Cass. Sez. III n. 30720 del 4 novembre 2020 (CC 18 set 2020)
Pres. Andreazza Est. Gentili Ric. Villari ed altri
Caccia e animali.Interdizione di determinati terreni all’esercizio dell’attività venatoria

In materia di interdizione di determinati terreni all’esercizio dell’attività venatoria - ove siano eccettuati gli ambiti territoriali ricompresi all’interno dei Parchi nazionali, in relazione ai quali la perimetrazione è frutto di un provvedimento di legislazione primaria oggetto di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica e per i quali, pertanto, non vi è la necessità di alcuna segnalazione che li distingua quanto alla vigenza del divieto in questione rispetto al restante territorio - gli altri ambiti per i quali vige il divieto di attività venatoria sono soggetti al cosiddetto sistema della tabellazione, per effetto del quale i divieti di esercizio venatorio e di ingresso con armi in un'area protetta sita all'interno di un parco regionale o comunque di altro spazio interdetto alla caccia sono efficaci ed opponibili ai privati a condizione che l'area sia perimetrata da apposita tabellazione che ne renda visibili i confini.


RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Messina, con ordinanza del 27 febbraio 2020, ha rigettato la richiesta di riesame presentata da Villari Santo, Gugliotta Cosimo e Miduri Marco avverso il decreto con il quale il Gip del medesimo Tribunale aveva convalidato, su conforme richiesta del Pm, il sequestro preventivo di armi e munizioni a costoro appartenenti eseguito in via di urgenza dalla polizia giudiziaria essendo stati i medesimi sorpresi nell’esercizio dell’attività venatoria in zona ad essa interdetta.
Il Tribunale, pur riconosciuto che le indagini svolte non avevano permesso di accertare se la zona ove i tre erano stati sorpresi era “tabellata”, cioè segnalata con apposite tabelle come zona ove vigeva il divieto di caccia, ha tuttavia osservato che taluni dei soggetti sorpresi nell’esercizio della caccia erano nativi delle zone interessate ed era perciò ragionevole ritenere che tutti fossero stati edotti del fatto che lì era una zona interdetta alla caccia.
Ha interposto ricorso per cassazione la difesa dei tre originari ricorrenti contestando, in primo luogo, il fatto che l’ordinanza impugnata recasse una intestazione relativa al riesame di una misura cautelare personale e non reale.
Ulteriormente la detta difesa ha lamentato il fatto che il provvedimento, deliberato in data 27 febbraio 2020, fosse stato depositato, con i relativi motivi, solo il successivo 21 aprile 2020 e notificato in data 4 maggio 2020, in violazione dei termini perentori previsti per gli adempimenti in questione.
La difesa ha lamentato, sulla sussistenza del fumus delicti contestato, che non fosse risultata la circostanza che il divieto di caccia esistente nelle zone ove sono avvenuti i fatti era stato segnalato nelle forme di legge.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, risultato fondato, deve essere, pertanto, accolto nei sensi di cui in motivazione.
Osserva il Collegio che, diversamente dai primi due motivi di censura, palesemente inammissibili, è, invece, fondato il terzo motivo.
Quanto ai primi due si osserva che la censura formulata prioritariamente è priva di qualsiasi consistenza, non foss’altro perché la stessa è volta a contestare la legittimità di una parte del provvedimento impugnato, la sua intestazione (nella quale l’atto è definito riguardante un “Riesame contro provvedimenti in materia di misura cautelari personali”, laddove indubbiamente il provvedimento ha ad oggetto un sequestro preventivo, che è misura cautelare reale), che, non avendo alcuna funzione decisoria né individuando l’ufficio che ha emesso l’atto, neppure è individuabile fra gli elementi che debbono essere contenuti nel provvedimento in questione; esso, in altre parole poteva letteralmente mancare e nessun vizio avrebbe per tale ragione colpito la ordinanza impugnata.
Per altro, si osserva, non solo i ricorrenti non hanno evidenziato in alcun modo in quali termini siffatta erronea indicazione possa avere pregiudicato la loro posizione, posto che la motivazione della ordinanza impugnata è integralmente riferita alla impugnazione da loro proposta avverso la convalida della misura cautelare reale emessa ai loro danni ed in essa non è contenuto alcun cenno a misure di carattere personale che possa avere disorientato  i lettori del provvedimento impugnato, ma, va altresì osservato, il richiamo alla normativa in base alla quale è stato adottato il provvedimento impugnato - indicata questa immediatamente in calce alla riportata, erronea, intestazione – riporta chiaramente l’art. 322 cod. proc. pen. che è disposizione dettata per il “riesame del decreto di sequestro preventivo”, in tal senso fugando ogni residua eventuale perplessità del lettore.
Quanto al secondo motivo di ricorso, onde dare atto della sua manifesta infondatezza, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, nel procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro, il rinvio dell'art. 324, comma 7, cod. proc. pen., alle disposizioni contenute nell'art. 309, comma 10, cod. proc. pen,, deve intendersi tuttora riferito alla formulazione originaria del predetto articolo; ne deriva che sono inapplicabili le disposizioni - introdotte nel predetto comma 10 dalla legge 8 aprile 2015, n. 47 - relative al termine perentorio per il deposito della decisione  (così: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 6 maggio 2016, n. 18954), né, come è stato precisato di recente, una tale interpretazione appare impingere con principi di carattere costituzionale (si veda infatti, al riguardo: Corte di cassazione, Sezione III penale, 28 novembre 2018, n. 52157, secondo la quale è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 324, comma 7, e 309, comma 10, cod. proc. pen., in relazione agli artt. 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui dette disposizioni non prevedono un termine a pena di inefficacia per il deposito dell'ordinanza del Tribunale del riesame in tema di misure cautelari reali, non applicandosi quello di trenta giorni, stabilito, invece, in caso di riesame delle misure cautelari personali).
Come detto è, viceversa fondato il terzo motivo di ricorso.
In ordine ad esso deve, preliminarmente, precisarsi che in materia di interdizione di determinati terreni all’esercizio dell’attività venatoria - ove siano eccettuati gli ambiti territoriali ricompresi all’interno dei Parchi nazionali, in relazione ai quali la perimetrazione è frutto di un provvedimento di legislazione primaria oggetto di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica e per i quali, pertanto, non vi è la necessità di alcuna segnalazione che li distingua quanto alla vigenza del divieto in questione rispetto al restante territorio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 settembre 2014, n. 36707; idem Sezione III penale, 6 agosto 2007, n. 32021) - gli altri ambiti per i quali vige il divieto di attività venatoria sono soggetti al cosiddetto sistema della tabellazione, per effetto del quale i divieti di esercizio venatorio e di ingresso con armi in un'area protetta sita all'interno di un parco regionale o comunque di altro spazio interdetto alla caccia sono efficaci ed opponibili ai privati a condizione che l'area sia perimetrata da apposita tabellazione che ne renda visibili i confini.
Ove questa risulti mancante o, come nel nostro caso, ne sia incerta la esistenza, sussistono gli estremi per la ricognizione dell’illecito, anche sotto il profilo del fumus, in quanto sia dimostrato, ovvero siano indicati da parte dell'accusa elementi logici che lo facciano ritenere, che il trasgressore, nonostante l’assenza delle predette segnalazioni,  avesse la consapevolezza del divieto esistente all'interno dell'area, non potendo la stessa essere accertata sulla base di una mera presunzione (per tutte: Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 luglio 2017, n. 35195; idem Sezione III penale, 24 aprile 2016, n. 17102).
Rileva il Collegio che nel caso di specie il Tribunale peloritano ha fatto discendere, nella pacifica assenza della prova di un’idonea tabellazione nella zona ove i tre ricorrenti stavano esercitando la caccia, la consapevolezza del fatto che questa fosse lì interdetta dalla circostanza che “taluni degli indagati (fossero) nativi di Fiumedinisi” (località ove di trova la Riserva naturale in questione), il che ha indotto il giudice del riesame a desumere essere ragionevole ritenere “che tutti i soggetti appartenenti alla medesima compagnia di cui questi facevano parte (scilicet: ove “questi” sono i nativi di Fiumedinisi) fossero bene a conoscenza” della esistenza della Riserva de qua.
Ora, a prescindere dal fatto che, a tutto voler concedere, il singolare ragionamento posto a base della deduzione formulata dal Tribunale avrebbe potuto riguardare, più che ai soggetti nativi di Fiumedinisi, semmai quanti ivi avessero trascorso una considerevole parte della loro esistenza, posto che il solo evento della nascita non consente di attribuire all’individuo alcuna esperienza rispetto al luogo ove essa sia avvenuta, si osserva che, per un verso, la ordinanza del Tribunale peloritano neppure chiarisce quali fossero i soggetti, fra quanti sorpresi ad esercitare la caccia, che potevano vantare la caratteristica che avrebbe reso ragionevole ritenere che gli stessi conoscessero la perimetrazione della Riserva naturale in questione né illustra le ragioni per le quali detti soggetti avrebbero dovuto fare partecipi anche gli altri loro sodali di tale loro conoscenza, ma, per altro verso, neppure fornisce alcun dato in forza del quale la inferenza logica operata dal Tribunale, cioè il ritenere che costoro conoscessero la perimetrazione della Riserva naturale, appaia ragionevole, non potendo ritenersi, a prescindere da ogni altro rilievo, che siffatta conoscenza possa appartenere alla categoria del fatto notorio, cioè a quelle conoscenze per le quali - stante la loro  corrispondenza a comuni cognizioni storiche (inteso l’aggettivo ovviamente non in senso culturale ma fenomenico, concernente cioè la ampiamente diffusa consapevolezza in un determinato ambito sociale, familiare o territoriale, dei fatti ivi avvenuti o comunque ivi dibattuti) ovvero riguardanti le forme elementari di manifestazioni delle forze della natura e delle sue leggi a tutti familiari - non vi è la necessità della dimostrazione del probandum (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 21 febbraio 1995, n. 4401).
Nel caso in esame, invece, il Tribunale ha, in termini fideisticamente assertivi, fatto discendere la ricordata conoscenza sulla base di una presunzione indubbiamente priva di qualsivoglia attendibilità logica, in quanto fondata sulla inaccettabile equazione per cui chi sia nato in un determinato ambito territoriale debba essere a conoscenza delle caratteristiche normative che contraddistinguono tale ambito.
La ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio al Tribunale di Messina per un nuovo esame che tenga conto dei rilievi esposti.      

PQM
Annulla la ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Messina competente ai sensi dell’art. 324, comma 5, cod. proc. pen.