TAR Lombardia (MI), Sez. I, n. 1852, del 28 luglio 2015
Caccia e animali.Legittimità rigetto della licenza di porto di fucile uso caccia per frequentazioni di soggetti pregiudicati.

Ferma restando la rilevanza dirimente delle condanne ricevute il ricorrente non ha prospettato né in sede procedimentale, né in corso di giudizio, alcun elemento idoneo a confutare le valutazioni dell’Amministrazione, per esempio con riguardo alle contestate frequentazioni con soggetti pregiudicati. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 01852/2015 REG.PROV.COLL.

N. 00338/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 338 del 2013, proposto da: 
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. Monica Foti, con domicilio eletto presso il suo studio in Milano, Via Fontana, 1 

contro

Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliato in Milano, Via Freguglia, 1 

per l'annullamento

del decreto di rigetto della licenza di porto di fucile uso caccia, emesso dal Questore di Milano in data 25.10.2012 e notificato in data 18.11.2012.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1 e 2;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 luglio 2015 il dott. Angelo Fanizza e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

Con ricorso ritualmente proposto il sig. -OMISSIS- ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il decreto di rigetto della licenza di porto di fucile uso caccia, emesso dal Questore di Milano in data 25.10.2012.

Tale provvedimento, in particolare, è stato motivato sull’assunto che il ricorrente ha riportato due condanne divenute irrevocabili (Tribunale di Milano del 2.11.2001, emessa a seguito di patteggiamento, con cui è stata inflitta la pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione, oltre, lire 266,000 di multa, per i reati di cui agli artt. 56, 110, 624, 625 n. 2 e n. 7, 62 bis, 69 comma 3; Tribunale di Locri dell’8.5.2006 a 8 mesi di reclusione ed €. 1.750,00 di multa per il reato di cui all’art. 73 del DPR 309/1990), oltre al fatto che risulta essere stato “controllato in varie circostanze e in luoghi diversi con soggetti pregiudicati”.

A fondamento dell’impugnazione il ricorrente ha dedotto, con unico motivo, l’illegittimità dell’impugnato provvedimento per violazione di legge ed eccesso di potere (per travisamento, carenza d’istruttoria e di motivazione), censurando “il richiamo acritico dei precedenti, che neppure cumulati superano il tetto normativamente previsto, e l'automaticità del giudizio negativo cristallizzato nel prefato provvedimento”, oltre al fatto che “la prova della buona condotta, comunque offerta in atti in questa sede, non può gravare sul privato, poiché l'onere probatorio volto a contestare una situazione non fondata su criteri prestabiliti” (cfr. pagg. 3 – 4).

Si è costituito in giudizio, con memoria formale, il Ministero dell’Interno (13.2.2013).

Con ordinanza n. 270 del 28.2.2013 la Sezione ha respinto la domanda cautelare, rilevando che “i precedenti penali menzionati nel provvedimento impugnato, a prescindere dalla intervenuta riabilitazione, sono tali da far venir meno il requisito della buona condotta in capo al ricorrente, considerate anche le sue frequentazioni con soggetti pregiudicati”.

In vista dell’udienza di discussione del ricorso nel merito, fissata per l’8.7.2015, soltanto il Ministero ha depositato una memoria (3.6.2015) nella quale ha richiamato la giurisprudenza che riconosce all’Amministrazione un’ampia discrezionalità nel valutare la “prevedibilità dell’abuso dell’autorizzazione”; a tale udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.

Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.

L’art. 11, comma 3 del R.D. 773/1931 prevede che “le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego della autorizzazione”.

Il fondamento di tale disposizione, ad avviso del Collegio, è da ricondurre alla tutela dell’ordine pubblico, e ciò non soltanto in caso di una sua manifesta e conclamata lesione, ma anche nell’ipotesi di semplice messa a repentaglio di tale superiore interesse, tenuto conto che “il diritto del cittadino alla propria incolumità è certamente prevalente e prioritario rispetto a quello, del tutto eccezionale, di portare e detenere armi, sì che questo potrà essere soddisfatto soltanto nell’ipotesi in cui, riscontrando il possesso degli altri requisiti prescritti dalla legge, non sussista alcun pericolo che il soggetto possa abusare delle armi stesse” (cfr. TAR Piemonte, 4 novembre 2009, n. 2507).

Ne deriva che i provvedimenti di diniego di rilascio del porto d’armi (nel caso di specie, di fucile ad uso caccia), non impongono, dal punto di vista delle valutazioni istruttorie, un oggettivo ed accertato abuso delle armi, essendo, di contro, sufficiente che il soggetto non dia pieno affidamento di non abusarne.

Sotto tale profilo, il ricorrente non può dirsi certamente al di sopra del circostanziato sospetto che la Questura di Milano ha posto a base dell’impugnato provvedimento, risultando palese che le condanne riportate motivatamente depongono per l’insussistenza dei “dei requisiti di completa e assoluta affidabilità, indispensabili per poter continuare ad essere titolare di autorizzazioni di polizia in materia di armi”, come persuasivamente rilevato dalla Questura.

Occorre, peraltro, considerare che – ferma restando la rilevanza dirimente delle condanne sopra citate – il ricorrente non ha prospettato né in sede procedimentale, né in corso di giudizio, alcun elemento idoneo a confutare le valutazioni dell’Amministrazione, per esempio con riguardo alle contestate frequentazioni con soggetti pregiudicati.

Non è, infine, inopportuno rimarcare che nella sentenza n. 440 del 16 dicembre 1993 la Corte costituzionale ha osservato sul piano generale che “il porto d'armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi e che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il "buon uso" delle armi stesse; in modo tale - così è testualmente detto in alcune decisioni - da scagionare dubbi o perplessità sotto il profilo dell'ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività, dovendo essere garantita anche l'intera, restante massa dei consociati sull'assenza di pregiudizi (di qualsiasi genere) per la loro incolumità. Dalla eccezionale permissività del porto d'armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell'autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli a situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti”.

Ciò che, appunto, sembra aver connotato la diligente valutazione della Questura di Milano.

In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese processuali seguono la soccombenza e sono liquidate, ai sensi del D.M. 55/2014, in €. 800,00, oltre accessori, che il ricorrente dovrà corrispondere al Ministero dell’Interno.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in €. 800,00, oltre accessori, in favore del Ministero dell’Interno.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità degli altri dati identificativi del ricorrente, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2015 con l'intervento dei magistrati:

Angelo De Zotti, Presidente

Roberto Lombardi, Referendario

Angelo Fanizza, Referendario, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 28/07/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)