Consiglio di Stato Sez. VI n. 4481 del 1 giugno 2022
Elettrosmog.Installazione antenna su parti comuni di un fabbricato
In relazione a lavori edilizi da eseguirsi su parti comuni di un fabbricato e non concernenti opere connesse all'uso normale della cosa comune, l'Amministrazione comunale è tenuta — ai fini del rilascio della relativa concessione — a richiedere il consenso di tutti i proprietari (fattispecie relativa a titolo abilitativo edilizio rilasciato per l'installazione di una stazione radio base GSM)
Pubblicato il 01/06/2022
N. 04481/2022REG.PROV.COLL.
N. 03128/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3128 del 2021, proposto da
Inwit s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Aristide Police, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Liegi, n. 32;
contro
Antonina Croze, Caterina Croze, Marta Croze, Teresa Mariutti personalmente e in qualità di successore del sig. Fausto Mariutti e Letizia Mariutti, rappresentati e difesi dagli avvocati Francesco Acerboni e Stefania Parola, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Comune di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Stefano Gattamelata, Antonio Iannotta e Nicoletta Ongaro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Stefano Gattamelata in Roma, via di Monte Fiore, n. 22;
Regione Veneto - Commissione Salvaguardia di Venezia, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 840/2020, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Antonina Croze, di Caterina Croze, di Marta Croze, Teresa Mariutti, di Letizia Mariutti e del Comune di Venezia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 maggio 2022 il Cons. Giovanni Pascuzzi e uditi per le parti gli avvocati Aristide Police, Lidia Baldassari per delega di Stefania Parola e Renzo Cuonzo per delega di Stefano Gattamelata;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Nel 2002 i signori:
a) Antonina, Caterina e Marta Croze (proprietarie dell’unità sita in Venezia e censita al catasto fabbricati sez. Ve, - zona censuaria I - foglio 15 - part. 29110 - Mapp. 480 – San Marco 4578 - Piani Terra e 1° - Cat. A/3 - Classe 2, vani 5; part. 17345 - mapp. 480 - Sub. 11 - San Marco 4668/A – Piani Terra e 2° - Cat. A/3 - Classe 3 – vani 6; part. 17345 – mapp. 480 - Sub 15 – San Marco 4668/A - Piani Terra e 5° - Cat. A/3 - Classe 3 - vani 6);
b) Fausto Mariutti (proprietario dell'unita sita in Venezia, Sez. VE - zona censuaria I – foglio 15 – part. 17345 - mapp, 480 – sub 6 - San Marco 4668-4667 - Piano Terra - Cat. C/1 — Classe 12 - mq 38 e dell’unità sita in Venezia, Sez. VE - zona censuaria l - foglio 15 – part. 29110 - mapp. 485 - Sub. 4 - 487 – 2 - San Marco 4571/C – Piani 1°e 2° - Cat, A/2 - Classe 5 - vani 7.5);
c) Letizia Mariutti (proprietaria dell'unità sita in Venezia, Sez. VE - zona censuaria I - foglio 15 – part. 1042712 - mapp. 485 - Sub. 11 - 487 - 13 - San Marco Calle di Mezzo 4571/C -- Piani 5° e 6° - Cat. A/3 - Classe 4 - vani 3);
con ricorso proposto contro il Comune di Venezia e la Commissione di Salvaguardia per la città di Venezia e nei confronti di Omnitel Pronto Italia s.p.a., impugnarono dinanzi al Tar per il Veneto la concessione edilizia rilasciata dal Comune di Venezia, Settore Pianificazione e Gestione del Territorio, in data 7 dicembre 2001, prot. n. 2001/8016, prot. gen. n. 2001/67071, per l'installazione di una stazione radio base GSM ed ogni atto antecedente e susseguente.
La concessione edilizia appena citata era stata richiesta il 15 marzo 2001, al Comune di Venezia, da Omnitel Pronto Italia s.p.a. in forza di due contratti di locazione dalla stessa società stipulati in data 8 marzo 2001 con i signori Pietro Mariutti e Margherita Mariutti per effetto dei quali aveva ottenuto il godimento dei vani necessari all’alloggiamento delle apparecchiature e al fissaggio del supporto dell’antenna.
1.1 A sostegno dell’impugnativa venivano formulati i seguenti motivi di ricorso: Violazione di legge. Violazione dell’art. 4, comma 1, della l. 28 febbraio 1977 n. 10. Difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e dei presupposti. Eccesso di potere.
Si sosteneva:
- che la concessione fosse stata rilasciata senza qualsiasi forma di assenso o anche solo di informazione e conoscenza da parte del condominio o degli altri condomini;
- che la concessione rilasciata con riferimento esclusivo al civico 4571/c in realtà riguardasse opere che incidevano su immobili riferibili anche al civico 4668/a.
1.2 I ricorrenti proponevano successivamente dei motivi aggiunti con i quali eccepivano:
a) Violazione di legge. Violazione dell'obbligo di riportare le quote secondo verità. Nullità della concessione.
Si sosteneva che le quote indicate nel progetto non corrispondessero a verità.
b) Violazione di legge. Violazione dell'articolo 80-bis del regolamento edilizio comunale approvato con deliberazione consiliare numero 43 del 28 febbraio 2002. Difetto d'istruttoria. Eccesso di potere.
Si sosteneva la violazione dell'articolo 80-bis del regolamento edilizio comunale che imponeva che l'edificio su cui sorge l'antenna dovesse avere altezza superiore a quella degli edifici circostanti nel raggio di 50 metri.
c) Violazione di legge. Violazione del parere della Commissione di Salvaguardia numero 28/47421. Difetto di istruttoria. Eccesso di potere.
Si sosteneva che il Comune aveva erroneamente rilasciato la concessione edilizia senza attendere il verificarsi delle condizioni poste dalla Commissione di Salvaguardia ovvero l'effettuazione di una simulazione con prototipo.
2. Nel giudizio di primo grado, con ricorso incidentale, la Vodafone Omnitel s.p.a. (succeduta ad Omnitel Pronto Italia s.p.a.) chiedeva l’annullamento:
a) dell'art. 80-bis del regolamento edilizio comunale, nella sola parte in cui prevedeva che dovesse essere il fabbricato su cui insisteva l'impianto anziché l'impianto stesso ad essere in posizione più elevata rispetto agli edifici circostanti;
b) del parere della Commissione di Salvaguardia di Venezia, espresso nella seduta n. 16/01 del 30 ottobre 2001, nella parte in cui demandava alla Soprintendenza BB.AA.AA. il parere conclusivo sulla compatibilità dell'impianto.
2.1 In relazione all'art. 80-bis del regolamento edilizio comunale l’impugnativa era basata sui seguenti motivi:
a) Violazione di legge. Violazione degli artt. 114 e 115 d. lgs. 31.3.1998, n. 111; 1 l. 31.7.1997, n. 249; 4 d.l. 10.9.1998, n. 381. Incompetenza assoluta.
Si deduceva l'illegittimità della norma perché adottata da ente privo di attribuzione in materia. Si sosteneva che non spettava ai Comuni la disciplina della installazione degli impianti di radiocomunicazione sotto il profilo della compatibilità con la salute umana, ma allo Stato, e, per effetto dell'art. 4, co. 3, del d. l. 381/1998, anche alle Regioni ed alle Provincie autonome. Dalla illegittimità parziale della norma regolamentare invocata dai ricorrenti principali conseguiva la legittimità della concessione edilizia rilasciata a Vodafone Omnitel.
b) Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1. l. 31.7.1997, n. 249, nonché 1, 3 e 4 d. l. 10.9.1998, n. 381.
Si sosteneva che la disposizione in parola introduceva un limite diverso ed ulteriore rispetto a quelli previsti dalla normativa statale.
c) Violazione di legge. Violazione dell'art. 3 l. 7.8.1990, n. 241. Difetto di motivazione. - Eccesso di potere per illogicità manifesta.
Si sosteneva che il Consiglio comunale, nell'adottare la norma in questione, non avesse tenuto conto delle vigenti previsioni ordinamentali in materia; che non avesse appropriatamente apprezzato i più recenti indirizzi scientifici in tema di inquinamento elettromagnetico; che non avesse considerato le caratteristiche strutturali e funzionali degli impianti per la telefonia mobile; che non avesse fornito alcuna indicazione circa l'efficienza del nuovo obiettivo di qualità. Si sosteneva anche che ad analoghe conclusioni si sarebbe giunti anche a voler considerare la norma come fondata sulla potestà pianificatrice attribuita dalla legge ai Comuni.
2.2 In relazione al parere della Commissione di Salvaguardia di Venezia l’impugnativa era basata sui seguenti motivi:
a) Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione dell'art. 6. l. 16.4.1973, n. 171 e successive modificazioni ed integrazioni nonché dei principi della materia. Difetto dei presupposti. - Eccesso di potere per travisamento dei fatti. Invalidità derivata.
Si sosteneva che il parere era stato espresso oltre il termine prescritto con conseguente illegittimità della prescrizione sub n. 3 contenuta nella concessione edilizia.
b) Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione dell'art. 5 l. 16.4.1973, n. 171. Invalidità derivata.
Si sosteneva che la Commissione aveva assunto la propria determinazione con il voto favorevole della maggioranza dei presenti, ma aveva espresso un parere condizionato a quello "conclusivo" di un componente, da rendersi a seguito di una "simulazione con prototipo" e della verifica "della modalità di attacco alle strutture del tetto". Tale condizione apposta era illegittima perché si risolveva in una delega a favore di un componente della Commissione, con violazione tanto del principio di collegialità quanto del termine perentorio posto dalla legge per la resa del parere. La conseguenza era l’illegittimità della condizione ed invalidità derivata della condizione n. 3 apposta in concessione.
c) Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione dell'art. 6 l. 171/1973. Invalidità derivata.
Si sosteneva che il potere istruttorio dell’ufficio tecnico doveva essere esercitato prima che la Commissione esprimesse il proprio parere, mentre nel caso di specie era stato esercitato a parere già reso ed a termine comunque scaduto.
3. Nel giudizio di primo grado si costituiva il Comune di Venezia contestando la fondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.
4. Il Tar per il Veneto con ordinanza istruttoria n. 830 depositata in data 10 luglio 2019, disponeva verificazione affinché fosse «accertato su quale/i parte/i del edificio (o degli edifici) risulta collocato (in termini di appoggio, ancoraggio, aggancio et similia) il palo sul quale è stata installata l'antenna (ovvero le antenne) dell'impianto in questione nonché le aree di ingombro del palo e dell'antenna (ovvero antenne) nonché più in generale quale/i parte/i dell'edificio risultano interessate dall'installazione della stazione radio base GSM da intendersi in senso complessivo, ivi compresi eventuali cavi, precisando in relazione a questi ultimi le parti dell'edificio interessate dal passaggio dei cavi stessi».
5. Successivamente con sentenza n. 840 pubblicata il 21 settembre 2020 lo stesso Tar per il Veneto:
a) ha accolto il ricorso principale nei limiti indicati in motivazione e, per l’effetto, ha annullato il provvedimento impugnato;
b) ha dichiarato improcedibile il ricorso per motivi aggiunti;
c) ha dichiarato improcedibile il ricorso incidentale.
5.1 A sostegno della decisione sono state addotte le seguenti argomentazioni:
- dalla verificazione e dalla documentazione risultava che tanto la parte visibile dell’antenna e la struttura di sostegno della stessa, quanto il considerevole fascio di cavi ad essa collegato interessassero in vario modo le parti comuni dei fabbricati nei quali sono inserite le unità immobiliari di proprietà dei ricorrenti, rientrando tra i c.d. beni comuni anche il c.d. decoro architettonico;
- il decoro architettonico è un bene comune, ai sensi dell'art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare, tanto che, come nel caso di specie, il singolo condomino è legittimato ad agire in giudizio per la rimozione delle modifiche apportate da altri condòmini che si rivelino abusive e pregiudizievoli;
- la struttura dell’impianto (comprensiva dei cavi) occupava parte di beni comuni quali il tetto e i muri perimetrali, ma veniva ad incidere sulle linee architettoniche – peraltro nel centro storico di Venezia – che caratterizzano il prospetto estetico degli immobili interessati;
- chi chiede l’autorizzazione per l'installazione su un fabbricato di una antenna per telecomunicazioni che interessa parti condominiali deve disporre del consenso dei condomini espresso in apposita delibera;
- l'art. 11 del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380 dispone che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, sicché la P.A. ha il diritto-dovere di verificare il presupposto della disponibilità giuridica del bene immobile interessato dall'attività edificatoria, particolarmente in presenza di contestazioni al riguardo;
- il Comune ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente la concessione edilizia (ora permesso di costruire) accertando che sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria;
- la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili: nel procedimento di rilascio della concessione edilizia l’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di una attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente;
- in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è legittimo esigere il consenso degli stessi;
- nel caso di specie non risultava che l’assemblea di entrambi i condomini coinvolti avesse autorizzato o comunque prestato il consenso, anche per fatti concludenti, alla realizzazione delle opere in contestazione.
5. Avverso la sentenza del Tar per il Veneto ha proposto appello Inwit s.p.a. (già Vodafone Italia s.p.a.) per i motivi che saranno più avanti esaminati.
6. In giudizio si sono costituiti Antonina Croze, Caterina Croze, Marta Croze, Teresa Mariutti personalmente e in qualità di successore del sig. Fausto Mariutti e Letizia Mariutti chiedendo il rigetto dell’appello.
7. In giudizio si è costituito il Comune di Venezia chiedendo l’annullamento della sentenza del Tar per il Veneto per mancata integrazione del contraddittorio e comunque il rigetto dell’appello.
8. Con ordinanza n. 6772 del 22 dicembre 2021 questa Sezione, ritenuto che alla luce del bilanciamento degli interessi delle parti appariva prevalente quello al mantenimento della res integra sino alla definizione del giudizio nel merito, ha sospeso l’efficacia della sentenza impugnata.
9. All’udienza del 5 maggio 2022 l’appello è stato trattenuto per la decisione.
DIRITTO
1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione circa la mancata integrazione del contraddittorio sollevata dal Comune di Venezia.
La difesa del Comune ha riproposto in appello l’eccezione (dedotta in primo grado nella memoria cautelare in data 5 luglio 2002) di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei signori Pietro e Margherita Mariutti, contraddittori necessari in quanto soggetti che hanno avevano stipulato con Omnitel Pronto Italia i contratti di locazione che hanno legittimato la Società a chiedere ed ottenere dal Comune la concessione edilizia impugnata ed annullata.
Si sostiene che l’eccezione non è stata presa in considerazione dal Giudice di primo grado con la sentenza impugnata, che risulterebbe pertanto viziata: se ne chiede dunque l’annullamento per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari Pietro e Margherita Mariutti con rinvio al Giudice di primo grado per la prosecuzione.
L’eccezione è infondata.
Il giudizio amministrativo ha quali parti necessarie, oltre al ricorrente, l'Amministrazione alla quale deve essere imputato l'atto lesivo, o comunque nei cui confronti viene avanzata la pretesa, ed i soggetti – controinteressati - ai quali il processo può togliere un'utilità in precedenza conferita (Consiglio di Stato, sez. V, 15/07/2013, n. 3820).
La qualità di controinteressato all'annullamento di un atto amministrativo si desume con riguardo al soggetto, individuato nell'atto ovvero facilmente individuabile in ragione delle indicazioni contenute nell'atto medesimo, secondo semplice e ordinaria diligenza, che risulta titolare di un interesse eguale e contrario a quello del ricorrente ma pur sempre diretto e immediato; infatti, nel modello del giudizio impugnatorio tipico del processo amministrativo, caratterizzato dalla centralità della domanda costitutiva di un annullamento dell'atto dell'Amministrazione, in cui le parti necessarie sono individuate in base al criterio oggettivo dell'atto contestato, nel quale si estrinseca il potere di cui è titolare l'Amministrazione, anche l'individuazione del terzo rispetto a quei soggetti minimi e la sua possibile qualificazione come parte necessaria si giova del criterio oggettivo dell'atto, secondo cui è parte necessaria il soggetto direttamente contemplato nell'atto o individuabile in base al vantaggio che l'atto gli attribuisce (Consiglio di Stato, sez. V, 14/01/2022, n. 256). Nella specie il controinteressato era facilmente individuabile nel soggetto che aveva ottenuto la concessione edilizia e che quindi aveva un interesse analogo e contrario a quello dei ricorrenti in primo grado: a tale soggetto il ricorso di primo grado è stato ritualmente notificato e detto controinteressato si è costituito in giudizio.
Nel processo amministrativo la chiamata in causa è obbligatoria nei confronti di quanti siano titolari diretti di un bene della vita attribuito dall'Amministrazione con l'atto oggetto di impugnazione; non è invece necessaria la chiamata in causa di quanti vantino una posizione giuridica dipendente da quella del destinatario specifico del provvedimento (nel nostro caso: la concessione edilizia), atteso che la posizione giuridica di questi non attiene ad un rapporto con l'Amministrazione, ma con il beneficiario immediato dei suoi atti e, di conseguenza, l'interesse di tali soggetti è tutelato solo mediatamente, in connessione alla posizione del controinteressato; in ulteriore conseguenza, tali soggetti non sono parti necessarie del processo, ferma restando la loro legittimazione a spiegarvi intervento, a sostegno delle ragioni del portatore dell'interesse diretto (Consiglio di Stato, sez. V, 23/02/2015, n. 864).
I signori Pietro e Margherita Mariutti non erano parte necessaria del giudizio perché essi non avevano avuto alcun rapporto con l’Amministrazione né erano stati destinatari direttamente o indirettamente di provvedimenti amministrativi. Essi avevano un rapporto negoziale con una parte necessaria ma non erano parte necessaria. Al più avrebbero potuto dispiegare un intervento a sostegno delle ragioni del controinteressato, ma non esisteva alcun obbligo di evocarli in giudizio ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio tra le parti necessarie.
2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza impugnata per:
Errores in procedendo et in iudicando. Sull’insussistenza delle condizioni preliminari dell’azione introduttiva. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, legge n. 205/2000 – Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1120, 1122 e 1122-bis c.c. Violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione della legge 28 gennaio 1977, n. 10.
2.1 Si eccepisce innanzitutto l’inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado perché promosso oltre il termine per la notifica del ricorso, stabilito in sessanta giorni anche dalla legge sul processo amministrativo 21 luglio 2000, n. 205, previgente al d.lgs. n. 104/2010. Tra la data di rilascio della concessione, 7 dicembre 2001, e la data di notificazione del ricorso introduttivo, 15 marzo 2002, intercorrono 98 giorni mentre ai sensi dell’art. 1 della legge n. 205/2000 “per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale” il termine di sessanta giorni decorre “dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento” (nella specie essendo la concessione del 7 dicembre 2001 il termine di pubblicazione doveva ritenersi scaduto nei successivi 15 giorni).
L’eccezione non è fondata.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha fissato in maniera inequivoca il regime relativo all’individuazione del dies a quo per impugnare una concessione edilizia.
Secondo l’orientamento ribadito anche di recente, ai fini del dies a quo per l'impugnazione del titolo illegittimo rileva non solo l'an della lesione, ma anche il quantum della stessa e, pertanto, anche quando sia già certa e conoscibile l'esistenza di una costruzione abusiva (e, quindi, l'esistenza di una lesione agli interessi di cui è titolare), il termine per ricorrere comincia a decorrere solo con l'ultimazione dell'opera o, comunque, quando questa ha raggiunto uno sviluppo tale da rivelare in modo inequivoco la sua consistenza, entità e reale portata (Consiglio di Stato, sez. VI, 16/01/2017, n. 105). Mette conto notare che, nell’occasione, il principio è stato affermato anche con riferimento all’ipotesi di inedificabilità assoluta dell'area. Alla luce di questo principio l’impugnativa di primo grado deve essere considerata ritualmente proposta.
A non diverse conclusioni si perviene se di considera un orientamento più risalente (Consiglio di Stato, sez. V, 05/02/2007, n. 452) secondo il quale il termine per l'impugnazione della concessione edilizia da parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalle costruzioni assentite, decorre dalla piena ed effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività dell'impugnativa; a tal fine non è sufficiente il mero inizio dei lavori, ma occorre la ultimazione di questi, affinché gli interessati siano in grado di avere cognizione dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistico-edilizie eventualmente derivanti dalla concessione. Nel caso in cui venne affermato il principio la prova rigorosa della piena conoscenza mancava del tutto essendosi l'appellante limitato a fornire la data dell'adozione e dell'affissione all'albo del provvedimento comunale impugnato. Era una situazione simile a quella di cui è causa: l’appellante fa riferimento unicamente alle date di pubblicazione del provvedimento ma non fornisce neanche un inizio di prova circa il momento in cui i ricorrenti in primo grado avevano avuto conoscenza del provvedimento impugnato.
L’eccezione deve essere rigettata anche alla luce della ponderazione, nel caso concreto, degli interessi in gioco: se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali. I ricorrenti in primo hanno proposto il ricorso introduttivo in data 12.03.2002, poco dopo che è stato aperto il cantiere e sono iniziati i lavori ed è quindi stato possibile avere la materiale percezione della portata lesiva dell’intervento assentito. Il ricorso si era basato sulle informazioni acquisite in loco dal cartello di cantiere, e i ricorrenti furono costretti a proporre dei motivi aggiunti alla luce della documentazione acquisita solo in un secondo tempo. Essi non hanno mantenuto nessun comportamento colpevolmente dilatorio, ma al contrario si sono attivati appena possibile per giungere ad una definizione degli assetti degli interessi in gioco.
2.2 Dopo l’eccezione di inammissibilità appena trattata, nel primo motivo di appello si sostiene che:
- Inwit vanta una posizione giuridica legittimata al rilascio della concessione edilizia, ai sensi dell’art. 4 della legge 28 gennaio 1977, n. 10;
- la sentenza ha fondato il decisum sulla presunta alterazione del decoro architettonico, assolutamente indimostrata nel corso del giudizio ed estranea sia alla domanda dei ricorrenti sia alle risultanze della verificazione;
- la tutela del decoro architettonico si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare necessita dell’approvazione del condominio a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l’opera;
- l’assetto delle linee del fabbricato non solo non è intaccato dall’oggetto della concessione edilizia, ma necessita di un accertamento tecnico ad hoc che esula dalla verificazione disposta con l’ordinanza istruttoria del Tar per il Veneto n. 830 del 10 luglio 2019;
- il thema decidendum del giudizio riguardava l’accertamento del diritto di proprietà dei luoghi dove è posizionata la struttura di Inwit, oggetto della concessione edilizia impugnata, al fine di verificare la necessità (o meno) di un assenso del condominio;
- esiste un vizio di c.d. ultrapetizione della sentenza, atteso che la domanda del ricorso introduttivo riguardava la (pretesa) indisponibilità delle aree oggetto della concessione edilizia, mentre con la sentenza è stato esteso l’oggetto del giudizio a profili che espongono la Società anche sotto aspetti più prettamente civilistici;
- la sentenza non avrebbe potuto rilevare alcun pregiudizio del decoro architettonico e dagli atti di causa non è emerso alcun elemento fattuale o giuridico che possa deporre nel senso che l’infrastruttura di Inwit altererebbe il decoro architettonico dell’edificio, inteso dal Tar per il Veneto quale parte comune;
- è vero il contrario perché in sede di istruttoria, Inwit ha richiesto e ottenuto l’assenso della Commissione per la salvaguardia di Venezia, con voto favorevole della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio, provvedimento rimasto inoppugnato sotto il profilo della valutazione della configurabilità dell’infrastruttura con il decoro architettonico;
- il giudizio di primo grado originariamente circoscritto dalla domanda dei ricorrenti all’accertamento della titolarità dei presupposti in capo a Inwit per il rilascio della concessione edilizia, è stato indebitamente esteso alla valutazione sul decoro architettonico dell’opera in assenza di fondati e concreti elementi che deponessero in tal senso;
- Inwit aveva piena disponibilità e legittimazione a realizzare l’opera e la concessione era un atto a contenuto totalmente vincolato, espressione del potere/dovere del Comune di consentire l’esecuzione di infrastrutture strategiche, correlato alla potestà di vigilanza edilizia posta in capo agli enti locali già con la legge n. 10/1977, ora con il d.p.r. 380/2001;
- l’art. 1122-bis del codice civile consente, in ogni caso, l’installazione su parti comuni degli edifici di impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti; sulla scorta di tale previsione, l’art. 91 del d.lgs. n. 259/2003 c.d. Codice delle comunicazioni elettroniche ha disposto delle espresse “limitazioni legali della proprietà”, consentendo che negli impianti di reti di comunicazione elettronica i fili o cavi “possono passare, anche senza il consenso del proprietario, sia al di sopra delle proprietà pubbliche o private, sia dinanzi a quei lati di edifici ove non vi siano finestre od altre aperture praticabili a prospetto”;
- se anche esiste l’orientamento giurisprudenziale richiamato dal primo giudice relativo alla necessità di ottenere il consenso dell’intero condominio, nella specie l’impianto non interessa parti comuni dell’edificio.
Tesi analoghe sono state sostenute anche dal Comune di Venezia.
2.3 Prima di affrontare partitamente le singole censure è utile ricostruire, brevemente, i principi sanciti dalla giurisprudenza in materia di legittimazione a richiedere la concessione edilizia (poi permesso di costruire), principi formatisi alla luce dell’art. 4 della legge 28 gennaio 1977 n. 10 («La concessione è data dal sindaco al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla») e, successivamente, dall’art. 11, comma 1, del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380 («Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo»).
Hanno titolo a richiedere il permesso di costruire (un tempo: la concessione edilizia) tutti coloro che dimostrino di trovarsi con il bene in una relazione qualificata, non necessariamente connessa ad un diritto reale ma derivante anche da rapporto giuridico ad effetti obbligatori.
Così possono richiedere il rilascio del titolo, oltre al proprietario esplicitamente citato dalle norme richiamate, soggetti titolari rispetto al bene di rapporti di natura reale o meramente obbligatoria: l’usufruttuario (Consiglio di Stato, sez. IV, 30/07/2012, n. 4287); il titolare di un diritto di comodato (Consiglio di Stato, sez. IV, 20/07/2011, n. 4370); il titolare di un contratto di leasing (Consiglio di Stato, sez. IV, 20/12/2013, n. 6165); e così via.
Un caso peculiare è quello relativo all’ipotesi delle opere condominiali: sul punto Consiglio di Stato, sez. IV, 11/04/2007, n. 1654 ha sancito il principio secondo il quale «in relazione a lavori edilizi da eseguirsi su parti comuni di un fabbricato e non concernenti opere connesse all'uso normale della cosa comune, l'Amministrazione comunale è tenuta — ai fini del rilascio della relativa concessione — a richiedere il consenso di tutti i proprietari».
Un ulteriore aspetto è quello relativo ai poteri istruttori esercitabili dall’Amministrazione in relazione all’istanza di rilascio del permesso di costruire. Una sintesi efficace sul punto è stata tracciata, di recente, da Consiglio di Stato, sez. IV, 11/04/2018, n. 2397:
- la p.a. ha l’onere di accertare con serietà e rigore la legittimazione a chiedere il titolo edilizio (Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2016, n. 3823), dovendo accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2012, n. 1990);
- al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata, concorrono a formare lo statuto generale dell'attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all'Amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
- diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che all'Amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati (Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 1993, n. 1341), e quella opposta che, invece, ammette che il Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto (Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2007, n. 1206);
- la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili.
2.4 Alla luce di queste brevi premesse è possibile analizzare le censure proposte dall’appellante.
2.4.1 Vanno rigettati gli assunti da cui muove l’appellante, ovvero che:
- la sentenza ha fondato il decisum sulla presunta alterazione del decoro architettonico, assolutamente indimostrata nel corso del giudizio ed estranea sia alla domanda dei ricorrenti sia alle risultanze della verificazione;
- la tutela del decoro architettonico si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare necessita dell’approvazione del condominio a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l’opera;
- l’assetto delle linee del fabbricato non solo non è intaccato dall’oggetto della concessione edilizia, ma necessita di un accertamento tecnico ad hoc che esula dalla verificazione disposta con l’ordinanza istruttoria del TAR Veneto n. 830 del 10 luglio 2019;
- il thema decidendum del giudizio riguardava l’accertamento del diritto di proprietà dei luoghi dove è posizionata la struttura di Inwit, oggetto della concessione edilizia impugnata, al fine di verificare la necessità (o meno) di un assenso del condominio;
- esiste un vizio di c.d. ultrapetizione della sentenza, atteso che la domanda del ricorso introduttivo riguardava la (pretesa) indisponibilità delle aree oggetto della concessione edilizia, mentre con la sentenza è stato esteso l’oggetto del giudizio a profili che espongono la Società anche sotto aspetti più prettamente civilistici.
In proposito occorre osservare:
a) il primo giudice poggia la propria decisione sul fatto che le opere realizzate incidono su parti comuni degli edifici interessati. Si riportano alcuni passaggi salienti della motivazione: «Risulta, quindi, dalla verificazione e, per vero, anche dalla documentazione ad essa allegata e ancor prima da quella dimessa in giudizio, che tanto la parte visibile dell’antenna e la struttura di sostegno della stessa, quanto il considerevole fascio di cavi ad essa collegato vengano ad interessare in vario modo le parti comuni dei fabbricati nei quali sono inserite le unità immobiliari di proprietà dei ricorrenti»; e poco dopo si afferma: «Complessivamente, infatti, la struttura dell’impianto (comprensiva dei cavi) non solo occupa parte di beni comuni quali il tetto e i muri perimetrali, ma viene ad incidere sulle linee architettoniche».
Correttamente l’appellante afferma che il thema decidendum del giudizio riguardava l’accertamento del diritto di proprietà dei luoghi dove è posizionata la struttura di Inwit, oggetto della concessione edilizia impugnata, al fine di verificare la necessità (o meno) di un assenso del condominio e/o dei singoli condomini. Ma altrettanto correttamente il primo giudice ha stabilito che parte di questi luoghi non erano di proprietà dei danti causa della stessa appellante. Non c’è alcun vizio di ultrapetizione, avendo il primo giudice accertato che le opere (al di là dei profili architettonici) occupavano parti comuni definendo così il regime proprietario delle aree oggetto degli interventi al mero fine, ovviamente, di individuare i soggetti legittimati a chiedere la concessione edilizia. Sul punto il primo giudice ha concluso in maniera inequivoca affermando (pag. 9): «Nel caso di specie non risulta che l’assemblea di entrambi i Condomini coinvolti abbia autorizzato o comunque prestato il consenso, anche per fatti concludenti, alla realizzazione delle opere in contestazione».
b) La parte della motivazione riportata è sufficiente a dimostrare l’infondatezza delle censure prospettate dall’appellante che qui si stanno esaminando.
Cionondimeno conviene soffermarsi sul concetto di “decoro architettonico” utilizzato dal primo giudice: il ricorso a tale concetto non fonda in via esclusiva la decisione, ma offre un conforto ulteriore alla statuizione circa il coinvolgimento delle parti comuni.
L’articolo 1122 del codice civile nel testo vigente al momento del rilascio della concessione edilizia (2001) recitava: «Opere sulle parti dell'edificio di proprietà comune. Ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell'edificio». Nel 2012 il legislatore ha modificato la norma in parola nei termini che seguono: «Nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio». La riforma del 2012 specifica meglio la ratio del testo previgente introducendo il riferimento al decoro architettonico, decoro architettonico preso in considerazione anche dal 5° comma dell’articolo 1117-ter del codice civile, aggiunto dalla stessa riforma del 2012 a mente del quale: «Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico». Una logica non dissimile assiste l’ultimo comma dell’art. 1120 che così recita: «Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino».
In definitiva, quindi, il primo giudice affronta il tema del decoro architettonico con l’obiettivo di chiarire meglio la portata del concetto di bene comune e comunque al solo fine di individuare i soggetti legittimati a chiedere il titolo in un caso come quello di specie. Non a caso il breve inciso dedicato dal primo giudice al decoro architettonico conduce in ogni caso all’inequivoco richiamo della sentenza del Consiglio di Stato che si è occupata della legittimazione a richiedere l’autorizzazione ad installare un’antenna per telecomunicazioni. Il primo giudice, infatti, così conclude: «Le conseguenze che l’installazione dell’impianto determinano a carico dei condomìni interessati, quindi, comporta l’applicazione dell’insegnamento in forza del quale “deve essere annullata l'autorizzazione edilizia rilasciata ad una società di telecomunicazioni per l'installazione di una antenna per telecomunicazioni su un fabbricato qualora venga accertata la mancanza, da parte della società stessa, della disponibilità dell'immobile ai fini dell'esecuzione delle opere (nel caso di specie il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza che aveva affermato che titolo valido per l'installazione dell'antenna, che interessava parti condominiali dell'edificio, era soltanto una apposita delibera approvata dall'assemblea dei condomini)” (C. Stato, sez. VI, 08/01/2003, n. 24)».
2.4.2 Va rigettata anche la tesi sostenuta dall’appellante secondo cui Inwit aveva piena disponibilità e legittimazione a realizzare l’opera e la concessione era un atto a contenuto totalmente vincolato, espressione del potere/dovere del Comune di consentire l’esecuzione di infrastrutture strategiche, correlato alla potestà di vigilanza edilizia posta in capo agli enti locali già con la legge n. 10/1977, ora con il d.p.r. 380/2001.
La dante causa di Inwit aveva concluso due contratti di locazione con due dei proprietari degli immobili facenti parte dei condomini in questione: i signori Pietro Mariutti e Margherita Mariutti. Per effetto dei negozi giuridici citati aveva ottenuto il godimento dei vani necessari all’alloggiamento delle apparecchiature e al fissaggio del supporto dell’antenna. Effettivamente la titolarità di un diritto personale di godimento è astrattamente idonea a legittimare la richiesta del titolo edilizio. Ma nel caso di specie quei due contratti di locazione non erano sufficienti.
Si è detto che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo e ci si è soffermati sui poteri che l’Amministrazione deve esercitare in presenza di un’istanza al rilascio del permesso.
Come questo Consiglio di Stato (sez. IV, 4 maggio 2010 n. 2546; 10 dicembre 2007 n. 6332), ha già avuto modo di affermare, «in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l'obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i condomini».
Nel caso di specie, poiché le opere erano suscettibili di interessare le parti comuni, l’Amministrazione avrebbe dovuto verificare l’esistenza del consenso del condominio o dei singoli condomini.
In altre parole, il Comune avrebbe dovuto conseguire, per il tramite della verifica resa necessaria dalla evidente mancanza di proprietà esclusiva della res, la prova dell’esistenza del titolo a disporre del bene (Consiglio di Stato, Sezione IV, 26 luglio 2012 n. 4255).
Il Comune ha omesso anche il minimo controllo sulla esaustività della legittimazione dei richiedenti ad ottenere il titolo.
Di qui l’illegittimità della concessione edilizia.
2.4.3 Va rigettata anche la tesi sostenuta dall’appellante secondo cui l’art. 1122-bis del codice civile consente, in ogni caso, l’installazione su parti comuni degli edifici di impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti; sulla scorta di tale previsione, l’art. 91 del d.lgs. n. 259/2003 c.d. Codice delle comunicazioni elettroniche ha disposto delle espresse “limitazioni legali della proprietà”, consentendo che negli impianti di reti di comunicazione elettronica i fili o cavi “possono passare, anche senza il consenso del proprietario, sia al di sopra delle proprietà pubbliche o private, sia dinanzi a quei lati di edifici ove non vi siano finestre od altre aperture praticabili a prospetto”.
In proposito si deve osservare che entrambe le norme invocate sono entrate in vigore successivamente al rilascio della concessione di cui è causa (e, quindi, non sono applicabili alla fattispecie).
In ogni caso l’articolo 1122-bis del codice civile non riguarda le antenne radio come quella di cui si discute; mentre l’art. 91 del Codice delle comunicazioni elettroniche (nel testo previgente alla recente riforma) specificava che solo fili o cavi senza appoggio possono passare senza il consenso del proprietario (fattispecie diversa da quella di cui si discute).
2.4.4 Va rigettata anche la tesi sostenuta dall’appellante secondo cui se anche esiste l’orientamento giurisprudenziale richiamato dal primo giudice relativo alla necessità di ottenere il consenso dell’intero condominio, nella specie l’impianto non interessa parti comuni dell’edificio.
Che l’impianto interessi parti comuni degli edifici coinvolti è circostanza acclarata dalla verificazione disposta in primo grado: sul punto si richiama quanto esposto in narrativa.
2.4.5 Va rigettata anche la tesi sostenuta dall’appellante secondo la quale un eventuale (e non verificatosi) uso della cosa comune, da parte di singoli condomini, in violazione delle pertinenti previsioni civilistiche sarebbe stato al più suscettibile di determinare una loro responsabilità risarcitoria verso gli altri condomini.
L’appellante ritiene (argomentando anche da alcuni incisi testuali dei provvedimenti emessi nell’ambito di un giudizio civile instauratosi tra le parti) che costituisce principio consolidato quello per cui il singolo condomino può godere e far uso pienamente delle parti comuni, anche in via mediata (mediante concessione in uso a terzi): ciò si desumerebbe, tra l’altro, dal combinato disposto degli artt. 1139 e 1102 nonché 1120 c.c.
L’articolo 1139 del codice civile, citato dall’appellante, recita: «Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale».
L’articolo 1102 del codice civile, citato dall’appellante, recita: «Uso della cosa comune. Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso».
L’articolo 1120 del codice civile, citato dall’appellante, recita, nel testo in vigore al momento del rilascio della concessione edilizia di cui si discute: «Innovazioni. I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni. Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino».
Per effetto delle norme citate dall’appellante il condomino ha sì diritto di apportare modificazioni alle cose comuni ma sempre che da ciò non risulti alterata la destinazione e ne sia impedito agli altri condomini di farne un uso paritetico secondo il loro diritto (Cassazione civile, sez. II, 24/11/2020, n. 26703).
Inoltre la Cassazione (sez. VI, 11/03/2022, n. 8032) ha di recente statuito il seguente principio: «qualora uno dei condomini, senza il consenso degli altri ed in loro pregiudizio, abbia alterato o violato, lo stato di fatto o la destinazione della cosa comune impedendo o restringendo il godimento spettante a ciascun possessore pro indiviso sulla cosa medesima in modo da sottrarla alla sua specifica funzione, sono esperibili da parte degli altri comproprietari le azioni a difesa del compossesso per conseguire la riduzione della cosa al pristino stato, allo scopo di trarne quella utilitas alla quale la cosa era asservita prima della contestata modificazione».
L’appellante sostiene che la controversia dovesse restare entro i soli confini privatistici (con la conseguenza che le odierne parti appellate non avrebbero avuto neanche il diritto di adire il giudice amministrativo per far valere i propri legittimi interessi malgrado l’articolo 24 della Costituzione) e che in detto ambito l’unica azione esperibile fosse quella di risarcimento danni.
Cass 8032/2022 appena citata chiarisce che il condomino che vede restringersi il godimento della cosa comune può esperire le azioni possessorie per ottenere la riduzione in pristino. Implicitamente gli viene riconosciuta la possibilità di ottenere ben più del risarcimento del danno ovvero il ripristino di tutte le facoltà dominicali. Non va dimenticato che il condomino potrebbe mutare il titolo del suo possesso in danno degli altri partecipanti (argomentando ex art. 1202 ultimo comma). Una volta di più non può essere revocata in dubbio la possibilità per il condomino di esercitare, rispetto alla cosa comune, tutte le facoltà proprietarie e possessorie. Date queste premesse, altrettanto scontato è la possibilità di avvalersi in maniera piena, in un caso come questo, tanto dei rimedi di natura civilistica quanto di quelli offerti dalla legislazione pubblicistica: i ricorrenti in primo grado ben potevano impugnare la concessione edilizia, ben potevano agire il giudice civile per attivare i rimedi proprietari e possessori e ben potevano scegliere entrambe le strade o una sola tra esse.
2.4.6 Va rigettata anche la tesi sostenuta dall’appellante secondo la quale il condominio autonomo soggetto giuridico in thesi leso dalla concessione edilizia non avendo mai agito in alcuna sede avverso il provvedimento abilitativo rilasciato dal Comune di Venezia o avverso la realizzazione delle opere autorizzate avrebbe tollerato e accettato l’autorizzazione e realizzazione delle opere.
Si è già ricordato il principio espresso da Consiglio di Stato, sez. IV, 11/04/2007, n. 1654 secondo il quale «in relazione a lavori edilizi da eseguirsi su parti comuni di un fabbricato e non concernenti opere connesse all'uso normale della cosa comune, l'Amministrazione comunale è tenuta — ai fini del rilascio della relativa concessione — a richiedere il consenso di tutti i proprietari». Nella specie a nulla rileva che non abbia agito il condominio in quanto tale e detta circostanza certo non inficia l’azione proposta dai ricorrenti in primo grado. Il Comune, come più volte detto, avrebbe dovuto acclarare l’esistenza del consenso di tutti i comproprietari: questi ultimi, avendo proposto azione dinanzi al giudice amministrativo non hanno tollerato o accettato alcunché.
3. Con il secondo motivo di appello si ripropongono le eccezioni e i motivi dichiarati assorbiti, ai sensi dell’art. 101, co. 2, c.p.a.
Dette eccezioni e detti motivi sono stati riportati in narrativa.
Poiché sono infondati i motivi di appello proposti avverso la sentenza che aveva accolto il ricorso principale proposto in primo grado con conseguente conferma dell’annullamento dell’atto impugnato, persiste, dato il carattere assorbente del rilievo appena svolto, la carenza di interesse ad esaminare le doglianze di cui ai motivi aggiunti, e le doglianze di cui al ricorso incidentale.
4. Per le ragioni esposte l’appello deve essere rigettato.
Sussistono buone ragioni, anche in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dalla instaurazione del giudizio, per compensare le spese.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 maggio 2022 con l'intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti, Presidente FF
Giordano Lamberti, Consigliere
Francesco De Luca, Consigliere
Marco Poppi, Consigliere
Giovanni Pascuzzi, Consigliere, Estensore