Sentenza  Tribunale di ROMA 23.4.2013 (dep. il 3.8.2013), n. 8262/2013,
Pres.  ed Est. ROJA, imp.GIFUNI Gaetano + 4
Urbanistica. Vicenda Tenuta Presidenziale di Castelporiziano

La demolizione di un preesistente canile al fine di  realizzare un edificio ad uso abitativo di mq. 180 su due piani  oltre ad autorimessa deve classificarsi quale opera di nuova realizzazione ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. e) d.p.r. 6.6.2001, n. 380, essendosi risolta in un ampliamento e in una sopraelevazione dei volumi preesistenti.  Resta quindi  soggetta al permesso di costruire benché realizzata entro il comprensorio della Tenuta di CASTELPORZIANO, assegnato alla dotazione della Presidenza della Repubblica dal  D.M. 12.5.1999, anche dopo l’adozione del Piano di Gestione della Tenuta (decreto n. 93 dd. 26.5.2011 del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica), che, pur variando problematicamente la nozione di  ristrutturazione edilizia (in quanto estesa pure alle modifiche di destinazione d’uso e/o della sagoma degli edifici), ha fatto salvo il rispetto delle  volumetrie precedenti entro la Tenuta.

MASSIME

La demolizione di un preesistente canile al fine di realizzare un edificio ad uso abitativo di mq. 180 su due piani oltre ad autorimessa deve classificarsi quale opera di nuova realizzazione ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. e) d.p.r. 6.6.2001, n. 380, essendosi risolta in un ampliamento e in una sopraelevazione dei volumi preesistenti. Resta quindi soggetta al permesso di costruire benché realizzata entro il comprensorio della Tenuta di CASTELPORZIANO, assegnato alla dotazione della Presidenza della Repubblica dal D.M. 12.5.1999, anche dopo l’adozione del Piano di Gestione della Tenuta (decreto n. 93 dd. 26.5.2011 del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica), che, pur variando problematicamente la nozione di ristrutturazione edilizia (in quanto estesa pure alle modifiche di destinazione d’uso e/o della sagoma degli edifici), ha fatto salvo il rispetto delle volumetrie precedenti entro la Tenuta.

 

Il principio della piena autonomia amministrativa delle attività di gestione e cura della dotazione presidenziale immobiliare, conferita per legge, da ritenersi comprensiva delle valutazioni di compatibilità urbanistica afferenti i propri ambiti territoriali, quale riflesso dell’indipendenza costituzionale attribuita al Presidente della Repubblica, deve essere contemperato con la necessità di tutela, anche sotto il profilo urbanistico, rispetto ad interventi di nuova costruzione su un’area che resta demaniale e di valore generale, diffuso ed impersonale, trattandosi di Riserva naturale Statale, costituita ai sensi della legge 394 del 6.12.1991 (decreto Ministro Ambiente 12.5.1999): ciò anche al fine di evitare profili di illegittimità costituzionale della normativa in quanto potenzialmente lesiva del principio di uguaglianza.

 

Il punto di equilibrio tra l’autonomia dell’ordinamento della Tenuta e la protezione di beni collettivi ad essa superiori, va individuato nella consultazione e concertazione tra Stato ed Amministrazione interessata all’esecuzione della nuova opera su suolo demaniale, ai sensi del d.p.r. n. 383/1994, idonee a garantire l’esigibile rispetto dei principi fondamentali della materia, identificati dalle norme statuali penalmente sanzionate.

 

L’illecito urbanistico di cui all’art. 44 lett. c) d.p.r. n. 380/2001 deve ritenersi estinto ai sensi dell’art. 45 comma 3 d.p.r. cit. in virtù della speciale procedura di sanatoria cd. di autorizzazione ora per allora, integrata dai pareri positivi della Commissione tecnico – scientifica costituita presso la Tenuta e dal Provveditorato delle Opere Pubbliche, all’esito dei quali il Segretariato Generale ha acquisito al patrimonio immobiliare il fabbricato destinandolo a fini istituzionali, attesa l’equipollenza del decreto nei presupposti, nella sostanza e negli effetti ad un provvedimento di sanatoria amministrativa.

 

Va dichiarata l’estinzione dei reati di cui agli artt. 181 d. lgs. n. 42/2004 e 30 legge 394/1991 per intervenuta prescrizione non essendo consentita alcuna sanatoria con effetto ex tunc delle opere, realizzate in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesistica, che abbiano determinato la creazione di superfici utili o di nuovi volumi o l’ampliamento di quelli legittimamente realizzati in zona tutelata costituita da una Riserva naturale Statale, a nulla rilevando la valutazione postuma di compatibilità paesaggistica per la nuova opera in questione.

 

SENTENZA

Le parti hanno così concluso: il Pubblico Ministero chiede l’assoluzione di DI PIETRO Paolo dai capi A e B per non avere commesso il fatto e la trasmissione degli atti al proprio ufficio per procedere per il reato di omessa denuncia; chiede declaratoria di non doversi procedere in ordine al capo C nei confronti di tutti gli imputati per essersi il reato estinto per prescrizione; l’assoluzione perché il fatto non sussiste per il capo G e per i capi L ed M ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p.; l’assoluzione di CALZOLARI Giorgio dai capi E ed F per non avere commesso il fatto, così come modificata l’imputazione.

Chiede la condanna di DE MICHELIS Alessandro per i capi A – B- E – F in continuazione, ritenuto più grave il capo A alla pena di anni 2 mesi 8 di reclusione; la condanna di GIFUNI Gaetano per i capi N ed O, ritenuta la continuazione e più grave il fatto sub N, concesse le circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni 2 mesi 1 di reclusione.

Chiede la condanna di TRIPODI Luigi come da nota scritta qui allegata.

 

Il difensore di GIFUNI Gaetano chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato o per non averlo commesso; in subordine il minimo della pena, concesse le circostanze attenuanti generiche e quella del danno patrimoniale di speciale tenuità.

I difensori di DI PIETRO Paolo chiedono l’assoluzione per non avere commesso il fatto.

Il difensore di CALZOLARI Giorgio chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso.

Il difensore di DE MICHELIS Alessandro chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso.

Il difensore di TRIPODI Luigi chiede assolversi l’imputato perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato.

 

M o t i v i d e l l a d e c i s i o n e

 

S v o l g i m e n t o d e l p r o c e s s o

 

Tratti a giudizio con decreto che lo disponeva del locale G.U.P. dd. 11.4.2011 per rispondere delle imputazioni in esso rispettivamente indicate innanzi al Tribunale in composizione collegiale, GIFUNI Gaetano, TRIPODI Luigi, CALZOLARI Giorgio, DE MICHELIS Alessandro e DI PIETRO Paolo, in atti generalizzati, variamente comparivano nel corso del processo.

 

Risolta una questione preliminare nei termini indicati nel corrispondente provvedimento ordinatorio, all’udienza del 11.7.2011 venivano ammesse tutte le prove orali e documentali indicate dalle parti.

 

All’udienza del 24.1.2012 rendevano esame i testimoni TRILLO’ Salvatore e MACCHIA Alessandro, mentre il 2.2.2012 venivano assunti nella medesima veste SIMONAZZI Enrico, DEL PINTO Roberto, CRESCENZO Fiore, DELLI MUTI Domenico, BENVENUTI Flavio, DI MAOLO Fabrizio, DI VINCENZO Andrea, FALASCA Giovanni Battista, DOMINICI Pietro, FALASCA Giulio Emilio, FERRARI Ennio, LEUCI Vincenzo, MAZZOLA Luciano, TORROMEO Carlo, SPADONI Enrico, SCARICO Alberto, TRULLI Bruno e SERPIERI Alessandro. Venivano altresì prodotti al fascicolo dalle parti ai sensi dell’art. 493 comma 3 c.p.p. i verbali delle s.i.t. rese da ANTONELLIS Roberto, CARMELLINO Raffaele, LATTERI Vincenzo, PIEROTTI Adriano, SATOLLI Francesco.

 

Esaminati il 27.2.2012 NICOLETTI Maurizio, DE CURTIS Italo e DE BLASIS Massimo con un’acquisizione documentale, all’udienza del 29.3.2012 rendevano esame in contraddittorio il consulente del pubblico ministero ing. DEL PICO Bruno e della difesa di GIFUNI Gaetano ing. SANTI Carlo, con acquisizione delle rispettive consulenze ai sensi dell’art. 501 c.p.p., oltre a FEMIA Vincenzo, al consulente tecnico in materia ragionieristica dott.ssa DI CIOMMO Marina, a PARRELLA Orlando e all’isp. capo MAGGIONI Giuseppe, appartenente dalla Sezione di P.G. in sede.

 

All’udienza del 19.4.2012, operata una produzione documentale da parte del pubblico ministero, si sottoponeva a libero esame l’imputato GIFUNI (che produceva altresì memoria) mentre DI PIETRO rendeva spontanee dichiarazioni, con produzione consensuale ad opera delle parti dei verbali di interrogatorio e di s.i.t. rese dal medesimo in fase di indagini preliminari, nonché, ai sensi dell’art. 513 c.p.p., dei verbali di interrogatorio resi da DE MICHELIS Alessandro e TRIPODI Luigi; seguivano gli esami di LELLI Stefano, RECINTO Andreina, CECCA Daniele, PEZZALI Guido, FRANCESCHINI Giacomo.

 

Rendevano quindi esame BERTI Renato, CAPELLI Pierpaolo, MAZZANTI Alessandro, DI FINE Nunzio, PIRRO’ Fabrizio, CAPELLI Pierpaolo (15.5.2012), mentre il 17.5.2012 si esaminavano i testimoni ACQUAVIVA Riccardo, D’AMBROSIO Loris, DI GIANNANTONIO Nicola, PIRISI Gianfranca e PARIS Roberto (17.5.2012), ZOCCHI Antonella (14.6.2012).

 

Esaurita l’istruzione affidata alle parti e ritenuta l’assoluta necessità ai sensi dell’art. 507 c.p.p. veniva ammesso, su sollecitazione del pubblico ministero, l’esame di GAETANO Gianni, assunto con le forme previste dall’art. 197 – bis c.p.p. in data 2.10.2012, con contestuale produzione di atti processuali.

 

A tal punto il processo veniva ritenuto definitivamente istruito, così da respingere ogni ulteriore istanza probatoria.

 

All’udienza dell’8.10.2012, previa separazione della posizione dell’imputato TRIPODI per impedimento legittimo a partecipare al processo del suo difensore, dopo una acquisizione documentale e la modifica dell’imputazione di cui al capo F) da parte del pubblico ministero rispetto alla quale le difese rinunciavano al termine a difesa, venivano dichiarati chiuso il dibattimento e utilizzabili tutti gli atti contenuti nel fascicolo.

 

Si procedeva quindi all’immediata discussione, proseguita nelle giornate del 9.10. e del 26.11.2012; ordinata in data 26.2.2013 la riunione della posizione di TRIPODI Luigi, la discussione veniva allora completata limitatamente alla sua posizione processuale .

 

Disposto rinvio per l’acquisizione dei documenti descritti nel verbale agli atti dd. 9.12.2009 della Sezione di polizia giudiziaria in sede, questa veniva definita in data 23.4.2013; rigettata un’ulteriore istanza probatoria della difesa di DE MICHELIS, rese dichiarazioni spontanee da parte di GIFUNI Gaetano, sulle riportate conclusioni delle parti rispettivamente assunte, si dava, infine, allora lettura del dispositivo di sentenza trascritto in calce.

 

I n f a t t o e i n d i r i t t o

Così riassunti in fatto gli elementi salienti del processo, deve osservarsi che le prove acquisite in contraddittorio consentono di pervenire ad un giudizio di parziale colpevolezza degli imputati TRIPODI Luigi e GIFUNI Gaetano al di là di ogni ragionevole dubbio, limitatamente a parte delle imputazioni loro contestate, nei termini e con le precisazioni che seguono.

 

Si premette che il presente procedimento trovò la sua origine nella segnalazione di ammanchi contabili, apparentemente inspiegabili, avvenuti entro la Tenuta Presidenziale di CASTELPORZIANO, infine conosciuti dal Servizio Ragioneria e Tesoreria istituito presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica: la comunicazione del fatto alla Procura della Repubblica originò accertamenti di polizia giudiziaria a largo spettro, che evidenziarono una serie eterogenea e multiforme di fatti illeciti variamente riconducibili ad alti funzionari di quell’Istituzione, via via coinvolti nelle verifiche effettuate.

 

L’emersione di vari filoni di irregolarità, tra loro autonomi ed indipendenti, sostanzialmente riconducili ai fatti di peculato per gli ammanchi di cassa, alle irregolarità nello sfruttamento del territorio inerenti l’edificazione di una villa in località Santola, comprensive delle modalità di aggiudicazione della gara per la sua realizzazione, all’utilizzo improprio di personale dipendente della Tenuta per scopi non d’ufficio, alle formalità della progressione in carriera del dott. TRIPODI, sino all’accertamento dell’esecuzione di lavori con maestranze e beni della Tenuta presso l’abitazione del Segretario Generale dott. GIFUNI, così come dettagliati e ricondotti nei capi di accusa, impone al Tribunale una valutazione distinta di tali segmenti, in alcun modo riconducibili a progettualità unitarie.

 

In altri termini quanto emerso in corso di processo conferma essersi trattato di fatti criminosi di mala gestio di risorse pubbliche del tutto eterogenei, qui occasionalmente e casualmente connessi, collegati dal solo nesso spaziale della riconduzione in termini di provenienza geografica al medesimo contesto fisico della Tenuta di CASTELPORZIANO e, dunque, della Presidenza della Repubblica, in danno della quale si sono realizzati, nella misura in cui qui saranno riscontrati, benché con determinazioni del tutto indipendenti ed individuali.

 

Dalla mancata conferma probatoria di più ampie progettazioni, pur prospettata dal pubblico ministero in termini minimali, consegue la trattazione separata dei vari temi d’indagine portati all’attenzione di questo Ufficio.

 

1) Capi a) e b) - I contenuti dell’istruzione dibattimentale

La genesi dei fatti che verranno esaminati si rinviene nelle iniziative adottate dal Servizio Ragioneria e Tesoreria della Presidenza della Repubblica e, per essa, del suo dirigente TRILLO’ Salvatore, cui si deve l’avvio dell’indagine penale.

 

Ha premesso il medesimo, in termini di informazioni di tipo generale sulla struttura organizzativa del Servizio, sulla natura del bilancio e sulle dotazioni finanziarie, di avere svolto le funzioni di capo del Servizio Ragioneria e Tesoreria della Presidenza della Repubblica dal 1994 al 2009, deputato alla programmazione finanziaria dell’istituzione, alla costruzione e redazione dei bilanci preventivi e consuntivi, alla gestione dell’aspetto retributivo, compresi compiti di controllo e di supervisione delle entità periferiche.

 

A suo dire il bilancio della Tenuta di CASTELPORZIANO era formato in autonomia e restava separato anche se approvato unitamente a quello principale, essendo di tipo finanziario, nel senso che appostava delle cifre che il centro di costo era autorizzato a spendere nel periodo di riferimento : ciò era conseguenza della tipicità della Tenuta, organizzata quale azienda agricolo – forestale, pur priva di fine di lucro, gerente un comprensorio adibito a riserva naturale e dotata di una residenza di rappresentanza del Presidente della Repubblica.

 

A capo della Tenuta vi era un direttore, scelto tra gli appartenenti alla carriera direttiva tecnico – agraria (da cui proveniva lo stesso DE MICHELIS Alessandro, direttore della Tenuta nel periodo di interesse), che faceva riferimento al Servizio Tenute e Giardini: questo, a sua volta, era incardinato entro la Presidenza della Repubblica, atteso che si occupa(va) pure dei giardini del Quirinale e che incorpora(va) l’azienda agricolo – forestale, avente altresì natura di centro di soggiorno e rappresentanza presidenziale.

 

Allo staff della Tenuta appartengono funzionari direttivi, tecnici ed amministrativi, per un totale di circa 100 persone al tempo, e il direttore è titolare di un potere di impegno e spesa derivante direttamente dal bilancio: ad esso restava peraltro estraneo il costo finanziario del personale, il più significativo in assoluto, ammontando da ultimo a 9 milioni di euro, gestito direttamente dal bilancio della Presidenza; parimenti le spese in conto capitale straordinarie venivano fatte gravare direttamente sui capitoli di competenza del Servizio Tenute e Giardini.

 

Di conseguenza negli ultimi anni il bilancio finanziario della Tenuta, comprensivo del totale delle entrate e delle uscite, ammontava ad euro 2,5 milioni di euro, su un totale del bilancio del Quirinale pari a 350 milioni di euro.

 

Essendo il bilancio redatto in contabilità finanziaria, ciò significava che ad un totale di uscite pari a 2,5 milioni, doveva corrispondere un’analoga entrata: queste provenivano per una minima quota (stimata tra 200/400.000,00 euro) dalla vendita delle pigne e da altri proventi dell’attività agricola, per il resto da trasferimenti della Presidenza su un conto significativamente denominato conto ripiano CASTELPORZIANO, a sottendere la fisiologica necessità dell’intervento di sanatoria del disavanzo che da sempre caratterizzava il bilancio della Tenuta ove i costi avevano costantemente superato di gran lunga i ricavi.

 

In linea di massima, tale conto ripiano recava una cifra compresa tra 1,250/1,5 milioni di euro, cui si sommava un finanziamento del Ministero dell’Ambiente, pari a circa 500.000,00 euro, il resto essendo rappresentato, appunto, da entrate proprie della Tenuta.

 

Il direttore della Tenuta era il dott. DE MICHELIS, GAETANO Gianni ne era il contabile e cassiere, coadiuvato dal rag. Paolo DI PIETRO, con funzioni più amministrative che di contabilità o cassa; il dott. Alessandro CALZOLARI era, invece, dipendente del Servizio Tenute e Giardini, sottordinato al dott. Luigi TRIPODI che ne era il Direttore, dotato quindi di compiti di indirizzo e di controllo sull’azione della Tenuta.

 

Le risorse della Tenuta erano allocate sul conto corrente n. 803 acceso presso la B.N.L., intestato al Segretariato Generale Presidenza della Repubblica, la cui traenza era affidata per regolamento al direttore e al cassiere contabile, ovvero al DE MICHELIS e al GAETANO, con firma congiunta; su detto conto, oltre ai trasferimenti della Presidenza dovevano transitare pure le entrate proprie, laddove non pagate per contanti. Era altresì conferito un ridotto potere di spesa tanto al capo del Servizio Tenute e Giardini quanto al direttore della Tenuta, nell’ordine di 2.500,0 euro circa, per ogni importo superiore dovendo rivolgersi al vice segretariato generale per la proposta di impegno finanziario.

 

Mensilmente i conti della Tenuta, assemblati per il periodo di riferimento dal rag. GAETANO e vistati dal dott. DE MICHELIS, dovevano essere inviati al Servizio Tenute e Giardini e, tramite esso, al Servizio di Ragioneria che poteva operare un controllo di tipo documentale, limitato alla verifica dell’allegazione degli atti di spesa e degli impegni, compresi gli estratti conto bancari : l’addetto alla Ragioneria controllava, in particolare, se vi fosse stata regolare autorizzazione alla spesa, se fosse stata correttamente inserita in bilancio, se fosse accompagnata dalla documentazione prescritta. Nel corso degli anni, peraltro, non si erano mai presentate criticità particolari ovvero situazioni che il rag. GAETANO non fosse mai stato in grado di giustificare agevolmente.

 

Quanto ai fatti per cui vi è processo, rammentava perfettamente che in data 12.12.2008 aveva ricevuto una telefonata dal dott. CALZOLARI (con cui pur aveva radi rapporti), fortemente preoccupato, che gli rappresentava che la situazione della cassa della Tenuta era in sofferenza perché da tempo non venivano pagati i fornitori.

 

Ne aveva parlato con TRIPODI “che mi rappresentò, sia pur in termini molto più generici questa stessa preoccupazione, cioè anche lui dice, no, qui non riusciamo a pagare, c’è qualcosa che non va” (pg. 19 esame) e convocato una riunione il successivo 15 dicembre cui parteciparono il DE MICHELIS, il GAETANO, il suo collaboratore rag. MACCHIA, forse il rag. CAPELLI.

 

Nel corso di quell’incontro aveva avuto conferma dal GAETANO del disallineamento finanziario sia pur in termini assai vaghi ed insoddisfacenti (in particolare ricondotto all’omessa contabilizzazione della vendita di pinoli, in ogni caso incidente per circa 200.000 milioni di lire) e, dunque, ancor più preoccupanti; aveva ricevuto quale ordine di grandezza la cifra di 1 milione di euro di sbilancio, apparsa immediatamente non giustificabile.

 

Sia il DE MICHELIS sia il TRIPODI avevano mantenuto un atteggiamento sostanzialmente passivo, in qualche modo indicando il GAETANO quale unico referente della cassa.

 

A tal punto aveva deciso di costituire una commissione interna di esperti, scelti nelle persone del rag. CHIUSAROLI, del dott. MACCHIA, del dott. D’APRANO, conoscitori di contabilità aziendale, con il compito di comprendere le ragioni dell’ammanco e proporre i rimedi per sanarlo: nell’arco di una sola settimana gli venne anticipata l’informazione che la situazione contabile appariva ancor più seria di quanto previsto, con annotazioni di operazioni sospette per movimenti tra cassa e banca non giustificati o non correttamente imputati nelle scritture contabili.

 

Inoltre in difformità dalle raccomandazioni che aveva rivolto al dott. DE MICHELIS di esautorare il GAETANO dalla gestione contabile, ritirandogli la disponibilità della cassa e il libretto degli assegni e di evitare impegni di bilancio sino al chiarimento della situazione, gli comunicarono che il GAETANO aveva continuato ad operare (pg. 26/27 esame).

 

A tal punto aveva deciso di trasferire fisicamente tutta la documentazione contabile presso il suo ufficio al Quirinale, aveva chiesto al direttore della filiale B.N.L. di bloccare tutti gli ordinativi di spesa provenienti dalla Tenuta e, a far data dal 15.1.2009, dopo il ricevimento della prima relazione scritta degli ispettori, d’intesa con il Segretario Generale, aveva revocato il potere di firma tanto al dott. DE MICHELIS quanto al GAETANO, accentrando la cassa territoriale su quella centrale del Servizio Ragioneria, in deroga al regolamento, alla pari della gestione delle entrate e delle spese. Si era così cercato di porre al riparo le risorse residue ed evitare un uso distorto di quelle assegnate o in via di assegnazione per l’anno 2009 (cfr. altresì documentazione presente nel fascicolo n. 1 dell’ispezione straordinaria Tenuta di CASTELPORZIANO).

 

La drastica misura era conseguenza delle verifiche che avevano fatto emergere la non veridicità delle scritture contabili, ad es. per l’indicazione di voci incompatibili con il tipo di contabilità (quali ammortamenti o scorte), attesa la sua natura di semplice flusso finanziario privo di qualsiasi riscontro patrimoniale.

 

Il proseguimento delle verifiche confermò i primi risultati, ossia l’evidente discrepanza tra i risultati dell’attività economica e di quella finanziaria, attraverso l’utilizzo arbitrario di partite della contabilità finanziaria con un sistema di gestione del tutto personale ed impenetrabile, esoterico (pg. 30 esame TRILLO’): in particolare era stato introdotto il principio della partita doppia in un sistema che non la contemplava.

 

Attesa l’assoluta incomprensione sulla base della contabilità del dato certo del disavanzo, detto tipo di analisi venne abbandonato nel marzo 2009, transitando ad un metodo di verifica elementare, ossia il riscontro contabile di ogni movimento, comparando le fatture – attive e passive – da un lato, gli incassi o le uscite dall’altra, rispetto ai dati degli estratti conto bancari.

 

In breve tempo, solo per l’anno 2008 si accertò un importo di uscite prive di causale pari ad euro 350.000,00 circa, realizzate soprattutto attraverso la presentazione in banca di assegni di conto, tratti dal GAETANO e dal DE MICHELIS, dove il denaro non veniva accreditato in cassa ma al fondo ammortamenti o ricostituzione scorte. L’indagine interna risalì, quindi, sino al 2001, accertando importi di analoga entità per ciascuna di dette annualità, rispetto alle quali nessun documento giustificativo venne rinvenuto ovvero recapitato ai componenti la commissione, per un totale di 3,7 milioni circa di euro.

 

Nel frattempo, l’1.3.2009, tanto il DE MICHELIS quanto il GAETANO erano stati collocati in quiescenza.

 

Ritornati quindi presso gli uffici della ragioneria di CASTELPORZIANO, vennero rinvenuti una gran quantità di documenti non registrati in contabilità, fatto che determinò un’integrazione dell’ispezione e, infine, l’accertamento di un ammanco ancora superiore.

 

Effettivamente l’ultima verifica ispettiva di cassa a CASTELPORZIANO era stata fatta dal rag. CAPELLI nel 2002 e in seguito non reiterata, anche per la ritenuta inutilità atteso che essa poteva assumere significato laddove le funzioni di contabilità e di cassa siano fisicamente separate e non già ove si identifichino nello stesso soggetto, come accadeva per il GAETANO che accentrava entrambi i compiti e poteri: pertanto quella svolta nell’anno 2002 non poteva in alcun modo reputarsi probante e rassicurante sulla correttezza contabile sino a quella data (pg. 62/63 esame).

 

La circostanza che il controllo svolto dal Servizio Ragioneria fosse mirato alla legittimità per competenza, ossia al rispetto della destinazione della spesa sulla base dei capitoli di bilancio, valeva a spiegare perché dopo il 2002 quell’Ufficio mai aveva avvertito irregolarità contabili (pg. 65/66 TRILLO’).

 

Maggiori dettagli sui contenuti e gli esiti dell’ispezione straordinaria sono stati offerti dal dott. Alessandro MACCHIA, componente della commissione costituita in data 15.12.2008, sotto la guida del tesoriere rag. CHIUSAROLI, per verificare la situazione contabile della Tenuta quale funzionario del Servizio Ragioneria (in seguito pure suo direttore).

 

Era stato a lui che il dott. CALZOLARI si era rivolto intorno al 9 dicembre 2008 per rappresentare la mancanza di 1 milione di euro in cassa, parlando genericamente di un’omessa annotazione della vendita di pinoli nell’anno 2000 per 200 milioni di lire e lui si era spaventato e l’aveva invitato a rappresentare la situazione al capo servizio.

 

L’ispezione straordinaria era avvenuta tra dicembre 2008 e il 15 gennaio 2009 e addirittura aveva portato alla luce alterazioni dei dati contabili successivi alla rendicontazione periodica presso la Ragioneria centrale (aggiungendo operazioni o modificando quelle registrate; per il maggior dettaglio delle anomalie, cfr. pg. 99 esame): persino in pendenza di essa il GAETANO, come accertato anche a seguito di contestazioni, aveva operato, posto che era stata trovata traccia di un’operazione cassa in dare e di banca in avere, con una correzione avvenuta nella giornata successiva attraverso un’annotazione priva di logica economica (pg. 100 e 119 esame).

 

A tal punto, effettuata una ricognizione dei debiti effettivi verso i fornitori della Tenuta alla fine del 2008, avevano deciso di fare una ricostruzione sistematica della contabilità di CASTELPORZIANO dal 2000 al 2008 ed egli era stato il coordinatore del gruppo di lavoro che aveva predisposto i conteggi.

 

Era stato così impostato un foglio di calcolo, composto dalla data delle operazioni, i pagamenti e gli incassi, riuniti da un prospetto di conciliazione, comparati con i dati tratti direttamente dalla stampa ricevuta dalla B.N.L. (e non già dai mastri allegati alla contabilità, reputati inaffidabili), mentre per ciò che concerne i movimenti di cassa l’unico dato utilizzabile era quello degli estratti conto del mastro cassa in assenza di documentazione diversa.

 

In tal modo erano state evidenziate tutte le operazioni non giustificate dal pagamento o dall’incasso di fatture ma che avevano inciso sugli importi dei saldi di fine mese e del saldo cassa, come dichiarato in contabilità (pg. 105). Si era, infine, tenuto conto della molta documentazione rinvenuta presso gli uffici della Tenuta in sede di ispezione disposta dal pubblico ministero (cfr. sequestro dd. 14.5.2009 della Sezione di P.S. della p.g. in sede, aff. 4/13 del fascicolo del dibattimento) di cui era stato autorizzato il rilascio di copia alla Ragioneria, proprio al fine della ricostruzione della contabilità (“…con riferimento alle fatture attive …..l’analisi dell’ingente mole di documenti rinvenuti ha portato all’emersione di ulteriori somme di denaro che sarebbero dovute affluire sul conto bancario o nella cassa della Tenuta ma di cui non è stato possibile trovare traccia”, pg. 4 relazione conclusiva dott. MACCHIA dd. 15.9.2009).

 

Nella relazione redatta l’8.5.2009 l’importo privo di causale e da giustificare era stato dunque calcolato per l’anno 2002 in euro 474.495,65 cui si aggiungevano euro 124.464,18 di fatture non annotate, rinvenute in occasione dell’ispezione, per un totale di euro 596.087,72; per il 2003 di euro 598.844,79 (euro 552.120,57 + euro 46.724,22); per il 2004 di euro 575.395,15 (euro 487.074,74 + euro 88.320,41); per il 2005 di euro 581.348,49 (euro 468.436,69 + euro 112.911,80); per il 2006 di euro 832.987,50 (euro 482.127,51 + euro 350.859,99); per il 2007 di euro 403.467,94 (euro 396.579,98 + euro 6.887,96); per il 2008 di euro 304.224,28 (euro 330.356,11 – 25.311,83 – 520,00).

 

L’ammontare complessivo da giustificare era stato, dunque, determinato dalla Ragioneria in euro 3.892.355,87, ovvero in euro 4.295.338,84, laddove si tenesse conto pure delle annualità 2000/2001, pur oggetto di ispezione straordinaria (euro 109.560,09 per l’anno 2000 ed euro 293.422,88 per l’anno 2001; cfr. altresì fascicoli da 2 a 9 dell’ispezione straordinaria; relazione integrativa a firma del dott. MACCHIA dd. 15.9.2009, fascicolo 10)

 

Relativamente ai dati di compilazione del bilancio ha riferito Emilio SIMONAZZI, capo servizio del personale dal 2002 all’ottobre 2006 e vice segretario amministrativo generale da allora alla quiescenza (31.8.2009).

 

Secondo il testimone la Tenuta di CASTELPORZIANO aveva un proprio bilancio autonomo rispetto al bilancio finanziario della Presidenza della Repubblica; la necessità di un’autonomia contabile, insita nella gestione di una propria azienda zoo-faunistico agraria, faceva sì che avesse a disposizione un conto bancario istituito dal Segretariato Generale, aperto alle movimentazioni dei responsabili della Tenuta, al tempo DE MICHELIS, e del responsabile della contabilità, ossia il GAETANO. Le operazioni bancarie prevedevano la firma congiunta di entrambi; il rag. DI PIETRO non aveva, invece, potere di traenza.

 

Il Servizio Ragioneria e Tesoreria della Presidenza effettuava controlli mirati alla gestione per competenza del bilancio, nel senso che l’autonomia regolamentare della Tenuta faceva sì che la rendicontazione avvenisse per competenza e non per cassa : ciò significava che la Tenuta era destinataria di stanziamenti annuali in base ai capitoli di spesa di cui il principale era il noto conto ripiano dato alla Tenuta per lo svolgimento delle attività di gestione agronomo – forestale.

 

Era, infatti, fisiologico che il bilancio della Tenuta chiudesse costantemente in passivo, essendo questa organizzata non già quale ente con fine di lucro bensì quale azienda con finalità scientifica – paesaggistica di conservazione del parco floro – faunistico mediterraneo, rispetto alle quali i ricavi rappresentati dalla vendita dei foraggi, dei pini o degli animali risultavano del tutto insufficienti se rapportati ai costi di gestione.

 

L’entità del ripiano era stimata sul disavanzo dell’anno precedente ed era quindi di tipo revisionale.

 

Era prevista una rendicontazione mensile da parte del direttore delle Tenuta che tuttavia era limitata ai saldi di conto (con verifica delle giacenze del conto corrente acceso presso la B.N.L.) e agli impegni assunti e non già alle movimentazioni di cassa che li avevano determinati, non essendo previsto alcun controllo sulla cassa.

 

Fu la modificazione del regolamento di contabilità nel dicembre dell’anno 2008, quando vennero introdotti criteri di cassa aggiuntivi a quelli di competenza, con la previsione dell’indicazione delle giacenze di cassa che consentì di portare alla luce i consistenti ammanchi : lui stesso era stato interessato agli inizi dell’anno 2009 dal capo del Servizio Ragioneria dott. TRILLO’, che l’aveva informato sia delle lamentale ricevute dal dott. TRIPODI e dal dott. CALZOLARI sulle difficoltà della cassa nel pagamento dei fornitori, sia di quel che andava emergendo dai controlli contabili, al momento privi di qualsiasi riferita giustificazione.

 

Un ulteriore impiegato amministrativo a conoscenza dei fatti si identifica nella rag. RECINTO Andreina, presente ad una riunione informale, unitamente al suo superiore GAETANO, al direttore dott. DE MICHELIS e al dott. CALZOLARI nel corso della quale, a seguito del sollecito di fornitori su tardati pagamenti di cui erano in attesa, verosimilmente nel mese di novembre 2008, il primo replicava ai presenti che lo interrogavano, che si trattava di un ritardo di registrazione di entrate derivanti dalla gestione delle attività della Tenuta, quindi vi era stata una previsione di ricavi non verificata, che aveva indotto acquisti di beni e servizi pur in assenza di denaro (pg. 62/63 e 67 esame).

 

A tal punto il DE MICHELIS li aveva invitati ad operare un controllo e a sollecitare gli incassi: adempimento di cui si fece carico lo stesso GAETANO, senza che la teste fosse informata dell’esito (pg. 69 esame); aveva però predisposto, su richiesta del CALZOLARI, una scheda a fine novembre 2008 recante il bilancio al momento con i dati di banca e di cassa degli ultimi 2 o 3 anni, ciò che aveva realizzato previa informativa allo stesso GAETANO (pg. 71)

 

Secondo ZOCCHI Antonella, impiegata esecutiva presso l’Ufficio del TRIPODI, questi alla fine dell’anno 2008 le aveva manifestato perplessità in ordine alla cassa della Tenuta ed era parso preoccupato; le disse altresì che aveva chiesto al CALZOLARI di affiancare il dott. DE MICHELIS per comprendere quanto stava accadendo

 

1.1) La consulenza tecnico – contabile della dott.ssa DI CIOMMO Marina

Sulla documentazione rinvenuta, anche a seguito delle perquisizioni locali dd. 14.5.2009, eseguite presso la Tenuta che aveva portato al rinvenimento di ampia documentazione extra – contabile, vi é stata una rivisitazione, svolta attraverso una consulenza tecnica, affidata dal pubblico ministero alla dott.sa DI CIOMMO: in particolare il consulente é stato incaricato della verifica dei movimenti di cassa e banca negli anni 2002/2008, della corrispondenza degli estratti conto bancari del conto B.N.L. n. 803 rispetto alle movimentazioni risultanti dalla documentazione giustificativa sequestrata a CASTELPORZIANO, dell’esistenza e descrizione di ulteriore documentazione contabile non registrata in contabilità.

 

A dire del tecnico, la contabilità non era quella generalmente prevista per gli Enti statali bensì l’ordinaria contabilità prescritta per le società commerciali, secondo il sistema economico patrimoniale incentrato sulle scritture di prima nota, sulla partita doppia, sui conti di mastro.

 

Nella sua analisi era partita dall’esame dei fascicoli mensilmente formati contenenti il prospetto riepilogativo delle operazioni di entrata /uscita nonché la stampa del registro delle operazioni di prima nota, entrambi sottoscritti dal contabile della Tenuta: le registrazioni venivano poi riportate in mastri contabili, intestati al conto cassa e al conto banca che dovevano contabilmente riportare, in forma opposta, nei conti dare/avere, tutte le movimentazioni (c.d. partita doppia, strutturata su un conto economico e dello stato patrimoniale e su un conto finanziario, oggetto di regolamentazione contemporanea per ogni operazione attiva o passiva compiuta, tanto in dare quanto in avere).

 

Numerose erano le anomalie individuate durante l’analisi tecnica, classificate tra bonifici effettuati da clienti registrati in contabilità come uscite di cassa anziché come “minor credito verso il cliente” (punto 1); versamenti di assegni bancari o circolari in banca, usciti dalla cassa, di cui non si è trovato il riscontro in entrata (punto 2); prelevamenti da banca, entrati in cassa, privi di giustificazione tra le uscite di cassa successive (punto 3); registrazioni di uscite di cassa riportanti causali generiche (quali costi, residui passivi ecc.) a fronte delle quali non vi sono documenti giustificativi (punto 4); addebiti in banca senza riscontro nella contabilità generale (punto 5.1); registrazione di uscite di cassa o banca senza documenti giustificativi (punto 5.2.); prelevamenti da banca entrati in cassa che ripianano saldi di cassa negativi (punto 5.3); l’utilizzo in prima nota di un conto errato, non ripreso dal libro giornale (punto 5.4); l’imputazione a libro giornale del minor credito ad un cliente diverso rispetto a quello che aveva eseguito il bonifico, rilevato dall’estratto conto bancario (punto 5.5); la registrazione di uscite di banca in assenza di riscontro nell’estratto conto bancario (punto 5.6); altre operazioni anomale genericamente indicate (punto 5.7).

 

Non tutte si erano tradotte in fatti distrattivi, avendo trovato una qualche spiegazione sui libri contabili; di natura propriamente illecita erano piuttosto quelle indicate ai punti 3 – 4 – 5.1 – 5.2 e 5.3 della relazione, dove non era stata trovata giustificazione di sorta in alcun documento disponibile a fronte di prelievi di denaro che, irragionevolmente, erano andati ad accrescere una cassa già assai capiente.

 

Alla crescita improvvisa ed immotivata del conto cassa faceva quindi seguito il suo abbattimento con operazioni che parimenti non trovavano riscontro cartolare. Numerosi erano stati i casi di assegni privi di giustificazione, la cui sorte e il cui beneficiario restavano sconosciuti; era persino accaduto che la cassa fosse numericamente negativa, ciò che appariva contabilmente impossibile.

 

Si trattava in ogni caso di anomalie macroscopiche, ovvero grossolane (pg. 63 esame DI CIOMMO), immediatamente rilevabili da un addetto ai lavori

 

Le conclusioni del consulente tecnico sono state, dunque, nel senso di una distrazione di somme negli anni 2002/2008 pari ad euro 4.631.691,96, costituenti la somma di euro 1.137.658,31 per prelevamenti da banca privi di giustificazione in uscite di cassa successive (tipologia 3), euro 743.322,57 per registrazione di uscite di banca a fronte di causali generiche carenti di documenti giustificativi (tipologia 4); euro 1.098.120,71 per addebiti in banca privi di riscontro nella contabilità generale (tipologia 5.1); euro 315.361,20 per registrazione di uscite di cassa e banca presenti in contabilità a fronte delle quali non sono stato rinvenuti documenti giustificativi (tipologia 5.2); euro 383.775,89 per prelevamenti da banca, entrati in cassa a ripiano di saldi negativi (tipologia 5.3). A dette voci deve sommarsi quella di euro 953.453,28 corrispondenti a fatture emesse e rinvenute, mai annotate in contabilità (cfr. anche per il dettaglio pg. 670/676 consulenza tecnica con allegati).

 

Quanto ai controlli esperiti, le era stato comunicato dal Segretariato Generale della Presidenza che mensilmente il direttore della Tenuta preparava un fascicolo contabile con inserimento degli atti necessari per la rendicontazione, trasmesso dapprima al Servizio Tenute e Giardini, quindi al Servizio Ragioneria e Tesoreria per il riscontro della regolarità della documentazione.

 

Era la Ragioneria ad elaborare un prospetto riepilogativo delle operazioni, eventualmente con sospensione di quelle in attesa di contabilizzazione; il prospetto, firmato da un funzionario del Servizio, veniva inviato per l’approvazione al vice segretario generale e amministrativo, con successiva restituzione alla Tenuta (all. 5 alla C.T.; pg. 60/61 dott.ssa DI CIOMMO)

 

Era peraltro pure prevista la presenza di un collegio di Revisori contabili con compiti di controllo della regolarità contabile della gestione, verifica semestrale sul suo andamento, redazione della relazione al conto consuntivo con potere di accesso agli atti e ai documenti contabili (all. 6 alla C.T.)

 

In concreto dette affermazioni hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni del rag. CAPELLI Pierpaolo, addetto al Servizio Ragioneria, che riferiva di essere il diretto destinatario dei prospetti mensili formati presso la Tenuta, sottoscritti dal GAETANO e dal DE MICHELIS: il suo compito era la verifica di regolarità formale, intesa quale allegazione di tutta la documentazione che doveva comporre il fascicolo, partendo dalla prima nota, formulando le prime contestazioni ai ragionieri della Tenuta, senza tuttavia effettuare un riscontro incrociato tra i dati bancari e quelli contabili della cassa : ciò avveniva anche perché, dopo la rendicontazione, il fascicolo veniva restituito alla Tenuta sì che risultava impossibile un incrocio anche di medio periodo. Inoltre l’Ufficio Ragioneria era sprovvisto di supporti informatici.

 

Il sistema era mutato solo dopo l’emersione di irregolarità quando la Ragioneria venne dotata di apposito software per caricare l’intera contabilità.

 

1.2) Prime valutazioni sui delitti di cui ai capi a) e b)

Da quanto sino ad ora illustrato, prescindendo allo stato da ogni valutazione sull’addebitabilità soggettiva delle condotte, emergono in forma nitida ed inoppugnabile le prime risultanze, probatoriamente indiscutibili : ossia l’impossessamento e l’appropriazione, in forma ripetuta se non sistematica nel corso degli anni 2002/2008 (ma verosimilmente da momento antecedente a fronte delle positive verifiche interne compiute dall’anno 2000), di somme di denaro costituenti la dotazione finanziaria della Tenuta di CASTELPORZIANO, clamorosa per dimensioni numeriche e reiterazione nel corso del tempo.

 

La constatazione empirica dell’insufficienza dei fondi nell’anno 2008 per il pagamento dei creditori della Tenuta, nei cui confronti la morosità si protraeva da mesi, ha trovato spiegazione razionale e tecnica nelle verifiche sui documenti contabili infine rinvenuti e sulla situazione della cassa, operate in maniera autonoma, disgiunta e metodologicamente diversa dapprima dal Servizio Ragioneria e Tesoreria del Segretariato Generale, il cui gruppo di lavoro è stato formato da esperti appartenenti all’Ufficio Tesoreria e alla stessa Ragioneria; quindi dal consulente del pubblico ministero dott.ssa DI CIOMMO.

 

Pur a fronte di due approcci eterogenei la dimostrazione dell’effettività del danno alla cassa è insita nei risultati pressoché sovrapponibili dei distinti accertamenti, quand’anche con una differenza numeraria nella cifra del disavanzo, indicato in misura superiore dal consulente tecnico (per circa 700.000,00 euro per un totale di euro 4.631.691,86) giustificabile con la maggior analiticità degli approfondimenti consentiti al consulente dalla libera disponibilità dell’intero compendio documentale consegnato ovvero sequestrato.

 

Nessuna smentita ovvero contestazione è stata rivolta all’operato della dott.ssa DI CIOMMO: gli esiti della sua attività, per la capacità tecnica dimostrata dall’esperto, il metodo d’analisi che ha supportato le conclusioni, le argomentazioni utilizzate, la puntuale ed analitica dimostrazione documentale di ciascuna affermazione, la capacità di persuasione degli assunti messa in mostra, oltre a non indurre alcuna seria critica, logica o metodologica, hanno piuttosto convinto tutti, al punto che alcuno risulta essersi avvalso di propri consulenti per contestarne le conclusioni o avversarne il risultato.

 

Trattasi di dato di tipo propriamente scientifico che viene ad allinearsi e a saldarsi con gli altri convincenti elementi fattuali e logici emersi, quali, oltre alla diversamente inspiegabile incapacità di far fronte alle obbligazioni correnti della Tenuta, le gravissime irregolarità contabili che tali ammanchi hanno accompagnato, con la sottrazione deliberata per ciascun anno di parte consistente della documentazione alla registrazione (tanto che essa venne rinvenuta in occasione delle perquisizioni del 14.5.2009 e solo allora messa a disposizione della Commissione d’inchiesta interna, determinando una significativa modificazione numerica delle sue prime conclusioni; per l’elencazione analitica delle fatture attive non registrate in contabilità negli anni 2002/2007, cfr. pg. 603/667 consulenza tecnica per un totale di euro 953.453,28); la massa di operazioni prive di alcuna giustificazione; l’assenza di qualsiasi criterio di corretta e trasparente tecnica ragionieristica, evidentemente piegata a finalità di occultamento degli ammanchi, per i cui dettagli si fa rinvio tanto ai fascicoli delle revisioni annuali in sede di ispezione straordinaria interna quanto agli allegati alla consulenza tecnica.

 

L’effetto diretto è stata la sistematica alterazione e non veridicità dei dati trasferiti sui bilanci ufficiali, mensilmente trasmessi con il fascicolo appositamente formato alla Presidenza della Repubblica, adattati alla reale situazione contabile con artifici che, per quanto qui definiti, grossolani, hanno comunque offerto un comodo schermo e un alibi alle sottrazioni a fini personali che si andavano consumando nel tempo.

 

Fattore concausale concorrente, giustificante una situazione che più attente e scrupolose verifiche avrebbero fatto emergere tempestivamente, fu, infatti, il regolamento di contabilità vigente, articolato sino ad anni recenti su soli controlli di competenza, tanto che, in forma non casuale, fu la sua modificazione con l’introduzione dei controlli di cassa, operata infine nel 2008, a far emergere la situazione e a rendere insostenibili gli artifici contabili e le finzioni matematiche che avevano consentito il mascheramento di dette pur palesi irregolarità ragionieristiche.

 

Parimenti fattore di problematicità endogena è risultata la natura ibrida del bilancio della Tenuta, strutturato come bilancio finanziario autonomo, laddove le metodiche contabili erano di tipo finanziario pur a fronte di una realtà che era di tipo aziendale ed assoggetta a logiche commerciali (“tra le cause del dissesto ….un ruolo niente affatto secondario ha giocato l’irrisolta commistione tra un bilancio finanziario di autorizzazione e la contabilità ordinaria di tipo aziendale, la cui necessità è oramai legata all’alienazione del surplus agricolo forestale e all’acquisizione di beni e servizi diretti ad un settore – appunto quello agricolo forestale – la cui dimensione non eccede un quarto del bilancio della Tenuta”, cfr. prima relazione al Segretario Generale dd. 16.1.2009 a firma del dott. TRILLO’).

 

Per di più l’ultima ispezione era stata effettuata nell’anno 2002 da una commissione composta dal dott. TRILLO’, dal capo della Ragioneria del tempo rag. BANI, dalla rag. DI MARINO, dallo stesso CAPELLI (pg. 28/29 suo esame): sì che la tranquillità nascente dall’assenza di più serie verifiche rispetto al visto formale dei prospetti mensili, in sé inidonei a rivelare le poste alterate, e, in ogni caso, la consapevolezza che nessun controllo a sorpresa sarebbe mai stato attuato, certamente favorirono le macroscopiche appropriazioni di denaro pubblico accertate.

 

A detto senso di impunità si aggiunse la facilità con cui la Tenuta, per sua stessa consistenza, era finanziata: trattandosi di struttura fisiologicamente in perdita a fronte dello sbilancio tra i ridotti ricavi dell’azienda floro – faunistica che comprendeva e i costi di mantenimento e manutenzione della struttura, pure nascenti dal ruolo di luogo di rappresentanza presidenziale e da finalità di diffusione culturale – promozionale rivestiti, al punto che significativamente il capitolo di bilancio del Quirinale che la riguardava era denominato “conto ripiano CASTELPORZIANO” ed era quantificato in via provvisoria nella misura del deficit dell’anno precedente, salvo conguaglio.

 

Spropositata è risultata altresì la disponibilità di denaro custodito in cassaforte (anziché sul conto corrente n. 803), mantenuta negli anni, assolutamente ingiustificata rispetto alle esigenze concrete di pagamenti della Tenuta e comprensibile solo in una prospettiva di uso privatistico e personalistico di quel contante che recava in sé tutte le premesse per consentire e semplificare la realizzazione di vasti progetti criminosi.

 

In definitiva non vi era alcun vincolo formale di spesa, di contenimento degli impegni finanziari, di esibizione dei reali movimenti di cassa e, persino, di ostentazione della tenuta complessiva (e non già segmentata) della contabilità: sì da rendere agevolmente comprensibile l’irrisoria facilità e quasi la banale abilità con cui uno o più soggetti hanno effettuato ingenti prelievi di denaro per lungo periodo, definitivamente appropriandosene, coprendo gli ammanchi con artifici formali inconsistenti ma altrettanto incredibilmente efficaci.

 

E’ parsa, anzi, al Tribunale l’evidenza di una condizione di assoluta autonomia di cassa e cassaforte della Tenuta, rimessa in qualche modo a gestioni tanto informali e personalistiche, quanto irregolari, quasi si trattasse di cosa propria di funzionari, impiegati e maestranze, addetti alla Tenuta stessa, come pure accaduto per la cd. prassi del cambio assegni o dei prestiti, sulla quale si tornerà.

 

Al di là dei fatti, indubbiamente più eclatanti e dannosi, di definitiva sottrazione di denaro qui contestati, l’emergenza probatoria è stata, infatti, quella di un sistema combinato di erogazioni comode, di controlli ineffettivi e di gestioni privatistiche inevitabilmente destinati a favorire usi disinvolti del bene pubblico, sino ad impossessamenti la cui sistematicità pluriennale ha trovato un limite finale paradossalmente solo nella loro clamorosa macroscopicità e nella concreta insostenibilità, essendo stati tali da prosciugare completamente le casse (tanto che furono le reiterate lamentale dei fornitori creditori a generare quegli allarmi e preoccupazioni raccolti dal CALZOLARI per primo, quindi dal TRIPODI, trasmesse al dott. TRILLO’).

 

Non si potrebbe diversamente comprendere come sia stata possibile l’impunita distrazione fisica dalla destinazione di scopo di risorse pari ad una cifra giunta addirittura al 30% rispetto ai fondi stanziati (circa 2,5 milioni di euro annuali), come accaduto per l’anno 2006 e, in ogni caso, mediamente attestate sul 20%.

 

1.3 Le dichiarazioni di Gianni GAETANO

Quanto qui affermato trova piena conferma, riscontro ed ulteriore chiarimento nelle dichiarazioni che il Tribunale ha raccolto dal contabile della Tenuta e responsabile della cassa sin dall’anno 1981, ossia Gianni GAETANO, il cui esame il Tribunale ha ritenuto di assumere direttamente per il mutamento nelle more della sua posizione processuale rispetto al momento in cui venne chiamato a rendere esame quale coindagato nel corso dell’incidente probatorio svolto in data 15.2.2010, i cui verbali compongono il fascicolo del dibattimento.

 

L’intervenuta definizione della sua posizione attraverso la sentenza di applicazione della pena richiesta (sent. G.U.P. Tribunale di ROMA dd. 11.4.2011, n. 921/11, irr. il 7.5.2011) ha consentito, infatti, di esaminarlo nella presente sede quale testimone, sia pur assistito dal difensore, con una significativa variazione del peso del suo contributo non fosse altro per l’obbligo di verità che l’accompagna sulle dichiarazioni riguardanti i terzi.

 

Ciò nonostante il contenuto dell’esame qui reso ha sostanzialmente ricalcato le linee di quello reso ai sensi dell’art. 392 comma 1 lett. c) c.p.p., con una costanza dichiarativa in sé non priva di significato: sì che il sunto delle sue affermazioni, coerenti e lineari, terrà conto indifferentemente della combinazione di quanto emerso in entrambe le occasioni, tanto più per la sua sottoposizione al pieno contraddittorio nell’esame reso al G.I.P.

 

Il GAETANO, premesso in termini di inquadramento gerarchico, di essere stato sott’ordinato al solo suo direttore dott. DE MICHELIS, mentre suoi collaboratori in posizione subordinata erano il rag. DI PIETRO, la dott.ssa Andreina RECINTO e il rag. BERTI Renato, ha riferito in punto asssetti di potere che la presenza del TRIPODI a partire dal 1995 divenne sempre più assidua sino a divenire giornaliera, talvolta protraendosi sino al pomeriggio. Questo aveva fatto sì che egli fosse di fatto divenuto il capo della Tenuta, tanto che il TRIPODI partecipava regolarmente alle riunioni organizzative mattutine in Tenuta.

 

Ancor più specificamente, con l’avvento di DE MICHELIS (nel 1995) i rapporti di forza entro la Tenuta erano mutati nel senso che l’ingerenza di TRIPODI si era fatta sempre più marcata, condizionando a dire del GAETANO la libertà d’iniziativa dello stesso direttore DE MICHELIS, sino ad esautorarlo, “si è arrogato il compito di fare… di decidere…fare e disfare …gli devo dare i nomi di tutta la Tenuta, a cominciare dall’idraulico che cambia il tubo…” (pg. 23 incidente probatorio), “tutta la Tenuta subiva …una sudditanza psicologica nei confronti del dott. TRIPODI, perché di fatto, coperto com’era, la gente non è che si mettesse molto a discutere sulle cose da fare o da non fare” (pg. 24).

 

Il compito del suo ufficio di ragioneria era di provvedere alla tenuta della contabilità ed egli lo faceva elaborando personalmente i dati ed inserendoli nel computer oltre a provvedere ai pagamenti per cassa e per banca: i saldi attivi erano, invece, costituiti dalle rimesse del Quirinale (indicate in importi compresi tra 1 e 1,3 milioni di euro), inviate sul conto corrente e dai ricavi della vendita dell’azienda zoo – agricola di cacciagione, bovini, legname ecc., ammontanti a circa 3/400.000,00 euro. Vi era, infine, il contributo annuo del Ministero dell’Ambiente ammontante a 350.000,00 euro circa, accreditato sul conto corrente bancario n. 803.

 

Gli era stata altresì conferita la legittimazione ad operare sul detto conto bancario unitamente al direttore DE MICHELIS: in cassaforte erano, pertanto, custoditi i libretti di assegni già previamente firmati da entrambi.

 

Per ragioni di celerità aveva deciso con il DE MICHELIS di far affluire il denaro dal conto bancario alle casse della Tenuta attraverso l’incasso di assegni di conto che venivano lui intestati, da lui girati e portati allo sportello ove venivano cambiati: inizialmente i prelievi erano stati poco significativi, da un certo momento in poi ammontarono a circa 25/30.000,00 euro mensili; di fatto in cassa la liquidità si aggirava sempre su somme comprese tra 8 e 12.000,00 euro, al netto delle spese. Di conseguenza mensilmente in cassa rimanevano circa 30/40.000,00 euro.

 

Le chiavi della cassaforte erano tre e detenute da lui, dal rag. DI PIETRO, dal direttore della Tenuta il quale, tuttavia, le faceva custodire al rag. BERTI.

 

Confermava le dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio quanto al meccanismo di prelievo del denaro da parte sua, a partire dall’anno 2002, quando, dopo il mese di febbraio, di fatto cessarono le verifiche bimestrali di cassa, curate in via ispettiva dalla Presidenza della Repubblica.

 

Aveva, quindi, iniziato a prelevare dalla cassaforte dapprima piccole cifre (2/3.000,00 mensili) sino a giungere a 5/6.000,00 euro mensili che tratteneva per sé.

 

Accadeva con una certa regolarità che dipendenti della Tenuta, avendone necessità per ragioni personali ovvero di servizio, gli chiedessero denaro contante, indicandogli un giustificativo e sottoscrivendo un biancosegno: quindi il denaro veniva restituito ovvero gli veniva consegnata la fattura d’acquisto dei beni per conto della Tenuta e lui provvedeva a strappare il biancosegno.

 

Poteva altresì accadere che venissero usati i ricavi delle vendite di beni e prodotti della Tenuta, ad es. i cinghiali, pagati in contanti per la modestia degli importi.

 

L’unica persona che gli chiedeva denaro in misura significativa era il dott. TRIPODI, nell’ordine di euro 15/20.000,00 mensili, senza in realtà né provvedere alla restituzione né allegare documenti di spesa per la Tenuta (pg. 16/17 esame). Né egli aveva mai preteso chiarimenti perché “il dottor TRIPODI …si è sempre presentato come persona, come posso dire, di potere …. il fatto che c’aveva il segretario generale che era il marito della sorella della moglie….. GIFUNI, per cui qualunque cosa lui chiedesse in Tenuta o facesse in Tenuta era sempre e comunque sottolineato questo fatto, ma lo faceva con tutti, con tutti gli operai, con tutto il personale, con il direttore, con tutti ….” (pg. 18 esame).

 

Per tale motivo, non vi era né mai stata imposizione né, al contrario, possibilità di scelta da parte sua, “me lo chiedeva il capo del Servizio, io gli davo i soldi, non gli domandavo a che gli servivano perché non lo domandavo a nessuno ….non c’era neanche bisogno di dirlo, se tu prendi dei soldi, mi firmi la ricevuta e poi non torni il motivo c’è, io… avrei dovuto (andare) dal direttore e fare presente questa faccenda, fare presente una faccenda del genere significava mettere in moto tutta …. la scala gerarchica… io per fermare questo tipo di discorso avrei dovuto rivolgermi alla magistratura ordinaria e non si può fare perché agli organi costituzionali del Quirinale non è concesso, devi andare per ordine gerarchico ….” (pg. 19 esame)

 

Complessivamente i prelievi del TRIPODI erano ammontati a 1,5/2 milioni di euro complessivi; da ultimo gli aveva consegnato denaro nell’estate 2008, intorno ai 6/7.000,00 euro.

 

Non si era mai avuta evidentemente la presenza di terzi soggetti (“ma le pare che io faccio ‘sté cose con una persona presente?”, pg. 58); neppure vi era mai stata una pianificazione a tavolino con conoscenza reciproca dei prelievi altrui (che il GAETANO si sentiva di escludere), “è una cosa che è venuta così, di per sé. Nell’arco del tempo ho cominciato io, poi piano piano sono arrivati gli altri, hanno chiesto, hanno fatto e nessuno si è preoccupato di andare a vedere i conteggi come venivano in un certo senso sistemati. Nessuno si è preoccupato, quando li hanno presi, che una parte venivano ridati e una parte no, per cui a quel punto il discorso – secondo me - era tacito” (pg. 49 incidente probatorio).

 

Non era invece mai accaduto (se non in una particolare circostanza risalente a molti anni prima) che gli operai che chiedevano un anticipo di contante per effettuare spese per conto della Tenuta, in ogni caso anch’esso documentato dal biancosegno, non avessero provveduto a giustificare la spesa con la consegna di fattura ovvero con la restituzione dell’importo (pg. 55/56 incidente probatorio)

 

Era accaduto che pure il direttore DE MICHELIS si fosse servito della cassa, normalmente cambiando assegni, circa tre o quattro volte l’anno - avvalendosi del sistema del biancosegno – prelevando denaro per esigenze personali senza quindi procedere alla sua restituzione.

 

L’importo si aggirava tra 20/30.000,00 euro l’anno (pg. 24/25 esame e pg. 7 incidente probatorio; “il discorso è sempre lo stesso, quando viene un funzionario e ti chiede dei soldi non è tenuto a dire a me che ci fa…la mia preoccupazione è quella che poi me Io riporti e lì mi dici che ci fai perché o mi porti una fattura o mi ridà indietro i soldi……”, pg. 26).

 

Ribadiva tale versione anche riconoscendo gli assegni lui sottoposti dalla difesa, tratti dal DE MICHELIS, lui intestati e da lui girati, verosimilmente da lui cambiati in banca con corresponsione del contante al DE MICHELIS, sostenendo che le dazioni cui lui faceva riferimento, coperte da biancosegno, non transitavano attraverso assegni ed erano nell’ordine di due terzi della somma complessiva.

 

Non aveva invece alcuna evidenza di ammanchi legati al rag. DI PIETRO, pur titolare di una delle copie delle chiavi della cassaforte, che sapeva avere più volte direttamente effettuato delle anticipazioni di cassa a proprio favore, lasciando il biancosegno, quindi restituendo il denaro prelevato (pg. 25/26 esame).

 

Il dott. CALZOLARI, al contrario, non aveva mai preso nulla dalla cassa ed, anzi, era stato colui che per primo si era allarmato sui conti della Tenuta (pg. 27/28).

 

Aveva accantonato e custodito i biancosegni, costituenti ricevute di dazioni mai più restituite, e i tagliandi degli assegni utilizzati per allestire la cassa in un luogo defilato di un armadio a vetri sito nel suo ufficio e non si era preoccupato di sistemarli in luogo più sicuro, convinto che l’indagine interna avrebbe avuto tempi lunghi dandogli la possibilità di un diverso luogo di occultamento. La repentinità degli eventi lo colse, invece, di sorpresa sì che non ebbe tempo e modo prima della quiescenza (1.3.2009) di ritornare nel suo ufficio, ben presto occupato da altri dipendenti, al punto che vi aveva definitivamente lasciato, oltre a tali preziosi documenti, pure oggetti e beni personali.

 

In una sola occasione, dopo essersi recato alla riunione convocata al Quirinale dal dott. TRILLO’, gli era capitato di incontrare in dispensa il dott. TRIPODI cui aveva proposto di rimanere per i chiarimenti che gli sarebbero stati chiesti (avendo scelto di attendere le contestazioni piuttosto che spiegare preventivamente in dettaglio quanto accaduto), da lui sentendosi rispondere : “guarda, se vuoi te ne puoi andare e nessuno ti trattiene… sei una persona onesta” (pg. 30).

 

L’artificio contabile, neppure troppo nascosto per sua stessa ammissione, che aveva consentito e sorretto il meccanismo di prelievo pluriennale consisteva in una tenuta adattata della contabilità, mista perché parte regolata dalla contabilità di Stato, parte di tipo privatistico, laddove le uscite venivano da lui stesso impropriamente iscritte in un conto ammortamento, conto patrimoniale in realtà propriamente destinato alla indicazione delle perdite connesse alla caduta in disuso di mezzi e veicoli dell’Amministrazione, mentre il conto cassa registrava l’uscita dei soldi (“quando lei vede uscire i soldi dalla cassa e li manda a un fondo d’ammortamento, la prima cosa che si fa è : come mai, che c’entra?....quando vede un bonifico che invece fare cliente e bonifico si fa cassa – bonifico, quindi toglie dalla cassa per fare un bonifico in banca fatto da un altro, lei si domanda per quale motivo”, pg. 30 incidente probatorio).

 

A tal fine, egli verificava in particolare l’ammontare complessivo dei biancosegni corrispondenti al denaro mensilmente non rientrato e operava sulla contabilità in maniera consequenziale (“io non mi scontravo con nessuno. Io quando era la fine del mese facevo i miei conti, quello che mancava veniva coperto da quella movimentazione..”, pg. 39 incidente probatorio). Il bilancio veniva sempre chiuso in pareggio, sì che l’utile derivante da fatture incassate veniva sottratto per fare risultare il saldo contabile pari a zero.

 

1.4 Le conclusioni sui capi a) e b)

Le riferite dichiarazioni, già contemplanti una chiamata in correità in senso tecnico, integrano il nucleo forte che ha fondato l’estensione delle imputazioni sub a) e b) al direttore del Servizio Tenute e Giardini dott. TRIPODI, al direttore della Tenuta dott. DE MICHELIS, all’addetto all’ufficio rag. DI PIETRO: laddove, peraltro, le iniziali incertezze relative al ruolo e alla condotta di quest’ultimo si sono ben presto dissolte e, per quanto qui confermato, devono risolversi in senso favorevole all’imputato.

 

A dire dello stesso GAETANO, infatti, non vi è alcuna emergenza di definitivi fatti di appropriazione consumati dal DI PIETRO, il quale, a dire del primo, si sarebbe limitato in alcune occasioni a prelevare denaro dalla cassaforte, previa documentazione con biancosegno, quindi restituito.

 

D’altra parte, per quanto emerso dalle dichiarazioni rese dallo stesso imputato DI PIETRO (sia nelle spontanee dichiarazioni sia nell’interrogatorio dd. 2.12.2009 reso al pubblico ministero), trattasi di impiegato in posizione subordinata, alle dirette dipendenze del GAETANO, privo del potere di firma sugli assegni (difformemente da quanto indicato in imputazione), o di presentazione della contabilità, svolgente compiti accessori limitati alla fatturazione dei beni commerciati dall’azienda agricola, alla trasformazione delle bolle in fatture, con successiva restituzione al capo - ufficio GAETANO che curava la contabilità finale.

 

Anche quando si recava in banca od operava on – line sul conto bancario della Tenuta lo faceva esclusivamente su autorizzazione ovvero indicazione del GAETANO.

 

Improbabili, quindi, pure iniziative del tutto autonome da parte sua, pur a fronte del possesso di una delle copie delle chiavi della cassaforte, in ragione della mancanza di autonomia e della diretta dipendenza dal GAETANO, il quale si è assunto l’esclusiva responsabilità delle alterazioni contabili a monte della predisposizione della prima documentazione contabile da parte del DI PIETRO, nell’assenza di dati processuali difformi rispetto alle convergenti, pur autonome ed indipendenti, dichiarazioni dei due addetti alla Ragioneria della Tenuta.

 

Manca, quindi, qualsiasi supporto all’accusa lui originariamente rivolta, già smentita in fase di indagini preliminari, nei termini fattuali in cui è stata proposta, sia pur con le precisazioni che si faranno sull’uso disinvolto delle giacenze di cassa.

 

Consegue l’assoluzione di DI PIETRO Paolo dai delitti sub a) e b) per non avere commesso il fatto.

 

Quanto alle dichiarazioni avverso il TRIPODI e il DE MICHELIS, si premette in punto chiamata in correità che, secondo oramai assestati principi interpretativi, l’analisi dell’efficacia probatoria di essa deve seguire un rigoroso percorso logico, secondo una metodologia cd. “a tre tempi” che prende avvio dalla valutazione delle credibilità del dichiarante avuto riguardo alla sua personalità, alle sue condizioni socio – economiche, al suo passato e ai rapporti con il chiamato in reità, al sindacato sulle ragioni che l’hanno indotto a rendere quelle dichiarazioni accusatorie in danno di complici e coautori; procede quindi con la verifica della consistenza intrinseca delle dichiarazioni alla luce dei consueti criteri in tema di prova dichiarativa (ossia la precisione, la costanza, la spontaneità) e viene completata dall’esame dei riscontri esterni, legalmente imposti dalla regola di giudizio fissata dall’art. 192 comma 3 c.p.p. (da ultimo, Sez. Unite, n. 20804 del 29.11.2012/14.5.2013, Aquilina + altri; Sez. VI, n. 16939 del 20.12.2011, Rv. 252630; Sez. IV, n. 12349 del 29.1.2008, Rv. 239300; cfr. altresì Sez. Unite n. 1653 del 21.10.1992, Rv. 192465)

 

Evidente, a fronte della articolazione della valutazione richiesta, che il valore probatorio delle dichiarazioni etero-accusatorie spesso deriva da quello che é stato definito un ragionevole equilibrio di coerenza e qualità di quanto riferito nel contesto dei fatti narrati, potendosi anche compensare la debole valenza dell’attendibilità soggettiva con un più elevato livello degli elementi di riscontro attraverso il raffronto di verifiche della credibilità estrinseca: sì che è solo il peso complessivo e combinato dei profili descritti ad attribuire positiva affidabilità processuale alla prova dichiarativa ovvero a negargliela. Né la sequenza deve essere rigorosamente rigida nel senso che il percorso valutativo non deve muoversi lungo linee separate dei tre elementi di valutazione metodologica ma combinate e reciprocamente influenzabili tra loro.

 

Eventuali riserve sull’attendibilità del narrato possono, quindi, essere superate alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti.

 

Una particolare attenzione è sempre stata posta al profilo, del tutto specifico in quanto non richiesto nella prova testimoniale ed ulteriore rispetto alle indagini di credibilità intrinseca e di attendibilità oggettiva, quand’anche si tratti della persona offesa (Cass. S.U. n. 41461 del 19.7.2012, Rv. 253214) della natura e delle caratteristiche che devono presentare i riscontri esterni, necessari a corroborare la chiamata in correità: non essendo evidentemente necessario nulla di ciò rispetto alla testimonianza che sia frutto di rappresentazione storica diretta del fatto.

 

E’ certo che valgono a corroborare le dichiarazioni accusatorie anche elementi di ordine logico ovvero qualsiasi altro dato rappresentativo che sia positivamente apprezzabile dal giudice nell’ambito del suo libero convincimento; da ultimo risulta altresì risolto in termini positivi il quesito sul riscontro individualizzante bastevole rappresentato da altra dichiarazione indiretta, laddove tutte le chiamate risultino intrinsecamente attendibili, convergenti nel senso di riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum, indipendenti tra loro sì da non risultare frutto di illecite intese fraudolente, geneticamente autonome, derivando da fonti di informazione diverse (Sez. Unite, n. 20804 del 29.11.2012/14.5.2013, cit.).

 

Detto riscontro deve essere connotato da capacità individualizzante così da assumere efficacia dimostrativa in relazione all’attribuzione del fatto – reato all’imputato in quanto riferito a circostanze che riguardano direttamente la persona dell’incolpato, quand’anche gli ulteriori elementi di prova cui fa rinvio l’art. 192 comma 3 c.p.p. non devono valere di per sé a provare il fatto reato: evidente essendo che assumendo detta interpretazione la citata norma risulterebbe del tutto superflua atteso che l’analisi del peso probatorio degli ulteriori elementi dimostrativi della responsabilità dell’imputato non transita attraverso la regola di giudizio posta dall’art. 192 comma 3 c.p.p. ma si fonda sulle regole generali in tema di pluralità delle prove e di motivata valutazione di esse da parte del giudice (art, 192 comma 1 c.p.p.).

 

Gli altri elementi di prova richiesti sono, infatti, funzionali a confermare l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato ovvero dall’imputato in procedimento connesso, nel senso che vengono in posizione subordinata ed accessoria rispetto alla prova principale costituita dalla chiamata in correità atteso che essi assumono valenza e significato rispetto al tema della prova non già in sé, quale prova autonoma, ma con riferimento alla chiamata in correità stessa (da ultimo, Cass. Sez. II, n, 8125 del 30.1/20.2.2013, Ragaglia).

 

L’illustrazione che precede, pur incentrata sulla valutazione della chiamata in reità o in correità, quale operata in fase di indagini preliminari i cui verbali sono stati qui trasfusi, vale altresì per le dichiarazioni rese in dibattimento dal GAETANO quale testimone assistito, attesa l’estensione della regola posta dall’art. 192 comma 3 c.p.p. a tale speciale figura di dichiarante (art. 197 – bis comma 6 c.p.p.).

 

La norma, derogatoria rispetto al canone valutativo ordinario posto dall’art. 192 comma 1 c.p.p., è stata definita un segnale didattico al fine della valutazione probatoria di elementi reputati dal legislatore di minor efficacia dimostrativa, quali le dichiarazioni rese da soggetti comunque coinvolti nel fatto senza contrarre il principio del libero convincimento, piuttosto lasciando al giudice la libertà della valutazione di elementi rappresentativi, legittimamente acquisiti, che, pur non sufficienti a fondare la responsabilità dell’imputato, siccome meno affidabili di altri, devono essere esaminati in sé con più pregnanti criteri di analisi razionale, confermati ab extra e motivati con uno standard di adeguatezza più elevato.

 

Applicati detti principi epistemologici al caso di specie, nulla consente di dubitare della bontà in sé della chiamata in correità del GAETANO all’indirizzo del direttore della Tenuta e del sovraordinato capo del Servizio : soggetti verso i quali non nutriva ovvero non è emersa alcuna ragione di astio, vendetta o rancore, da alcuno provati, tanto in ambiente lavorativo quanto extra-professionale, in assenza altresì di pregressi rapporti diversi (ad es. economici) rispetto alla colleganza lavorativa, che possano inficiare la sua credibilità. Né motivi di inimicizia traspaiono dall’analisi delle sue dichiarazioni, che risultano scarne, essenziali e volte a riferire unicamente il ricordo senza forzature o distorsioni di sorta.

 

Neppure, al contrario, vi sono ragioni di vicinanza, di affetto o di amicizia verso il TRIPODI e/o il DE MICHELIS, sì che il loro rapporto può essere definito in termini di sostanziale neutralità, alla pari della relazione personale che egli aveva con il DI PIETRO che ha lealmente escluso da qualsiasi condotta illecita lui nota, senza tuttavia dichiararsene amico o esserne affettivamente vicino. Altrettanto per il CALZOLARI con cui ha dichiarato di non avere avuto alcuna relazione di tipo economico.

 

Laddove l’intenzione fosse stata, dunque, quella di suddividere ed estendere le responsabilità così da incrementare il numero dei soggetti imputabili, al contempo sminuendo le proprie, ben diverso sarebbe stato il suo atteggiamento processuale; né questo è mutato a seguito della variazione della sua qualificazione personale, nel senso che anche dopo l’assunzione dell’obbligo di verità, penalmente sanzionato, le sue affermazioni non si sono in alcun modo modificate.

 

Vi è stata, quindi, una significativa coerenza dichiarativa, caratterizzata da costanza temporale, tanto da essere pressoché mancate le contestazioni in senso tecnico, da precisione nei dettagli, avendo egli reiterato in forma omologa le proprie accuse a distanza di tre anni, a dimostrazione dell’assenza di una tesi precostituita, da logicità intrinseca, originata da uno spontaneo e non provocato desiderio di collaborazione del GAETANO, volto a rappresentare il suo effettivo ruolo e il suo contributo al fatto delittuoso per il quale decise autonomamente di collaborare presentandosi a rendere dichiarazioni al pubblico ministero in data 1.10. e 19.10.2009 in assenza di qualsiasi sollecitazione, verosimilmente nascente da una presa di coscienza seria della gravità della propria condotta, quand’anche l’atteggiamento collaborativo certo può avergli giovato nel trattamento sanzionatorio.

 

Né la sua credibilità è incrinata dal rifiuto di rispondere in occasione del primo interrogatorio dd. 20.5.2009, sollecitato nella fase iniziale dal pubblico ministero, ragionevolmente riconducibile a scelte defensionali tecniche lui non imputabili.

 

Fatto sia che da quando egli ha deciso di portare il suo contributo conoscitivo al procedimento, la scelta è stata irreversibile, coerente e priva di oscillazioni o tentennamenti, non collegabile ad alcun desiderio od interesse economico a salvaguardare il proprio patrimonio, oggetto di sequestri preventivi, come pur sostenuto (cfr. produzioni della difesa TRIPODI dd. 26.2.2013), trattandosi di situazioni apparse del tutto indipendenti: il sequestro preventivo dei beni del GAETANO non venne, infatti, certo correlato al valore economico degli impossessamenti da lui stesso confessati atteso che, al tempo, egli non aveva ancora fornito alcuna giustificazione sì che l’equivalente patrimoniale della misura cautelare venne fissata in euro 3.200.000,00, corrispondenti al valore oggettivo (e non già soggettivo) della distrazioni accertate al 22.5.2009 (cfr. richiesta pubblico ministero e decreto G.I.P. dd. 26.5.2009).

 

Né egli ha mai sottaciuto o sminuito l’importanza delle sue responsabilità, dichiarandosi l’unico esecutore materiale delle falsificazioni documentali e il primo (dal punto di vista temporale) nonché principale beneficiario (in termini economici) delle appropriazioni di denaro dalla cassa, valse a finanziare un centro ippico gestito da familiari: sì che anche dal punto di vista pratico ben poco incideva sulla sua posizione la diffusione, ipoteticamente calunniosa, delle responsabilità dello spoglio del bene pubblico, mentre assai più dannosa per la sua persona poteva essere una denuncia per calunnia (che invero non risulta essere stata presentata).

 

Tutti i segmenti della ricostruzione da lui narrati sono frutto di partecipazione diretta (e non già di esperienze altrui), avendo egli descritto la condotta propria e di terzi, cui egli aveva comunque partecipato, essendo colui cui era attribuito il ruolo, in tesi, di erogatore dei denari custoditi in cassa ai superiori: sì che risulta soddisfatto il requisito dell’attendibilità processuale del contenuto delle informazioni, intesa quale capacità di narrazione di fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, in quanto frutto del proprio diretto patrimonio conoscitivo e non già di fatti appresi da terzi.

 

La logicità del racconto, desumibile dalla lettura del verbale del primo interrogatorio e dalle dichiarazioni qui raccolte, risulta solida e coerente rispetto al nucleo fondamentale degli eventi, con alcune modeste imprecisioni di luogo e data non solo comprensibili ma persino necessarie nella impostazione di colui che non voglia prefigurarsi o preordinare alcuna tesi accusatoria e che a distanza di tempo venga chiamato a rievocare fatti di vita che hanno indirettamente coinvolto terzi.

 

Nulla, infatti, ha contraddetto dal punto di vista estrinseco l’affidabilità processuale del testimone assistito, che è parso trovare indirette conferme piuttosto che elementi di incoerenza, in ogni caso tali da escluderne un’azione gratuitamente calunniosa in danno dei superiori del tempo.

 

Il GAETANO, in particolare, non è certo smentito dai testi, pur numerosi, che hanno asserito che il DE MICHELIS non si occupava di contabilità ovvero non aveva alcun tipo di competenze ragionieristiche (trattandosi di un agronomo), non si recava presso l’Istituto B.N.L. ad operare sul conto corrente, ovvero non redigeva il consuntivo mensile di bilancio : fatti che per quanto giudicati dal Tribunale conformi al vero, non intaccano in alcun modo il nucleo della dichiarazione del chiamante in correità, il quale mai ha asserito il contrario, piuttosto ammettendo di essere stato, per competenza, preposizione e capacità, unico autore tanto delle falsificazioni dei bilanci tanto della materiale sottrazione del denaro, quindi ridistribuito, sia pur in quote nettamente diverse.

 

Lo stesso GAETANO ha ammesso, anzi, che il DE MICHELIS non aveva alcuna specifica competenza in tema di contabilità e si limitava a sottoscrivere i prospetti mensili da lui predisposti, in ossequio a quel dovere generale di vigilanza sulle attività svolte entro la Tenuta (art, 25 Regolamento Servizio Tenute e Giardini, pg. 75/76 teste DE CURTIS) ma compatibilmente con la qualifica professionale, trattandosi di un tecnico con competenze agrarie.

 

Nessuna contraddizione od incoerenza emerge dunque nel racconto del GAETANO.

 

Parimenti è stata da lui offerta giustificazione logica dei molti assegni tratti dal DE MICHELIS sul proprio conto corrente n. 28 presso la BNL, portati all’incasso dal GAETANO e spesso lui intestati (cfr. produzione difensiva dd. 11.7.2011), che il testimone ha ricondotto a dinamiche diverse, ossia il servizio di cambio assegni presso la banca che egli operava a titolo di cortesia verso il direttore, corrispondendogli il contante e che nulla avevano a che fare con i prelievi illeciti di cassa.

 

Né è smentito dal DI PIETRO che ha asserito di avere assistito ad alcune consegue di denaro contante dal GAETANO al TRIPODI stesso nel corso del 2008 (“una specie di prestito temporaneo”, pg. 19 esame), accompagnate dal rilascio del biancosegno, cui aveva fatto seguito la restituzione del denaro, in un’occasione a sue mani (“ritornava e riportava i soldi perché in una circostanza c’ero io; li ho ripresi io i soldi da TRIPODI e li ho rimessi in cassaforte e strappato il biancosegno”, 20 interrogatorio)

 

Non vi è, infatti, alcuna ragione per ammettere che il DI PIETRO possa essere stato costantemente presente a tutte le operazioni, anche risalenti agli anni precedenti, avendo infine ammesso che si trattava degli unici due casi cui lui stesso occasionalmente e casualmente assistette, occupando egli un ufficio distinto rispetto a quello del GAETANO, mentre quest’ultimo ha aggiunto che gli illeciti si consumavano rigorosamente – come verosimile - in assenza di terzi.

 

Parimenti poco rileva inoltre l’identità di colui o coloro che avevano la disponibilità delle tre chiavi della cassaforte (a dire del testimone BERTI Renato lo stesso GAETANO, il rag. DI PIETRO e lui stesso, quale addetto all’Ufficio Ragioneria, sino al giugno 2007 quando le restituì all’atto del collocamento in quiescenza; idem pg. 56 esame RECINTO): atteso che il GAETANO mai ha sostenuto esservi state appropriazioni autonome ovvero attraverso lui non transitate, essendo lui preposto in via esclusiva all’erogazione del contante quale cassiere, sì da negare che altri l’avessero fatto usando la chiave, pur custodita.

 

E’ parso altresì logicamente incongruo, sotto il profilo della verosimiglianza logica, che non sia stato il TRIPODI a comunicare al pari grado TRILLO’ le preoccupazioni per lo stato della cassa (al tempo già emergendo uno sbilancio di un milione di euro) ma il suo subordinato CALZOLARI: eppure il primo ne risultava informato sin dal 2007 a seguito delle lamentele dei fornitori (pg. 7/8 interrogatorio dd. 4.12.2009), avendolo confermato al TRILLO’, sia pur in termini meno preoccupanti. E’ parso anzi paradossale che il medesimo si sia detto rassicurato sino ad evitare qualsiasi accertamento pur trattandosi di struttura da lui dipendente, dalla concreta capienza della cassa da cui ancora riceveva prestiti nell’anno 2008 (“siccome in questa cassa i soldi ci sono e non ci sono, io li prendevo, i soldi o ci sono o non ci sono”, pg. 7).

 

Le sue contrarie affermazioni di essere stato l’autore della prima telefonata al dott. TRILLO’ (pg. 11 interrogatorio) trovano, infatti, decisa smentita in quanto da quest’ultimo attendibilmente sostenuto, sia per il suo disinteresse nel rendere l’affermazione sia per il suo riscontro documentale, quanto alla provenienza dell’informazione dal dott. CALZOLARI, mentre - solo a sua richiesta – il TRIPODI gli confermò quanto andava accadendo.

 

Né le reazioni provennero dal DE MICHELIS, certamente a conoscenza delle difficoltà della Tenuta, avendo la rag. RECINTO datato la prima riunione sul punto in Tenuta al novembre 2008 e il TRIPODI dichiarato di essersi con lui confrontato sulle difficoltà della cassa sin dal 2007 e di avere addirittura inviato il dott. CALZOLARI nell’estate 2008 per un mese in Tenuta per controllare la cassa, non fidandosi delle rassicurazioni del suo direttore (pg. 9/10 interrogatorio).

 

Addirittura nulla fece il DE MICHELIS neppure dopo la scoperta della disastrosa situazione di cassa da parte del Servizio Ragioneria, a seguito dei moniti del dott. TRILLO’ successivi ai primi accertamenti, quando raccomandò all’imputato, tra le varie, di sospendere con effetto immediato ogni pagamento e di accentrare nelle proprie mani la cassa contanti e gli strumenti di pagamento a mezzo banca (cfr. relazione TRILLO’ dd. 16.1.2009, fascicolo n. 1) essendo al contrario stato accertato che il GAETANO proseguì nella sua attività, così favorendo l’indiretta manipolazione dei dati contabili accertati in sede ispettiva e datati al gennaio 2009 : fatto che certo non fu estraneo all’immediato pensionamento del DE MICHELIS stesso (oltre che del GAETANO).

 

Parimenti razionale il contenuto del racconto del GAETANO in ragione della posizione di assoluta primazia vantata, per varie ragioni, dal TRIPODI e sulla quale si avrà modo di tornare: essendo quindi perfettamente comprensibile in astratto che, a fronte di una sua richiesta, non vi fosse alcuna opposizione, né sollecito alla giustificazione né, ancor meno, pretesa di restituzione, inverosimile risultando piuttosto, per quanto si spiegherà, il contrario assunto dell’imputato (“io dico che GAETANO mi avrebbe chiamato…cioè - si è dimenticato di restituire quei soldi - io il ho sempre restituiti, ho sempre ridato il bigliettino, l’ho sempre strappato, a meno che non me ne sia sfuggito uno da strappare, questo non mi posso ricordare in quindici anni se una volta non ho ripreso il foglietto”, pg. 5 interrogatorio dd. 4.12.2009, laddove singolarmente il TRIPODI fa riferimento alla personale custodia del biancosegno che, al contrario, doveva rimanere nel possesso del cassiere GAETANO).

 

Quel che dal Tribunale è stata ritenuta mancante, piuttosto, è la presenza in atti di dati fattuali di riscontro tali da rispondere a quel criterio di etero-sufficienza delle dichiarazioni accusatorie del soggetto coinvolto laddove confermate ab extra, imposto dall’art. 192 comma 3 c.p.p. al fine dell’affermazione della sicura sussistenza del fatto a carico dell’accusato.

 

Sotto questo profilo è parso debole ed equivoco l’unico elemento indicato sul punto dal pubblico ministero, ossia l’appunto manoscritto rinvenuto in sede di perquisizione locale, eseguita in data 30.10.2009, press l’abitazione denominata “Conventino” sita entro la Tenuta Presidenziale, destinata ad alloggio del DI PIETRO (scala centrale int. 4).

 

Trattasi di un lungo scritto, datato 3.2.2009, ancora conservato tra i suoi documenti, da lui indirizzato al proprio padre spirituale nel quale, dopo avere manifestato la sua amarezza per il difficile momento che viveva, scriveva “la tranquillità e la pace della mia famiglia è minata da una responsabilità che non ho e che non mi si accusa, ma probabilmente dipendente dal solo fatto che in questi anni non ho avuto il coraggio di denunciare gli altri ed il loro operato. Mi domando!! Ma una persona che dipende da altre persone e Capi, come può denunciare l’operato di un superiore quando lo stesso e poi anche più su nella lunga scala gerarchica sanno e non dicono, vedono e lasciano correre, approvano e distruggono la moralità dei giusti?” (cfr. produzione del pubblico ministero dd. 8.10.2012).

 

E’ certo che lo scritto facesse riferimento agli eventi che andavano montando presso la Tenuta, “ho da rimproverarmi solo il fatto di avere scelto e preteso sempre di lavorare a Castelporziano ….. a questo punto semmai dovessero spostarmi di sede di lavoro, metterei a rischio l’intero equilibrio familiare …..non mi spaventa il carico di lavoro ed il sacrificio del viaggio, ma certamente nella mia coscienza suonerebbe e riecheggerebbe come una grave punizione, Si vuole ledere la mia integrità morale, si vuole offendere la mia persona e mortificare pubblicamente la mia immagine per la sola responsabilità di avere lavorato in questo posto e con chi !!!”.

 

Ha quindi spiegato il DI PIETRO nel corso del suo interrogatorio che la lettera in oggetto era stata da lui indirizzata al suo confessore in un momento particolare quando, pur non essendovi ancora sentore dell’indagine penale, già filtravano le prime indiscrezioni su quella interna presso la Ragioneria del Quirinale e sull’entità degli ammanchi : tanto che, temendo di essere coinvolto quale stretto collaboratore del GAETANO, si era lamentato dell’assenza per lungo tempo dei superiori (tanto il DE MICHELIS quanto il TRIPODI) cui egli (al primo in particolare) aveva rappresentato la situazione di assoluto disordine contabile e di sciatteria che regnavano presso l’ufficio del GAETANO, cui tutto pareva consentito.

 

Il timore di un trasferimento d’ufficio per fatti di cui si sentiva totalmente incolpevole, tanto più avendo a suo dire segnalato la situazione al DE MICHELIS, l’aveva spinto a quella lettera intrisa di disperazione di confidenza ad una persona di fiducia (pg. 22/23 e 97/102 interrogatorio dd. 2.12.2009).

 

La spiegazione alternativa del significato recondito della lettera offerta in termini non irrazionali dal DI PIETRO, l’equivocità del suo contenuto laddove la mancanza di coraggio di denunciare gli altri ed il loro operato. di cui egli si è accusato, può sottendere effettivamente prassi amministrative e ragionieristiche illecite e non necessariamente e certamente prelievi generalizzati ed indiscriminati di denaro pubblico, mantiene un’area di dubbio sulla natura individualizzante del preteso riscontro rispetto ai fatti in esame.

 

D’altra parte tale non è stato ritenuto neppure dalla Corte di Cassazione, investita del ricorso avverso l’ordinanza dd. 21.12.2009 del Tribunale di ROMA – Sezione per il Riesame, confermante la misura cautelare degli arresti domiciliari applicata dal G.I.P. a TRIPODI Luigi, che nelle motivazioni non se è curata nonostante fosse disponibile in quanto già sequestrata, senza neppure rinvenire altro elemento individualizzante le accuse a carico del TRIPODI (cfr. sentenza di annullamento dell’ordinanza impugnata n. 11476 del 19.3.2010).

 

Nessun ulteriore elemento in fatto risulta portato all’attenzione del Tribunale rispetto a quelli allora noti, neppure essendo stata espletata un’indagine di tipo patrimoniale – cha appariva doverosa – sulle pur molte disponibilità del TRIPODI, emergenti dalla stessa documentazione bancaria per gli anni 2002/2009, prodotta dalla difesa in data 23.4.2013 (peraltro riferita al solo conto corrente acceso presso lo sportello BNL del Quirinale e in cui pur sono affluite entrate diverse rispetto all’emolumento da attività professionale; cfr. altresì saldo del conto al 26.10.2009 pari a + euro 458.000,00, documentazione in sequestro) nonché dal contenuto dell’interrogatorio da lui reso in data 4.12.2009 (proprietà di un immobile sito in via Cratilo d’Atene in ristrutturazione dall’anno 2006 e acquisto di un immobile in via Senofonte nell’anno 2009 del valore di euro 1.050.000,00 euro, ci cui euro 250.000,00 finanziati da un mutuo bancario).

 

Né vi è stata acquisizione di quei documenti che il GAETANO aveva indicato probanti le appropriazioni, ossia i biancosegni da lui redatti, conservati a memoria delle dazioni e custoditi nel suo ufficio, non più rinvenuti: senza, peraltro, che la loro indisponibilità provi in sé la non credibilità del primo apparendo altrettanto ragionevole in tesi che, allontanato il GAETANO ed estromesso fisicamente in maniera repentina e per lui inaspettata dal suo ufficio presso il quale egli non poté più rientrare, colui che aveva interesse possa avere provveduto alla pulizia di ogni materiale compromettente.

 

La particolarità del luogo di custodia, peraltro, tale da renderlo immune da atti a sorpresa atteso che tra le guarentigie di cui gode il Presidente della Repubblica e le sue sedi di rappresentanza, vi è pure quella dell’autorizzazione preventiva all’accesso della polizia giudiziaria ai locali (artt. 1 e 2 Decreto Presidenziale 29.7.1997), rende pressoché impossibile l’acquisizione di prove a sorpresa e, dunque, di elementi probatori genuini e decisivi.

 

D’altra parte l’esistenza dei biancosegni è fatto storico certo e processualmente acquisito non fosse altro perché ad essi hanno fatto riferimento, oltre al GAETANO, lo stesso DI PIETRO e il TRIPODI (pg. 5 interrogatorio dd. 4.12.2009), che hanno reso il silenzio sul punto del direttore DE MICHELIS del tutto irrilevante : verosimile, dunque, che almeno traccia mininale di essi, residuo di una prassi consolidata che non aveva alcuna ragione di essere cessata al dicembre 2008, quando esplose la vicenda, dovesse trovarsi, in cassaforte od altrove.

 

Fatto sia che la debolezza congenita degli elementi accusatori in punto gravità indiziaria, sancita dalla Corte di Cassazione, è stata confermata in dibattimento, dove è stato trasfuso il medesimo materiale probatorio, in alcun modo arricchito da significativi accertamenti ulteriori e diversi.

 

Analoghe conclusioni devono assumersi, a fronte dell’identità della situazione processuale, per DE MICHELIS Alessandro il quale, al pari di TRIPODI Luigi, dovrà essere assolto per mancanza di sufficiente prova della sua compartecipazione alle condotte delittuose in esame.

 

Non si darà quindi neppure corso alla trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica per il delitto di omessa denuncia di reato nei confronti di DI PIETRO Paolo, come richiesto nelle conclusioni dal suo rappresentante.

 

Resta piuttosto la constatazione certa e processualmente acquisita, da alcuno smentita, di un utilizzo della cassa della Tenuta che, a parere del Tribunale, risulta analogamente illecita, benché per ragioni diverse, che non hanno trovato espressione nel capo a).

 

Si fa da un lato riferimento alla prassi del cambio assegni; dall’altro all’utilizzo delle giacenze di cassaforte per scopi personali e del tutto impropri, tipici e propri di un Istituto di credito.

 

Quanto alla prima è emerso da numerose testimonianze il radicamento in Tenuta della consuetudine del cambio di assegni personali per consentire ai dipendenti di disporre di liquidità, a fronte dell’accreditamento degli stipendi sul conto della B.N.L. in luogo del pagamento in contanti; della monetizzazione si occupava GAETANO (pg. 6/7 BERTI) ovvero il DI PIETRO (pg. 13/14 MAZZANTI), oppure indifferentemente l’uno o l’altro (pg. 16 DI FINE; pg. 18 PIRRO’; cfr. altresì sulla prassi instaurata, PEZZALI e FRANCESCHINI)

 

In ordine al secondo profilo si fa riferimento alle dichiarazioni del GAETANO il quale, appunto, ha rappresentato che, accanto ad una prassi di cambio assegni cui si prestava a titolo di cortesia verso i colleghi e superiori, vi erano le numerose situazioni di vera e propria attività di prestito, pur gratuito, non solo a favore dei dirigenti, ma pure di addetti alla Tenuta, garantiti dal biancosegno, normalmente rimborsati con eliminazione della ricevuta, fatta eccezione per le situazioni che avevano riguardato fondamentalmente il TRIPODI e, in ridotta misura, il DE MICHELIS, sopra illustrate.

 

Trattasi di affermazione da alcuno smentita nelle sue premesse: lo stesso DI PIETRO, anzi. ha confermato entrambe le prassi, ammettendo “che venivano, cambiavano gli assegni oppure lasciavano il biancosegno e prendevano del contante e poi lasciavano l’assegno al termine dell’operazione. Praticamente veniva fatto un biancosegno in cambio di contante, poi ritornavano e portavano l’assegno e l’assegno andava incassato riportando i soldi in cassaforte …perché la cassaforte di CASTELPORZIANO aveva del contante” (pg. 28 interrogatorio).

 

Anche il dott. TRIPODI ha ammesso, sia pur in termini riduttivi, di avere ricevuto prestiti dalla cassa, “in circa 15 anni una decina di volte, come tutti in Tenuta, lo può chiedere a chiunque, quando non funzionava la cassa, il bancomat della Tenuta, chiedevamo, io ho chiesto, mi sembra che l’unica volta, ho chiesto una volta 1.000 euro, ma di solito erano 500 euro per dare a mia moglie e a mia figlia, pagare la donna ecc., firmavo un fogliettino che il GAETANO metteva in cassaforte e poi dopo due o tre giorni gli riportavo i soldi, mi sembra di avere usato anche l’assegno una volta, non mi ricordo, glielo davo, lui mi ridava il fogliettino e lo strappavo. Questo è stato l’unico contatto, l’unica cosa che riguardava il denaro tra me e Gianni GAETANO, nessun altro ..... molti ci si rivolgeva a GAETANO per avere del liquido quando non si poteva prendere al bancomat ” (pg. 5 interrogatorio), “io non ho mai avuto nessun rapporto con GAETANO se non per farmi anticipare per due o tre giorni dieci volte in dieci anni somme di denaro, il massimo fu una volta 1.000 euro, ma poi mi ricordo 500, 700, 600 che io puntualmente restituivo dopo due o tre giorni e ritiravo, spesso pagando pure con assegni…. cioè ripagando nella cassa” (pg.45).

 

Anche il dott. TRIPODI ha dunque confermato trattarsi di utilizzo non occasionale dei fondi per servizi bancari individuali assolutamente generalizzato.

 

Sul punto la pronuncia della Cassazione, sulla base delle prime emergenze investigative, ha fatto riferimento ad una situazione diffusa e del tutto lecita, “come notorio, si tratta di prassi frequentemente riscontrabile presso le amministrazioni indipendenti fornite di servizio di cassa e prive di servizio bancario (o con un servizio bancario temporaneamente fuori uso) quale appunto l’amministrazione della Tenuta presidenziale” (sent. n. 11476/2010 cit.)

 

Nei termini in cui essa è stata qui rappresentata deve, tuttavia, sottolinearsene, a giudizio del Collegio, l’assoluta illegalità, trattandosi di condotte valse a trasformare di fatto la cassa di CASTELPORZIANO in una banca (come efficacemente definita dallo stesso DE MICHELIS) che, oltre a non avere alcuna ragione di esistere (tanto più dopo l’apertura dello sportello bancario della BNL in prossimità della Tenuta e a fronte dell’esistenza di un servizio bancomat che non poteva certo essere fuori uso in maniera continuativa), integra una vera condotta appropriativa di beni dell’Amministrazione.

 

Può discutersi in tesi in in ordine ad una qualche giustificazione psicologica della pratica cambio assegni/contanti sotto forma di causa di esclusione della punibilità in punto buona fede, ammessa astrattamente e provata la pronta disponibilità della provvista sui conti correnti personali con la copertura dei titoli e, dunque, l’equivalenza economica delle due prestazioni, anche in termini di interessi computabili trattandosi di uno scambio di denaro contro denaro.

 

Altrettanto non può, invece, concludersi per l’attività generalizzata di prestito gratuito emersa.

 

Integra, infatti, il delitto di peculato ogni atto di disposizione uti dominus di qualsiasi bene di cui il soggetto sia possessore per ragioni di ufficio laddove il possesso resta caratterizzato dal fine pubblico cui il bene risulta destinato: di conseguenza il denaro facente parte del patrimonio della pubblica amministrazione non può entrare mai, neppure temporaneamente, nel patrimonio del pubblico ufficiale il quale, se ha l’obbligo giuridico di consegnare la moneta ricevuta per conto della P.A., non può neppure effettuare la commistione tra denaro pubblico posseduto e il proprio (ovvero il patrimonio di terzi) atteso che ciò comporterebbe l’acquisto della proprietà del denaro da parte del pubblico ufficiale, salvo il sorgere di un debito pecuniario a suo carico, secondo i principi dell’istituto civilistico della commistione (art. 939 c.c.; cfr. per detta ricostruzione, Sez. VI, n. 27738 del 22/6/2010, Rv. 247787; Sez. VI, n. 1256 del 3/11/2003, Rv. 229766)

 

Di conseguenza l’utilizzo del denaro giacente in cassaforte per prestiti a dirigenti e collaboratori per scopi personali assume valenza appropriativa, a nulla valendo la restituzione, peraltro da verificare nei tempi e termini, dell’equivalente ovvero lo scambio con titoli di credito di pertinenza dei fruitori del denaro dell’Amministrazione: il requisito del danno patrimoniale risulta, infatti, estraneo alla figura delittuosa in questione, il peculato consumandosi nel momento dell’appropriazione della res o del denaro da parte dell’agente, a prescindere da qualsiasi lesione al patrimonio pubblico, atteso che l’interesse tutelato dal delitto di cui all’art. 314 c.p. si identifica (anche) nella legalità, nell’imparzialità e nel buon andamento del suo operato (Sez. VI, n. 26476 del 9/6/2010, Rv. 248004; Sezioni Unite., n. 38691 del 25/6/2009, Rv. 244190 che ha ritenuto il peculato nella condotta di compensazione tra somme dell’Ente e crediti vantati dall’agente; Sez. VI, n. 1256 del 3/11/2003, Rv. 229766) ).

 

Del tutto irrilevante risulta, dunque, l’avvenuta restituzione in cassa della somma sottratta (Sez. VI, n. 18161 del 5/4/2012, Rv. 252639; Sez. VI, n. 4495 del 7/6/1989, Rv. 183887), alla pari di finalità di profitto personale, essendo il reato punito a titolo di dolo generico per il quale è bastevole la coscienza e volontà di appropriarsi del denaro altrui (cfr. Sez. VI, n. 27738 del 22/6/2010 cit.).

 

Ogni qualvolta, dunque, vi sia stato prelievo di denari in cassaforte sottraendo alla sua disponibilità (parte del) denaro ricevuto per fini pubblici, anche a mezzo di prestiti quindi rimborsati, è stata realizzata l’appropriazione qualificata del pubblico ufficiale, in concorso con i fruitori del denaro pubblico, intesa come interversione del titolo del suo possesso, in sé lesivo dell’interesse relativo alla tutela dell’integrità patrimoniale della pubblica amministrazione.

 

Le conclusioni che precedono, come anticipato, non comportano immediate conseguenze processuali, sia per l’avvenuta definizione della posizione del GAETANO, principale autore di ogni movimento di denaro e primo responsabile e garante delle giacenze della cassaforte, sia per il distinto, assorbente profilo della natura dei fatti appropriativi descritti in imputazione ed oggetto del giudizio: la presenza di tali prassi è parsa, tuttavia, assolutamente degna di illustrazione e trattazione al fine di evidenziare l’autonomia e l’indipendenza sino alla spregiudicatezza con cui vennero gestiti per lunghi anni i beni pubblici formanti il compendio della Tenuta di CASTELPORZIANO, ivi compreso il denaro in dotazione e di cui altri esempi seguiranno.

 

Ciò a partire gerarchicamente da colui che per primo doveva preservarne l’integrità patrimoniale e funzionale essendo capo del Servizio di appartenenza, ossia il dott. TRIPODI, il quale ha serenamente ammesso, certamente in forma riduttiva, di avere più volte chiesto denaro al cassiere, nell’ordine non certo modesto o modico, di 500/700,00 euro sino a 1.000,00, “firmavo un fogliettino che il GAETANO metteva in cassaforte e poi dopo due o tre giorni gli riportavo i soldi,..... molti ci si rivolgeva a GAETANO per avere del liquido quando non si poteva prendere al bancomat ”, pur non mancandogli certo quell’autonomia di movimento, di tempi e di occasioni che gli avrebbero consentito ordinari prelievi esterni alla Tenuta, a partire dall’uso dei servizi della filiale BNL posta nei pressi della Tenuta (anche trascurando le affermazioni del GAETANO che a lui si erano pure rivolte per prestiti le figlie del TRIPODI, inviate dal padre).

 

2. La villa sita in località SANTOLA

Numerosi segmenti e vari filoni di imputazioni ruotano intorno alla realizzazione di quella che, a buona ragione, può definirsi la villa in località SANTOLA, realizzata tra il 2005 e il 2006.

 

“E’ un discorso tutto del dott. TRIPODI”: così il GAETANO (pg. 18 incidente probatorio) ha sintetizzato efficacemente e, soprattutto, correttamente il senso di quell’intervento edilizio che il processo ha effettivamente confermato come interamente riconducibile alla iniziativa, volontà e fruizione del TRIPODI, desideroso di disporre di un alloggio di servizio entro la Tenuta, pur abitando in luogo ad essa assai prossimo.

 

E’ d’altra parte lo stesso imputato ad avere più volte ammesso durante il suo interrogatorio di avere maturato nell’estate del 2005 la decisione di sistemare un edificio diroccato insistente nella Tenuta, definito ex – canile in virtù del suo precedente utilizzo (quale luogo di ricovero dei cani del gruppo cinofilo dei Carabinieri addetti alla Tenuta) al fine di destinarlo a propria dimora avendo allora deliberato l’esecuzione di radicali lavori di ristrutturazione della sua abitazione sita in via Cratilo d’Atene (tra i molti rinvii, cfr. pg. 42 interrogatorio).

 

La prima occasione in cui ufficialmente emerse la sua necessità fu la riunione del 20.7.2005 della Commissione Alloggi del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, presieduta dal dott. Italo DE CURTIS, cui partecipò lo stesso TRIPODI, componente stabile nella sua qualità di capo del Servizio Tenute e Giardini, quando ufficialmente il DE CURTIS rappresentò alla Commissione l’esigenza (vds. chiosa alla delibera: “a chiusura della riunione il dott. DE CURTIS fa presente ai partecipanti che ritiene opportuna, in tempi brevi, l’assegnazione di un alloggio al Capo del Servizio Tenute e Giardini presso la Tenuta di CASTELPORZIANO, note le pressanti ed accresciute esigenze operative della Tenuta stessa”, doc. 16 della produzione GIFUNI dd. 11.7.2011).

 

Del tutto sinceramente l’imputato, con dichiarazioni che si trascrivono al fine di preservarne la genuinità e il significato proprio, ha ammesso : “avevo detto probabilmente a DE CURTIS che avrei avuto piacere di rimettere a posto quell’immobile per l’Amministrazione, di andarci ad abitare per un paio d’anni e poi andarmene in pensione e poi nel frattempo potevo fare i lavori a casa mia” (pg. 32), “io ne avevo parlato un po’ con tutti, che avrei avuto piacere di andare in un alloggio di servizio …di averlo in Tenuta, possibilmente rimettendo a posto quel manufatto del canile. Questo l’avevo detto a DE CURTIS, ai colleghi che avevano necessità di saperlo, compresi quelli del Patrimonio…..” (pg. 33); “come alloggio non esisteva … all’epoca era un canile” (pg. 37).

 

In realtà non pare sussistessero particolari ovvero accresciute necessità di servizio, perlomeno per quanto sostenuto dal direttore della Tenuta DE MICHELIS, “io non ho mai richiesto che il capo del Servizio Tenute venisse ad abitare in Tenuta, no. Anche perché …lei capisce che un superiore in Tenuta…” (pg. 26 interrogatorio), a mala pena celando l’irritazione per gli effetti, ossia la perdita di controllo e potere sul personale che ne era derivata, “una mattina andavo in un settore, dicevo: allora, questi due operai…, dice - no, stì due operai in questo momento il dottor TRIPODI gli ha detto di fare un’altra cosa - …disponeva degli operai…che ne so. Andavo a prendere il caffé in dispensa e gli operai …lasciavano i settori per andare a salutare e rendere deferenza al dott. TRIPODI…insomma era un po’ l’organizzazione …nei confronti del quale tra l’altro io non è che potevo andare lì e dirgli ….” (pg. 27/28 interrogatorio dd. 2.12.2009).

 

Aggiungeva : ”prima che arrivassi io, lui ha tentato di diventare direttore della Tenuta…lui puntava a fare il direttore perché gli piaceva perché abitava a Palocco, stava a due passi da lì, gli piaceva fare il direttore… e poi mi ha detto - dice: mi ha fregato il Presidente SCALFARO che invece s’è rivolto al Comandante del Corpo Forestale ..e ha fatto venire te. Mi ha fregato perché SCALFARO voleva un tecnico forestale”; D.: “ma visto che c’aveva la casa all’AXA che necessità aveva di avere una casa dentro?”, R.: “non l’ho mai capito questo. Non l’ho mai sinceramente capito se non quello di venirmi ….a rompere le scatole a me …voleva emulare lo zio, sì” (pg. 101/102)

 

Conferma della negativa situazione personale e relazionale tra i due, indirettamente rilevante (pure) sulla decisione di realizzare l’immobile in loc. SANTOLA, si ha nelle affermazioni rese dal DI PIETRO il quale ha confermato la presenza immanente di TRIPODI, “credo che … DE MICHELIS soffrisse molto la presenza di TRIPODI, cioè non poteva fare il direttore come avrebbe voluto fare lui. Credo che TRIPODI fosse molto presente e anche molto incisivo nelle scelte” (pg. 71 interrogatorio dd. 2.12.2009)

 

Trattasi di valutazioni di opportunità, riferite dai co-protagonisti della vicenda che si riprendono solo per illuminare il clima che albergava in Tenuta, con riflessi pure sull’addebitabilità dei singoli capi d’accusa, non intendendosi certo discutere la titolarità del diritto del TRIPODI ad un alloggio di servizio attenendo al merito dell’atto amministrativo, qui non sindacabile : nella sola Tenuta ne erano funzionanti ed assegnati circa una cinquantina (tra i quali quello dello stesso DE MICHELIS e del DI PIETRO; vds. altresì nuova assegnazione alloggio in Tenuta a GRASSO Gabriella decisa con la delibera del 20.7.2005).

 

L’assegnazione è stata, infatti, definita, in modo certo legittimo, atto dovuto dallo stesso Segretario Generale dott. Gaetano GIFUNI, chiamato a sottoscriverla definitivamente (pg. 16 esame).

 

Più analiticamente, a dire del teste SIMONAZZI, capo Servizio del Personale sino al 2006, i capi servizio possono avere un alloggio di servizio ove siano sussistenti e riconosciute le esigenze di servizio che fondano l’istanza : in ogni caso è previsto che l’assegnatario corrisponda un canone all’Amministrazione, parametrato alle dimensioni dell’alloggio stesso (pg. 15 esame SIMONAZZI).

 

Analogamente il teste NICOLETTI Maurizio, da ultimo vice segretario generale amministrativo della Presidenza, dichiarava che al fine dell’assegnazione degli alloggi di servizio ai funzionari del Quirinale, era necessario un parere della Commissione Alloggi formata da quattro capi – servizio e dal vice segretario amministrativo, integrata dai rappresentanti del personale, che proponeva un decreto di assegnazione al Segretario generale, competente per l’adozione del decreto.

 

Il dipendente beneficiario veniva scelto sulla base delle esigenze di servizio, ossia avuto riguardo alle mansioni svolte.

 

Nel caso del TRIPODI l’iniziativa era verosimilmente stata promossa dal capo del personale dott. DE CURTIS, quand’anche la Commissione Alloggi non espresse il 20.7.2005 un vero parere, limitandosi ad una sollecitazione sull’opportunità dell’assegnazione: il decreto successivo di assegnazione sottoscritto dal dott. GIFUNI dd. 23.2.2006 (sul quale si tornerà) fece, quindi, riferimento ad un parere favorevole in realtà mai espresso.

 

La scelta, a dire del testimone, era caduta su un manufatto fatiscente in una zona residenziale della Tenuta definita SANTOLA, ove un tempo erano alloggiati i Carabinieri cinofili, completata da alloggio (da cui la denominazione di canile); la spesa necessaria complessiva per la sistemazione dell’alloggio ammontò ad euro 160.000,00 circa, con aggiudicazione a trattativa privata sulla base di tre preventivi di spesa presenti in atti (pg. 17 NICOLETTI).

 

Quando il TRIPODI era andato in pensione nell’anno 2009 lasciando l’alloggio dopo averlo occupato per due o tre anni, esso era stato acquisito al patrimonio della Tenuta e destinato a luogo di ospitalità di studiosi stranieri, impegnati in convegni sulle caratteristiche mediterranee (pg. 21 NICOLETTI)

 

A sua volta, il funzionario DE CURTIS Italo ha sostenuto di avere apprezzato favorevolmente l’intenzione del TRIPODI di dotarsi di un alloggio entro la Tenuta, sollecitando il transito dell’iniziativa attraverso la Commissione Alloggi, riunitasi il 20.7.2005: questa era composta da alcuni capi – servizio tra cui il Patrimonio (nella persona della dott.ssa PIRISI), il Personale, il Servizio Tenute e Giardini oltre a rappresentanti del personale ed aveva compiti di proposta, espressi attraverso un parere obbligatorio ma non vincolante.

 

Alla fine della riunione lui stesso aveva comunicato l’opportunità dell’assegnazione e ne venne dato atto a verbale, senza votazione ma altresì senza alcuna opposizione dei componenti presenti; neppure in seguito vi fu alcun dissenso, tanto più trattandosi di un capo - servizio e di assenza di richieste analoghe di suoi pari grado (pg. 61 DE CURTIS).

 

Peraltro all’atto della segnalazione del 20.7.2005 non esisteva alcun alloggio disponibile e, quindi, la comunicazione non poteva che essere generica anche nell’oggetto non essendo stato allora individuato l’alloggio (pg. 85 DE CURTIS).

 

Negava, quindi, qualsiasi connessione tra detta manifestazione d’intenti e la successiva autorizzazione di spesa da lui sottoscritta in data il 19.10.2005, pur nell’ambito dei suoi poteri : l’autorizzazione allora concessa ai lavori di recupero del fabbricato c.d. ex canile rientrava, a suo dire, nell’ambito di un più vasto programma pluriennale di recupero di strutture rovinate presenti entro la Tenuta, quand’anche prive di destinazione futura definita e solo in tale ottica tra settembre ed ottobre 2005 era stato deciso il consolidamento e la ristrutturazione di tale immobile.

 

Ha riferito di avere, tuttavia, ignorato al tempo la finalità d’uso futura che si intendeva attribuire all’immobile : a suo dire, infatti, una sollecitazione specifica gli era giunta con un appunto del 14.10.2005 dal Servizio Tenute e Giardini diretto dal dott. TRIPODI (cfr. produzione documentale del pubblico ministero dd. 8.10.2012), sulla base della quale aveva autorizzato ad eseguire le opere di consolidamento e restauro della parte muraria e della copertura, benché non ne fosse stata ulteriormente specificata la destinazione finale (pg. 36/38 DE CURTIS; “dell’alloggio, ancora di quell’alloggio noi non ne stiamo parlando, noi abbiamo parlato del restauro di un fabbricato fatiscente, in quel momento di alloggio non se ne parlava”, pg. 52 e 79).

 

Resta quindi processualmente acclarato e comprovato, sulla base di tutti gli elementi probatori raccolti, a partire dalle stesse ammissioni del dott. TRIPODI, sommate, senza alcun dato di incoerenza, alle dichiarazioni di tutti gli altri soggetti coinvolti per competenza, che l’iniziativa di restauro del fabbricato definito ex – canile, infine trasformato in suo stabile alloggio di servizio, originò dal desiderio del medesimo, mal accolto dal direttore dott. DE MICHELIS, di trasferirsi stabilmente entro la Tenuta di CASTELPORZIANO, ove anche in precedenza si recava giornalmente prima di spostarsi al Quirinale.

 

Furono dunque le sue sollecitazioni, quand’anche compatibili ovvero non in contrasto con gli scopi di buona amministrazione, a determinare l’accelerazione del recupero del fabbricato, per il vero estraneo a programmi immediati di ripristino del Servizio Patrimonio ed oggetto di una previsione di riatto del tutto generica ed indeterminata.

 

3. Lo svolgimento della gara d’appalto per la villa sita in località SANTOLA

Ha riferito al Tribunale Massimo DE BLASIS, amministratore e direttore tecnico della “Edilmassimo s.r.l.”, società avente quale oggetto sociale l’esecuzione di lavori nel settore edile, di avere già lavorato negli anni ‘90 presso la Tenuta, e di avere sollecitato il dott. DE MICHELIS, suo vecchio conoscente, a reinserirlo nel giro delle ditte invitate a partecipare alle gare.

 

Aveva così presentato – su espressa sollecitazione - nel 2005 un’offerta per la demolizione, l’esecuzione del basamento e la sottofondazione di un vecchio fabbricato, denominato ex canile, ed una seconda per la realizzazione del rustico della medesima struttura, ossia la muratura portante sino al tetto, comprensiva dei rivestimenti ed intonaci dei bagni (compresa una vasca idromassaggio, pg. 102/103) : l’indicazione dei lavori era avvenuta direttamente in occasione di alcuni colloqui con il dott. DE MICHELIS il quale gli riferì l’intenzione “di fare una costruzione di un’abitazione ….. e poi mi dissero nel corso dei lavori che l’interno doveva essere più o meno modificabile …… “ (pg. 96).

 

Al tempo l’edificio era fatiscente, composto da stanzette, effettivamente utilizzabili quale rifugio per cani; più volte si era recato in Tenuta per mettere a punto l’offerta incontrandovi tanto il DE MICHELIS quanto il TRIPODI.

 

La prima tranche aveva ad oggetto la parte demolitiva e di costruzione del basamento, necessariamente funzionale al completamento con la parte ricostruttiva sovrastante: sin da principio, infatti, gli era stata prospettata la costruzione completa, quand’anche non ancora precisa nei dettagli, essendogli stato riferito che l’appalto sarebbe stato scorporato in due fasi per ragioni di bilancio (pg. 99/100).

 

Aveva presentato un’offerta assai competitiva per il prestigio dell’opera e il desiderio di rientrare tra i fornitori di servizi della Tenuta; in ogni caso la prima offerta, per lavori più estesi, venne in seguito ridimensionata atteso che il secondo progetto lui sottoposto per la costruzione del grezzo prevedeva volumi inferiori. In ogni caso vi fu l’affidamento di alcuni lavori alle maestranze interne, tanto che il suo preventivo non ne aveva tenuto conto (“c’era una falegnameria interna e immagino i giardini, e poi i falegnami li abbiamo visti diverse volte lì…. .probabilmente scavi e demolizioni”, pg. 106).

 

Il progetto era, infatti, passato da mq. 220/250 alle dimensioni finali di mq. 160/170.

 

Non è stata formulata alcuna contestazione sulle dichiarazioni rese dal del DE BLASIS, apparso in sé testimone attendibile e credibile: anzi lo stesso TRIPODI ha confermato che due furono gli appalti (da euro 75.600,00 ed euro 76.200,00) laddove la soglia per l’intervento del Genio Civile ammontava ad euro 77.468,53 ed erano serviti per la ristrutturazione dell’immobile, fatta eccezione per le opere in legno e in ferro, nonché per gli impianti elettrici, eseguiti direttamente dagli operai della Tenuta (pg. 25 interrogatorio).

 

Agli atti sono state acquisite altresì le fatture n. 95/2005 del 12.12.2005 dell’importo di euro 75.600,00 (di cui euro 63.000,00 quale imponibile) nonché la fattura n. 36/06 del 16.3.2006 per l’importo di euro 76.200,00 (di cui euro 63.500,00 per imponibile) emesse dalla società “Edilmassimo” con corrispondenti mandati di pagamento nonché un successivo appunto del Servizio Tenute e Giardini, a firma del dott. TRIPODI, dd. 13.2.2006 in cui si rappresenta la necessità di “procedere alla realizzazione delle opere interne atte a rendere il fabbricato utilizzabile ad uso abitativo. Più in particolare l’intervento consisterebbe nella realizzazione degli impianti termici, idraulici ed elettrici….nel rifacimento dei pavimenti con fornitura dei materiali, nel rifacimento dei rivestimenti e degli intonaci civili ….” (cfr. atti trasmessi dal Segretario Generale in data 28.10.2009).

 

Che fin dall’inizio fosse previsto il totale rifacimento della struttura è d’altra parte documentalmente provato sia direttamente dalla presenza in atti di un progetto sottoscritto dagli arch. MICCI e ZAPPALORTI con studio in FOLLONICA (GR), datato 7.7.2005 avente ad oggetto la realizzazione di un “edificio ad uso residenziale” della superficie lorda al piano terreno pari a mq. 282,78 (di cui mq. 232,80 di superficie utile, e mq. 37,05 di porticati) oltre ad una superficie utile al piano primo di mq. 37,77 e mq. 22,03 di terrazza; sia dal computo metrico sequestrato avente ad oggetto il preventivo per la ristrutturazione, quantificato in euro 292.646,00.

 

Il progetto edificatorio venne quindi lievemente ridimensionato (cfr. elaborati grafici dd. 31.8.2005 aventi ad oggetto un edificio ad uso residenziale della superficie lorda al piano terreno pari a mq. 242,83 (di cui mq. 194,71 di superficie utile, composta da cucina, sala pranzo, soggiorno, quattro camere da letto, quattro bagni, dispensa, lavanderia, disimpegni, e un porticato di mq. 18,87) e una superficie utile al piano primo di mq. 34,18 e mq. 15,92 di terrazza; fu altresì ridotto nei suoi costi anche in virtù della scelta di affidare alle maestranze interne alla Tenuta parte dei lavori, come si avrà modo di precisare.

 

Prova autentica dell’oggetto dell’intervento si ricava inoltre indirettamente dall’appunto dd. 14.10.2005, già menzionato, redatto su carta intestata del Servizio Tenute e Giardini del Segretariato Generale della Presidenza a firma “Il capo del Servizio – TRIPODI” (cfr. produzione documentale del pubblico ministero dd. 8.10.2012).

 

Qui, dopo avere illustrato la necessità di consolidamento e recupero del fabbricato denominato “canile” in località SANTOLA, ne illustrava le modalità attraverso “la demolizione delle parti pericolanti della struttura …nella esecuzione di scavi a sezione obbligata per la realizzazione di fondazioni e sottofondazioni, nella realizzazione di getti di cemento armato, nella esecuzione di pareti in muratura con blocchi portanti in laterizio a sostituzione delle pareti demolite”: non si intenderebbe, infatti, il senso della realizzazione di scavi e fondazioni in cemento armato se non nell’ottica di un completamento strutturale che l’appunto lasciava peraltro vago ed inespresso.

 

Analogamente evidente risultava la preferenza lì manifestata per l’esecutore dei lavori, “sono state pertanto interpellate alcune ditte di fiducia operanti nel settore edile, che hanno presentato i preventivi di spesa che si allegano in copia. Tra questi risulta più conveniente quello inviato dalla ditta Edilmassimo s.r.l., per un importo di euro 63.000,00 al netto dell’IVA……Si chiede, pertanto, di poter impegnare la cifra di euro 75.600,00 comprensiva di IVA …. a favore della ditta “Edilmassimo…” indicando quindi il capitolo di bilancio 2005 n. 1.07.23 sul quale far gravare la spesa.

 

L’appunto veniva preso in carico dal Servizio Ragioneria – Tesoreria sin dal 19.10.2005, “la proposta è correttamente imputata a voce di spesa capiente” e sottoscritta effettivamente dal vice segretario generale amministrativo, ovvero il dott. DE CURTIS, come da lui riconosciuto.

 

In termini puramente formali la procedura di impegno di spesa risultò del tutto regolare: il Servizio Tenute e Giardini, divenuto assegnatario delle competenze in materia di manutenzione straordinaria nell’anno 2005, come si specificherà, correttamente propose le opere di recupero dell’ex canile e alla proposta vennero allegate, come da Regolamento, le offerte di tre ditte invitate a partecipare, sottoponendole all’ufficio del vice segretariato generale diretto dal dott. DE CURTIS.

 

A questi competeva tanto un controllo di regolarità formale delle procedure quanto di merito sul contenuto della offerta proposta (pg. 45 e 48 DE CURTIS). Confermava il testimone che era stato lo stesso TRIPODI a sollecitare l’accoglimento dell’offerta della “Edilmassimo s.r.l.”, in quanto più conveniente per l’Amministrazione, riferendo che egli aveva “fatto questa ricerca di mercato tra queste tre ditte e questa ha fatto l’offerta ….” (pg. 73 esame).

 

Sulle procedure di affidamento dei lavori ha riferito il teste NICOLETTI sostenendo che queste variavano in base all’entità degli stessi, atteso che sotto una data soglia vi era maggior informalità ed era sufficiente la presentazione di preventivi entro una gara a trattativa privata (art. 47 del Regolamento), al di sopra di euro 77.468,53 vi era la licitazione, rivestita di maggior formalità (cfr. titolo VII del Regolamento della Presidenza)

 

Sul punto si osserva che il Titolo VII del Regolamento di contabilità della Presidenza (vds. verbale d’udienza del 27.2.2012) prevede che gli impegni di spesa di importo superiore ad euro 154.937,07 devono essere sottoposti, con lo schema di contratto, ad un collegio composto dal Vice Segretario generale amministrativo, dal Capo del Servizio Ragioneria e dal Capo dell’Ufficio o Servizio proponente (art. 47).

 

La disciplina modale è regolamentata dall’art. 46 che estende ai lavori, alle forniture, alle vendite e ai servizi in genere “1. ….. le procedure previste dal presente regolamento precedute da apposite gare aventi normalmente la forma della licitazione privata.

2. E’ ammesso il ricorso alla trattativa privata o al sistema in economia nei casi previsti dai successivi articoli”.

 

Tra le ipotesi consentite di trattativa privata vi sono i contratti “di importo non superiore a euro 77.468,53… con esclusione dei casi in cui detti contratti rappresentino ripetizioni, frazionamento, completamento od ampliamento di precedenti lavori….” (art. 51 comma 1 n. 6).

 

E’, infine, prevista quale forma di manifestazione contrattuale della Tenuta l’esecuzione dei servizi in economia, limitati ad attività di ordinaria manutenzione, di pulizia, di provviste periodiche, con la clausola, pure nel caso posta, del divieto di “qualsiasi frazionamento dell’importo dei lavori e delle provviste, dal quale possa derivare l’inosservanza dei limiti di spesa come sopra stabiliti” (art. 58 comma 2), con esecuzione realizzabile oltre che in amministrazione diretta, “a cottimo fiduciario mediante affidamento ad imprese o persone di nota capacitò ed idoneità, previa acquisizione di preventivi o progetti contenenti le condizioni di esecuzione dei lavori, i relativi prezzi, le modalità di pagamento, le penalità da applicare in caso di mancata o ritardata esecuzione ed ogni altra condizione ritenuta utile” (art. 59)

 

I valori monetari indicati nel Regolamento venivano quindi a consentire di fatto la trattativa privata per le sole opere di ordinaria manutenzione, a mezzo dell’acquisizione di almeno tre offerte, atteso che le opere di straordinaria manutenzione dovevano transitare attraverso il Provveditorato Generale delle Opere Pubbliche (cfr. altresì pg. 76 esame DE CURTIS).

 

In definitiva essendo sin da principio fissato un importo per l’intervento di gran lunga eccedente euro 77.468,53, quand’anche ridimensionato nella sua cifra iniziale a seguito della riduzione delle prime dimensioni progettate della villa, a fronte dell’importo finale fatturato dal DE BLASIS (euro 126.000,00 oltre ad IVA) ed essendo lavori di straordinaria manutenzione in quanto risoltisi nell’abbattimento del precedente edificio con totale ricostruzione di esso con caratteristiche di novità, classificabile tra gli interventi di nuova costruzione, non vi è dubbio che fosse precluso il ricorso dalla trattativa privata e che della realizzazione dell’opera dovesse essere investito il Provveditorato alle Opere Pubbliche.

 

4. Le conclusioni sul capo f), in esso assorbito il capo e)

Evidenti a questo punto le ragioni del frazionamento in due tranche delle opere qualificate come restauro e consolidamento del fabbricato cd. canile e chiaro lo scopo: ossia l’aggiramento della disciplina regolamentare interna di settore, in quanto i lavori mai avrebbero potuto essere aggiudicati a trattativa privata superando la soglia di spesa fissata e prevista sin dall’inizio a fronte delle univoche emergenze processuali che depongono per l’unitaria progettazione originaria di un immobile di dimensioni ben superiori al rudere in via di riatto con destinazione abitativa.

 

Né rileva l’asserita, generica indisponibilità di fondi di bilancio residui per l’anno 2005, fatto che secondo il TRIPODI determinò e giustificò il frazionamento dei due appalti : atteso che, quand’anche la circostanza fosse dimostrata (ciò che non è), la conseguenza era il differimento dell’opera nella sua integralità e compiutezza, evitando forzosi scorpori, all’anno 2006, quando sarebbe stato possibile (e necessario) ricorrere alla licitazione privata.

 

Prova ne sia che colui che doveva autorizzare l’impegno di spesa, cioè il DE CURTIS, ha dichiarato, senza essere da alcuno smentito, che al momento del suo controllo (19.10.2005) nulla gli era stato riferito sulla volontà di trasformare il canile in un alloggio di servizio, “dell’alloggio, ancora di quell’alloggio noi non ne stiamo parlando, noi abbiamo parlato del restauro di un fabbricato fatiscente, in quel momento di alloggio non se ne parlava”, con affermazioni che trovano riscontro nel tenore letterale dell’appunto lui sottoposto dal TRIPODI, non essendovi evidenza di alcuna segreta intesa tra i due per violare il regolamento della Presidenza.

 

Per raggiungere l’obiettivo il dott. TRIPODI di fatto ingannò, dunque, pure la Tesoreria dell’Ufficio Ragioneria della Presidenza della Repubblica e il funzionario preposto al controllo, tacendo maliziosamente ovvero mascherando con un artificio quello che era il reale intento edificatorio programmato, al fine di ottenerne l’assenso contabile.

 

D’altra parte, siccome il Quirinale interveniva periodicamente a sanare le perdite della Tenuta con il noto conto ripiano, senza alcun sindacato sulla natura e sul valore delle spese sostenute ed indicate come l’inconsistenza e il puro formalismo dei controlli contabili esistenti ha dimostrato, non erano certo 75.000,00 euro in più che avrebbero potuto impedire la realizzazione dei lavori, atteso che in ogni caso sarebbe giunta la necessaria provvista di bilancio a ripianare la spesa.

 

Appaiono piuttosto evidenti le ragioni che portarono a quella scelta, all’origine della straordinaria accelerazione della procedura di aggiudicazione, che fece al contempo aggirare illegittimamente la norma indicata: ossia la decisione, assunta in piena autonomia dal TRIPODI, di destinare l’alloggio, risultante dalla ristrutturazione, a se stesso, in tempi rapidi anche per la necessità che prendeva corpo di trasferirsi entro la Tenuta mentre si sarebbero svolti i lavori nella sua casa di CASALPALOCCO (fatto peraltro da lui ammesso).

 

Il rispetto della norma regolamentare che imponeva la licitazione privata per questioni di valore dell’intervento avrebbe da un lato comportato un livello di formalità e un dispendio temporale decisamente superiori, dall’altro avrebbe determinato l’affidamento della esecuzione del contratto al Genio Civile, a fronte della natura straordinaria dell’opera edilizia, esulante dunque dalle competenze del Servizio Tenute e Giardini : così facendo perdere quel valore aggiunto costituito per il TRIPODI dalla vicinanza e dalla compiacenza dell’esecutore proposto (la “Edilmassimo”), scelto d’intesa e su suggerimento del direttore DE MICHELIS, compensato e premiato per l’assenza di margini di ricavo in questo appalto con i molti che gli vennero conferiti entro la Tenuta negli anni successivi (vds. plurimi atti di affidamento acquisiti tra i quali la sistemazione del cancello di ingresso di CAPOCOTTA, la revisione del tetto della rimessa per le carrozze, la ristrutturazione della facciata esterna del casale in località SANTOLA, la bonifica di aree e la sistemazione di terreni, il ripristino degli ambienti naturali in loc. CAPOCOTTA, il tetto dell’edificio “canile”, la sistemazione del fosso canale ecc.).

 

E’ stato sostenuto dalla difesa che il delitto da ultimo rubricato, ossia la turbata libertà degli incanti (in cui il pubblico ministero ha correttamente ritenuto da ultimo di assorbire il delitto di abuso d’ufficio attesa la sua natura residuale e l’assorbimento del secondo nel primo in ragione della coincidenza delle condotte, cfr. Sez. VI, n. 14380 del 11/12/2002, Rv. 224679), non si estende ai contratti conclusi dalla Pubblica Amministrazione a mezzo di trattativa privata che sia svincolata da ogni schema concorsuale.

 

Il reato qui, dunque, non sussisterebbe in ragione dello schema praticato di ricerca del contraente : fatto invocato ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p. per neutralizzare gli effetti della causa estintiva del reato nelle more maturata.

 

Osserva il Collegio che gli approdi interpretativi sul punto, se effettivamente escludono in via di principio la trattativa privata dai presupposti oggettivi di applicazione della norma, comprendono invece in essa ogni procedura che al di là del nomen juris, quand’anche definita a trattativa privata, si svolga a mezzo di una gara, sia pur informale, secondo una corretta e consentita interpretazione estensiva della norma dell’art. 353 c.p., che pur fa riferimento in via apparentemente esclusiva al pubblico incanto e alla licitazione privata.

 

Ogni qualvolta, dunque, la P.A. procede all’identificazione del contraente mediante una gara, anche informale, il reato sussiste (ad es. in caso di gara esplorativa, inerente una trattativa privata autoregolamentata dalla P.A. mediante forme procedimentali attuative di un meccanismo selettivo delle offerte per l’aggiudicazione di un appalto di noleggio di autovetture, Sez. VI, n. 13124 del 28/1/2008, Rv. 239314).

 

In altri termini la norma dell’art. 353 c.p. viene interpretata ed estesa in ragione dell’eadem ratio che sorregge l’attività contrattuale della P.A. laddove identico sia il fine da essa perseguito : cioè garantire il regolare svolgimento sia dei pubblici incanti sia delle licitazioni private sia delle gare informali sia delle consultazioni, le quali finiscono per realizzare sostanzialmente delle licitazioni provate.

 

Non vi è, invece, reato laddove l’Amministrazione contatti potenziali contraenti in maniera individuale, invitando ciascuno a presentare la sua offerta e restando libera di scegliere il proprio contraente secondo criteri di convenienza ed opportunità propri della contrattazione tra privati (Sez. VI, n. 29581 del 24/5/2011, Rv. 205732, in un’ipotesi in cui la procedura descritta dall’art. 57 comma VI, dec. lgs. 12.4.2006, n. 163, imponendo criteri legali di scelta del contraente, prevede l’espletamento di una gara e non già di una semplice indagine di mercato, Sez. VI, n. 44829 del 22/9/2004, Rv. 230522; Sez. VI, n. 213033 del 30/9/1998, Rv. 213033).

 

Ogni qualvolta la scelta del contraente, accertata la sua idoneità tecnica, è disciplinata dalla ricerca delle condizioni più vantaggiose, la procedura non ha nulla della trattativa privata dal momento che impone criteri legali di scelta, ossia la valutazione secondo dati e prefissati criteri, cui è estranea ogni discrezionalità del funzionario pubblico.

 

Nel caso di specie si ritiene che, anche al di là dell’aggiramento delle norme in materia regolamentare frutto dell’artificioso frazionamento in due tranche dell’affidamento dei lavori per il riatto dell’ex canile che avrebbe legalmente impedito di per sé il ricorso alla trattativa privata, le procedure imposte dall’art. 51 del regolamento ne impongono la qualificazione in termini di vera e propria gara, quand’anche informale.

 

La procedura di svolgimento della trattativa privata è, infatti, rigidamente disciplinata attraverso l’interpello di almeno tre imprese (nel caso indicato dalle lettere 1 – 6 e 7 del comma 1, art. 51 comma 2), con termini di stipula e formalità ulteriori comuni tanto alla licitazione privata quanto alla trattativa privata (artt. 52 – 57).

 

E’ solo nell’affidamento dei lavori in economia, agevolmente classificabili per loro consistenza entro l’ordinaria amministrazione trattandosi di interventi di modesto impatto ovvero della fornitura di beni di consumo (quali derrate alimentari, corredo del personale, quotidiani, ecc.) che l’organo preposto della Presidenza della Repubblica resta libero nella scelta del contraente, purché qualificato da connotati di serietà e capacità professionale, con il solo vincolo del raggiungimento dello scopo del miglior funzionamento dei servizi pubblici e del superiore vantaggio per l’Amministrazione stessa.

 

Ogni altra procedura di selezione, compresa la trattativa privata, é connotata dalla formalizzazione delle varie scansioni e dalla necessità di una selezione tra offerte di più imprese (almeno tre anche per l’affido di contratti di importo inferiore ad euro 77.468,53), con la consequenziale scelta nell’ottica dei criteri di economicità e di favore di spesa per l’Ente.

 

Anche nel caso dell’affido dei lavori di ristrutturazione del canile, dunque, venne svolta una gara a trattativa privata (tanto che il TRIPODI inviò al Vice Segretariato tre distinte offerte di prezzi in allegato al suo appunto del 14.10.2005), quand’anche quella dell’”Edilmassimo” già concordata nei suoi termini e nelle sue condizioni, che tenevano conto della seconda tranche in cui i lavori erano stati artatamente scissi.

 

Al di là dell’informalità che la connotò, pure nella circostanza vennero messe in concorrenza dall’Amministrazione pubblica più imprese, apparentemente nell’ambito di una reale e libera competizione (che rappresenta l’essenza della gara) quand’anche essa fu viziata dai previ accordi tra il DE MICHELIS e il TRIPODI, da un lato, il DE BLASIS, quale rappresentante della “Edilmassimo” dall’altra, unico soggetto informato tra i partecipanti che al primo appalto (volto a demolire il preesistente e a realizzare fondazioni e sottofondazioni) ne avrebbe fatto seguito un altro per la realizzazione del nuovo edificio e di tale certezza tenne certamente conto nella redazione del proprio preventivo (oltre che del desiderio di rientrare nella cerchia dei fornitori della Tenuta).

 

Non sussiste, quindi, la dedotta causa di immediato proscioglimento ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p. a fronte della concreta integrazione del delitto sub f), rispetto al quale risulta piuttosto maturato l’intero termine prescrizionale, avuto riguardo al quantum di pena posto nella formulazione vigente al tempo della norma, più favorevole rispetto a quella ora prevista (così come introdotta dall’art. 9 legge 13.8.2010, n. 136) e alla data di consumazione del reato (data precedente e prossima il 14.10.2005) : rispetto ad essa è spirato il termine massimo per l’utile definizione dell’azione penale pari ad anni 7 mesi 6 (anni 5 aumentati della metà ex art. 160 u.c. c.p. nella formulazione precedente la legge 5.12.2005, n. 251), valutate altresì le cause di sospensione della prescrizione intervenute.

 

Di essa si gioveranno tanto TRIPODI Luigi quanto DE MICHELIS Alessandro: laddove il primo ha pienamente ammesso i contatti con il DE BLASIS oltre alla volontà di realizzare la propria abitazione in sostituzione del canile, concordando quindi con il futuro appaltatore le condizioni di gara che gli avrebbero consentito l’aggiudicazione, così turbandone lo svolgimento; il secondo fu addirittura colui che scelse la società esecutrice, indicando al TRIPODI la “Edilmassimo” e che partecipò in maniera informata all’intero iter pre – contrattuale, tanto che il DE BLASIS ha riferito che fu proprio il DE MICHELIS a spiegargli che lo scopo era la realizzazione di un’abitazione.

 

Poco conta evidentemente il disinteresse sostanziale per tale obiettivo del DE MICHELIS se non la sua contrarietà alla presenza stabile in Tenuta del superiore: la partecipazione consapevole e volontaria da parte sua a tutti le fasi della vicenda che permettono di ricostruire la sussistenza del reato, quand’anche per semplice necessità di cooperazione con il capo del Servizio Tenute e Giardini, ne fa un concorrente a pieno titolo.

 

Si dichiarerà, dunque, l’estinzione del reato nei loro confronti.

 

CALZOLARI Giorgio (significativamente non ripreso con una precisa contestazione di addebiti nell’ultima riformulazione del capo f) in data 8.10.2012) è rimasto del tutto estraneo ai fatti e dovrà essere, invece, essere assolto con formula ampia ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p. mancando del tutto la prova della commissione del fatto da parte sua.

 

Quanto al suo ruolo funzionale, trattatasi di funzionario proveniente dai ruoli del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, già direttore della Tenuta di SAN ROSSORE, quindi trasferito a CASTELPORZIANO quando la prima venne assegnata al Demanio, quindi alla Regione TOSCANA, con funzioni di direttore amministrativo di divisione del Servizio Tenute e Giardini, attualmente direttore della Tenuta di CASTELPORZIANO (pg. 29 esame SIMONAZZI; pg. 72 esame DE CURTIS).

 

Non ebbe alcun ruolo nella decisione né sulla ristrutturazione dell’alloggio né sull’assegnazione successiva di esso al TRIPODI, il quale personalmente aveva sottoscritto l’appunto pervenuto al vice segretario amministrativo con la segnalazione dell’opportunità della concessione; né il medesimo aveva titolo per presenziare alle sedute della Commissione Alloggi (pg. 71/73 DE CURTIS).

 

Né è emersa invero alcuna traccia della sua partecipazione all’indizione ovvero allo svolgimento della gara, mai avendo avuto contatti con il DE BLASIS (che lo conobbe solo successivamente), tanto meno al suo turbamento, nessuno dei co-protagonisti avendo fatto riferimento ad un suo sia pur minimo contributo od intervento, sì che l’attribuzione della qualità di responsabile al tempo del settore manutenzione del Servizio Tenute e Giardini non può fondare una corresponsabilità che risulterebbe di mera posizione.

 

Il CALZOLARI verrà dunque assolto per non avere commesso il fatto.

 

5. I reati contestati al capo c)

Tale fu la velocità che si intese imprimere all’intervento edilizio che, oltre a stravolgere la disciplina in materia di appalti e contabilità, non vi fu neppure attenzione per alcuna regola di rispetto dell’ordinata gestione del territorio e del paesaggio, al fine della loro tutela e valorizzazione pur in un’area di alto valore scientifico ed ambientale.

 

Per il vero emerge con chiarezza che nessuno si fece carico della questione nonostante la classificazione del compendio immobiliare tra le aree naturali protette in virtù del decreto presidenziale 5.5.1999, n. 136/N e del decreto del Ministro dell’Ambiente 12.5.1999, n. 447/SCN, con cui la Tenuta di CASTELPORZIANO veniva inserita tra le naturali protette ai sensi della legge 394 del 6.12.1991, elevandola per il suo particolare pregio di settore, a Riserva naturale Statale, nell’ambito di quelle guarentigie presidenziali, estese pure alle pertinenze del Quirinale, finalizzate ad assicurare al Presidente - in virtù della sua autonomia costituzionale - un’assoluta indipendenza amministrativa e contabile, realizzata anche attraverso il conferimento dei mezzi necessari per l’assolvimento dei suoi compiti istituzionali (cfr. art. 5 D.M. 12.5.1999 secondo cui “al Presidente della Repubblica deve essere riconosciuta una assoluta indipendenza ed autonomia rispetto alle altre pubbliche amministrazioni, nella gestione e cura dei beni attribuitigli dalla legge”).

 

Appunto nella prospettiva di tale autonomia la Tenuta, quale Dotazione del Presidente della Repubblica, oltre ad essere coperta da riserva di legge, veniva assoggettata al regime di tutela e gestione autodeterminata dal Presidente e fissata con il detto decreto 5.5.1999 a firma del Presidente SCALFARO, espressamente ispirato alla valorizzazione dell’area naturale protetta sotto il profilo dei valori naturalistici (cfr. doc. 7 e 8 della produzione del pubblico ministero dd. 19.4.2012).

 

Eppure, a dispetto delle proprietà e qualità dell’area su cui si andava ad incidere, non venne promossa da alcuno una qualsiasi procedura di verifica di compatibilità tra l’opera edilizia e il contesto ambientale di riferimento, sia per l’assoluta confusione sulle competenze, pressoché cadute in desuetudine, sia per un malinteso senso dell’autonomia e dell’autarchia amministrativa, tradottasi in una generalizzata, sostanziale indifferenza verso le discipline di settore, ancora ben avvertita nelle dichiarazioni raccolte dal Tribunale.

 

Secondo il dott. TRIPODI in particolare non si trattava di adempimenti di sua competenza, “(alla Commissione presieduta dal prof. SCARASCIA MUGNOZZA l’intervento edilizio) non gli è stato comunicato, non dovevo comunicarglielo …la Commissione …guarda l’impatto ambientale, ci dà indicazioni …della manutenzione di un eco – sistema, il bosco …. Lo deve valutare il segretariato generale, i miei superiori ai quali ho fatto l’appunto e gliel’ho detto…io pensavo che quando lo dicevo ai miei superiori fosse sufficiente e pensavo che il patrimonio facesse poi le cose che deve fare….” (pg. 46/47). Né aveva sollecitato la Commissione di cui pur faceva parte, ritenendo che le sue mansioni di commissario, componente per conto del Quirinale, si limitassero esclusivamente al vaglio di sostenibilità economica dell’intervento di cui i componenti tecnici valutavano invece la compatibilità rispetto all’habitat naturale (pg. 47).

 

Il regolamento presidenziale di gestione 5.5.1999 aveva, infatti, costituito una apposita Commissione consultiva tecnico – scientifica con il compito di elaborare il pano di gestione della Riserva ed esprimere il proprio parere sul regolamento attuativo (artt. 3 e 4) che per molti anni venne presieduta dal prof. Gian Tommaso SCARASCIA MUGNOZZA e che, nel caso, non venne in alcun modo sollecitata in via preventiva (mentre lo fu a posteriori, come si vedrà).

 

Secondo il NICOLETTI e il DE CURTIS dal punto di vista autorizzatorio le opere edili riferite a strutture immobiliari e beni presenti sia entro il Quirinale sia entro la Tenuta erano soggette ad uno speciale regime derogatorio rispetto alle norme di tutela del territorio, tanto più in ragione della secretazione decretata nell’anno 2003 per l’intero patrimonio immobiliare.

 

La richiesta di un consulto con gli organi della Sopraintendenza era quindi rimessa alla discrezionalità degli Uffici, che ritenevano di coinvolgere l’organo di tutela solo in presenza della progettazione di nuovi fabbricati ovvero del restauro di edifici di rilevante importanza storico – artistica (pg. 38 DE CURTIS).

 

Nel caso della ristrutturazione del fabbricato c.d. ex - canile la reputata scarsa rilevanza ambientale dell’area interessata e la natura recuperatoria dell’intervento, limitata alle opere murarie e al soffitto, fece ritenere la superfluità dell’autorizzazione paesistica (pg. 44 DE CURTIS).

 

Come peraltro premesso il tenore letterale dell’appunto a firma TRIPODI dd. 14.10.2005 con cui il dott. DE CURTIS venne notiziato del progetto edile (demolizione con ricostruzione delle fondamenta) non può essere certo un corretto parametro di valutazione della necessità del previo vaglio della Sopraintendenza : atteso che la discutibile, assoluta discrezionalità che il vice – segretariato generale si è riservato nella scelta sull’invio o meno dei progetti all’autorità di tutela paesistica e sulla sua consultazione non può che rapportarsi a quello che, sia pur all’insaputa del DE CURTIS, era il vero obiettivo, ossia la costruzione di un nuovo edificio residenziale che nulla aveva a che vedere con la struttura edilizia pregressa.

 

Poco significativo è dunque il parere sul punto espresso dal DE CURTIS in quanto riferito a una realtà fattuale non veritiera, essendo in via di realizzazione qualcosa di ben più consistente e diverso rispetto al recupero dell’ ex – canile, limitato, a suo dire, alle sole strutture murarie e al soffitto (per l’abbattimento del canile, cfr. altresì pg. 19 interrogatorio DE MICHELIS).

 

Eppure le concrete dimensioni dell’intervento furono tali da destare scalpore persino tra i residenti ed addetti alla Tenuta, al punto che icasticamente l’abitazione è stata definita da un DI PIETRO, piuttosto colpito, “abusiva, so che stata costruita sul niente. C’era un progetto e basta, un progetto che non era stato approvato, per questo per me era abusiva” (pg. 50 interrogatorio DI PIETRO dd. 2.12.2009), si trattava di “una villa di prestigio su due piani, un po’ Dallas, molto bella” (pg. 32).

 

Parimenti GAETANO ha riferito : “…in Tenuta tutti se lo chiedevano come ha fatto a costruire. Consideri che al posto della villa c‘era un canile con otto box, che avrà avuto sì e no, ma nemmeno 60 – 70 metri quadrati di roba…. qualche spesuccia è stata addebitata sul conto della Tenuta relativa alla villa, altre spese molto probabilmente stanno sul Quirinale…” (pg. 18 incidente probatorio); “non è stato trasformato, è stato buttato giù e rifatto di sana pianta, con delle fondamenta che non c’erano….” (pg. 44).

 

Sotto il profilo strettamente tecnico secondo la disciplina statuale si è trattato di un intervento ascrivibile a quelli di nuova realizzazione, soggetto, in regime ordinario, a permesso di costruire (artt. 3 comma 1 lett. e) e 10 d.p.r. 6.6.2001, n. 380), atteso che la categoria degli “interventi di ristrutturazione edilizia”, comprensiva della trasformazione degli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, esclude dal suo ambito la demolizione e ricostruzione dell’edificio laddove siano variate sagoma e volumetria del preesistente (art. 3 comma 1 lett. d) d.p.r. n. 380; espressamente, per l’affermazione che la nozione di ristrutturazione edilizia “comprende il ripristino e la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, volti a trasformare l’organismo edilizio preesistente il quale deve rimanere il medesimo per forma, volume e altezza, onde è estranea a detta categoria la creazione di nuovi volumi sia in ampliamento sia in sopraelevazione, esclusi quelli tecnici, Sez. III, n. 1898 del 15/6/1988, Rv. 211557; idem, Sez. III, n. 6528 del 16/6/2011, Rv. 251039 che ha negato la categoria della ristrutturazione edilizia in una fattispecie in cui, pur a fronte delle medesime caratteristiche di volume e superficie, era stata variata la quota di assetto originario, ciò valendo a configurare un immobile diverso dal precedente; Sez. III, n. 18216 del 9/4/2002, Rv. 221957; Sez. III, n. 3558 del 17/2/1999, Rv. 213598 sulla necessità del rispetto di forma, volume e altezza).

 

Alle medesime conclusioni deve pervenirsi alla luce dell’interpretazione offerta dalla giustizia amministrativa che ha ritenuto che il mutamento della sagoma comporta la realizzazione di una nuova costruzione, essendo il concetto di ristrutturazione limitato agli interventi che comportano modifiche esclusivamente interne e che investono un edificio nel quale sussistano (e restino inalterate) le componenti essenziali costituite da muri perimetrali, strutture orizzontali, copertura. Laddove invece dell’edificio preesistente siano venute meno, per volontaria demolizione o evento naturale dette componenti e l’intervento si traduca nel ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione alle originarie dimensioni dell’edificio è ravvisabile la categoria tipologica della ricostruzione.

 

Consegue che l’aumento di volumetria e delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro è estranea tanto al concetto di ristrutturazione urbanistica quanto a quello di ricostruzione (Consiglio di Stato, Sez, IV, n. 844 del 12/2/2013; Consiglio di Stato, Sez, IV, n. 365 del 22/1/2013, anche sul concetto di “sagoma”, intesa quale conformazione planivolumetrica della costruzione e del suo perimetro considerato in senso orizzontale e verticale, rispetto alla quale l’intervento di demolizione e ricostruzione in eccesso configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia; per l’affermazione che la ristrutturazione edilizia per essere tale, anche dopo la modifica introdotta dal dec. l.vo n. 301/2002 che ha formalmente eliminato la necessità della “fedele ricostruzione” resta tale solo a condizione che vengano conservate le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione ne riproduca le linee fondamentali di sagoma, superfici e volumi, diversamente trattandosi di nuova costruzione, Consiglio di Stato, IV, n. 2972 del 30.5.2013).

 

Ancor meno vi è spazio per il ricorso alle categorie della manutenzione, ordinaria o straordinaria (art. 3 comma 1 lett. b) che sia, o al concetto di intervento di restauro e risanamento conservativo, ossia a tipologie di intervento edilizio che non comprendono e non ammettono alcun ampliamento di superficie o volume, pretendendo altresì il mantenimento della precedente destinazione d’uso: tutti presupposti nel caso pacificamente assenti a fronte del provato ampliamento volumetrico e del radicale cambio di destinazione d’uso, altro essendo un edificio destinato a locale pertinenziale di ricovero cani, altro la sua trasformazione in immobile residenziale in senso proprio sì che l’opera nuova non ha nulla a che vedere con quella preesistente demolita, costituendo un organismo edilizio completamente diverso (per la cui struttura si fa rinvio ai progetti, anche di completamento delle opere interne, redatti dallo studio arch. MICCI – ZAPPAROLRTI nel 2005 e 2006).

 

Parimenti la realizzazione della nuova opera in zona gravata da vincolo paesistico trattandosi di Riserva naturale Statale avrebbe astrattamente imposto, in applicazione della disciplina nazionale, il rilascio dell’autorizzazione amministrativa dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ai sensi del 146 dec. l.vo. 22.1.2004, n. 42, prevista persino per i lavori di demolizione e ricostruzione di immobili sottoposti a vincolo che rispettino la precedente volumetria e destinazione d’uso e, dunque, anche in regime di denuncia di inizio attività (e non solo di permesso di costruire: in tal senso, Sez. III, n. 45072 del 24/10/2008, Rv. 241788; Sez. III, n. 18216 del 9/4/2002 cit.). Vi sarebbe stata altresì la necessità del nulla osta dell’Autorità deputata alla cura della Riserva ex artt. 6 e 13 legge 394/91.

 

La questione che si pone attiene alla compatibilità tra la disciplina statuale esposta e lo jus singulare disciplinante il godimento e la cura dei beni immobili inseriti nella Dotazione Presidenziale, di cui l’art. 5 D.M. 12.5.1999 proclama la piena autonomia ed indipendenza gestionale che deve in ogni caso tenere conto della necessità di contemperare l’autonomia funzionale della Presidenza della Repubblica con le esigenze di tutela del bene ambiente, connesse e presunte nella costituzione di una riserva naturale, addirittura di rango statale per il suo assoluto rilievo paesaggistico.

 

A tal proposito si osserva che in data 26.5.2011 risulta infine adottato il Piano di Gestione della Tenuta di CASTELPORZIANO (cfr. art. 2 decreto n. 93 Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, produzione del pubblico ministero dd. 19.4.2012) fondato sulla previsione dell’art. 5 del decreto presidenziale 5.5.1999, mai approvato in precedenza e verosimilmente connesso casualmente all’accertamento degli abusi oggetto dell’inchiesta penale che funzionò quindi da acceleratore naturale.

 

Il capitolo 7, dedicato ai profili urbanistici, prevede che all’interno delle zone definite “borghi” in cui il cd. ex – canile ricade (per tale allocazione, cfr. parere dd. 11.3.2010 della Commissione consultiva tecnico – scientifica della Tenuta, “il fabbricato in oggetto ricade in un piccolo borgo agricolo storicamente caratterizzato dalla presenza di abitazioni e residenti al servizio delle aree coltivate della Tenuta stessa. Tale area è stata perimetrata come zona R (aree residenziali)”, doc. 3) sia consentita “la manutenzione ordinaria, quella straordinaria, il restauro e il risanamento conservativo, nonché la ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, lettere a), b), c) d), co. 1 del D.P.R. 380/01 e alle leggi regionali di recepimento, anche con modifica della sagoma e delle destinazioni d’uso, nel rispetto della vigente normativa urbanistica regionale e di tutela, comunque senza superare le volumetrie esistenti” (pg. 565).

 

La norma gestionale speciale deroga, dunque, alla disciplina statale variandone le definizioni tipologiche e includendo nella categoria delle “ristrutturazioni edilizie” pure gli interventi determinanti modifiche della destinazione d’uso e/o della sagoma, in forma peraltro assai problematica attesa l’incidenza di tali definizioni su istituti che assumono rilievo criminale posto che la ristrutturazione non assentita con modifica di sagoma é fatto avente rilievo penale ai sensi dell’art. 44 comma 1 lett. b) d.p.r. n. 380/2001: sì che il risultato operativo è di rendere penalmente irrilevanti condotte edificatorie che a CASALPALOCCO, ossia appena all’esterno della Tenuta, sono vietate e costituiscono piuttosto reato.

 

E’ stato in ogni caso tuttavia mantenuto fermo dal Piano programmatico il principio del necessario rispetto della volumetria pregressa, con ciò indirettamente facendo rinvio, per le ristrutturazioni che comportino una maggior superficie, al concetto della legge nazionale di “interventi di nuova costruzione” (art. 3 comma 1 lett. e), non a caso unico intervento edilizio non normato singolarmente dal Piano gestionale della Tenuta alla voce “borghi”.

 

Come già anticipato, la realizzazione di una villa di circa 180 mq., disposta su due piani, con annessa tettoia ad uso autorimessa e porticati, non può che essere classificata intervento di nuova costruzione, ben diverso essendo l’impatto del carico urbanistico rispetto alla superficie del precedente canile (cfr. la descrizione plastica del GAETANO, “consideri che al posto della villa c‘era un canile con otto box, che avrà avuto sì e no, ma nemmeno 60 – 70 metri quadrati di roba….”.; cfr. altresì le premesse del decreto del Segretariato Generale dd. 26.5.2011 ove si indicano in 150 mq l’ampiezza dell’opera precedente e in circa 317 mq. catastali il nuovo manufatto derivante dall’ampliamento e dalla trasformazione del primo, doc. 1 della produzione dd. 19.4.2012).

 

Né pare possibile ricorrere ad un principio di equivalenza urbanistica, in qualche modo implicita nella nota del Provveditorato alle OO.PP. del 24.4.2010, dove si afferma che “la volumetria del fabbricato in questione – pari a mc 875,60 per circa 260 mq di S.U.L. …trova compensazione in preesistenti cubature che risultano demolite” (doc. 6): affermazione del tutto generica ed indimostrata che non tiene in alcun modo conto di recuperi edilizi che già erano in atto in quegli anni su altri importanti immobili della Tenuta.

 

Evidente l’impossibilità di adottare criteri di compensazione e commistione tra cubature laddove sussista, come nel caso, un Piano di gestione che, a seguito della zonizzazione del territorio della Tenuta, ne ha dettato una specifica definizione e disciplina che tiene conto delle destinazioni d’uso: non possono, quindi, confondersi discipline urbanistiche aventi ad oggetto categorie edilizie diverse.

 

Non avrebbe senso in altri termini una variazione tipologica delle strutture se poi si potesse indifferentemente operare scambi di interventi tra zone eterogenee, ad es. con calcoli forfetari delle cubature, soprattutto laddove il Piano vieta qualsiasi aumento di volume in una certa zona.

 

In definitiva, sia pur sulla base delle prescrizioni del Piano gestionale adottato in data 26.5.2011, l’intervento progettato dal dott. TRIPODI non avrebbe potuto essere realizzato in zona “borghi” perché contrastante con la norma tecnica programmatoria speciale e, in ogni caso, la sua realizzazione avrebbe dovuto essere preventivamente sottoposta all’Amministrazione, necessariamente la stessa Segreteria Generale attesa l’autonomia normativa in materia, al fine delle sue determinazioni, come poi avvenuto in sede di istruttoria per la sanatoria.

 

Il problema che a questo punto si pone è la ricerca della disciplina specifica vigente nel 2005/2006, periodo di realizzazione degli interventi edilizi in esame, attesa la posteriorità delle norme attuative della disciplina della gestione del territorio costituente la Tenuta Presidenziale, preannunciata dal decreto 5.5.1999 e al tempo non ancora approvata.

 

Come anticipato, regnava allora tanto indisturbata quanto immotivata, la convinzione di una assoluta autarchia di disciplina, tradotta nelle affermazioni del dott. DE CURTIS, a dire del quale il coinvolgimento degli organi della Sopraintendenza era rimessa alla totale discrezionalità degli Uffici, che vi si rivolgevano solo sulla base di scelte quantitative e qualitative in caso di costruzione di nuovi fabbricati ovvero del restauro di edifici di rilevante importanza storico – artistica (pg. 38 esame).

 

Per il periodo precedente il 26.5.2011, deve osservarsi che vero è che la Dotazione immobiliare del Presidente della Repubblica gode di piena autonomia amministrativa nel complesso delle attività di gestione e cura del suo patrimonio, comprese la valutazioni di compatibilità urbanistica che afferiscono i suoi ambiti territoriali, in quanto riflesso dell’indipendenza costituzionale attribuita alla figura del Presidente della Repubblica.

 

E’ altrettanto vero, tuttavia, che si impone una delicata ricerca di equilibri di competenze e di attribuzioni laddove il bene pubblico sia superiore alla stessa Istituzione e di interesse assolutamente generale, diffuso e impersonale (valore sotteso alla costituzione di una Riserva naturale Statale, qualificata dall’importanza del suo habitat naturale e degli eco-sistemi floro-faunistici che ospita come accade alla Tenuta di CASTELPORZIANO) e gli interventi programmati sul territorio, che resta pur sempre demaniale, siano di particolare incisività (come per le opere di nuova realizzazione ovvero ad esse assimilabili, quali le ristrutturazioni edilizie previa demolizione e ricostruzione con incremento di volumetria).

 

Basti la constatazione che il Piano di gestione reca quale norma programmatica la disposizione “l’insieme delle strutture sono sottoposte a tutela particolare del Codice dei Beni Culturali – D. L.vo 42/2004 Parte II” (cfr. la voce tipologie in definizioni e destinazioni d’uso, pg. 564) e che, ancor prima, si evocava il rispetto “dei principi fondamentali, dei criteri, dei metodi di gestione e degli obiettivi di salvaguardia e valorizzazione contenuti nella vigente normativa in materia di aree naturali protette”, nelle more del futuro Piano di gestione istituendo una disciplina transitoria che manteneva “in vigore tutte le limitazioni e le cautele già osservate nel territorio della Tenuta in conformità con le indicazioni formulate dalla Commissione per l’elaborazione e l’applicazione del piano decennale di gestione dei boschi e dei pascoli della Tenuta” (preambolo e art. 8 decreto 5.5.1999).

 

Vero è altresì che lo Stato si è riservato in genere un potere/dovere di cooperazione per la localizzazione delle opere pubbliche “da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale e delle opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti” (artt. 1 e 2 d.p.r. 18.4.1994, n. 383, “Regolamento recante disciplina dei procedimenti di localizzazione delle opere di interesse statale”).

 

In presenza dei presupposti soggettivo (cioè il soggetto realizzatore, Amministrazione statale o altro Ente istituzionalmente competente a realizzare l’opera) ed oggettivo (l’area destinata alla sua realizzazione, ossia il demanio statale), il Regolamento ha introdotto l’accertamento di conformità urbanistica delle opere che, ove concluso negativamente, origina la cd. conferenza di servizi con rappresentanti della Regione interessata, disciplinata dalle norme successive.

 

Evidente la delicatezza della questione, anche sotto il profilo degli stretti ambiti di competenza, atteso che le discipline urbanistica, ambientale e paesistica in generale recano con sé un apparato di sanzioni penali (appunto contestate al capo c) in caso di violazione dei precetti formali posti a tutela delle condotte omissive integrate dalla mancata richiesta delle doverose autorizzazioni o nulla osta o dei permessi, di cui si tratta di garantire l’applicazione e il rispetto, evitando ingiustificate impunità, esenzioni ovvero cause di esclusione della pena fondanti opposte criticità costituzionali: ne deriverebbe, infatti, la violazione del principio .di uguaglianza insita nel trattamento di favore e nell’esenzione dalla sanzione criminale per abusi, anche gravi, consumati in una determinata area territoriale, ossia entro gli ambiti costituenti la Dotazione immobiliare presidenziale.

 

Il punto di coerenza e di assetto tra la piena autonomia amministrativa e gestionale del patrimonio immobiliare presidenziale destinato a scopi istituzionali e avente fondamento costituzionale con il contemperamento della protezione dei beni di natura ambientale e paesistica peculiari della Tenuta, si deve rinvenire da un lato nella norma regolamentare indicata che prevede la partecipazione dello Stato al procedimento autorizzatorio per le nuove opere su suolo demaniale secondo i disposti del d.p.r. n. 383/10994; dall’altro nella previsione – al tempo dei commessi reati - dell’art. 5 del Decreto Presidenziale 5.5.1999 della (successiva) formulazione del piano di gestione ambientale della Tenuta “in conformità ai criteri ispiratori della legge 5 dicembre 1991, n. 394, sulla base di una dettagliata descrizione delle caratteristiche naturali ed antropiche dell’area e di una definizione specifica degli obiettivi e delle linee d’intervento” (obiettivo superato ed ampliato in concreto dal Piano di gestione del 2011 che rinvia direttamente ai principi ispiratori del Codice dei beni culturali n. 42/2004).

Per le nuove opere, eseguite su suolo demaniale, era quindi necessario pure al tempo, sulla base della disciplina vigente, attivare la procedura autorizzatoria che prevedeva l’intervento consultivo dello Stato e il provvedimento finale della stessa Presidenza della Repubblica, in persona del suo Segretario Generale: non essendovi dubbio che sulla base delle classificazioni della legge nazionale, mantenute immutate anche dalla successiva disciplina del Piano di gestione della Tenuta, l’intervento attuato va classificato in concreto di nuova costruzione, laddove la disciplina statuale colpisce e persegue violazioni inerenti i principi ispiratori fondamentali ed inderogabili della materia, attribuendo rilievo criminale alle condotte di nuova edificazione in assenza di titolo, costituenti il maggior danno che si possa infliggere al territorio.

 

In altri termini deve riconoscersi una libertà di auto-disciplina nella regolamentazione dei beni della Tenuta, in ossequio al principio dell’autonomia di quell’ordinamento, che deve tuttavia fermarsi al rispetto dei principi fondamentali della materia, identificabili da e con le norme statuali penalmente sanzionate in quanto espressione di valori inderogabili, tali ritenuti dal legislatore nazionale : presupposto sostanziale che è stato espressamente previsto - sia pur limitatamente alla normativa inerente la gestione dei valori ambientali della Riserva naturale che assorbe il territorio su cui insiste la Tenuta (art. 5 decreto 5.5.1999 e premesse del Piano di gestione urbanistico 2011).

 

D’altra parte questo rispondeva pure alle convinzioni allora diffuse tra i funzionari (cfr. DE CURTIS), quand’anche vaghe e non ben precisate nei loro fondamenti e nelle loro motivazioni: l’alternativa logica consisterebbe, infatti, nell’ammettere una indiscriminata possibilità di uso e sfruttamento del territorio e del paesaggio da parte degli organi interni della Tenuta, sino a pregiudicare impunemente e distruggere un bene che pur sempre non le appartiene, trattandosi di suolo demaniale destinato al solo uso per la più agevole esplicazione e l’indipendente manifestazione delle prerogative presidenziali.

 

Di conseguenza resta integrato in sé l’illecito urbanistico previsto dall’art. 44 lett. c) d.p.r. 6.6.2001, n. 380, attesa la speciale protezione dell’area, luogo di esecuzione dell’opera.

 

La miglior conferma a quanto precede è insita proprio in quanto successivamente accaduto, atteso che nelle more del processo, su iniziativa del Segretariato Generale, è stata avviata la procedura cd. di “autorizzazione ora per allora”, a chiaro riscontro della doverosità del previo titolo edilizio prima di dar corso all’esecuzione dei lavori e della conseguente necessità di sanare ex post l’abuso consumato.

 

Nell’ambito della procedura di sanatoria sono stati quindi raccolti il parere favorevole della Commissione tecnica presieduta dal prof. SCARASCIA MUGNOZZA che ha valutato positivamente la mancanza di interazioni dirette tra l’edificio e “le dinamiche funzionali e strutturali degli habitat principali – foreste, praterie naturali, complesso dunale, piscine ecc.” nonché, appunto del Provveditorato Interregionale delle OO.PP. dd. 26.4.2010 (doc. 5 e 6): il Provveditorato, in particolare. è stato investito dell’accertamento della conformità alle prescrizioni delle norme e dei piani urbanistici ed edilizi ai sensi dell’art. 2 d.p.r. 18.4.1994, n. 383 ed ha reso il suo parere vistando il progetto in sanatoria.

 

Sulla base dei pareri favorevoli conseguiti sia in materia urbanistica sia paesistica il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica ha acquisito al patrimonio immobiliare il fabbricato urbano in questione “per essere destinato a fini istituzionali”, al contempo approvando appunto il noto Piano di gestione della Tenuta, elaborato dalla Commissione Tecnico – Scientifica e consegnato in data 21.2.2011 (cfr. artt. 1 e 2 decreto del 26.5.2011, n. 93, doc. 1).

 

L’Avvocatura Generale dello Stato, nel suo parere dd. 15.3.2011 versato in atti (doc. 2 della produzione del pubblico ministero dd. 19.4.2012), ha ritenuto rientrante nei poteri del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, sulla scorta di una pronuncia a Sezioni Unite (ord. n. 6529/2010) che attribuisce un potere regolamentare con fondamento costituzionale, esplicabile attraverso la possibilità di riservare alla giurisdizione domestica pure le controversie concernenti la gestione del personale utilizzato con compiti istituzionali, la facoltà di consolidare sul piano giuridico la costruzione al fine di utilizzarla a fini istituzionali (“sì che il fabbricato possa essere valorizzato per ospitare studiosi, anche stranieri, ed esponenti di enti che si dedicano alo studio delle misure di conservazione e tutela dei sistemi naturali e degli ecosistemi costieri”). .

 

Si è altresì aggiunto che ogni provvedimento tanto del Provveditorato competente per territorio ai sensi della legge 383/1994 quanto dell’Autorità Giudiziaria, volta in ipotesi alla remissione in pristino dell’esistente, avrebbero comportato una ingerenza nella sfera di autogoverno del Segretariato, incompatibile con le prerogative costituzionali in questione.

 

Il decreto del Segretariato Generale n. 93 del 26.5.2011, per le sue caratteristiche, per la peculiarità della disciplina dell’Amministrazione da cui promana, ben può valere, nei presupposti, nella sostanza e negli effetti, quale equipollente di un provvedimento di sanatoria amministrativa, cui la legge ricollega lo speciale effetto estintivo del reato urbanistico (art. 45 comma 3 d.p.r. n. 380/2001) e tale verrà qui assunto.

 

Ne conseguirà la declaratoria di estinzione di detto reato.

 

Altrettanto non è a dirsi per le due fattispecie di reati di tipo ambientale (artt. 30 legge 394/1991 e 181 dec. l.vo n. 42/2004).

 

Non è prevista infatti, neppure astrattamente, la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica degli interventi edilizi in zona tutelata e la loro sanabilità a posteriori essendo detta procedura limitata ad alcuni interventi definibili come “minori”, all’esito della quale, pur restando ferma l’applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dall’art. 167, vengono escluse le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale dall’art. 181 dec. l.vo 42/2004.

 

In particolare, sono ammessi alla valutazione di sanatoria i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesistica, che non abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati (comma 1 – ter dell’art. 181), in quanto connotati da impatto modesto sul territorio vincolato rispetto agli altri considerati dalla medesima disposizione.

 

E’ stato altresì precisato che la valutazione di compatibilità paesaggistica non ammette equivalenti e non può prescindere dal parere della Soprintendenza ovvero di altra autorità competente che la norma espressamente prevede e qualifica come vincolante (Sez. III, n. 889 del 13/1/2011, Rv. 251639; Sez. III, n. 37318 del 3/7/2007, Rv. 237562; Sez. III, n. 16574 del 6/3/2007, Rv. 236495). Analogamente il rilascio del nulla osta a posteriori non esclude la punibilità del reato previsto dall’art. 30 legge 6.12.1991, n. 394 sulla tutela della Aree Naturali protette che prevede il previo rilascio del positivo giudizio di compatibilità ambientale per tutti gli interventi e le opere realizzate all’interno dei Parchi (Sez. III, n. 34746 del 24/5/2007, Rv. 237534, sul valore del parere favorevole dell’Autorità previsto dalla normativa sui parchi unicamente quale atto autorizzatorio con efficacia ex nunc al fine di eseguire le opere descritte nella domanda di accertamento edilizio di conformità).

 

Avuto riguardo ai tempi di realizzazione delle opere, contestate in permanenza come realizzate sino all’ 1.3.2007, data di presa del possesso dell’abitazione da parte del TRIPODI nella quale si può ragionevolmente presumere la cessazione al più tardi della condotta criminosa, deve constatarsi l’inutile decorso del termine prescrizionale quinquennale (anni 4 + 1), sommate altresì le cause sospensive del corso della prescrizione.

 

Tali eterogenee cause estintive si reputa debbano estendersi a tutti gli imputati (TRIPODI, DE MICHELIS e CALZOLARI) chiamati a rispondere, con qualità diverse, dei reati in questione, di tipo contravvenzionale : è, dunque, lo stesso disinteresse, ovvero la noncuranza nel rispetto della norma a qualificarne l’approccio soggettivo, a prescindere dalla volontà di lesione ed offesa al bene tutelato, in assenza di una qualsiasi situazione di buona fede, indotta in ipotesi da comportamenti positivi pregressi dell’Amministrazione, che abbia convinto l’uno, l’altro o tutti della superfluità delle autorizzazioni, dei permessi, dei nulla osta necessari, e che alcuno di essi ha avuto interesse a rappresentare e dimostrare all’Ufficio.

 

Ciascuno di essi versava in una situazione di garanzia a tutela diretta dei beni coinvolti dall’attività di libera aggressione al territorio e al bene naturale specialmente protetto: a partire dal TRIPODI e dal DE MICHELIS, i quali ben possono considerarsi i committenti dell’opera, quand’anche l’incarico di costruzione venga autorizzato formalmente sotto il profilo contabile da uffici della Segreteria, essendo gli unici due soggetti che, per comune ammissione, erano consapevoli fin dall’origine di quello che sarebbe stato il risultato finale dell’intervento edilizio, volto a creare un organismo completamente diverso e di gran lunga eccedente in dimensioni quello in via di demolizione. In ogni caso l’identificazione di altro formale affidatario dei lavori varrebbe solo a estendere il campo delle responsabilità penali e non già ad esonerare da colpe gli imputati.

 

Evidente la necessità di adattamento delle categorie formali dei responsabili degli abusi urbanistici previsti dall’art. 29 d.p.r. n. 380/2001 ed identificati nel committente, nel progettista, nel direttore dei lavori e nell’esecutore : sia per il particolare contesto pubblico dell’Amministrazione committente e delle formalità di aggiudicazione dell’esecuzione dell’opera, sia per la sovrapposizione nel caso di interessi particolari (come quello del TRIPODI) rispetto ad interessi generali, che nel caso vennero di fatto nell’immediato totalmente pretermessi, sia per la sostanziale informalità organizzativa, mancanza di proceduralizzazione, disinteresse o scarso interesse che da sempre regnavano in Tenuta (cfr. interrogatorio DE MICHELIS, “in questi quindici anni che ho passato lì dentro da quando sono venuto io ho visto in effetti determinate cose crescevano, che cadevano, che si modificavano: edifici nati, edifici morti, manutenzioni”, pg. 8)

 

Ciò a dispetto dell’assoluta rilevanza della risorsa ambientale in cui gli interventi edilizi sono caduti negli anni, assistita da una elevata forma di protezione, chiaro essendo che la costituzione di un’area in Riserva naturale Statale è conseguenza della valutazione della sua rilevanza scientifica, naturalistica, ambientale (al punto che la Tenuta di CASTELPORZIANO é meta internazionale di studiosi, alla cui ospitalità è stata da ultimo significativamente destinata la villa della SANTOLA), sì che l’imposizione del vincolo vale a rafforzare e ad accrescere la tutela del bene e non certo a sminuirla consentendo utilizzi personali ed individuali, con aggressioni al territorio e al paesaggio, per di più senza alcuna previa valutazione da parte delle autorità preposte.

 

Ad ogni buon conto è pacifico in materia che concorrono negli illeciti propri previsti dalla normativa edilizia tutti i soggetti, anche diversi da quelli individuati dall’art. 29 comma primo del decreto, che abbiano portato nella realizzazione dell’evento un contributo causale consapevole e rilevante, tanto più per la natura colposa della fattispecie e della sussistenza della colpa anche nella mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori (Sez. III, n. 16571 del 23/3/2011, Rv. 250147; Sez. III, n. 48025 del 12/11/2008, Rv. 241799; Sez. III, n. 35084 del 25/3/2004, Rv. 229651).

 

Poco conta, quindi, l’inquadramento formale dei tre imputati rispetto alle qualifiche tipiche legali previste per la fattispecie urbanistica per ciascuno emergendo specifici profili di responsabilità concorrente nella determinazione dell’evento.

 

Ancor più semplice la situazione relativamente ai reati in tema di protezione delle bellezze naturali, atteso che la norma dell’art. 181 dec. l.vo n. 42/2004 non disciplina un’ipotesi di reato proprio e non ha quindi come destinatari i soli proprietari del bene vincolato o i soggetti ad essi equiparati ovvero i committenti di lavori di qualsiasi natura e genere sui beni paesaggistici “ma sanziona chiunque trasgredisca le disposizioni poste a tutela dei vincoli” (così Sez. III, n. 40434 del 13/7/2006, Rv. 236270).

 

Non risulta (ed anzi lui stesso l’ha escluso) che il TRIPODI si peritò di sollecitare l’intervento preventivo per la valutazione di compatibilità paesaggistica della Commissione tecnico – scientifica alla quale pur apparteneva stabilmente e che venne investita solo a posteriori (vds. parere 11.3.2010); né si preoccupò di far verificare la fattibilità giuridica dell’opera, da lui stesso direttamente gestita quanto a progettazione ed esecuzione sì che si trattava di colui che, per primo e meglio, mirava alla sua realizzazione in quanto diretto beneficiario della costruzione che soddisfaceva un suo preciso interesse di fatto.

 

La direzione della Tenuta, la piena consapevolezza della consistenza del nuovo manufatto in via di realizzazione, la presenza costante ed effettiva sui luoghi, a loro volta, imponevano il medesimo dovere di vigilanza e sollecitazione rivolta ai superiori in capo al DE MICHELIS.

 

Eppure il medesimo ha dichiarato che proprio per la sua vocazione e competenza tecnico - agraria, era stato sempre molto attento (pg. 8 interrogatorio dd. 2.12.2009) alla tutela del vincolo di Riserva Naturale statale gravante sulla Tenuta, attribuendosi un ruolo di garanzia che non risulta invece avere in alcun modo svolto nel caso. Quanto alle questioni urbanistiche, a suo dire era stato sempre invitato dal TRIPODI a disinteressarsi, e così aveva effettivamente fatto, “quando è venuto fuori il discorso della ristrutturazione di questo casale della Santola, questo ex canile che poi era una casa, era un edificio, io non è che mi ponevo il problema della concessione edilizia, ma come forma mentis mia….” (pg. 11)

 

Proprio detto disinteresse, candidamente ammesso, integra i profili di colpa individuabili a suo carico e, in ogni caso impedisce il proscioglimento ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p. per la sua pretesa estraneità al fatto o perché questo non costituisce reato, unica alternativa processuale alla constatata estinzione del reato.

 

Parimenti il reato risulta correttamente imputato a CALZOLARI Giorgio, capo della Divisione Tenute del Servizio Tenute e Giardini, incaricata delle manutenzioni immobiliari ordinarie e straordinarie facenti capo al Servizio stesso, preposto dunque ai lavori di sistemazione dell’edificio in questione (cfr. pg. 24 interrogatorio DE MICHELIS).

 

Si trattava del funzionario che per primo, dunque, al di là della sua riconosciuta estraneità al processo decisionale sotteso all’intervento edilizio e alle irregolarità che lo accompagnarono, doveva funzionalmente attivarsi per garantire il rispetto di quelle normative di settore che costituivano oggetto specifico del suo ufficio, ossia l’attività manutentiva del patrimonio, con la connessa valenza urbanistica e paesistica degli interventi.

 

La sua totale inerzia, anche a livello di attivazione di una qualsiasi verifica di compatibilità quanto meno a lavori in corso (ammesso che non fosse stato informato dal suo diretto superiore della determinazione assunta), trattandosi dunque del garante dei beni giuridici offesi, impone l’attribuzione al medesimo di un ruolo di cooperazione nella commissione dei reati, che egli non ha in alcun modo impedito attivandosi per quanto di competenza e possibilità.

 

Anche nei suoi confronti resta dunque preclusa una pronuncia assolutoria ampia ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p.

 

6. Il reato contestato al capo d)

Come già illustrato in fatto, funzionale all’immediata realizzazione dei desideri del dott. TRIPODI di poter beneficiare in tempi rapidi di un comodo alloggio interno fu la predisposizione di un appunto, datato 14.10.2005, redatto su carta intestata del suo Servizio e a sua firma, in cui domandava l’assegnazione dei fondi per il “consolidamento e il restauro nella parte muraria e nella copertura” del fabbricato denominato “canile”.

 

Per quanto ampiamente dedotto, trattasi di atto ideologicamente falso nei suoi contenuti, smentito nella sua veridicità dall’intera istruzione dibattimentale, come provato dai due elaborati grafici datati 7.7.2005 e 31.8.2005 degli arch. MICCI e ZAPPALORTI, in cui si progetta un “edificio ad uso residenziale”, diverso solo nelle dimensioni, in ogni caso importanti, con i connessi computi metrico – estimativi che contemplano la totale demolizione del manufatto precedente e la realizzazione ex novo di un edificio su due piani, doppio rispetto alle dimensioni originali.

 

Le testimonianze del DE BLASIS e del DE CURTIS, le dichiarazioni del DE MICHELIS sino alla sostanziale confessione sul punto dell’imputato (pg. 21 interrogatorio, dopo iniziali, insostenibili dinieghi sulla base dell’affermazione che la demolizione totale fu decisa in corso d’opera dopo avere verificato lo stato effettivo delle strutture murarie quando addirittura non si voleva realizzare un magazzino) non fanno che avvalorare un dato già acquisito e che non trova alcuna incoerenza in elementi diversi.

 

Il processo ha altresì chiarito lo scopo di tale immutazione del vero: ossia l’accelerazione del passaggio alla fase esecutiva dell’opera attraverso l’aggiramento delle normativa interna in materia di gare e di scelta del contraente, previo frazionamento forzoso dell’importo dei lavori e le intese segrete con l’appaltatore, già scelto nella società “Edilmassimo”, l’estromissione dai lavori di straordinaria manutenzione del Provveditorato alle OO.PP. al fine di soddisfare il desiderio, al momento ragione esclusiva dell’azione amministrativa, del TRIPODI di disporre per gli ultimi anni di carriera di un adeguato alloggio interno alla Tenuta e, al contempo, avviare i lavori di sistemazione della sua abitazione familiare sita in via Cratilo d’Atene.

 

Pacifica altresì la natura pubblicistica del documento in questione in quanto atto proveniente da un pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni legate all’attribuzione dei compiti di manutenzione immobiliare straordinaria, gravanti sul Servizio Tenute e Giardini, implicante un impegno di spesa per l’Amministrazione, con finalità pubblicistiche all’interno di una procedura di aggiudicazione dell’appalto che veniva così perfezionata.

 

Corretta, dunque, la qualificazione giuridica del fatto a fronte della pacifica identificazione dell’atto pubblico, penalmente rilevante per il falso documentale in ogni atto redatto dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni rilevando la provenienza dell’atto dal medesimo e il contributo da lui fornito, in termini di conoscenza o di determinazione, ad un procedimento della pubblica amministrazione, quand’anche si tratti di atti di corrispondenza, interna od esterna, o di atti interni anche non tassativamente previsti dalla legge. Parimenti sono loro assimilati gli atti destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo di valutazione ovvero quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale – conforme o meno allo schema tipico – ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi (tra le molte, Sez. VI, n. 11425 del 20/11/2012, Rv. 254867; Sez. V, n. 14486 del 21/2/2011, Rv. 249858; Sez. V, n. 9702 del 5/12/2008, Rv. 242770; Sez. V, n. 49417 del 6/10/2003, Rv. 227659).

 

Anche per tale fattispecie risulta interamente decorso il termine utile di legge per l’esercizio, la prosecuzione e la definizione dell’azione penale ai sensi dell’art. 157 comma 1 c.p., nuova formulazione, che fissa definitivamente, a prescindere dalla ricorrenza di circostanze aggravanti comuni, il termine prescrizionale in anni 7 mesi 6 (anni 6 + ¼).

 

Per quanto rappresentato non sussistono cause di evidente esclusione della punibilità prevalenti su tale declaratoria di rito.

 

7. Il reato contestato al capo g)

Implicita in quanto sino ad ora rappresentato è piuttosto l’insussistenza del delitto di truffa, contestato con riferimento all’induzione in errore del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, convinto ad assumere impegni di spesa in data 19.10.2005 sulla base del falso presupposto che si trattasse di una limitata manutenzione di un fabbricato da destinare a futuri utilizzi d’ufficio, laddove, come ampiamente descritto, si trattava di un radicale intervento di rifacimento al fine di costruire l’alloggio di servizio del dott. TRIPODI, da costui reso ostensibile nella sua compiutezza all’Ufficio preposto all’autorizzazione all’assunzione dell’impegno di spesa solo con il successivo appunto datato 13.2.2006.

 

Ha riferito in particolare il dott. DE CURTIS che il 14 febbraio 2006 aveva ricevuto un altro appunto dal TRIPODI, “ti ricordi quell’appunto dell’ottobre? Adesso ci facciamo un alloggio di servizio….ti ricordi, tu stesso hai comunicato in Commissione Alloggi che poteva essere dato a me ”: fu allora che venne decisa la destinazione in concreto della struttura i cui lavori di recupero erano stati precedentemente autorizzati (pg. 79 e 82 esame DE CURTIS).

 

Venne quindi deliberato un secondo impegno di spesa al fine della destinazione dell’immobile ad abitazione (pg. 92 esame DE CURTIS).

 

L’insussistenza dell’ipotesi accusatoria per la quale lo stesso pubblico ministero ha richiesto l’assoluzione deriva non già dalla mancata formazione della prova su tali fatti, tutti al contrario ampiamente dimostrati attraverso la convergenza della prova dichiarativa, positivamente scrutinata, con quella documentale, e, con essi, l’induzione in errore del vice segretario DE CURTIS, determinatosi all’atto di disposizione patrimoniale per conto della Presidenza della Repubblica sulla base della suggestiva rappresentazione del dato del reale, quanto piuttosto dalla carenza di altro elemento costitutivo del delitto contestato, ossia il dato dell’ingiustizia del profitto.

 

E’ stato più volte detto che il TRIPODI era uno dei pochi capi servizio privi di un alloggio di servizio, la cui assegnazione era rimessa alle valutazioni dell’apposita Commissione Alloggi (cui lo stesso imputato partecipava quale componente stabile) e che, quand’anche non possa dirsi vi sia mai stata una formale assegnazione di esso, pur doverosa sotto il profilo procedimentale, trattavasi di funzionario che aveva certo titolo per ottenerlo all’interno della Tenuta, tanto più in assenza di richieste concorrenti o configgenti ovvero di opposizioni di sorta (cfr. DE CURTIS; vds. art. 2 del Regolamento sull’assegnazione e l’uso degli alloggi di servizio approvato con D.P.R. 18.7.1998, n. 119/N, “gli alloggi di cui all’art. 1 sono assegnati ai dipendenti del Segretariato Generale per specifiche esigenze di servizio connesse all’incarico ricoperto o alle mansioni svolte nell’esclusivo interesse dell’Amministrazione” doc. 14 produzione difesa GIFUNI dd. 11.7.2011).

 

Quand’anche dunque la procedura di assegnazione debba giudicarsi irregolare e viziata sotto il profilo amministrativo dall’assenza del parere obbligatorio della Commissione e, ancor prima, dalla mancanza fisica di un alloggio disponibile come la vicenda della rapida costruzione della villa dimostra, emerge il dato sostanziale della mancata qualificazione del profitto in termini di ingiustizia e, dell’opposto, correlato danno per l’Amministrazione.

 

L’accezione di ingiustizia comprende qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico o patrimoniale, che l’autore intende perseguire e che non si collega ad un suo diritto ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso (Sez. II, n. 16658 del 31/3/2008, Rv. 16658; Sez. II, n. 29563 del 17/11/2005, Rv. 234963; Sez. V, n. 1733 del 21/10/1987, Rv. 177559): nella fattispecie, pur dovendosi ritenere che l’ottenimento di un immobile quale alloggio di servizio sia una situazione astrattamente rilevante per il diritto e costituente un vantaggio per il destinatario non fosse altro per il risparmio di spesa dei costi di ottenimento di un‘abitazione attraverso i canali ordinari (sotto forma di acquisto o di locazione), può dubitarsi che si sia trattato di un’azione ingiusta del TRIPODI e fondata su un vantaggio giuridicamente non dovuto.

 

Il profilo di funzionario dirigente del Servizio cui la Tenuta apparteneva rivestito dal TRIPODI, la previsione del suo astratto diritto ad ottenere un alloggio, a domanda, sol che fosse stato disponibile e la sostanziale formalità, per quanto lo riguardava, del parere della Commissione Alloggi per ciò che concerne i capi-servizio, elide o incrina profili di ingiustizia al profitto, pur da lui in concreto conseguito.

 

Reciprocamente, al di là dell’accenno ad alcune spese personali per l’arredo dell’abitazione cui hanno fatto genericamente riferimento tanto il DI PIETRO quanto il GAETANO transitate nei conti della Tenuta e sui cui non si è formata prova precisa e sufficiente (cfr. pg. 52 interrogatorio DI PIETRO, “GAETANO diceva : guarda se io devo pagare le cose della villa privata sua …mi ricordo che è passato in contabilità qualcosa”), non vi è stato un danno per l’Amministrazione inteso quale perdita di un diritto soggettivo ovvero come lesione di esso, insita nella menomazione del bene giuridico tutelato.

 

Con decreto dd. 26.5.2011, come anticipato, l’immobile, già destinato ad alloggio, è stato infatti acquisito al compendio patrimoniale della Presidenza della Repubblica con destinazione istituzionale, valutata la sua idoneità strutturale e fungibilità all’uso di edificio destinato all’ospitalità di studiosi stranieri, presenti in Tenuta: è stato quindi acquisito al patrimonio pubblico un bene che ha incrementato il patrimonio della Tenuta, con valore economico equivalente alla spesa sopportata, mentre il decreto acquisitivo sottende l’utilità istituzionale dell’immobile, in ogni caso avendo portato al recupero di un bene in rovina insistente sul suo territorio e di cui è stata resa possibile una proficua utilizzazione futura (per l’affermazione che costituisce truffa l’induzione con artifici e raggiri all’acquisto di cosa non occorrente, anche se il prezzo corrisponde al valore commerciale della cosa, Sez. II, n. 406 del 21/2/1968, Rv. 108491).

 

Non risulta, pertanto, configurabile un danno, quand’anche nell’accezione ampia di requisito obiettivo, conseguenza dell’altrui profitto, propria del diritto penale.

 

Si pronuncerà quindi sul punto sentenza di assoluzione sull’elemento oggettivo.

 

8. Il reato contestato al capo l)

Nella originaria prospettazione accusatoria, funzionale alla realizzazione di tale progetto abitativo del TRIPODI e strumentale rispetto ad esso fu la recente, quasi coeva ed apparentemente non casuale riorganizzazione interna del Servizio Tenute e Giardini, da lui diretto.

 

Per quanto acquisito, esso era stato ricostituito in maniera autonoma nel 1993 come Servizio entro l’organigramma del Segretariato: in passato per qualche tempo era stato, infatti, declassificato a divisione, gestita entro il Servizio Intendenza, quindi separato e reso autonomo sulla base di ritenute esigenze di funzionalità dei vari settori (pg. 25 esame SIMONAZZI; cfr. D.P.R. 5.10.1990, n. 87/N, doc. 7 della produzione GIFUNI).

 

La ricostituzione era stata principalmente ispirata dalle difficoltà di gestione e dal disinteresse verso la Tenuta conseguenti all’accentramento del controllo da parte degli uffici del Quirinale ed era stata sollecitata come opportuna dallo stesso DE CURTIS (pg. 55 e 57 suo esame; vds. altresì esame PIRISI, pg. 14/15).

 

Dalla documentazione in atti risulta che la scelta originaria quale direttore del TRIPODI era avvenuta entro una rosa di tre funzionari (oltre al medesimo, i dott. GALLINARI e TRILLO’) dotati di pari, ampia anzianità di servizio appartenendo ai ruoli della Presidenza dall’anno 1973 (doc. n. 9 difesa GIFUNI).

 

Al tempo il TRIPODI era pure il primo per anzianità di concorso tra i tre funzionari in questione (pg. 49 e 56 dott. DE CURTIS), mentre il dott. GIFUNI all’epoca non rivestiva la carica di Segretario Generale (tale risultava il dott. PICELLA Nicola), svolgendo l’incarico di funzionario addetto al Senato (pg. 55 esame DE CURTIS).

 

Nell’anno 2005, su proposta dello stesso DE CURTIS, vi era stato il trasferimento al Servizio Tenute e Giardini della competenza in tema di opere di manutenzione straordinaria, che il Servizio Patrimonio svolgeva attraverso procedure affidate al Provveditorato Generale delle Opere Pubbliche e, per esso, al Genio Civile, restando in capo all’Amministrazione solo l’ordinaria manutenzione : era stato quindi operato uno scorporo della prima competenza dal Servizio Patrimonio per le stesse ragioni che avevano consigliato la ricostituzione del Servizio Tenute e Giardini, ovvero la maggior attenzione che in tal modo sarebbe stata dedicata alle urgenze della Tenuta, in precedenza sacrificate, nella scala degli interventi, alle opere programmate a favore del Palazzo del Quirinale, prioritarie per il Servizio Patrimonio (pg. 58/59 esame DE CURTIS).

 

Detto trasferimento di competenze, peraltro, nulla aveva immutato in tema di applicazione del regolamento di contabilità, operante indistintamente per tutti i Servizi, né sul controllo da parte del Servizio Ragioneria e Tesoreria, che restava preposto al controllo di regolarità amministrativa e contabile.

 

Per quanto riferito durante l’esame dal coimputato GIFUNI il TRIPODI, entrato al Quirinale 21 anni prima del suo arrivo (quale vincitore del concorso del Ministero degli Interni alle cui migliori graduatorie la Presidenza della Repubblica al tempo attingeva), fu preposto al Servizio Tenute e Giardini, ossia a uno dei tre Servizi che nel 1993 si liberarono, essendo il primo in ordine di ruolo: venne quindi scelto sulla base di un criterio di attribuzione oggettiva in assenza di elementi di merito preponderanti rispetto ai colleghi GALLINARI e TRILLO’ (pg. 11/12 esame GIFUNI).

 

Il successivo, assai più recente spostamento di competenze in materia di manutenzione straordinaria era poi frutto di una razionalizzazione organizzativa atteso che il Servizio Patrimonio si occupava di fatto dei soli palazzi presenti entro il compendio del Quirinale, alla cui dotazione appartenevano altresì, oltre alla Tenuta di CASTELPORZIANO, pure Villa Rosebery e i giardini del Quirinale, appunto assegnati al Servizio Tutela e Giardini, quando venne reistituito e cui doveva competere ampia attribuzione e possibilità di intervento (pg. 14 esame GIFUNI).

 

Risultano altresì prodotti agli atti il decreto di nomina del dott. TRIPODI a capo del Servizio Tenute e Giardini, del dott. SIMONAZZI a capo del Personale, del dott. TRILLO’ a capo del Servizio Ragioneria e Tesoreria (D.P.R. 20.12.1993 n. 651) e il D.P.R. 26.7.2005, n. 60/N di spostamento delle competenze in materia di manutenzione straordinaria degli immobili di CASTELPORZIANO dal Servizio Patrimonio al Servizio Tenute e Giardini, entrambi sottoscritti dal dott. Gaetano GIFUNI (doc. 11 e 12 della produzione difensiva dd. 11.7.2011).

 

Il primo trova il suo fondamento nel D.P.R. 14.10.1986, n. 20/N che disciplina il conferimento interno degli incarichi e le loro modalità, attribuendone la potestà al Segretario generale (art. 81 – bis), mentre il secondo rappresenta segmento della più ampia riorganizzazione realizzata in virtù dell’approvazione dell’”Ordinamento degli uffici e dei servizi del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica”, il cui art. 25 è, appunto, dedicato alla ristrutturazione del Servizio Tenute e Giardini

 

Secondo il capo d’accusa la nuova attribuzione “dei lavori di straordinaria manutenzione dei beni immobili della Tenuta di CASTELPORZIANO e relativi rapporti con le Amministrazioni competenti” era finalizzata a consentire al TRIPODI proprio la realizzazione, attraverso opere edilizie straordinarie, della villa, lui destinata tanto in violazione dei criteri formali di assegnazione quanto dei criteri di scelta del contraente della P.A. nell’ambito di una più ampia preordinazione criminosa originata nel 1993 proprio dall’attribuzione al TRIPODI della direzione del Servizio Tenute e Giardini, tanto che lo stesso pubblico ministero ha ravvisato nei due momenti temporali il presupposto della continuazione tra reati avvinti da un vincolo progettuale unitario (artt. 81 e 323 c.p.).

 

E’ certo che il TRIPODI fece cattivo uso sin da principio dell’espansione dei poteri del suo Servizio se è vero che immediatamente si avvalse di tale nuova competenza funzionale per deliberare, nelle forme variamente illecite che si sono viste, lavori di straordinaria manutenzione su un edificio che destinò al suo godimento, per il quale sin dal 14.10.2005 sollecitò l’impegno di spesa del vice segretariato generale per il cd. “consolidamento e restauro nella parte muraria e nella copertura” del canile.

 

Anzi motivi concreti di sospetto derivano dal fatto che è provato documentalmente che il primo progetto presentato dagli arch. MICCI e ZAPPALORTI, avente ad oggetto la realizzazione di un “edificio ad uso residenziale” della superficie lorda al piano terreno pari a mq. 282,78 utile e al piano primo di mq. 37,77 oltre a terrazza, il cui costo venne quantificato in euro 292.646,00, reca la data del 7.7.2005: non si intende, quindi, come il TRIPODI abbia potuto commissionare (o far commissionare) detto progetto quando il decreto attributivo delle competenze in materia di manutenzione straordinaria intervenne il successivo 26.7.2005, tanto più avuto riguardo alla circostanza che al 7.7.2005 gli elaborati grafici erano pronti e, dunque, l’incarico doveva risalire a tempo ben precedente.

 

Evidente che il TRIPODI doveva essere informato da epoca risalente delle modifiche ordinamentali interne in via di approvazione e per tempo decise di estrinsecare le nuove attribuzioni che gliene sarebbero derivate nelle modalità note.

 

Ciò tuttavia ancora non basta a provare l’accusa nei termini in cui è contestata, coinvolgenti a titolo di concorrente GIFUNI Gaetano, qui accostato suggestivamente in virtù dei rapporti personali esistenti, trattandosi del marito della sorella minore della madre del TRIPODI, lui dunque legato da vincoli di familiarità e stretta vicinanza quand’anche non di parentela diretta.

 

Non si intende in concreto, infatti, la consistenza di un progetto criminoso, in tesi avviato nel 1993, con la scelta del TRIPODI quale capo – servizio, mossa dal solo fine di procurare intenzionalmente un vantaggio al TRIPODI, realizzato a grande distanza temporale, non già in diretti termini patrimoniali bensì attraverso la realizzazione di un alloggio, la cui previsione e fattibilità non si pose, comunque, prima dell’anno 2005.

 

Come anticipato, il dott. TRIPODI entrò nei ruoli della Presidenza della Repubblica nell’anno 1973, ben prima dell’arrivo del GIFUNI, al tempo Segretario generale del Senato.

 

L’attribuzione dell’ufficio esercitato al dott. TRIPODI è avvenuta sulla base di un provvedimento amministrativo (decreto del Segretario Generale del 20.12.1993) del tutto legittimo, effettivamente di competenza del Segretario Generale ed esercitato in conformità alle norme regolamentari in tema di conferimento di incarichi (D.P.R. 14.10.1986), attribuiti nell’occasione a tre nuovi capi – servizio (oltre al TRIPODI, SIMONAZZI e TRILLO’), corrispondenti ai settori che ne erano privi sulla base di un obiettivo criterio di scelta, costituito dall’ordine nella graduatoria di merito

 

Parimenti conforme a norme, motivata e priva di vizi di legittimità, oltre che giustificata nel merito, risulta la ridistribuzione delle competenze tra i vari Servizi, tanto più che riguardò tutti gli Uffici e Servizi della Presidenza della Repubblica e non fu quindi settoriale e mirata, quanto piuttosto specificamente motivata dalla necessità di destinare maggior rilievo ed attenzione alla Tenuta, le cui esigenze venivano regolarmente posposte a quelle degli edifici principali siti al Quirinale dal Servizio Patrimonio che sino ad allora se ne occupò.

 

Risulta processualmente ardua, dunque, la configurazione di una condotta abusiva insorta dodici anni prima, fondata su atti amministrativi del tutto legittimi, coltivata negli anni pur senza alcuna manifestazione esteriore e concretizzatasi, infine, attraverso atti procedurali, parimenti legittimi sotto il profilo formale e motivati quanto a quello sostanziale, che, con complessi passaggi, portano indirettamente ad un beneficio che, pur non consentito nei tempi e modi in cui è stato ottenuto, la stessa Amministrazione ha infine giudicato compatibile con il suo scopo istituzionale e conforme ai fini pubblici.

 

Resta la constatazione che immediatamente il dott. TRIPODI approfittò macroscopicamente dell’incarico con atti, decisi in assoluta autonomia al punto da avere ingannato pure l’Autorità di spesa, che non rispondevano direttamente all’interesse dell’Amministrazione quanto piuttosto al proprio miglior agio : anche qui, tuttavia, le successive determinazioni del Segretariato generale, rappresentato da persona fisica diversa rispetto al dott. GIFUNI, in quiescenza da tempo, costituiscono argomento a favore di una sussistente finalità pubblica, sia pur concorrente con l’interesse privato, ostativa alla configurazione del delitto.

 

Ben può dubitarsi altresì che il GIFUNI fosse consapevole dell’obiettivo cui il familiare mirava, non emergendo alcuna sua partecipazione attiva alla procedura che portò all’assegnazione della villa, apparendo anzi ragionevole che egli ne fosse del tutto disinformato (come si vedrà per il capo m), a fronte del carico di competenze, attribuzioni e responsabilità che lo gravavano e alla sua distanza, anche fisica, dalla Tenuta in cui raramente si recò: sì che il beneficio che ne derivò al TRIPODI fu certo frutto esclusivo della sua iniziativa e volontà delle cui forme di manifestazione non mise ragionevolmente al corrente il Segretario Generale.

 

Evidente che i più che ragionevoli dubbi sull’adozione degli atti d’ufficio esaminati da parte del GIFUNI ispirata al solo scopo di procurare un vantaggio patrimoniale al parente della moglie, la cui ingiustizia peraltro già si è esclusa, per di più preventivati e consapevolmente perseguiti in un lasso temporale pluriennale, travolge il nucleo forte dell’impostazione accusatoria anche a beneficio della condotta del TRIPODI, autore dunque di personali, dirette e temporalmente limitate violazioni di norma, estranee al più ampio progetto criminoso concorsuale supposto.

 

Né incide su tali conclusioni la constatazione che, come si vedrà, il decreto di formale assegnazione dell’alloggio dd. 23.2.2006 fu sottoscritto, ancora una volta, dal Segretario Generale trattandosi, nella sua prospettiva, di atto di sua esclusiva attribuzione, doveroso nei termini in cui risultò dagli atti e legittimo dal punto di vista amministrativo.

 

In definitiva entrambi gli imputati andranno assolti con adeguata formula di merito non essendo stata acquisita la prova dell’elemento oggettivo del delitto contestato.

 

9. Il reato contestato al capo m)

Strettamente connessa e condizionata da queste conclusioni è pure l’accusa ruotante intorno al decreto formale di assegnazione del nuovo alloggio al dott. TRIPODI appunto con decreto, a firma del Segretario GIFUNI, dd. 23.2.2006, n. 326 (“Art. 1 : al dott. Luigi TRIPODI, capo del Servizio Tenute e Giardini, è dato in concessione per la durata dell’incarico attualmente ricoperto, l’alloggio sito in Roma – Tenuta di CASTELPORZIANO – Casale SANTOLA”, cfr. doc. 15 produzione difesa GIFUNI).

 

Nelle premesse giustificative il decreto recava l’indicazione : “visto il verbale della riunione del 20 luglio 2005 della Commissione Alloggi di cui all’art. 6 del precitato Regolamento, dal quale risulta che la Commissione ha espresso parere favorevole alla assegnazione di un alloggio di servizio al dott. Luigi TRIPODI, Capo del Servizio Tenute e Giardini”.

 

Come già illustrato il capo del personale dott. DE CURTIS ha sostenuto che l’iniziativa per l’assegnazione dell’alloggio gli pervenne dallo stesso TRIPODI, prima della riunione della Commissione Alloggi dd. 20.7.2005, che tuttavia non espresse un vero parere, limitandosi ad una sollecitazione sull’opportunità dell’assegnazione: era quindi improprio il decreto successivo di assegnazione sottoscritto dal dott. GIFUNI, in quanto facente riferimento ad un parere favorevole della Commissione in realtà mai espresso.

 

D’altra parte, come pure evidenziato, l’espressione del parere era resa di fatto impossibile dall’indisponibilità di alloggi alla data del 20.7.2005, sì che sarebbe mancato l’oggetto della delibera; in ogni caso per ragioni di regolarità formale sarebbe stata necessaria una nuova riunione della Commissione Alloggi con espressione di regolare parere (pg. 85/86 esame DE CURTIS).

 

Il successivo decreto autorizzatorio dd. 23.2.2006, che pur citava un parere favorevole mai intervenuto, era stato predisposto a suo dire dallo stesso Servizio Tenute e Giardini: non rammentava invece che il decreto fosse passato nelle sue mani, anche perché altrimenti ne avrebbe rilevato l’irregolarità formale sì che riteneva che il TRIPODI l’avesse portato direttamente alla firma del Segretario Generale (pg. 63/64 esame DE CURTIS).

 

Anche a dire di NICOLETTI Maurizio era ragionevole che fosse stato lo stesso personale amministrativo del Servizio Tenute e Giardini a predisporre il provvedimento poi firmato dal dott. GIFUNI, solitamente occupandosene la medesima struttura competente rispetto alla localizzazione dell’immobile.

 

Il decreto del Segretario Generale era intervenuto a ridotta distanza temporale rispetto alla manifestazione da parte del TRIPODI al DE CURTIS della reale finalità dell’iniziativa edilizia, ostentata attraverso la richiesta del secondo impegno di spesa datato 13.2.2006.

 

L’atto in questione, dunque, indubbiamente pubblico poiché manifestazione interna di poteri pubblicistici per fini di buon governo della pubblica amministrazione, è certamente ideologicamente falso sotto il profilo tecnico facendo esplicito riferimento ad un parere di una Commissione, istituzionalizzata e proceduralizzata nelle sue manifestazioni decisionali, mai espresso e, per il vero, neanche mai sollecitato.

 

D’altra parte non si trattava neppure di una determinazione necessaria nei suoi contenuti ed obbligata nello scopo perché, oltre ad essere imprescindibile nell’an prima dell’assegnazione di un alloggio ad un appartenente all’Amministrazione, era vincolata alla valutazione di una serie parametri, normativamente dati, ossia, oltre alla dipendenza del beneficiario dal Segretariato generale, la sussistenza di esigenze di servizio, la connessione di esse rispetto all’incarico ricoperto, l’interesse all’assegnazione esclusivamente valutato nell’ottica del buon funzionamento dell’Amministrazione.

 

Si tratta, dunque, di un parere formale con ampi profili valutativi di merito la cui positiva ricorrenza non può dirsi a priori scontata e che non è surrogabile da altre manifestazioni di volontà della P.A.

 

Non è piuttosto dato sapere in fatto, all’esito dell’istruzione dibattimentale, l’identità del soggetto che provvide materialmente alla predisposizione della minuta del decreto quindi sottoscritto dal Segretario Generale, quand’anche rispondente agli interessi sostanziali di una sola persona, ossia il dott. TRIPODI.

 

Non può in altri termini escludersi a priori, nonostante le suggestioni indotte dalla genesi della vicenda e dalla molte irregolarità pregresse che avevano consentito la rapida creazione di un immobile di servizio prima inesistente, anche in spregio alla norma regolamentare che riserva ad un decreto del Segretario Generale “il contingente numerico delle unità immobiliari destinate ad alloggi di servizio” (art. 1 D.P.R. 18.7.1998, n. 119/N, Regolamento sull’assegnazione e l’uso degli alloggi di servizio, doc. 14 della produzione GIFUNI), che personale amministrativo, occupatosi della predisposizione dell’atto, abbia equivocato sulla portata dell’indicazione in calce alla delibera del 20.7.2005 (“a chiusura della riunione il dott. DE CURTIS fa presente ai partecipanti che ritiene opportuna, in tempi brevi, l’assegnazione di un alloggio al Capo del Servizio Tenute e Giardini presso la Tenuta di CASTELPORZIANO, note le pressanti ed accresciute esigenze operative della Tenuta stessa”).

 

Non è quindi emersa prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il TRIPODI ne sia stato l’estensore ovvero l’ispiratore e l’istigatore, e, in ogni, caso la prova sul punto risulta insufficiente, fatto normativamente equiparato alla sua insussistenza : sì che andrà .per tal ragione assolto.

 

Quanto al GIFUNI, coinvolto quale supposto concorrente necessario essendone stato l’autore diretto, l’analisi risente della conclusione già assunta che ha svincolato le condotte di progettazione, realizzazione e attribuzione dell’alloggio di servizio ricondotte al TRIPODI da più ampie progettualità e da obiettivi di mero favore connessi ad atti del GIFUNI, in ogni caso i provvedimenti amministrativi da lui assunti apparendo legittima e doverosa manifestazione di varie attribuzioni funzionali spettanti al Segretario Generale.

 

Ha sostenuto il dott. GIFUNI di avere concesso una sostanziale delega dei fatti dell’amministrazione interna al vice segretario amministrativo, atteso che la sua attività era assorbita da compiti di consigliere del Presidente e di relazione con tutti gli altri organi costituzionali (con una mole di lavoro tradotta nella presentazione alla firma del Presidente di un centinaio di decreti al mese, pg. 17 esame).

 

La sua sottoscrizione in calce al decreto di assegnazione dell’alloggio era stata, quindi, vergata da un lato fidando nell’effettivo svolgimento della regolarità dell’istruttoria di cui si dava atto in premesse oltre che nel controllo che il vice segretario DE CURTIS aveva sicuramente svolto, dall’altro nella convinzione della piena legittimità del provvedimento. Né certo le sue alte mansioni gli consentivano di verificare i vari passaggi documentali presupponenti la proposta di assegnazione (pg. 17/18 esame)

 

E’ del tutto verosimile e ragionevole e in nulla smentito dalle acquisizioni processuali che la mole di atti sottoposti al Segretario Generale abbia fatto sì che il controllo di merito da parte sua possa essere stato sempre assai superficiale e sommario. Né è ipotizzabile che egli fosse in condizione di poter esaminare, per ciascuno dei molti decreti sottoposti alla sua firma, tutto il procedimento istruttorio e tutti gli atti preparatori che li fondavano, pena l’impossibilità di evadere il quotidiano esercizio delle sue molte incombenze e cure.

 

E’ emersa altresì la prassi del tempo che tali delibere venissero vagliate a livello intermedio pure dal vice segretariato generale amministrativo, ciò che può avere determinato certezze nella correttezza e veridicità di quanto rappresentato in relazione ai fatti di gestione interna del personale, delle dotazioni e delle strutture, inducendo un comprensibile senso di fiducia nel Segretario Generale, dedito ad altre competenze.

 

Dette conclusioni vanno estese pure rispetto ad un atto che di fatto favoriva il familiare che egli legittimamente reputava doveroso in virtù della qualifica, delle mansioni e dell’espressa disponibilità di un alloggio in Tenuta, indicato nel decreto: diversamente dovendosi giungere alla conclusione che i rapporti tra i due, in ipotesi di mancata sottoscrizione, si sarebbero risolti in un opposto pregiudizio per il TRIPODI e gli avrebbero impedito la realizzazione di una legittima aspettativa, ossia quella all’assegnazione dell’alloggio di servizio.

 

Né la conoscenza da parte sua del desiderio del familiare di andare a vivere in Tenuta muta la conclusione: non essendovi ragione per ipotizzare che egli abbia potuto sospettare l’irregolarità della procedura che portò, infine, all’assegnazione da parte sua.

 

L’assenza di prova su una consapevole, cosciente e libera partecipazione alla adozione dell’atto non conforme al vero ovvero la sua induzione in errore su un falso presupposto che lo legittimava, quale l’avvenuta espressione del parere dell’apposita Commissione, ne comporta quindi l’assoluzione sul portato psicologico richiesto dalla norma (per l’esclusione del dolo generico laddove il falso derivi da una semplice leggerezza dell’agente, non essendo punibile il falso colposo, Sez. V, n. 29764 del 3/6/2010, Rv. 248264; ovvero in tutte le occasioni in cui la falsità è oltre o contro la volontà dell’agente, Sez. V, n. 3004 del 13/1/1999, Rv. 212939; ovvero laddove l’atto contenga la menzione di un presupposto non veritiero, connesso ad incompleta conoscenza o errata interpretazione di disposizioni amministrative ovvero a scorretta applicazione di prassi amministrativa, Sez. V, n. 27770 del 18/5/2004, Rv. 228711). .

 

10. La gestione delle risorse della Tenuta. I reati contestato al capo h)

Si premette in genere che la gestione della forza lavoro e la disponibilità dei beni e delle materie prime erano di competenza dei vari capi – settore, mentre il loro utilizzo all’esterno esulava dai poteri dello stesso Direttore e, per quanto riguarda la Tenuta, si accentrava sul responsabile del Servizio Tenute e Giardini, ovvero il dott. TRIPODI (pg. 11/12 esame SIMONAZZI).

 

Peraltro entro la Tenuta la situazione risultò complessa anche per le oggettivamente incerte attribuzioni di competenza del personale, accentuate da profili personalistici che si innestarono, di cui sono state espressione le stesse dichiarazioni qui raccolte : per quanto riferito dal TRIPODI i dipendenti che si occupavano della manutenzione ordinaria dipendevano da lui (pg. 26 interrogatorio); mentre a dire del direttore DE MICHELIS vi furono ripetuti conflitti di competenze nascenti dal fatto che i falegnami e gli operai generici facenti capo per le manutenzioni di immobili al Settore Tenute e Giardini, erano in co-dipendenza restando pur sempre dipendenti della Tenuta, mentre i giardinieri dipendevano in via esclusiva dal Servizio (pg. 34 e 65 interrogatorio).

 

In definitiva, a dire dello stesso DE MICHELIS, “il Direttore purtroppo sul personale c’ha pochissime competenze. Nel senso che io c’ho tutte le rogne perché il personale che mi mandano me lo deve tenere…” (pg. 73).

 

Quanto allo svolgimento in concreto delle mansioni rispettivamente assegnate, è stato esaminato un significativo numero di operai ed artigiani al fine di verificare se lo svolgimento delle loro attribuzioni fosse stato limitato all’ambito territoriale della Tenuta e alle mansioni comprese nell’ambito della classificazione professionale rispettivamente prevista e per la quale era intervenuto il contratto di assunzione, in conformità alle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (artt. 52 e 53 dec. l.vo 30.3.2001, n. 165) e al Regolamento sullo stato giuridico del personale della Presidenza della Repubblica (D.P.R. 18.6.1985, n. 174).

 

Delle loro testimonianze va ora a darsi conto.

 

DEL PINTO Roberto, idraulico in CASTELPORZIANO dal 1998, riferiva di avere effettuato durante l’orario di servizio piccoli controlli di manutenzione ordinaria agli impianti idraulico e del gas dell’abitazione assegnata al TRIPODI in località SANTOLA, su incarico sia del suo capo – settore FERRARI Emilio sia direttamente dell’assegnatario dott. TRIPODI (pg. 33/34 trascrizioni).

 

Si era altresì recato presso abitazioni esterne riconducibili alla famiglia TRIPODI (in specie, via Cratilo di Atene, n. 25 e via Bruno Malajoli, n. 39) per effettuare consulenze gratuite amichevoli nel settore idraulico, compreso il montaggio di una caldaia: in alcune occasioni vi era stato portato direttamente dal TRIPODI, talvolta con l’autovettura di servizio, e ciò era accaduto tanto in orario lavorativo quanto al di fuori di esso (“ci recavamo sia con la macchina di servizio che con la sua privata, diverse volte ci andavo anche fuori dall’orario di lavoro, non posso tuttavia quantificare quante volte ci sono andato in orario di servizio o fuori dall’orario di servizio”, pg. 38 esame).

 

FIORE CRESCENZO, capo – settore del servizio giardino a CASTELPORZIANO sino al 2007, si era occupato della messa a dimora del giardino e del prato della villa concessa al TRIPODI in località SANTOLA; aveva altresì sistemato il giardino dell’abitazione del medesimo in via Cratilo, n. 25, recandovisi cinque o sei volte, piantando cespugli e fiori provenienti dalla Tenuta.

 

Si era altresì recato, su sua richiesta ed indicazione, presso l’abitazione della figlia in via Malajoli, n. 39, dotata di un piccolo giardino di mq. 20, impiantandovi cespugli della Tenuta e un prato a zolle che gli era stato fornito dallo stesso TRIPODI: i lavori erano avvenuti tanto in orario di servizio quanto al di fuori di esso e, in ogni caso, non erano stati retribuiti essendo stati prestati a titolo amichevole (pg. 43/44 esame).

 

Sia a casa della figlia del TRIPODI sia in località SANTOLA aveva avuto modo di incontrare altri giardinieri della Tenuta.

 

DELLI MUTI Domenico, operaio generico, confermava di essersi recato all’inizio dell’anno 2000 presso l’abitazione di via Cratilo di Atene, n. 25, per realizzare un impianto di irrigazione. Era stato altresì chiamato a tamponare la falla di un tubo rotto; qualche anno prima aveva pure realizzato un piccolo impianto di irrigazione presso l’abitazione della figlia Sara in via Malajoli, mentre in tempi più recenti vi era ritornato con il figlio, titolare di un’impresa di spurghi, per liberare una tubatura intasata, incontrandosi ed intrattenendosi per qualche tempo con il TRIPODI (pg. 48/49 esame).

 

Aveva svolto qualche piccolo intervento pure per l’anziano padre del TRIPODI, su richiesta dell’imputato, e l’aveva varie volte accompagnato in Tenuta, “sono andato qualche volta pure con la macchina dell’Amministrazione, non lo posso negare se io sono andata qualche volta, se non andavo con la mia macchina personale, poi lo portavo dal figlio… in tutto sì, 15 volte… perché qualche volta andava pure il figlio, quando non andava il figlio lo andavo a prendere io …..” (pg. 52).

 

BENVENUTI Flavio, elettricista, aveva svolto attività di manutenzione di un cancello e di un garage presso l’immobile sito in via Malajoli, n. 39, oltre ad alcuni modesti interventi in via Cratilo di Atene, n. 25, che ricordava, al tempo del verbale di sommarie informazioni, essere “stati commissionati dal TRIPODI a livello di cortesia e sono avvenuti in orario di servizio, utilizzando materiali, lampadine, cacciavite, attrezzi e mezzi dell’Amministrazione”, a titolo gratuito (pg. 57/58 esame). Non era in grado di confermare unicamente di essersi servito a tal scopo di mezzi di servizio dell’Amministrazione.

 

DI MAOLO Fabrizio, fabbro, riferiva di avere svolto modesti interventi (la sistemazione di una rete presso l’abitazione di Sara TRIPODI e lo sblocco di un cancello presso quella di via Cratilo di Atene, n. 25) di cui il secondo in orario di servizio.

 

DI VINCENZO Andrea, falegname, dichiarava di avere aiutato il collega FALASCA Giovanni a montare un pensile della cucina presso la cucina dell’abitazione sita in via Cratilo di Atene, n. 25 e, un paio d’anni prima, aveva realizzato un armadio a muro e un angolo cottura presso l’abitazione di TRIPODI Sara in via Malajoli, n. 39 unitamente a LEUCI Vincenzo; sempre su richiesta del TRIPODI aveva altresì provveduto ad effettuare un lavoro presso un immobile sito in via Laurentina.

 

L’intervento presso la figlia era stato fatto gratuitamente fuori dall’orario di servizio, a differenza dei restanti e si era avvalso della sua autovettura ovvero di quella dell’Amministrazione in base al fatto che l’intervento avvenisse fuori o in orario di servizio (pg. 67 e 75).

 

FALASCA Giovanni Battista, falegname, era intervenuto presso gli immobili del TRIPODI in via Cratilo di Atene, n. 25, per riparare gli sportelli di una cucina, e in via Laurentina per la sistemazione di un armadio, con l’auto di servizio e, almeno in parte, durante l’orario di lavoro, su richiesta dello stesso imputato (pg. 77 esame).

 

Più precisamente se era quasi certo di essersi recato presso la prima al di fuori dell’orario di servizio, presso la seconda era stato portato dallo stesso TRIPODI con il veicolo dell’Amministrazione: vi si era quindi certamente recato in orario di servizio (pg. 81 esame).

 

FERRARI Ennio, capo settore edile della Tenuta fino al 2007, aveva appreso che i dipendenti del Servizio si recavano per piccoli interventi manutentivi presso le abitazioni del TRIPODI perché erano gli stessi artigiani che glielo comunicavano, ad esempio l’elettricista o il pittore; ciò avveniva pure in orario di servizio e, talvolta, su sua diretta richiesta (pg. 92 esame).

 

LEUCI Vincenzo, falegname, aveva svolto alcuni lavori presso l’abitazione di Sara TRIPODI, precisamente in cucina, fuori dall’orario di servizio ed altresì in via Laurentina, sulle porte, ove si era recato con l’auto dell’Amministrazione e in orario di lavoro: all’interno aveva notato la presenza di colleghi dipendenti della Tenuta, intenti in lavori di pittura delle pareti (pg. 97/98 esame).

 

MAZZOLA Luciano, capo settore del servizio giardino, era intervenuto tre o quattro volte a titolo di cortesia presso l’abitazione del TRIPODI (ad es. per la potatura di piante) in orario di servizio.

 

TORROMEO Davide, giardiniere, si era recato presso l’immobile di via Cratilo di Atene, n. 25 per la potatura delle siepi sia in orario di servizio sia al di fuori di esso, talvolta con la vettura dell’Amministrazione; gli aveva invece consigliato il nominativo di un esperto per la piantatura di alberi (che sapeva essergli costata 1.500,00 €), anche perché nessuno dei giardinieri svolgeva detto lavoro, richiedente macchinari particolari (pg. 106/107 esame).

 

Aveva altresì svolto mansioni di autista del padre del TRIPODI, accompagnandolo presso l’area balneare della Tenuta nel periodo estivo due, tre volte al mese su richiesta dell’imputato stesso. La mattina si serviva dell’autovettura dell’Amministrazione, operando in orario di servizio, su espressa indicazione del TRIPODI che lo autorizzava a prelevare le chiavi del mezzo (talvolta essendo stato invece autorizzato dal dott. DE MICHELIS); il pomeriggio avvalendosi della propria, quando si trattava di riportare a casa il padre del TRIPODI (pg. 104 esame).

 

SPADONI Enrico, falegname, aveva realizzato in falegnameria, con materiali da questa provenienti, durante l’orario di servizio due zanzariere per conto di Sara TRIPODI presso la cui abitazione si era recato per le misure fuori dall’orario di servizio: la richiesta proveniva dal TRIPODI e dal suo capo – settore FALASCA (pg. 110/111 esame).

 

In un altro paio di occasioni era stato presso l’abitazione privata del TRIPODI, in una circostanza in orario di servizio e con l’auto dell’Amministrazione per una consulenza su un lavoro che il primo intendeva realizzare (pg. 112).

 

SCARICO Alberto, muratore, si era recato per mezza giornata presso un’abitazione in zona via del Tintoretto per lavori alla carta parati di un salone, in orario e con l’autovettura di servizio; vi aveva notato la presenza dei colleghi FALASCA, PIEROTTI, LEUCI (pg. 114/115 esame).

 

FEMIA Vincenzo, elettricista, era più volte intervenuto presso le abitazioni private del TRIPODI per piccole manutenzioni (quali la riparazione di una serranda elettrica, il prolungamento del cavo TV, manutenzioni di luci), recandovisi anche con l’auto di servizio e in orario d’ufficio se accompagnato in loco dal TRIPODI, avvalendosi pure di materiale della Tenuta.

 

Indirette conferme di questa privata disponibilità da parte del TRIPODI di manovalanza pubblica sono giunte da altre voci del processo, quale lo stesso Gianni GAETANO a dire del quale accadeva che arrivando molto presto, aveva avuto modo più volte di notare operai che uscivano dalla Tenuta sulle autovetture in dotazione, dirigendosi verso via Cristoforo Colombo; inoltre ne sentiva i commenti in dispensa la mattina all’atto del caffé, quando l’elettricista, l’idraulico o il falegname commentavano i lavori fatti o da fare presso le abitazioni del TRIPODI.

 

Parimenti significativa la testimonianza di DOMINICI Pietro, addetto alle murature, il quale ammetteva i suoi cattivi rapporti con l’imputato con il quale aveva avuto uno scontro verbale in occasione della scelta del capo - settore dopo il pensionamento del precedente responsabile: nel corso di esso il TRIPODI gli aveva detto “che io non dovevo mettere i bastoni tra le ruote alle cose per quanto riguardava il prossimo capo – settore perché ….. inculava a me e tutta la famiglia mia” (pg. 85 esame). Era stato, infine, preferito il suo collega. BENVENUTI, nonostante la prassi imponesse la sua scelta per anzianità specifica.

 

Non aveva mai personalmente svolto lavori privati per conto del TRIPODI mentre gli era noto che vi si erano occupati altri dipendenti della Tenuta, “dicevano che non potevano rifiutarsi perché se non poi tanto in qualche modo la scontavano” (pg. 85/86). In particolare glielo aveva riferito l’elettricista BENVENUTI Flavio che più volte era andato a lavorare nelle abitazioni del TRIPODI.

 

A dette dichiarazioni si sono aggiunte quelle degli operai della Tenuta utilizzati per lavori presso la villa in località SANTOLA, quali ANTONELLIS Roberto (cfr. verbale di s.i.t. dd. 2.12.2009), CARMELLINO Raffaele (s.i.t. dd. 3.12.2009), LATTERI Vincenzo (s.i.t. dd. 3.12.2009), PIEROTTI Adriano (s.i.t. dd. 2.12.2009), SATOLLI Francesco (s.i.t. dd. 2.12.2009), i quali pure hanno confermato di essere altresì intervenuti a titolo di cortesia su una o più delle abitazioni della famiglia TRIPODI.

 

Anche TRULLI Bruno, capo – officina della Tenuta, dichiarava di avere effettuato tutti i lavori di carpenteria presso l’abitazione del TRIPODI in località SANTOLA; in essi era stato altresì impegnato, per la realizzazione di una scala, dei cancelli e della ringhiera il fabbro SERPIERI Alessandro (pg. 118).

 

In definitiva dalle dichiarazioni compatte, convergenti, in alcun modo viziate da sentimenti o ragioni personali o da motivi di interesse, rese da una moltitudine di dipendenti della Tenuta le cui testimonianze, rese alla presenza del dott. TRIPODI, sono parse certo più riduttive che animate da una qualsiasi predisposizione negativa o intento calunnioso, emerge in forma chiara ed incontestabile che il dott. Luigi TRIPODI agiva quale dominus della Tenuta, delle cui dotazioni liberamente disponeva, sotto forma di uso di personale, attrezzature, beni, immobili (per quanto già si è visto) e veicoli (per quanto si vedrà).

 

Alle medesime conclusioni, frutto di una lineare ed immediata ricostruzione delle affidabili prove dichiarative raccolte, siccome estranee a qualsiasi sorta di interesse, portavano le dichiarazioni, variamente rese, dai coimputati DE MICHELIS, che mai ha smesso di manifestare il suo disagio per l’ingombrante presenza del capo del Servizio, sino a doverne subire la coabitazione fisica in Tenuta, così da vedersi costantemente ridotti o condizionati i poteri che pur gli competevano, in particolar modo sul personale; DI PIETRO il quale ha confermato i condizionamenti che il direttore subiva; lo stesso GAETANO che ha sempre collocato il TRIPODI al vertice della scala gerarchica di un potere che andava ben al di là della gestione amministrativa della Tenuta e della direzione tecnico – agraria spettanti propriamente al suo Servizio (cfr. art. 16 – quater decreto presidenziale 30.10.1985, n. 9, come modificato dal D.P.R. 18.12.1993, n., 32/N)

 

Più volte è riecheggiato l’accenno alla fonte para-giuridica di questa condizione di potere e di dominio, ossia la familiarità con il Segretario Generale del Quirinale il cui peso talvolta espressamente evocava, ma che nella maggior parte dei casi era implicita e sottesa alle sue richieste, che tutti ritenevano di esaudire per l’autorevolezza e, talvolta, per l’autorità di cui faceva uso (cfr. le dichiarazioni di DOMINICI, che fu pretermesso nella scelta del capo – settore).

 

Precise nella descrizione, obiettive in ragione di quanto univocamente emerso, esemplarmente sintetiche nella rappresentazione della situazione, assolutamente disinteressate nei contenuti sono dunque parse le chiare affermazioni sul punto ancora una volta rese dal GAETANO sul ruolo in concreto svolto dal TRIPODI: “si è arrogato il compito di fare… di decidere…fare e disfare …gli devo dare i nomi di tutta la Tenuta, a cominciare dall’idraulico che cambia il tubo…” (pg. 23 incidente probatorio), “tutta la Tenuta subiva …una sudditanza psicologica nei confronti del dott. TRIPODI, perché di fatto, coperto com’era, la gente non è che si mettesse molto a discutere sulle cose da fare o da non fare” (pg. 24); “il dottor TRIPODI …si è sempre presentato come persona, come posso dire, di potere …. il fatto che c’aveva il segretario generale che era il marito della sorella della moglie….. GIFUNI, per cui qualunque cosa lui chiedesse in Tenuta o facesse in Tenuta era sempre e comunque sottolineato questo fatto, ma lo faceva con tutti, con tutti gli operai, con tutto il personale, con il direttore, con tutti ….” (pg. 18 esame).

 

Evidente dunque l’instaurazione di prassi che hanno fatto sì che di fatto tutti gli operai venivano a dipendere direttamente da lui (anche quelli coassegnati alla direzione della Tenuta) al punto che lui stesso ne curava personalmente le riunioni mattutine e che nessuno si é mai opposto a richieste che nulla avevano che fare con i compiti d’ufficio in quanto non a beneficio dell’Amministrazione che li aveva assunti e/o svolte in orario d’ufficio : ve ne è stata la diretta percezione in tutte le molteplici dichiarazioni rese dai testimoni laddove si sono confusi sulle circostanze relative a prestazioni personali rese alla famiglia TRIPODI in orario o fuori orario di servizio, ovvero recandosi sui luoghi con vetture proprie o dell’Amministrazione (talvolta insieme all’imputato), a dimostrazione dell’indifferenza ed irrilevanza della circostanza.

 

Beneficiari di queste prestazioni non rientranti tra i compiti d’ufficio furono tutti i componenti la famiglia, ossia lo stesso dott. TRIPODI per ciò che concerne l’abitazione di via Cratilo d’Atene, la figlia Sara, residente ad ACILIA, in via Molajoli, 39, la figlia Denise, abitante in via Mazzola, 38 (indicata quale zona “Laurentina”), per piccole manutenzioni domestiche affidate ad idraulici, fabbri, elettricisti, operai generici, falegnami oltre a sistemazioni di giardini. DELLI MUTI ha altresì riferito di un intervento pure a favore del padre.

 

Può quindi concludersi che per molti anni, sino a quando l’indagine penale esplose, TRIPODI Luigi fece uso personale e privatistivo delle risorse umane e materiali della Tenuta, della cui integrità patrimoniale e funzionale era invece garante, servendosene indifferentemente per scopi d’ufficio (o presunti tali, vds. l’ampio utilizzo del personale per numerosi lavori in località SANTOLA) e distraendoli indiscriminatamente dai compiti propri, anche in orario d’ufficio, talvolta accompagnandoli con la vettura di servizio presso l’abitazione che necessitava del loro intervento, e comunque consentendogli l’uso di veicoli della Tenuta per recarsi sui luoghi di lavoro privati, oltre che di avvalersi di beni (quali attrezzature elettriche o piante del vivaio) da impiegare presso le private dimore.

 

Determinata e precisa appare dunque l’accusa e così i tempi di consumazione delle condotte, reiterate per anni e continuate sino al 2008, ben desumendosi dalle testimonianze che non si trattava di condotte esaurite ma protratte, ogni qualvolta se ne fosse posta l’esigenza, sino a tempi recenti: non si pone, dunque, alcuna questione in punto estinzione del delitto per prescrizione.

 

Né la compattezza di tali dichiarazioni provenienti dagli operai della Tenuta è smentita dal testimone ACQUAVIVA Riccardo, imprenditore edile del settore privato, che si è riferito all’esecuzione di opere di ristrutturazione totale dell’appartamento del TRIPODI sito in via Cratilo d’Atene, n. 25: per quanto assai curiosamente abbia riferito che i lavori erano iniziati con piccoli interventi nell’anno 2006 e completati nel dicembre 2011, con la totale ristrutturazione dell’immobile al prezzo di euro 60/70.000,00, lui regolarmente versati.

 

Ancor più singolari, in quanto maggiormente dettagliate, le dichiarazioni sul punto dell’imputato il quale ha dichiarato che nel corso del 2006 venne realizzato il 30% dei lavori di ristrutturazione parziale previsti per via Cratilo d’Atene (corrispondenti ai primi lavori di muratura, pavimenti compresi), quindi - dopo una pausa durata oltre un anno e mezzo - le opere idrauliche ed elettriche, dilatando i lavori nell’arco di tre anni. Peraltro non risultava in grado di indicare alcun nome di ditte od operai esecutori dei lavori (cfr. pg. 16/18 interrogatorio) né in sede di perquisizione locale erano stati trovati fatture o documenti di esecuzione dei lavori stessi, pur completati nel 2008.

 

Aggiungeva che aveva provveduto al pagamento d quei lavori solo in tempi recenti con assegno da euro 18.000,00, perché anche i primi muratori avevano accettato di attendere tre anni il saldo del dovuto (“li ho pagati un paio di mesi fa, ho pagato…”, pg. 17 interrogatorio dd. 4.12.2009).

 

L’inverosimiglianza e il contrasto di tali affermazioni con comuni regole di buon senso, prima ancora che non criteri di ermeneutica giuridica, appaiono evidenti: atteso che a riprova della regolarità di lavori manutentivi eseguiti sino al 2008/2009 presso l’abitazione di via Cratilo d’Atene, 25 e pacificamente ammessi, il TRIPODI non è stato in grado di indicare né il nominativo di alcuno che li avesse eseguiti, né documenti di spesa, né prove di acquisto del materiale, né fatture ricevute posto che, per sua ammissione, anche il pagamento dei lavori eseguiti nell’anno 2006 era avvenuto a distanza di ben tre anni, senza la richiesta neppure di un anticipo da parte degli esecutori (neanche per le spese vive del materiale e delle attrezzature usate).

 

E’ piuttosto verosimile che i lavori cui si é riferito l’AQUAVIVA siano stati quelli successivi e recenti di totale demolizione e rifacimento dell’abitazione completati nel 2011 e certo egli non può avere esaurito le opere realizzate tra il 2006 e il 2009 in quanto smentito dallo stesso TRIPODI: “sono varie ditte che mi sono state segnalate da amici che stanno nel settore imprenditoriale…mi hanno dato la ditta idraulica, la ditta elettrica e la ditta di muratori…...” (pg. 16 interrogatorio).

 

Lo stesso ACQUAVIVA ha dichiarato che i primi lavori del 2006 erano per “problemi di infiltrazioni, quindi sistemare delle piccole cose, poi evidentemente avranno valutato che forse sarebbe stato meglio fare un intervento radicale, quindi …una demolizione completa” conclusa, appunto, nel 2011 (pg. 6 esame): non fu lui dunque che si occupò né dei lavori in muratura, né del rifacimento degli impianti idrici e termici, precisamente descritti dal TRIPODI e datati tra il 2006 e il 2008/2009.

 

D’altra parte significativamente nessuna fattura dell’ACQUAVIVA è mai stata prodotta, anche al fine di provare l’assunto logicamente insostenibile che l’imprenditore non richiese alcun compenso per ben tre anni (dal 2006 al 2009) e per datare i tempi di esecuzione delle opere indicate in maniera parimenti vaga ed imprecisa.

 

Anche le dichiarazioni dell’imputato riscontrano, dunque, al contrario e suo malgrado, quanto qui sostenuto sull’utilizzo indiscriminato ed indistinto di ciò che apparteneva alla Tenuta, persone o cose che fossero, perché nessu’altro se non gli addetti alla Tenuta si occuparono sino ad anni recenti della prima, contenuta ristrutturazione dell’abitazione privata di via Cratilo d’Atene in cui – escluso l’ intervento della società “A3 Costruzioni Appalti” a fronte delle dichiarazioni dell’ACQUAVIVA che ha negato di essersi occupato di lavori edili, di impianti idraulici o termici - operarono i molti addetti alla Tenuta che vi hanno fatto riferimento.

 

Furono loro, pertanto, a realizzare quei modesti interventi, giudicati infine insufficienti, rispetto a quali il TRIPODI non è stato in condizione di indicare né altro esecutore, né pagamenti (esplicitamente esclusi) né di produrre alcun tipo di documento, ciò che si addice perfettamente alla situazione di fatto insita nell’esecuzione di opere con maestranze e beni della Tenuta.

 

D’altra parte il TRIPODI andò in quiescenza nel corso del 2009 e l’avvio dell’indagine penale ancor prima certo lo sconsigliò dall’ulteriore ricorso alle maestranze della Tenuta sì che fu costretto a rivolgersi al mercato privato.

 

E’ affermazione costante che il delitto di abuso di ufficio è configurato da ogni svolgimento della funzione o del servizio che si manifesti con il requisito della cd. doppia ingiustizia nel senso che ingiusta deve essere tanto la condotta poiché connotata da violazione di una norma di legge o di regolamento quanto l’evento di vantaggio patrimoniale perché non spettante in base al diritto soggettivo che regolamenta la materia (tra le varie, Sez. VI, n. 1733 del 14/12/2012, Rv. 254208; Sez. II, n. 2754 del 11/12/2009, Rv. 246262; Sez. V, n. 16895 del 2/12/2008, Rv. 243327)..

 

Non potrà quindi farsi discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimità in sé della condotta.

 

La condotta illecita, a sua volta, deve essere manifestazione di potestà che oltrepassi ogni possibile discrezionalità per realizzare lo specifico fine perseguito dalla norma violata (Sez. VI, n. 41402 del 25/9/2009, Rv. 245287).

 

Alla luce del superiore principio di offensività, non integra invece alcun reato il solo utilizzo a scopi personali di beni appartenenti alla P.A. quando la condotta non lede la funzionalità dell’ufficio e non causa neppure un danno patrimoniale (Sez. VI, n. 5010 del 18/1/2012, Rv. 251786). Al contrario, qualsiasi disfunzione creata e il danno, comunque quantificabile, integrano il reato in presenza di un ingiusto vantaggio patrimoniale procurato dall’agente a se stesso o a terzi.

 

Quanto al profilo soggettivo, è stato detto che il dolo non è più di tipo specifico, come nella precedente formulazione della norma, atteso che la qualifica di intenzionalità ha trasformato il fine in evento : il dolo, pertanto, è di tipo generico quand’anche rispetto all’evento che completa il fatto assume la forma del dolo intenzionale.

 

Di conseguenza il giudice dovrà limitarsi a sindacare quelle condotte che siano dirette, come conseguenza immediatamente percepita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero ad arrecare un ingiusto danno, escludendo la configurabilità del reato tanto in caso di dolo eventuale (caratterizzato dall’accettazione dell’evento) quanto di dolo diretto (laddove il soggetto si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità ovvero di certezza), ricercando invece il dolo intenzionale, ravvisabile quando il soggetto ponga l’evento quale obiettivo primario della sua condotta.

 

Criteri sintomatici di identificazione dell’elemento psicologico saranno i comportamenti tenuti prima, durante e dopo la condotta, in particolar modo tratti dall’evidenza delle violazioni, dalla competenza dell’agente, dalla reiterazione e gravità delle violazioni, dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato e, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi (Sez. VI, n. 41365 del 9/11/2006, Rv. 235434).

 

Intenzionalità non si identifica, infatti, con esclusività del fine che anima il soggetto agente atteso che la legge non presuppone che le condotte siano assunte al solo scopo di conseguire un dato evento illecito e una tale interpretazione risulterebbe di tipo abrogante oltre che smentita dal dato del reale, laddove i soggetti attivi del reato, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, nell’esercizio delle attività pubbliche esternano sempre una finalità lecita per mascherare il vero fine.

 

Ne consegue che laddove all’esternazione del fine pubblico si affianchi uno scopo privato occorre accertare quale sia stata la finalità prevalente ed esenziale che ha mosso l’agente e in quale misura un fine abbia prevalso sull’altro: il reato non sussisterà, infatti, quando il fine pubblico ha avuto la preminenza sull’altro mentre resterà integrato nei casi in cui la finalità pubblica manifestata rappresenti una mera occasione o un pretesto per coprire la condotta illecita che ne era il reale obiettivo (così da ultimo, Sez. III, n. 13735 del 26/2/2013 – 22/3/2013, Fabrizio + 1; altresì Corte Cost. ord. n. 251/2006 sull’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 323 c.p. nel senso che la mera compresenza di una finalità pubblicistica non basta ad escludere il dolo previsto dalla norma).

 

Sulla base di tali premesse interpretative è conclusione consueta che l’impiego e la sottrazione di risorse lavorative al lavoro dovuto per destinarle a mansioni privatistiche integra il delitto di abuso d’ufficio avuto riguardo alla linea di discrimine esistente tra la condotta appropriativa incompatibile con il titolo del possesso e l’estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto e l’assunzione del possesso in nome proprio (art. 314 c.p.) e la distrazione a profitto proprio concretizzatasi semplicemente in un uso indebito del bene o della risorsa che non comporti la perdita del bene stesso e la lesione patrimoniale a danno dell’avente diritto (art. 323 c.p.).

 

Si è detto, infatti, che l’utilizzo arbitrario a proprio beneficio dell’attività lavorativa prestata da sottoposti non può mai integrare il delitto di peculato attesa che l’energia umana o la persona non sono cosa mobile e non sono, dunque, suscettibili di appropriazione (così Sez. VI, n. 35150 del 9/6/2010, Rv. 249368; Sez. VI, n. 8494 del 13/5/1998, Rv. 211313; Sez. VI, n. 6094 del 27/1/1994, Rv. 199186).

 

La reversibilità della situazione sotto forma di restituibilità delle risorse lavorative distratte ed indirizzate verso un impegno extra-ufficio, con il procacciamento di un vantaggio lucrativo non spettante, sottraendo tempo ed energie all’attività propria per tutta la durata del disimpegno in luoghi, orari, contesti non dovuti ne fa un caso classico del delitto qui contestato.

 

Corretto, dunque, l’inquadramento giuridico proposto relativamente all’abusivo sfruttamento delle energie lavorative degli operai ed artigiani addetti in via esclusiva alle necessità della Tenuta come da Regolamento interno e non certo alle esigenze private del dott. TRIPODI cui pur sono stati costretti ripetutamente a piegarsi, portandosi presso le sue abitazioni private con i mezzi, gli utensili e quant’altro necessario allo svolgimento dell’attività lavorativa richiesta, spesso od indifferentemente in orari d’ufficio, quando avrebbero dovuto rimanere presso la Tenuta a disposizione delle sue esigenze. Evidente altresì la patente violazione di ogni norma in tema di ordinamento giuridico del personale dipendente.

 

Altrettanto vale per l’uso del personale impiegato con mansioni non proprie e da esso distratto, con l’uso quali autisti per il trasporto dei genitori dall’abitazione alla Tenuta, cui si sono riferiti DELLI MUTI e TORROMEO, operai aventi altre professionalità, e su cui si avrà modo di ritornare approfonditamente nel capo seguente: laddove, come evidente, tali incarichi risultavano del tutto estranei ai doveri d’ufficio ed in alcun modo compatibili con l’interesse pubblico.

 

Chiaro e non necessitante di particolari illustrazioni il dolo che sorresse l’imputato, il suo approccio soggettivo non potendo che qualificarsi quale deliberata ricerca di un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé e i familiari, effettivamente conseguito attraverso i risparmi di spesa che gliene derivarono, in assenza di qualsiasi finalità pubblicistica, di per sé incompatibile ed inconciliabile con la condotta accertata.

 

La conclusione trova un’eccezione per la sola condotta contestata al capo H – d), avente ad oggetto le eterogenee prestazioni lavorative ottenute dai dipendenti per completare la sua dimora, ovvero la villa in località SANTOLA, in sostituzione ovvero in aggiunta alle attività della “Edilmassimo”: laddove il difetto del requisito dell’ingiustizia del vantaggio patrimoniale, negli stessi termini illustrati al capo g), esclude la sussistenza della stessa obiettività del reato.

 

Per tute le restanti ipotesi contestate si pronuncerà, invece, condanna di TRIPODI Luigi.

 

11. Le vetture in dotazione della Tenuta. Il reato contestato al capo i)

Come anticipato, tanto DELLI MUTI Domenico quanto TORROMEO Carlo hanno riconosciuto l’uso del veicolo di servizio della Tenuta per accompagnarvi il padre del dott. TRIPODI, prelevandolo dall’abitazione, in orario d’ufficio, con preferenza presso lo stabilimento balneare interno (in particolare TORROMEO) e previa autorizzazione all’uso del mezzo da parte dello stesso imputato.

 

Decise e chiare sono risultate sul punto le dichiarazioni del testimone assistito GAETANO e degli imputati di reati connessi DE MICHELIS e DI PIETRO.

 

Gianni GAETANO ha confermato l’utilizzo a fini privati delle vetture della Presidenza da parte del TRIPODI “per il padre… il padre qua era d’estate, ma anche pure in inverno qualche volta, c’aveva un capo del settore edile che gli faceva da autista dovunque dovesse andare e d’estate gli faceva quasi da badante …anche fuori (dalla Tenuta) da quello che mi risulta…. Io li vedevo che era in macchina, partire con il padre, girare, lo portava giù al mare …” (pg. 22 esame)

 

Ha sostenuto il DE MICHELIS che poteva accadere che la “Punto” di servizio, unica vettura dotata dell’aria condizionata, fosse utilizzata dal TRIPODI, nel senso che sapeva che detto veicolo era nella disponibilità di quest’ultimo (pg. 33 interrogatorio).

 

Soprattutto ancora più esplicite, colorate e, come sempre, schiette sono risultate le risposte sul punto del DI PIETRO, a dire del quale gli era noto sia l’utilizzo da parte del TRIPODI di operai per le sue abitazioni esterne alla Tenuta (quali DELLI MUTI Domenico, DEL PINTO, DI MAURO, TORROMEO, CRESCENZO) come da informazioni che apprendeva direttamente in Tenuta (pg. 40/42); sia l’uso disinvolto delle vetture di servizio (“questa è famosa. La macchina di servizio ….noi dovevamo andare al Quirinale con la Panda verde, 4 x 4, tutta zozza, sporca di fango…senza aria condizionata. Vestiti così andavamo al Quirinale con le macchie proprio di sudore, in servizio, perché l’unica macchina con l’aria condizionata che era una Punto bianca, AC*202*NA mi pare che si chiami, questa macchina era riservata prevalentemente nel periodo estivo per fare i trasbordi di altre persone ….so che andava a uso dei genitori del dott. TRIPODI – non si tocca, non si tocca – (la guidava) DELLI MUTI spesso. DELLI MUTI Domenico …la macchina poi d’inverno tornava a disposizione della Tenuta … perché era l’unica macchina con l’aria condizionata ….non avevamo una grande disponibilità …nel senso che quasi sempre era occupata”; D.: “se la prendeva tutte le mattine?”; R.: “quasi tutte le mattine, quasi tutte le mattine, anche il sabato e la domenica”, D.: “quasi tutte le mattine era a disposizione di TRIPODI e non della Tenuta?”; R.: “esatto, sì…(la guidava) DELLI MUTI ..ogni tanto DI MAOLO….che era il fabbro… lo facevano probabilmente in orari di servizio…io non so effettivamente quello che facevano perché vedevo che prendevano la macchina, però sapevo che era a disposizione di TRIPODI, quindi immaginavo che andavano a prendere i genitori, non so se al mare per portarli a casa o se li portavano da casa all’EUR…. credo che negli ultimi tre anni non potevo contare sulla macchina di servizio” (pg. 43/47 interrogatorio).

 

Si premette che nulla osta all’utilizzazione delle dichiarazioni rese contro il TRIPODI oltre che dal GAETANO, sottopostosi ad esame in contraddittorio, sia dal DI PIETRO sia dal DE MICHELIS ai sensi dell’art. 513 comma 1 ult. parte c.p.p., racchiuse nei rispettivi verbali di interrogatorio prodotti consensualmente ovvero a seguito del rifiuto a rendere esame in contraddittorio nel dibattimento.

 

La norma è stata, infatti, interpretata nel senso che la necessità del consenso a fini di utilizzazione contra alios non impone la necessità di un consenso espresso e formale, né una declaratoria volta a renderle utilizzabili potendo essere desunto per implicito dal solo fatto che l’acquisizione disposta non sia stata oggetto di alcuna specifica opposizione (Sez. V, n. 47014 del 8/7/2011, Rv. 251445).

 

Nel caso nessuna iniziativa volta a manifestare il dissenso vi è stata da parte della difesa tecnica del TRIPODI, essendo stato al contrario espresso l’indiretto consenso all’utilizzo delle dichiarazioni contenute nel verbale di interrogatorio del DI PIETRO, delle cui affermazioni la difesa si è giovata a sostegno dell’estraneità del TRIPODI ai fatti di peculato, come evidenziato nella memoria difensiva dd. 26.2.1013 (punti 7 – 8 – 9).

 

Nel suo interrogatorio il TRIPODI: ha asserito che il DELLI MUTI era divenuto amico del padre novantaseienne “che voleva venire una o due volte a settimana nei due mesi estivi al circolo del Quirinale, io andavo in ufficio, lavoravo, non avevo una macchina adeguata …. So che DELLI MUTI ha un Mercedes…. io non ho mai autorizzato nessuno a prendere la macchina, però so, devo dire la verità, che ogni tanto prendeva la Panda e li andava a prendere e li portava al mare… non mi ricordo all’aeroporto ….mi sembra che una volta sono venuti con una specie di pulmino della Tenuta….” (pg. 29).

 

La ridotta ammissione del fatto cui è stato, infine, costretto l’imputato in ordine alla sporadica (a suo dire) frequentazione dello stabilimento balneare della Tenuta da parte del padre, della sua impossibilità di accompagnarlo in quanto impegnato nei compiti d’ufficio, del servizio che il DELLI MUTI gli rendeva accompagnando il padre, talvolta con una vettura della Tenuta, necessita di rilettura sia in ragione delle nette dichiarazioni dei coimputati sopra riferite, sia del concreto dominio sul personale e i beni in dotazione che infine si era accentrato sul TRIPODI e di cui già si è dato conto.

 

Quanto alle dichiarazioni dei coimputati DE MICHELIS e, ancor più, DI PIETRO, si tratta di persone del tutto estranee ai fatti qui in esame, rispetto ai quali assumono più la qualità di testimoni (quand’anche non formalmente), la connessione probatoria che li coinvolge avendo ad oggetto profili totalmente diversi ed indipendenti: sì da far assumere un peso intrinseco diretto alle loro dichiarazioni notevole.

 

La pur doverosa necessità di riscontri che legalmente si impone ex art. 192 comma 3 c.p.p. al fine di rispettarne la qualità formale deve dunque tener conto del disinteresse sostanziale di tali dichiarazioni, dell’assenza di ragioni particolari della chiamata in reità del TRIPODI da parte dei coimputati, piuttosto attestati su un fronte comune avverso il GAETANO, non ostili in sé al TRIPODI tanto che il DI PIETRO è stato da lui addirittura indicato a sua discolpa rispetto ai fatti di cui ai capi a) e b); parimenti, al di là della sudditanza psicologica subita dal DE MICHELIS, nulla fa pensare che egli abbia inteso lanciare accuse su fatti penalmente rilevanti contro il superiore del tempo, da lui non coinvolto autonomamente in altre situazioni illecite (quando addirittura non è stato concorrente nei medesimi reati, cfr. capi c) - f).

 

Quanto al GAETANO si rinvia alle positive valutazioni di affidabilità processuale in sé già sopra motivate.

 

Eppure, a fronte di punti di partenza, posizioni processuali e interessi, latamente intesi, così distanti se non opposti è risultata sorprendente la convergenza e la compattezza nel riferire il dato della sostanziale auto-assegnazione da parte del TRIPODI di uno dei due mezzi della Tenuta, precisamente indicato dal DI PIETRO nella “Punto” bianca tg. AC*202*NA, unica vettura dotata di climatizzatore, con cui faceva accompagnare d’estate, quasi giornalmente nel corso degli anni 2006/2009, l’anziano padre ultranovantenne nello stabilimento balneare interno, facendola utilizzare da operai impiegati quali autisti (prevalentemente il DELLI MUTI).

 

L’effetto è stato comunemente indicato dai dichiaranti nell’indisponibilità costante di detta autovettura, di fatto asservita al privato (familiare) interesse dell’imputato: al punto, a dire del DI PIETRO, che per raggiungere gli uffici del Quirinale nelle assolate giornate estive, quando vi si dovevano recare per ragioni di servizio, erano costretti a usare la seconda vettura (una “Panda 4 x 4”), che non consentiva neppure una degna e dignitosa presentazione innanzi ai superiori.

 

Già si è illustrato l’autorevole, recente approdo interpretativo secondo cui la responsabilità penale dell’accusato può avere come unico riscontro anche altra o altre chiamate in correità o in reità rispetto ad una prima (S.U. n. 20804 del 29/11/2012, cit.), a maggior ragione ove le dichiarazioni accusatorie risultino in sé credibili e distanti quanto ad interesse, coinvolgimento, motivazioni rispetto ai fatti consumati con il coimputato traducendosi sostanzialmente in una testimonianza diretta su vicende di vita conosciute, cui il dichiarante sia rimasto del tutto estraneo.

 

A maggior ragione la conclusione vale dove due dei soggetti indicati quali autisti (DELLI MUTI e TORROMEO) abbiano confermato dette circostanze, con dichiarazioni che vanno integrate tra loro e che, secondo l’opinione del Tribunale, hanno sminuito per comprensibili ragioni la frequenza e l’entità dei servizi extra – lavorativi che sono stati chiamati a svolgere e la cui totale ammissione certo anche per loro risultava imbarazzante.

 

Priva di pregio è la difesa ulteriore del TRIPODI di un’amicizia diretta nata tra il padre e il DELLI MUTI che, quand’anche vera, nulla ha a che fare con la distrazione del DELLI MUTI stesso dalle sue mansioni e dall’ambito spaziale del loro svolgimento : evidente essendo che nel momento in cui il TRIPODI incaricava (come pur ammesso) l’operaio di portare il padre in TENUTA lo autorizzava certamente ad uscire in orario di servizio (ossia la mattina, quando il DELLI MUTI si trovava al lavoro in Tenuta) e a usare la vettura dell’Amministrazione, non avendo certo titolo per pretendere che il DELLI MUTI si recasse a sue spese con la sua autovettura a prelevare il padre ed accompagnarlo a CASTELPORZIANO.

 

Ancor più incredibile che l’uso dell’automobile di servizio sia stato frutto di un’iniziativa del tutto autonoma e non autorizzata del DELLI MUTI, come pur talora sotteso alle risposte dell’imputato.

 

Le conclusioni assunte trovano altresì forte conforto logico nella constatazione della padronanza assoluta che il TRIPODI esercitava sulla Tenuta, attraverso il dominio su quanto la componeva, sotto forma di risorse umane e materiali: sicché la situazione descritta dal GAETANO, dal DE MICHELIS, dal DI PIETRO e confermata dagli autisti, è l’unica verosimile e credibile rispetto alle variegate forme di manifestazione del potere accertate, mentre non sarebbe in alcun modo ragionevole l’opposta ipotesi.

 

Quanto ai profili giuridici nei quali sussumere il fatto, compendiato nella sostanziale sottrazione per lunghi periodi in un arco temporale pluriennale di un veicolo di servizio alla sua destinazione funzionale, si premette che il quadro ermeneutico appare conflittuale e controverso, quand’anche idoneo nel caso ad offrire certi spunti interpretativi.

 

Si è tradizionalmente sostenuto che integra il delitto di peculato, quanto meno nella forma disciplinata dall’art. 314 comma 2 c.p., l’uso momentaneo del bene pubblico, ad intendersi temporaneo (e non già istantaneo) ossia protratto per un tempo limitato così da comportare la sottrazione delle cosa alla sua destinazione istituzionale senza compromettere seriamente la funzionalità dell’Amministrazione (cfr. Sez. VI, n. 25541 del 21/5/2009, Rv. 244287, sull’uso momentaneo e temporalmente limitato per fini personali estranei agli interessi dell’Amministrazione, nel caso un consigliere comunale che in giorno prefestivo aveva fatto utilizzo dell’autovettura lui concessa per ragioni d’ufficio; Sez. I, n. 10274 del 9/2/2006, Rv. 233718, che ha ritenuto la sussistenza del reato di cui all’art. 314 comma 2 c.p. nell’utilizzazione per fini personali estranei agli interessi dell’Amministrazione da parte di poliziotti della vettura di istituto loro affidata per ragioni di pubblica sicurezza, indipendentemente dal concomitante utilizzo della vettura anche per fini istituzionali).

 

Secondo un più recente orientamento, fondato sulla ratio delle modifiche apportate dalla legge n. 86 del 1990, presupponente nel caso del peculato l’appropriazione, intesa quale condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede e sull’estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il suo incameramento da parte dell’agente, l’uso temporaneo del bene pubblico per finalità, reali o supposte, non corrispondenti a quelle istituzionali non sempre è destinato ad integrare la fattispecie del peculato d’uso.

 

In particolare il delitto va escluso nei casi in cui l’uso temporaneo, rivelatosi episodico ed occasionale, non sia caratterizzato quanto a consistenza (distanze percorse) e durata dell’utilizzo così da tradursi in una effettiva appropriazione dell’autovettura di servizio, ovvero non sia suscettibile di recare un concreto e significativo danno economico all’Ente pubblico (in termini di carburante utilizzato e di energia lavorativa degli autisti addetti alla guida), ovvero di pregiudicare l’ordinaria attività funzionale.

 

Si è detto, in special modo, che il principio di offensività che permea il diritto penale e il carattere plurioffensivo del reato, che tutela tanto l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione tanto l’interesse all’integrità patrimoniale dell’Ente pubblico, secondo lo schema tipico della cd. plurioffensività alternativa (bastevole essendo l’apprezzabile danno al patrimonio della P.A: ovvero una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio, per tale definizione, cfr. S.U. n. 19054 del 20/12/2012 – 2/5/2013), rendono non configurabile la sussistenza del reato laddove l’uso momentaneo non abbia leso apprezzabilmente detti interessi: ciò è stato in concreto escluso nell’uso del veicolo di servizio per il trasferimento dalla periferia al centro al fine di compiere una visita privata (Sez. VI, n. 5006 del 12/1/2012, Rv. 251785); in nove casi di indebito utilizzo di vetture di servizio da parte di assessori comunali ((Sez. VI., n. 7177 del 27/10/2010, Rv. 249459); nell’occasionale utilizzo del veicolo d’ufficio da parte di un carabiniere per scopi personali (Sez. VI., n. 10233 del 10/1/2007, Rv. 235941); nel caso di un dipendente comunale avvistato, in una sola occasione, nell’atto di utilizzare l’autovettura di servizio per il trasporto di familiari (Sez. VI, n. 9216 del 1/2/2005, Rv. 230940).

 

Altro indirizzo recente infine, nella medesima prospettiva, ancora del tutto minoritaria, ritiene invece integrato il reato di abuso d’ufficio nell’utilizzo di autovetture e di personale di servizio per scopi estranei ai compiti d’istituto non rilevando né le disfunzioni eventualmente create né l’entità del danno cagionato alla P.A., ma solo l’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato dall’agente a se stesso o a terzi, insito nel costo di mercato dell’utilizzo del mezzo e delle ore di impiego del personale (Sez. VI, n. 25537 del 15/4/2009, Rv. 244358).

 

Anche in tale esegesi, fondata sull’esigenza del legislatore di sottrarre all’estensione del più grave delitto di peculato l’appropriazione di cose di specie (e non già fungibili) per un periodo di tempo circoscritto cui faccia seguito la pronta restituzione con coevo, pieno ripristino dell’originaria funzionalità, è richiesto che l’autovettura fosse nella disponibilità personale per ragioni di servizio, “giammai essendone consentito il pur temporaneo impiego a soggetti terzi, pubblici ufficiali o privati, non aventi diritto all’uso di veicolo di servizio” (in tal senso, Sez. VI, n. 7177 del 27/10/2010, cit.; Sez. VI, n. 27007 del 13.5.2003, Rv. 225759).

 

Detta interpretazione presuppone quindi l’assegnazione dell’uso del mezzo attuata con normativa interna che si occupa della distribuzione delle automobili per l‘esercizio della funzione e la sua utilizzazione al di fuori di detti ambiti.

 

E’ stato sostenuto, in modo certo non contraddittorio con quanto precede, che la condotta appropriativa che determina esclusione dalla disponibilità del bene da parte di altri possibili utilizzatori è tipica del peculato ed esclude la ricorrenza del delitto di abuso di ufficio, presupponente l’assegnazione dell’uso del mezzo per l’esercizio della funzione e la sua utilizzazione al di fuori di tali ambiti: ne consegue la ricorrenza del peculato nella forma base in ipotesi di utilizzo del veicolo di servizio in più occasioni per il tragitto casa – ufficio e ritorno e connesso consumo del carburante (Sez. VI, n. 19547 del 4.4.2012, Rv. 255418; sulla distinzione tra peculato e abuso d’ufficio, cfr. altresì Sez. VI, n. 20094 del 4/5/2011, Rv. 250071)

 

Da ultimo si è affermato che integra peculato e non già abuso d’ufficio la condotta del pubblico ufficiale “che, comportandosi uti dominus rispetto alla cosa di cui abbia il possesso per ragioni d’ufficio, la ceda, anche provvisoriamente, a terzi estranei all’Amministrazione, perché ne facciano un uso al di fuori di ogni controllo della pubblica amministrazione” (così Sez. VI, n. 16381 del 21/3/2013, Rv. 254709 in un’ipotesi in cui un vigile urbano aveva ceduto in più occasioni, fuori dagli orari di servizio, la propria radiotrasmittente, utilizzabile per le comunicazioni con la centrale operativa, al titolare di un’impresa di soccorso stradale per consentirgli di recarsi tempestivamente sul luogo di accadimento di incidenti stradali).

 

Qualsiasi sia l’interpretazione alla quale si voglia aderire è opinione del Tribunale che la conclusione resti immutata: atteso che sia l’orientamento che impone la diretta qualificazione come peculato delle condotte consistenti in atti di disposizione a proprio esclusivo fine personale del bene della pubblica amministrazione, transitando per quello intermedio sino a quello opposto che ritiene la sussistenza nel caso del reato di abuso d’ufficio, coerentemente sviluppati, giungono a qualificare nell’ambito del paradigma dell’art. 314 comma 1 c.p. un utilizzo sistematico, protratto per alcuni mesi all’anno pressoché quotidianamente di un veicolo assegnato all’Amministrazione e destinato stabilmente agli interessi di un familiare del capo – Servizio (e non già all’uso diretto dello stesso pubblico ufficiale).

 

Nel caso di specie, infatti, vi è stata una sottrazione fattuale del bene alla funzionalità e alle necessità della pubblica amministrazione (“sapevo che era a disposizione di TRIPODI”, cfr. DI PIETRO), dalla cui sfera di disponibilità era uscita causa il suo impiego esterno alla Tenuta a favore di terzi (ossia i genitori) per scopi che oltre ad essere del tutto estranei ed incompatibili con quelli dell’Amministrazione, certamente determinavano una distrazione non occasionale né temporanea del bene da possibili, leciti utilizzi e, al contempo, un danno patrimoniale (pur trattandosi, come si è visto, di presupposti alternativi e non cumulativi al fine dell’integrazione del delitto).

 

Vi è stata quindi un’appropriazione duratura del bene per tutto il periodo di utilizzazione (si è fatto preciso riferimento alle ultime tre estati), oltre che del carburante impiegato per i servizi di trasporto, fatto che esclude in sé il peculato d’uso stante l’impossibilità di restituzione di tale specifico bene sottratto.

 

La potenzialità di utilizzo che si è arrogato il dott. TRIPODI è stata dunque tale da escludere in radice le ulteriori finalità istituzionali rispetto alle quali la presenza del mezzo in Tenuta era tanto più essenziale ove si consideri che due soltanto erano le vetture a disposizione a fronte della decine di operai ed addetti, della vastezza del territorio, della molteplicità delle esigenze operative interne, tanto più trattandosi da un lato di una Sede di rappresentanza presidenziale, dall’altro di una estesa azienda agri-faunistica con numerose attività in esercizio e svariati fabbricati.

 

Vi è stato quindi un danno tangibile subito dalla indisponibilità del mezzo per gli usi pubblici, quand’anche circoscritto a dati periodi dell’anno, peraltro ricorrenti, con una situazione accertata in fatto in uno al verificato danno patrimoniale dell’Ente pubblico: basti pensare alla pittoresca difficoltà che incontravano gli impiegati per recarsi al Quirinale non avendo la possibilità di ricorrere all’unico veicolo adeguato.

 

La condotta del TRIPODI, quindi, manifestata in una forma di esercizio atipico del potere di disposizione con cui, quale pubblico ufficiale, ha posto in essere l’interversione del titolo del possesso del bene di cui aveva la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio (tradotto nell’utilizzo uti dominus cui fa riferimento l’imputazione) si è risolta in una specie di espropriazione temporanea protratta e ripetuta del veicolo, messo a disposizione di soggetto estraneo alla P.A., ossia il genitore, ed utilizzato esternamente al luogo deputato di servizio per la vettura, ossia la Tenuta.

 

Tale materiale cessione per consentirne l’utilizzo ad estranei all’Istituzione, sia pur attraverso un autista della Tenuta, ha comportato una estromissione del bene con caratteri di definitività giacché egli aveva disposto che il veicolo si allontanasse dall’ambito territoriale di pertinenza, sì da far perdere alla P.A. materialmente e giuridicamente la disponibilità del bene, uscito dalla sua sfera di controllo. La successiva restituzione del bene, con il rientro nella Tenuta (comunque non per essere messo a sua disposizione, restando di fatto asservita alle necessità della famiglia del TRIPODI o, comunque, sue personali) non vale a negare la estromissione del bene dal patrimonio della P.A. né per affermare l’uso momentaneo in quanto fondata su un primo atto di disposizione illecito che rende improduttiva di effetto la restituzione.

 

Le caratteristiche della condotta accertate, con la stabile, ricorrente sottrazione dell’autovettura all’Ente di pertinenza, impone quindi la qualificazione della condotta nell’ambito del più radicale fatto appropriativo di cui al comma 1, non essendo dato rinvenire alcuna situazione di uso assolutamente momentaneo del bene ovvero improduttivo di effetti sulla funzionalità dell’Amministrazione, ma un ben più radicale atto di disposizione patrimoniale che, in via preventiva ed indiscriminata, ha prodotto l’effetto di sottrarre stabilmente un veicolo alle esigenze, necessità e agli scopi pubblici della Tenuta, influendone tanto sull’organizzazione interna (che si trovava per lunghi periodi priva di un mezzo di trasporto e spostamento), quanto sull’assetto patrimoniale a fronte del consumo d’uso del mezzo e della definitiva appropriazione del carburante necessario, pagato con denaro della Tenuta.

 

Pacifico altresì il dolo della fattispecie, consistente nel mutamento dell’atteggiamento psicologico dell’agente che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri diventa possessore per conto proprio (Sez. VI, n. 16381 del 21/3/2013, cit.; Sez. VI, n. 381 del 12/12/2000, Rv. 219086): situazione psicologica di tipo rappresentativo e volitivo che è pressoché immanente nella condotta, non potendo certo il TRIPODI dirsi inconsapevole dei suoi limiti, delle sue attribuzioni e delle finalità pubbliche che connotavano non solo i suoi poteri ma pure la disciplina dei beni affidati alle supreme cure del suo Servizio.

 

Restando integrati tutti gli elementi costitutivi del reato, si pronuncerà, quindi, condanna per tale imputazione nei suoi confronti.

 

12. Gli interventi presso l’appartamento di GIFUNI Gaetano. Il reato contestato al capo n)

GIFUNI Gaetano, più volte evocato per la sua relazione personale con TRIPODI Luigi, ex Segretario Generale del Senato per 17 anni, risulta avere svolto le funzioni di Segretario generale della Presidenza della Repubblica dal giugno 1992 sino all’11.5.2006, sotto le presidenze SCALFARO e CIAMPI, divenendo Segretario Generale Onorario della Presidenza della Repubblica, carica istituita ad hoc per volontà del Presidente CIAMPI alla conclusione del suo settennato (pg. 66 esame DE CURTIS).

 

All’atto del collocamento in quiescenza si determinò ad alcuni interventi presso la propria privata abitazione sita in via Valadier, 44, preliminari al suo trasloco, dopo che per molti anni aveva occupato l’appartamento di servizio presso il Quirinale.

 

Per quanto riferito dai testimoni le opere erano state eseguite durante l’orario di servizio dai falegnami della Tenuta DI VINCENZO e LEUCI, che avevano realizzato un armadio a muro a sei sportelli in truciolato bilaminato bianco, un tavolo e il rifacimento di una tettoia esterna (pg. 68 esame DI VINCENZO).

 

Aveva appreso dal collega LEUCI Vincenzo che le indicazioni erano state date dal dott. TRIPODI; aveva altresì accompagnato il primo a ritirare presso un fornitore della Tenuta i pali della tettoia, mentre non sapeva da dove provenisse il materiale in truciolato (pg. 74).

 

Era stato il falegname FALASCA Giovanni Battista a realizzare l’armadio bilaminato bianco su indicazione del dott. TRIPODI (pg. 77/78 esame), unitamente al fratello Giulio, al DI VINCENZO e al LEUCI. Sapeva che essi avevano altresì realizzato una tettoia sul terrazzo.

 

Il valore del materiale in truciolato era modesto, intorno alle 500,00 euro ed esso era stato acquistato su sua indicazione dal capo – settore il quale, a sua volta, si era rivolto all’abituale fornitore della Tenuta: aveva lavorato per la realizzazione poco meno di una settimana mentre il montaggio era durato una giornata (pg. 80 esame FALASCA)

 

FALASCA Giulio, a sua volta, confermava di avere accompagnato i colleghi a montare i mobili preparati dalla falegnameria.

 

LEUCI Vincenzo confermava l’esecuzione delle opere (pergolato, ombraio, mobile) su richiesta del TRIPODI : la pergola era stata acquistata con denaro dell’Amministrazione (“paga l’Amministrazione ….. non mi ricordo la fattura, penso 2.000, 3.000 €”, pg. 99/100). Rammentava l’importo perché era stato lui stesso a firmare la fattura di acquisto ed era stato richiamato perché la fattura era andata smarrita.

 

Deve dunque rilevarsi che le condotte sottostanti l’imputazione risultano acclarate in forma pacifica, a fronte delle dichiarazioni, compatte e coerenti, di tutti i falegnami della Tenuta, di avere provveduto alla creazione presso il laboratorio interno, di un armadio bianco (essendo stata smentita piuttosto la realizzazione di un secondo armadio), di un tavolo e di una tenda parasole, quindi installati dagli stessi artigiani presso il detto appartamento.

 

D’altra parte, a fronte dell’evidenza della prova, non vi è stata alcuna contestazione né questa appariva possibile: è intervenuta anzi piena, corretta ammissione del fatto ad opera dell’imputato.

 

Ha dichiarato il dott. GIFUNI che, prevedendo il suo rientro presso l’abitazione avendo inteso lasciare l’immobile di servizio al Quirinale quanto prima, l’aveva fatta attrezzare ricorrendo a ditte esterne per lavori di pittura, infissi, puliture, per un costo di euro 60/70.000,00 euro (cfr. pg. 25 esame).

 

L’urgenza dell’intervento sulla tettoia esterna, i cui pali erano marciti, da un lato, e le esigenze di spazio in cucina manifestate dalla moglie lo indussero ad accettare l’offerta del TRIPODI di ausilio con personale della Tenuta. Vi erano altresì esigenze di sicurezza personale che impedivano il ricorso ad uno sconosciuto falegname, dopo che quello di fiducia, con bottega al piano terra, aveva dismesso l’attività, “ero costretto per ragioni di sicurezza di trovare una soluzione, che fu poi l’offerta di TRIPODI, che mi mettesse al riparo da motivi di poca sicurezza……quindi io fui costretto dalla necessità, travi che cadevano, dall’urgenza del provvedere e da motivi di sicurezza ” (pg. 28).

 

Aggiungeva : “ho insistito con questi benedetti falegnami …signori, quanto vi debbo? Soprattutto, ditemi, per i materiali adoperati? La riposta fu: segretario generale, il materiale sono materiali di risulta che stanno depositati presso la falegnameria pressoché inutilizzabili perché sono scarti…… La manodopera a questo punto….? Scusi, segretario generale, dopo tutto quello che lei ha fatto in 14 anni per il personale..…questo è il minimo che abbiamo potuto fare, lo prenda come omaggio” (pg. 29). Precisava che all’offerta di pagamento del lavoro era presente pure la moglie (pg. 34).

 

Quando aveva appreso, in corso di indagini, dell’esistenza di una fattura d’acquisto di materiali, non aveva pensato di rimborsare l’Amministrazione del costo sostenendo, “credo che se lo facessi, non so, mi riderebbero in faccia…” (pg. 35).

 

Per ciò che concerne l’epoca di realizzazione ha datato gli interventi ai primissimi giorni del giugno 2006, quando rientrò presso la sua abitazione, rimasta per molti anni disabitata (pg. 5 esame).

 

Anche a dire di PARIS Roberto, addetto alla scorta dell’imputato, gli interventi risalivano all’immediata cessazione dell’incarico da Segretario Generale, tra maggio e giugno 2006.

 

Se, quindi, è stata acquisita compiuta prova sui fatti presupposto dell’imputazione a fronte di un’assoluta convergenza delle dichiarazioni variamente raccolte, quanto alla loro consistenza tecnica, al valore e al pregio risulta acquisito il contributo di due tecnici esaminati dal Tribunale.

 

Il consulente tecnico del pubblico ministero ing. DEL PICO Bruno, premesso che le opere realizzate si identificavano in un armadio a dispensa in laminato bianco di mt. 3,30 x 3.25 con 18 ante, un tavolino di 75 cm. x cm. 120 a quattro gambe in laminato bianco con gambe in massello di legno, in due mensole in laminato classico, in una tettoia esterna in legno massello trattato con funzioni frangisole delle dimensioni di mt. 3,40 x 4,00, ne ha stimato il valore in euro 4.858,40, di cui euro 2.187,00 per materiali, euro 2.520,50 per manodopera, euro 150,00 per il trasporto dal luogo di realizzazione, somme al netto di IVA (eccetto che per la materia prima con cui era stata realizzata la tettoia per la quale era stata reperita la fattura con IVA al 20%, pg. 7 esame; cfr. altresì relazione e fascicolo fotografico).

 

Aveva stimato in particolare il costo del bilaminato 65,00 euro al mq. e comunque tenuta presente la struttura dell’armadio, composto dalla rifinitura di una nicchia naturale, calcolando prudenzialmente la necessità di un falegname per sette giorni lavorativi per otto ore giornaliere, soprattutto per la realizzazione delle diciotto ante bordate, squadrate e montate.

 

I prezzi indicati erano stati tratti da indagini di mercato effettate presso i fornitori, considerati i prezzi praticati ai falegnami.

 

A dire del consulente tecnico della difesa ing. SANTI Carlo l’armadio scaffalatura della cucina era di semplice realizzazione trattandosi di riempire una nicchia preesistente, senza murature, senza struttura laterale o di fondo: da indagini effettuate presso grossisti cittadini del legno, supposta la provenienza dalla falegnameria delle materie prime, il suo valore doveva ridursi alla metà, ossia ad euro 750,00 per i materiali. Il tempo necessario ad un operaio, a suo dire, era pari a quattro giornate per un controvalore totale di euro 1.650,00.

 

Quanto alla tettoia, partendo da un prezzo documentato d’acquisto di euro 512,00 per materiali, valutata la necessità di due operai per una giornata, il valore doveva determinarsi in euro 900,00 circa, anche perché si trattava di un rifacimento e non di una realizzazione ex novo.

 

Il totale complessivo ammontava dunque ad euro 2.950,00. (cf. altresì elaborato acquisito).

 

Ritiene il Tribunale assai più aderente ai dati del reale la stima proposta dall’ing. DEL PICO in quanto, a parità di competenza tecnica dei due professionisti e di affidabilità intrinseca e coerenza delle loro argomentazioni, i contenuti dell’accertamento disposto dal pubblico ministero sono quelli che meglio si adattano e più si uniformano alle risultanze processuali di fonte diversa, riscontrandosi reciprocamente.

 

Le valutazioni del primo consulente tecnico sono, infatti, confermate in concreto dal falegname FALASCA Giovanni Battista, D. “complessivamente tra lavorazione e montaggio quanto tempo avete impiegato?”; FALASCA: “guardi, per realizzarlo in falegnameria e portarlo lì una settimana, per montarlo, tutto, forse cinque, sei giorni“, (pg. 80), tempo cui va sommato quello impiegato per la realizzazione della tettoia. D’altra parte, come rilevato dal consulente, quel che aveva richiesto tempo era non già il riempimento della nicchia della cucina quanto piuttosto le rifiniture della diciotto ante intarsiate che la chiudevano: osservazione che risulta del tutto congrua e coerente rispetto alle indicazioni del falegname che materialmente lavorò il legno.

 

Il falegname LEUCI, dichiaratosi soggetto che aveva sottoscritto il documento d’acquisto del legno, ha fatto altresì riferimento a valori della materia prima di gran lunga superiori a quello fatti propri dallo stesso consulente del pubblico ministero, laddove resta documentato e certo il solo prezzo d’acquisto della tettoia parasole (euro 512,40). In ogni caso tutto il materiale era frutto di acquisto esterno non essendo stato impiegato nella realizzazione alcuno scarto di falegnameria.

 

Per di più è emersa un’incongruenza tra le dichiarazioni del dott. GIFUNI e quelle del suo consulente per ciò che concerne la tettoia esterna : atteso che se il ricorso alle maestranze della falegnameria interna fu determinato da ragioni di urgenza insite nel rischio di crollo per fatiscenza della precedente struttura esterna (“travi che cadevano….”, pg. 28 esame GIFUNI), è chiaro che la stessa doveva essere fatta oggetto di rifacimento totale, non potendo riutilizzarsi materiali o parti di materiale, compresi i basamenti, divenuti persino pericolosi per la privata incolumità, ciò che certo ha inciso sui tempi di esecuzione.

 

Il valore economico della prestazione deve quindi stimarsi in una cifra non inferiore ad euro 4.800,00, equivalente al costo delle materie prime, della manodopera che ha realizzato e montato le opere in legno, del loro trasporto.

 

Nessuno dei pur molti argomenti sottoposti al Tribunale al fine di dimostrare la liceità della condotta ovvero la sua non contrarietà a norme penalmente sanzionate o, comunque, uno stato di buona fede è parso convincente.

 

Non quello dell’indifferibilità dell’opera e, quasi, di uno stato di necessità personale che la impose, non essendo stato in alcun modo provato che le condizioni della tettoia fossero effettivamente tali da creare pericolo alle persone, al di là della vetustà e fatiscenza che ne consigliò il rifacimento: gli unici soggetti che avrebbero potuto confermarlo, ammesso che ciò possa rappresentare un’esimente (fatto sul quale si tornerà), ossia i falegnami che ebbero l’incarico di effettuare l’intervento, non ne hanno fatto alcun cenno, né sono stati sollecitati sul punto a conferma dalla difesa.

 

Se neppure l’esigenza abitativa consente l’applicazione dell’esimente dello stato di necessità sulla base della constatazione che è di regola evitabile il pericolo di restare senza abitazione sussistendo la concreta possibilità di soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di mercato e dello Stato sociale e del bilanciamento tra fatto commesso e pericolo che l’agente intende evitare, non scriminando pertanto né i reati urbanistici né quello di violazione di sigilli (da ultimo, Sez. III, n. 10934 de 22/1/2013 – 8/3/2013), ancor meno è sostenibile tale esimente, per di più invocata in reati in danno della pubblica amministrazione, nell’ipotesi di rifacimento di una tettoia esterna all’abitazione.

 

Neppure risulta fonte di irresponsabilità il sollecito al pagamento asseritamente loro rivolto dal GIFUNI che, ancor prima, non è stato affatto dimostrato: nessuno dei falegnami ha riferito di avere avuto contatti con lui, né mai ha dichiarato di averlo visto in tali occasioni (cfr. pg. 72 esame DI VINCENZO, “quando sono andato io nell’abitazione non c’era nessuno… i padroni di casa non c’erano”; pg. 101 LEUCI, “non era abitata … era vuota la casa”).

 

Del tutto illogico poi che essi abbiano potuto sostenere che il materiale impiegato era uno scarto di falegnameria perché, al di là del non trascurabile valore commerciale attribuito al legname da entrambi i consulenti, qui sono state offerte affermazioni esattamente contrarie da LEUCI e FALASCA, che hanno dichiarato che la falegnameria si era rivolta per le materie prime ai soliti fornitori esterni della Tenuta. E’ quindi certo che fosse frutto di un acquisto recente, parte documentato da fattura, e ciò era ben noto alle maestranze (cfr. esame LEUCI, “paga l’Amministrazione….”), sì che non si comprende il tenore delle risposte date, asseritamente ricevute dai falegnami.

 

Anche ammesso (e non provato) che si potesse trattare di materiale di proprietà della Tenuta, non si intende comunque perché ciò potesse indurre una condizione di buona fede: trattandosi in ogni caso di materiali acquistati a spese del pubblico patrimonio, comunque riutilizzabili diversamente se non fossero stati impiegati nell’abitazione del consigliere GIFUNI.

 

Pare anzi assai strano che egli si sia occupato dei lavori, tanto che l’addetto alla sicurezza PARIS ha riferito che essendo il GIFUNI assai impegnato nel passaggio delle consegne alla fine del suo mandato (nel maggio/giugno 2006) era poco presente in casa e lui stesso seguiva i lavori entro l’abitazione.

 

E’ altresì incomprensibile che avendo ancora a disposizione l’alloggio di servizio al Quirinale, abbia potuto recarsi presso la futura abitazione mentre fervevano i lavori di sistemazione ed occuparsi di piccole faccende quali la chiusura di una nicchia in cucina, ad onta della frenesia del momento cui egli si è costantemente appellato.

 

Sotto il profilo logico se fosse poi vero quanto sostenuto dal consulente tecnico della difesa ing. SANTI su una permanenza dei falegnami non superiore a tre giorni, diventa ancora più improbabile il contatto diretto dell’imputato con gli esecutori delle opere.

 

Ad ogni buon conto per regolare la questione economica non era certo ai dipendenti della Tenuta che il GIFUNI doveva rivolgersi, sapendo che i falegnami erano stati inviati sul posto dal TRIPODI, come ammesso, e che certo non poteva pensare avessero anticipato alcunché ovvero potessero disporre di autonomia tale da poter ricevere da lui denaro, tanto più avendo lavorato in orario di servizio su indicazione del capo - Servizio.

 

Sono state altresì addotte ragioni di sicurezza personale che sconsigliavano il ricorso a soggetti non di fiducia per attività da svolgere presso la sua privata abitazione.

 

Preoccupazioni per la sicurezza personale del consigliere GIFUNI erano emerse, infatti, nel 2004 in occasione di un’indagine a carico delle Brigate Rosse, che aveva portato al sequestro di documenti archiviati in un computer risalenti all’anno 1996 (epoca del Governo PRODI della cui componente ministeriale il GIFUNI aveva fatto parte) che comprendevano anche il suo nome (cfr. doc. 21 della produzione difensiva; esame D’AMBROSIO).

 

Questo aveva determinato un rafforzamento della scorta e un innalzamento del livello di attenzione anche per l’alto valore simbolico del ruolo rivestito (ossia di primo e più vicino collaboratore del Presidente della Repubblica). Ad ogni buon conto era già sottoposto a scorta (due persone più la tutela a bordo) a partire dal 1995 e sino al 2010, quando venne declassata a tutela (teste DI GIANNANTONIO)

 

L’argomento pur non discutibile nella sua veridicità non vale, tuttavia, ad introdurre un’esimente ovvero a delineare la buona fede dell’imputato, sotto vari profili.

 

In primo luogo, egli non aveva alcuna urgenza o ragione di imminenza per rientrare nella sua abitazione, atteso che non era stato in alcun modo reclamato il suo alloggio, per di più essendo stato appena nominato Segretario Generale Onorario (Decreto Presidenziale a firma CIAMPI dd. 11.5.2006, doc. 19 della produzione difensiva) con il ruolo di consigliere permanente del Presidente della Repubblica; né sono apprezzabili in sé ragioni di sicurezza, diversamente dovendosi sostenere la paradossale asserzione che tutti i lavori entro la sua abitazione avrebbero dovuto essere eseguiti da maestranze della Tenuta o del Quirinale.

 

Ben avrebbe potuto programmarli per tempo, avendo deciso di collocarsi a riposo per motivi di età, non avendo alcuna ragione valida per attendere la scadenza del suo mandato; inoltre il livello di allarme per la sua persona non era salito né si era modificato in quel periodo risalendo i fatti che avevano indotto la creazione di una scorta a suo favore a molti anni prima.

 

La miglior riprova a quanto detto è stata fornita proprio dal dott. GIFUNI laddove ha dichiarato che l’appartamento era stato appena sottoposto a radicali lavori di restauro, costati 60/70.000,00 euro, evidentemente non messi in opera dalla maestranze della Tenuta ma da artigiani del libero mercato.

 

Non si comprende dunque come abbia potuto fiduciosamente affidarsi a terzi per opere così consistenti senza preoccuparsi delle sue esigenze di sicurezza personale e sia stato, invece costretto a ricorrere alla manodopera interna per quei modesti lavori di falegnameria che erano residuati.

 

Assai più verosimile che l’offerta di aiuto del TRIPODI appariva comoda da accettare, scevra da questioni organizzative e priva di qualsiasi necessità di contrattazione e persino di controllo in fase esecutiva se non estremamente conveniente (quand’anche si reputa che il profilo economico non fu certo il motivo prevalente che lo spinse ad accettare la proposta).

 

Non si tratta, quindi, di “sporcare l’… abito per avere assegnato un alloggio in piena legittimità e per avere usufruito per motivi di sicurezza, di necessità e di urgenza di un paio di falegnami per quattro assi e quattro tavole….”, come da lui sostenuto (pg. 38 esame), ma di una condotta connotata da assoluta leggerezza e disinvoltura verso i beni dell’Amministrazione che pur per molti anni aveva onorevolmente rappresentato.

 

E’ stato da ultimo sostenuta sotto il profilo propriamente tecnico l’assenza di qualsiasi offensività della condotta sulla base dell’argomento della necessità, sottostante le norme penali, di un tangibile, concreto, e apprezzabile pregiudizio per l’Amministrazione e della natura plurioffensiva del reato di peculato, che tutela tanto l’interesse al buon andamento della P.A. tanto l’interesse all’integrità patrimoniale dell’Ente: questo perché l’applicazione della sanzione trova giustificazione nell’ordinamento solo quando la rigorosa afflizione stabilita della legge sia proporzionata al fatto commesso nella prospettiva di emenda del soggetto. .

 

Effettivamente, come già ritenuto dal Tribunale ed argomentato in ordine al capo sub i), la sussistenza del delitto di peculato va esclusa laddove vi sia stato un uso momentaneo della cosa che non abbia leso in modo apprezzabile gli interessi tutelati dalla norma incriminatrice, come accade nelle situazioni indicate di uso saltuario, occasionale o modestissimo, di casi eccezionali, di un non abituale e ragionevole uso della cosa pubblica (oltre alla sentenze sopra citate in tema di utilizzo dei veicoli di servizio, cfr. Sez. VI, n. 5010 del 18/1/2012, Rv. 251785 che ha escluso il peculato d’uso per la mancanza di un danno apprezzabile, in caso di saltuario utilizzo del telefono e della fotocopiatrice dell’ufficio per ragioni private; Sez. VI, n. 25273 del 9/5/2006, Rv. 234838, che ha ritenuto l’insussistenza del reato con riguardo a beni di tale modesto valore da non arrecare alcuna lesione patrimoniale alla pubblica amministrazione, nel caso per l’indebito uso del telefono d’ufficio).

 

Da ultimo le Sezioni Unite hanno ritenuto la sussistenza del peculato d’uso del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali e al di fuori di specifiche e legittime autorizzazioni o di ragioni d’urgenza laddove venga prodotto un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi o, comunque, una concreta lesione alla funzionalità d’ufficio mentre risulta penalmente irrilevante la condotta che non presenta conseguenze economicamente o funzionalmente significative (cfr. n. 19054 del 20/12/2012, Rv. 255296).

 

E’stato, inoltre, precisato che il valore economico va individuato verificando i tempi e le modalità della pluralità delle condotte, sì da pervenire ad un apprezzamento complessivo quando realizzino un’unitaria e contestuale condotta di sottrazione, al contrario apprezzando il costo singolo per l’Amministrazione, sottostante le condotte quando devono essere valutate in autonomia.

 

Se questi assunti vengono certamente condivisi dal Collegio, non resta che la conclusione che l’uscita definitiva dal patrimonio dell’Amministrazione dell’equivalente del valore di euro 2.200,00 per il materiale, oltre ai costi di realizzazione del mobilio, legati ai tempi materiali di fabbricazione dello stesso con sottrazione delle energie ad ulteriori incombenze d’ufficio, e della tettoia (per un equivalente di quasi 5.000,00 euro), con successiva appropriazione da parte del beneficiario, non può certo reputarsi un danno patrimonialmente non apprezzabile ovvero economicamente insignificante ed inoffensivo, quand’anche, infine, meritevole dell’attenuante speciale prevista per tale fattispecie (che qui si riconoscerà).

 

Prova pratica ne sia che la casistica sopra esaminata se ne è occupata solo con riguardo a beni dell’amministrazione di scarsissimo pregio, quali il consumo di carta usata per fotocopie, il consumo di elettricità equivalente, l’uso di fax, le telefonate dall’apparecchio in dotazione per ragioni di ufficio.

 

Sussistono dunque tutti gli elementi integrativi di fattispecie: atteso che mediante la distrazione della cosa mobile (i materiali impiegati) vi è stata sottrazione alla loro destinazione pubblica (e, ancor prima, del denaro che ne ha consentito l’acquisizione al patrimonio pubblico) con avvio al definitivo soddisfacimento di interessi privati propri del GIFUNI, così attuando quella conversione della cosa a profitto proprio che rappresenta l’in sé del reato: in ciò si riassume l’utilizzo di beni appartenenti ad un’articolazione di un Ente pubblico al fine di usarli quali arredi di una privata abitazione.

 

La circostanza, pur documentata, della cessazione dalla carica di pubblico ufficiale, avendo egli lasciato l’incarico da due settimane al tempo di esecuzione dei lavori, nulla immuta a tale conclusione, quand’anche la vicenda si voglia rappresentare, come da lui sostenuto, quale accettazione di un aiuto che al GIFUNI era stato offerto dal TRIPODI, senza alcuna sollecitazione ovvero altra sua condotta attiva di istigazione o di sia pur semplice richiesta..

 

Sotto tal profilo se è vero che egli di fatto ancora si trovava presso il Quirinale per il passaggio delle cariche, senza soluzione di continuità, tanto più essendo stato nominato Segretario Generale onorario, l’attribuzione formale della qualità di extraneus rispetto alla condotta propria e tipica del pubblico ufficiale TRIPODI non modifica in nulla le conclusioni.

 

Sussistono, infatti, tutte le caratteristiche del concorso di persone nel reato con l’intraneo : avendo egli piena consapevolezza in tempo precedente l’intervento dell’identità di coloro che eseguivano i lavori e della provenienza del materiale, avendolo lui stesso genuinamente riconosciuto, sapendo quindi che si trattava di dipendenti della Tenuta e di beni del suo compendio.

 

Non vi può essere quindi alcuna pretesa buona fede nel ricevimento della graziosa offerta che sarebbe giunta dal TRIPODI atteso che, quand’anche non abbia sollecitato l’intervento o l’offerta di aiuto, l’ha ricevuto nella perfetta consapevolezza della provenienza del materiale e degli artigiani, anzi autorizzati a lavorare presso la propria abitazione proprio perché si trattava dei falegnami della Tenuta: sarebbe diversamente contraddittoria la sua difesa laddove si è richiamata alle esigenze di sicurezza personale che sconsigliavano il ricorso ad altri sconosciuti artigiani.

 

In altri termini, il servizio, quand’anche lui sollecitato dal TRIPODI per intuibili ragioni di solidarietà familiare, é stato accettato esclusivamente perché prestato a mezzo della manovalanza della Tenuta (e non già di quella ricercata all’esterno dal TRIPODI stesso) e con l’impiego di materiale che, non essendo stato da lui acquistato, fatto acquistare o messo a disposizione, non poteva che provenire dalla falegnameria di CASTELPORZIANO, come peraltro da lui lealmente ammesso.

 

Del tutto fuori luogo appare, quindi, al di là dell’assenza di qualsiasi prova sul punto, il tentativo da lui dichiarato di assolvere il pagamento del materiale direttamente nelle mani degli operai della Tenuta : che non si vede a quale titolo avrebbero potuto accettarlo ovvero anche valutare il prezzo di beni e materiali acquistati dall’Amministrazione (e non già da loro stessi).

 

In definitiva pienamente integrato risulta il delitto contestato a suo carico laddove il dolo è insito nella coscienza e volontarietà del fatto appropriativo del bene pubblico, violando il titolo del possesso, qui mediato attraverso il familiare, e distraendo i beni dalla loro finalità pubblicistica ad un fine personale, definitivamente consolidatosi.

 

Nessuna questione si pone invece per ciò che concerne il concorrente TRIPODI: titolare della qualifica soggettiva presupposta, soggetto che incaricò direttamente i falegnami presso la Tenuta dell’acquisto del materiale, della realizzazione del mobilio e del montaggio e che comunicò loro “paga l’Amministrazione” (cfr. LEUCI), in linea con quell’atteggiamento di assoluta padronanza di essa e di quanto la componeva che é stata qui più volte rimarcata.

 

Nella sua condotta sono compresi tutti gli elementi costitutivi del reato, quanto all’apporto psicologico risultando pressoché implicita nello sviluppo dell’azione la piena intesa dell’appropriazione a profitto di altri di beni pubblici.

 

Si pronuncerà quindi condanna di entrambi.

 

13. Gli interventi presso l’appartamento di GIFUNI Gaetano. Il reato contestato al capo o)

L’utilizzo del materiale acquistato dalla Tenuta fu prodromico, come si è visto, alla sua lavorazione e al montaggio da parte dei falegnami DI VINCENZO, LEUCI, FALASCA Giovanni Battista e FALASCA Giulio, il cui impiego per mansioni non comprese nei doveri d’ufficio avvenne in violazione delle norme di legge (artt. 52 e 53 dec. l.go 30.3.2001, n. 165) e del Regolamento sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale di ruolo del Segretario Generale presso la Presidenza della Repubblica (artt. 13 e 19 D.P.R. 18.6.1985, n. 174).

 

L’incarico contra legem, come anticipato, venne loro dato direttamente dal dott. TRIPODI.

 

Si rinvia al capo h) per tutte le considerazioni in diritto che fanno ricondurre l’utilizzo abusivo di energie umane o muscolari, inscindibili dalla persona e insuscettibili di vera appropriazione, nel paradigma astratto del delitto di cui all’art. 323 c.p.

 

Quanto alle responsabilità personali, ammesso che si possa parlare del GIFUNI in termini di extraneus a fronte dell’esercizio di funzioni di fatto al tempo, la sua partecipazione al delitto consumato dal TRIPODI, che certo al tempo ancora possedeva la qualifica, il contesto fattuale, i rapporti personali tra i due, le conoscenze possedute dal GIFUNI il quale ha ammesso di avere accettato l’offerta dell’affine allo scopo di sistemare la propria abitazione con le maestranze del Quirinale (come anticipato, costituenti condizione di sicurezza del medesimo) integrano pienamente l’elemento soggettivo del delitto di abuso d’ufficio, la collusione e l’intesa tra i due essendo platealmente provata e, in ogni caso, ammessa dallo stesso imputato.

 

Proprio gli arresti giurisprudenziali indicati dalla difesa avvalorano il dato giuridico esposto, nella fattispecie essendo intervenuto non già un atto illegittimo che il privato non ha in alcun modo sollecitato o richiesto al pubblico funzionario, ma la piena intesa su tutti gli elementi fattuali integranti il reato, a nulla rilevando il previo invito o l’offerta di intervento della manovalanza da parte del TRIPODI in quanto accompagnata dall’accordo con il pubblico ufficiale, consapevolmente accolta e sfruttata dal privato che ne ha tratto diretto, ingiusto vantaggio patrimoniale (cfr.. Sez, VI, n. 40499 del 21/5/2009, Rv. 245010; sulla superfluità dell’accertamento dell’accordo collusivo tra p.u. e privato che si intende favorire atteso che intenzionalità del vantaggio non significa necessariamente volontà di favorire specificamente la persona interessata alla singola vicenda amministrativa, bastando anche una decisione che sia comunque favorevole, Sez, VI, n. 38133 del 25/8/2011, Rv. 251088; altresì Sez, VI, n. 21192 del 25/1/2013, Rv. 255368).

 

Basti la semplice considerazione che laddove il cons. GIFUNI non avesse inteso approfittare della cosa pubblica avrebbe denegato l’aiuto o declinato la proposta del dott. TRIPODI, non avendo alcuna necessità od urgenza di completare la nicchia delle cucina e ben potendo acquistare un tavolo o delle mensole già pronte e in libera vendita.

 

La prova del dolo intenzionale che qualifica la fattispecie dell’abuso non richiede particolari dimostrazioni al fine di accertare che la volontà del TRIPODI era orientata a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al GIFUNI, non potendosi attribuire altro significato alla destinazione di personale della Tenuta all’esecuzione di opere che venivano quindi completate e donate al familiare presso la di lui privata abitazione; così come, all’opposto e reciprocamente, per il GIFUNI dell’intenzione di procurarsi un vantaggio che non gli competeva.

 

Anche per detto reato si pronuncerà, quindi, condanna di entrambi.

 

14. Il trattamento sanzionatorio.

Quanto alla pena si ritengono concedibili a favore del solo Gaetano GIFUNI le circostanze attenuanti generiche: l’incensuratezza associata al buon contegno processuale, avendo egli offerto, suo malgrado, una serie di motivazioni al Tribunale più volte intervenendo nel processo, la non più giovane età, la non particolare gravità del fatto, paiono argomenti bastevoli.

 

Verrà altresì lui concessa la circostanza attenuante speciale di cui all’art. 323 – bis c.p. di contenuto più ampio ed esteso rispetto a quella prevista dall’art. 62, n. 4 c.p., investendo il reato nella sua globalità e non già solo l’aspetto del danno o del lucro, connotati da particolare tenuità: a favore della prima depongono quindi la valutazione di ogni caratteristica della condotta, dell’atteggiamento soggettivo dell’agente e dell’vento determinato, compresi i motivi del delinquere, sì da non poter essere concessa (ovvero negata) esclusivamente in base alla sola scarsa entità delle conseguenze patrimoniali dell’azione (Sez, VI, n. 7919 del 22/5/2012, Rv. 252432; Sez, VI, n. 1898 del 29/9/2004, Rv. 231444; Sez, VI, n. 26998 del 8/5/2013, Rv. 225715).

 

La complessiva valutazione dei profili oggettivo e soggettivo, del danno patrimoniale arrecato, di non elevato valore quand’anche niente affatto irrilevante, in unione alle giustificazioni rese, consentono di concludere in termini di positiva sussistenza dell’attenuante della particolare tenuità.

 

Si valutano invece non concedibili le circostanze attenuanti generiche a TRIPODI Luigi: la reiterazione e non occasionalità della condotta illecita, protratta per anni, la sua gravità avendo egli inteso gestire la Tenuta di CASTELPORZIANO quale bene personale, utilizzandone ad libitum e in via sistematica persone, mezzi e cose ed altresì le sue risorse di denaro (perlomeno nei termini minimali da lui stesso riconosciuti), l’assoluto disprezzo per le finalità di pubblico interesse che doveva garantire e che ha provatamente violato nel settore delle risorse umane, delle destinazioni dei beni, del criterio di scelta del contraente pubblico e delle procedure di gestione dell’affidamento dei lavori con ripetute, estese violazioni di norme statali e regolamentari, in ogni caso piegate al proprio privato interesse, solo talvolta casualmente coincidente con quello pubblico, lo spregio del vincolo paesistico e della disciplina del territorio inducono un giudizio del tutto sfavorevole in ordine alla sua capacità a delinquere e pericolosità specifica e all’obiettivo, assoluto disvalore della condotta (vds. sulla sufficienza del presupposto di precedenti penali, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche, ovvero persino dei precedenti dattiloscopici, cfr. Sez. VI, n. 22274 del 29/3/2012, Rv. 252783; Sez. II, n. 22661 del 19/5/2010, Rv. 247432; Sez. V, n. 12525 del 28/6/2000, Rv. 217459; sull’analogo rilievo negativo della gravità del fatto o dell’intensità del dolo, cfr. Sez. V, n. 19639 del 8/4/2011, Rv. 250110; o di un solo elemento sfavorevole, attinente la personalità del colpevole o l’entità o le modalità di esecuzione del reato, cfr., tra le ultime, Sez. II, n. 3609 del 18/1/2011, Rv. 249163; Sez. VI, n. 7707 del 4/12/2003, Rv. 229768).

 

Quale ulteriore elemento qualificante di riprovevolezza, a tal specifico fine, oltre ai molti fatti già illustrati, si riprendono le parole di DI PIETRO Paolo, il quale l’aveva sollecitato ad intestarsi le utenze elettriche ed idriche della villa della SANTOLA, evidentemente pagate per lungo tempo dal patrimonio pubblico (“io so che pagavamo alcune cose: gli impianti, l’irrigazione …alcune cose andavano …. mi sono occupato di sollecitarlo ad addebitarsi, a intestarsi l’utenza elettrica perché giustamente sfrutta un immobile, è bene che paghi come tutti gli altri dipendenti la corrente e che non gliela paghi l’Amministrazione. Alla fine sono riuscito a fargli fare il contratto all’ACEA e quindi attualmente dovrebbe avere intestata l’utenza ACEA di quel casale che c’ha vissuto fino a poco tempo fa”, pg. 31 interrogatorio dd. 2.12.2009)

 

In definitiva l’animus che risulta averlo costantemente ispirato, così come emerso dalle acquisizioni processuali, è consistito in un esteso e generalizzato sfruttamento della risorsa pubblica per ragioni personali di carattere privato, nel disprezzo e nell’indifferenza per la sua tutela, pur trattandosi del funzionario che, più degli altri, quale capo del Servizio di riferimento, rivestiva il ruolo di garante della sua integrità.

 

Né è stata rappresentata dalle parti ragione di sorta che lo renda meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche; difettano altresì in atti elementi diversi della condotta valutabili a suo favore, tali da farlo ritenere meritevole di quella particolare indulgenza e dell’adeguamento sanzionatorio in senso lui più favorevole, fondante il giudizio di concedibilità delle circostanze attenuanti generiche: non essendovi neppure un obbligo per il Giudice di giustificare, sotto ogni possibile effetto, l’affermata insussistenza dei presupposti del diritto alla concessione, e piuttosto, imponendosi la necessità di motivare la positiva meritevolezza, mai scontata in sé né presunta (cfr. espressamente sul punto, da ultimo, sulla base di un indirizzo del tutto consolidato, Sez. 5, n. 7562 del 17/1/2013, rv. 254716; Sez. 3, n. 19639 del 27/1/2012, rv. 252900; Sez. 2, n. 38383 del 10/7/2009, rv. 245241; Sez. 2, n. 2769 del 2/12/2008, rv. 242709; per la normativa restrizione dei criteri di concedibilità di tali attenuanti e, in particolare, per l’insufficienza del criterio della mera incensuratezza, cfr. art. 1 comma 1 lett. f-bis D.L. 23.05.2008, n. 92, come modificato dalla legge di conversione 24.07.2008, n. 125).

 

Avuto riguardo ai criteri offerti dall’art. 133 c.p., pena equa per TRIPODI Luigi, ritenuta l’unitarietà del disegno criminoso che l’ha ispirato a fronte dell’omogeneità delle violazioni, in ogni caso consistite nella distrazione dalla naturale destinazione pubblicistica di persone, beni e mezzi, é dunque quella di anni 4 mesi 6 di reclusione (pena base per il capo sub i) in concreto più grave, anni 3 di reclusione, pari ai minimi edittali; aumentata per la continuazione interna di mesi 2, per il capo h) – escluso h – d) di anni 1; per i capi n) ed o) di mesi 2 ciascuno = anni 4 mesi 6 di reclusione; per GIFUNI Gaetano quella di anni 1 mesi 5 di reclusione (pena base, ritenuta la medesimezza della progettazione delittuosa trattandosi di una condotta sostanzialmente unitaria, per il capo n), in concreto più grave, anni 3 di reclusione, ridotta ai sensi dell’art. 62 – bis c.p. ad anni 2 e ai sensi dell’art. 323 – bis c.p. ad anni 1 mesi 4; aumentata ex art. 81 cpv. c.p. per il capo o) di mesi 1 = anni 1 mesi 5 di reclusione).

 

Alla condanna consegue il necessario pagamento delle spese processuali nonché l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, perpetua per TRIPODI Luigi in virtù della norma speciale posta dall’art. 317 – bis c.p.; temporanea e da quantificarsi nella stessa misura della pena principale indicata in concreto per il titolo che la fonda (art. 314 c.p.) per GIFUNI Gaetano, ai sensi degli artt. 37 e 317 – bis u.p. c.p. (anni 1 mesi 4).

 

L’assenza di qualsiasi precedente penale induce ancora un giudizio prognostico favorevole nei confronti di GIFUNI Gaetano e, dunque, autorizza la concessione dei benefici di legge della sospensione condizionale della stessa e della non menzione della condanna, mentre l’entità della sanzione osta in sé alla concessione di qualsiasi beneficio a TRIPODI Luigi.

 

Dovrà, infine, darsi corso al dissequestro e alla restituzione di quanto coattivamente appreso al processo essendo definitivamente cessate le esigenze probatorie che l’avevano consentito.

 

La speciale complessità delle questioni in fatto e in diritto poste dal processo, anche per la loro novità e assenza di precedenti, autorizza e giustifica il deposito delle motivazioni della sentenza nel termine di giorni novanta, ai sensi dell’art. 544 3° comma cod. proc. pen., successivamente prorogato dal Presidente del Tribunale di giorni sessanta ai sensi dell’art. 154 comma 4 - bis disp. att. c.p.p.

 

P.Q.M.

Visti ed applicati gli artt. 533 e 535 c.p.p.

d i c h i a r a

TRIPODI Luigi colpevole dei delitti lui ascritti al capo H), fatta eccezione per il capo H) – d), nonché dei capi I, N) ed O) di rubrica e, ritenuta la continuazione tra tutti i reati, per l’effetto lo

c o n d a n n a

alla pena di anni 4 mesi 6 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;

GIFUNI Gaetano colpevole dei delitti lui ascritti ai capi N) ed O) di rubrica e, concesse le circostanze attenuanti generiche nonché la circostanza attenuante di cui all’art. 323 – bis c.p., ritenuta la continuazione tra i reati, per l’effetto lo

c o n d a n n a

alla pena di anni 1 mesi 5 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

 

Letto l’art. 317 – bis c.p.

a p p l i c a

a TRIPODI Luigi la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a GIFUNI Gaetano la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni 1 mesi 4.

 

Letti gli artt. 163 e 175 c.p.

c o n c e d e

a GIFUNI Gaetano i benefici della sospensione condizionale della pena alle condizioni di legge e della non menzione della condanna.

 

Letto l’art. 531 c.p.p.

d i c h i a r a

non doversi procedere nei confronti di TRIPODI Luigi, CALZOLARI Giorgio e DEMICHELIS Alessandro in ordine ai reati loro ascritti al capo C) per essersi i medesimi estinti per intervenuta prescrizione; TRIPODI Luigi e DEMICHELIS Alessandro in ordine ai delitti loro rispettivamente ascritti ai capi D) ed F), in esso assorbito il capo E), per essersi i medesimi estinti per intervenuta prescrizione

 

Letto l’art. 530 c.p.p.

a s s o l v e

TRIPODI Luigi, DEMICHELIS Alessandro, DI PIETRO Paolo dai delitti contestati sub A) e B) per non avere commesso il fatto; CALZOLARI Giorgio dal delitto di cui al capo F), in esso assorbito il capo E), per non avere commesso il fatto; TRIPODI Luigi dai delitti lui ascritti ai capi G) ed H) limitatamente al punto d), perché il fatto non sussiste; GIFUNI Gaetano e TRIPODI Luigi dal delitto di cui al capo L) perché il fatto non sussiste; GIFUNI Gaetano dal delitto di cui al capo M) perché il fatto non costituisce reato; TRIPODI Luigi dal medesimo delitto per non avere commesso il fatto.

 

Letto l’art. 263 c.p.p.

o r d i n a

il dissequestro e la restituzione alla parte cui è stata sequestrata della documentazione e di quant’altro appreso.

Letto l’ art. 544 3° comma c.p.p.

a s s e g n a

termine di giorni 90 per la redazione della sentenza.

Così deciso in Roma, il 23 aprile 2013

Il Presidente Est.

(dott.ssa Paola Roja)

Depositata in Cancelleria oggi ______________________