava la tracciabilità documentale, che peraltro avrebbe dovuto essere confermata in duplice copia sia dal cedente che dell’acquirente, idonea a provare la legittima detenzione dei due esemplari di pitone in capo al Castagnino. Che, del resto, il requisito della tracciabilità sia normativamente richiesto discende dall’ovvia considerazione per cui, ove si consentisse di detenere animali la cui legittima provenienza non sia tracciabile, verrebbe vanificato l’obiettivo del reg. CE n. 338/1997, che è quello di proteggere le specie di fauna e della flora selvatiche nonché assicurare la loro conservazione.
A comprova del requisito della tracciabilità, del resto, si noti, milita quanto dispone il Reg. (CE) 4 maggio 2006, n. 865/2006 (REGOLAMENTO DELLA COMMISSIONE recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio relativo alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio), pubblicato nella G.U.U.E. 19 giugno 2006, n. L 166, il cui art. 37 infatti richiede non solo il rilascio di un certificato di proprietà personale al proprietario legittimo di animali vivi legalmente acquisiti, detenuti per scopi personali e non commerciali, ma anche che (comma 2), ogni certificato di proprietà personale si riferisce a un unico esemplare. Alla stregua di quanto sopra, pertanto, appare dunque del tutto logica la conclusione del giudice di merito il quale ha chiarito (pag. 5) che tale documentazione non era in possesso dell’imputato, osservando come quella dal medesimo esibita agli operanti e che egli aveva attestato di aver recuperato dai soggetti da cui asseritamente aveva ricevuto i due pitoni “è apparsa del tutto non corrispondente al vero”. Ed infatti, puntualizza il giudice, la denuncia di nascita proveniente dall’allevamento dello Scaffidi con prot. 903 del 9.07.2019, faceva riferimento a 26 esemplari di p.molurus bivittatus, di questi 24 esemplari erano stati ceduti a privati cittadini e ad un negozio, mentre due esemplari erano rimasti presso lo Scaffidi: nessuno degli esemplari di pitone risultava essere mai stato ceduto a Giustiniano e non risultava neppure alcuna cessione sul territorio ligure.
6. Il quarto motivo è inammissibile.
L’articolo 523 cod proc. pen. stabilisce che le parti, incluso il pubblico ministero, hanno la facoltà di replicare alle deduzioni delle altre parti, una volta, fatta eccezione per l’imputato e il suo avvocato difensore. La replica deve essere contenuta nei limiti strettamente necessari a confutare gli argomenti avversari, non può essere utilizzata per colmare omissioni della prima esposizione. L’imputato, vista la delicatezza della sua posizione, ha sempre diritto all’ultima parola.
In caso di diniego da parte del giudice del diritto di (ultima) parola sarebbe senz’altro configurabile una violazione del diritto di difesa, ma nulla vieta alle parti di riprendere la parola ed eventualmente modificare le proprie richieste.
Il motivo è inammissibile in quanto non chiarisce neppure quale sarebbe la nullità cui sarebbe affetta la sentenza. In ogni caso, l’eventuale eccezione di nullità per violazione dell’art. 523, cod. proc. pen., in quanto relativa, sarebbe sanata, non essendo stata immediatamente eccepita dal difensore. Questa Corte ha già affermato infatti che la nullità conseguente alla violazione del diritto di replica spettante all'imputato ed al suo difensore, in quanto successiva alla chiusura dell'istruttoria dibattimentale e non integrante quindi violazione del diritto al contraddittorio sulla formazione della prova, rientra tra quelle relative, dovendo pertanto essere eccepita immediatamente (Sez. 3, n. 364 del 17/09/2019, dep. 2020, Rv. 278392 – 08).
7. Il quinto motivo è inammissibile.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede la «non punibilità del fatto quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
In particolare, la norma (Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta, n.m.), oltre allo sbarramento del limite edittale (la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena), «richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
Il primo degli “indici-criteri” (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto legislativo) appena indicati, ossia la particolare tenuità dell’offesa, si articola a sua volta in due “indici-requisiti” (sempre secondo la definizione della relazione), che sono la «modalità della condotta» e «l’esiguità del danno o del pericolo», da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’articolo 133 cod. pen., (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato intensità del dolo o grado della colpa, nonché alla luce della condotta successiva al fatto, a seguito della modifica introdotta dal d. lgs. n. 150 del 10/10/2022).
Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due «indici-requisiti», sussista l’«indice-criterio» della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, coesista quello della «non abitualità» del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
La norma in parola prevede (Corte cost., sent. n. 120 del 2019) «una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge». Essa persegue (Sez. U., n. 18891 del 27/01/2022, Ubaldi, Rv. 283064 – 01) finalità strettamente connesse ai principi di proporzione e di extrema ratio della risposta punitiva, con la realizzazione di effetti positivi anche sul piano deflattivo, attraverso la responsabilizzazione del giudice nella sua attività di valutazione in concreto della fattispecie sottoposta alla sua cognizione». Il suo scopo primario (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591), è infatti «quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo» (la relazione illustrativa del d. lgs. 28/2015 parla di «irrilevanza» del fatto).
Tale disposizione attraversa orizzontalmente tutta l’area del diritto penale sostanziale. Sul punto, Sez. U., n. 24990 del 30/01/2020, Dabo, Rv. 279499, hanno stabilito che «l’istituto della non punibilità per particolare tenuità dell’offesa non connette alla mera individuazione del bene giuridico protetto alcun rilievo ai fini del giudizio sull’utilità e necessità della pena. Al contrario, il legislatore ha affidato la selezione delle fattispecie alle quali è applicabile quella causa di non punibilità alla considerazione della gravità del reato, desunta dalla pena edittale, e della non abitualità del comportamento; mentre nessuno degli altri indicatori idonei ad escludere la particolare tenuità dell’offesa elencati al secondo comma dello stesso art. 131-bis ha diretto e generale riguardo al tipo di bene giuridico protetto».
Analogamente, Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590 – 01, ha stabilito che «il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza. L’istituto persegue dunque finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio, con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo. Proporzione e deflazione s’intrecciano coerentemente».
Si richiede, in breve, «una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta; e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto. Per ciò che qui interessa, non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica. E’ la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore» (Sez. U, n. 13681/2016, Tushaj, citata).
7.1. Esaminando la fattispecie sub iudice, la sentenza chiarisce che non è applicabile l’articolo 131-bis cod. pen. in quanto:
1. la condotta riguardava due pitoni;
2. le condotte successive al reato non erano tali da consentire di ritenere il reato di lieve entità;
3. l’imputato aveva già beneficiato di una pronuncia ex art. 131-bis, in relazione alla coltivazione di stupefacenti;
4. le teche che contenevano i pitoni non erano sigillate in modo da impedirne la fuga.
La valutazione in concreto operata dal giudice appare rispettosa dei criteri imposti dalla giurisprudenza della Corte.
Il ricorso, che si sofferma su elementi estranei alla fattispecie, quali il parere della ASL sulle modalità di conservazione degli esemplari, appare peccare di genericità, non confrontandosi criticamente (se non in modo formale) con il contenuto del provvedimento impugnato, la cui motivazione appare congrua e non manifestamente illogica. A ciò va aggiunto, peraltro, come lo stesso giudice aveva disposto il rinvio per repliche invitando la difesa a verificare se l’imputato avesse intenzione di effettuare un’offerta a favore di un’associazione a tutela degli animali al fine di valutare la condotta successiva al reato ex art. 131-bis, cod. pen., come novellato dalla riforma “Cartabia”. Invito che, come sembrerebbe potersi desumere dal diniego da parte del giudice, è rimasto senza alcun seguito, non potendosi pertanto valorizzare la condotta susseguente al reato nell'ambito del giudizio complessivo sull'entità dell'offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all'art. 133, comma primo, cod. pen. (Sez. 3, n. 18029 del 04/04/2023, Rv. 284497).
8. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Alla declaratoria di rigetto consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 09/11/2023