Cass. Sez. III n. 31160 del 24 luglio 2008 (Ud 12 giu 2008)
Pres. De Maio Est. Lombardi Ric. Rizzi
Rifiuti. Classificazione
L\'originaria natura dei rifiuti, che ne avrebbe consentito la classificazione in base ad un determinato codice CER non può essere considerato un dato di fatto destinato a permanere indefinitamente nel tempo, risultando evidente che, a seguito della esposizione ad agenti fortemente inquinanti protrattasi per un sufficiente periodo di tempo (nel caso in esame per vari decenni), il rifiuto perde le caratteristiche originarie, dovendo essere qualificato, quale materiale destinato ad essere bonificato, in quanto proveniente da sito inquinato da sottoporre a bonifica.
Pres. De Maio Est. Lombardi Ric. Rizzi
Rifiuti. Classificazione
L\'originaria natura dei rifiuti, che ne avrebbe consentito la classificazione in base ad un determinato codice CER non può essere considerato un dato di fatto destinato a permanere indefinitamente nel tempo, risultando evidente che, a seguito della esposizione ad agenti fortemente inquinanti protrattasi per un sufficiente periodo di tempo (nel caso in esame per vari decenni), il rifiuto perde le caratteristiche originarie, dovendo essere qualificato, quale materiale destinato ad essere bonificato, in quanto proveniente da sito inquinato da sottoporre a bonifica.
Con la sentenza impugnata il Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, ha affermato la colpevolezza di Rizzi Stefano in ordine al reato di cui agli art. 110 c.p. e 51, comma primo lett. a), del D.Lgs n. 22/97, a lui ascritto per avere effettuato, quale legale rappresentante della società denominata AMBIENTE S.r.l., un’attività di recupero, smaltimento e commercio di rifiuti provenienti dall’attività dì bonifica di una discarica abusiva (discarica di cortecce provenienti da ciclo produttivo dimesso da molti anni), posta all’interno di un sito inquinato nazionale oggetto delle procedure di cui al DM n. 471 del 1999, in mancanza della prescritta autorizzazione, avendo l’azienda effettuato l’attività di cui si tratta al di fuori della sfera di operatività dell’autorizzazione ottenuta ai sensi delle procedure semplificate di cui all’art. 33 del decreto legislativo citato.
In estrema sintesi il giudice di merito ha accertato in punto di finto che l’azienda di cui è rappresentante legale l’imputato era autorizzata al recupero di rifiuti mediante compostaggio per la produzione di ammendante destinato all’utilizzazione in agricoltura, in regime semplificato ai sensi dell’art. 31 del D.Lgs n. 22/97; che fornitrice dei predetti rifiuti, classificati con il codice CER 030301 (rifiuto legnoso costituito da segatura, trucioli, frammenti di legno, sughero, derivanti dall’attività di lavorazione del legno vergine), era la società chimica Caffaro S.p.A. di Torviscosa. Si rileva nella sentenza che rimpianto ubicato nel comune di Torviscosa costituisce uno dei principali poli industriali della chimica italiana, in cui avevano prima operato dagli anni trenta la SNIA Viscosa S.p.A., cui era subentrata la Chimica del Friuli S.p.A. e da ultimo la società Caffaro, aziende operanti in passato nel settore della produzione di paste chimiche di cellulosa per la cui lavorazione occorrevano ingenti quantitativi di tronchi d’albero. Di questi veniva utilizzata la polpa mentre il materiale residuo, precipuamente costituito da corteccia, era stato depositato per decenni in un’area dello stabilimento industriale che aveva raggiunto l’estensione di circa 20.000 mq per un quantitativo del rifiuto legnoso stimato in circa 40.000 tonnellate. Nel corso degli anni alla produzione della cellulosa, cessata nel 1992, si erano affiancate altre produzioni quale quella delle cloroparaffine e del cloro-soda, il cui procedimento produttivo richiede l’impiego di celle contenenti rilevanti quantitativi di mercurio. L’utilizzazione di detto metallo aveva provocato un vasto inquinamento da mercurio con maggiore concentrazione nell’area adiacente allo stabilimento di produzione del cloro-soda ed “a macchia di leopardo” nelle altre zone, secondo quanto era emerso dalle indagini effettuate dall’ARPA, che avevano determinato la perimetrazione del sito della Laguna di Grado e Marano, quale area inquinata di interesse nazionale. In base ad un contratto stipulato il 16 giugno 2003 la Ambiente S.r.l. si era impegnata con la Caffaro S.p.A. ad asportare e smaltire l’intero quantitativo di rifiuti legnosi presenti nell’area, recuperandoli mediante il procedimento di compostaggio.
Risultano inoltre rilevanti in punto di fatto le analisi fatte eseguire dal N.O.E. dei C.C. di Udine tramite l’ARPA sui residui legnosi provenienti dalla Caffaro S.p.A., nonché sul compost in corso di produzione e sull’ammendante già venduto alla società Terra del Paradiso S.r.l., dalle quali era emerso che nei residui legnosi e nell’ammendante la presenza di mercurio era inferiore al limite di legge, mentre era risultata superiore a detto limite nel compost in corso di produzione presso la società Ambiente. Altri accertamenti risultavano essere stati effettuati presso la Caffaro, previa suddivisione dell’area in cui erano depositati i residui di legno in lotti, dai quali era emerso che nella maggior parte dei lotti la concentrazione di mercurio era inferiore, pari o di poco superiore al limite di legge, mentre risultava superiore di varie volte nel lotto numero sei, più vicino all’impianto di produzione del cloro-soda.
Sulla base dei citati elementi di fatto il giudice di merito ha affermato che i rifiuti trattati dalla società Ambiente non potevano essere classificati con il citato codice CER 030301, ma dovevano essere qualificati quali rifiuti provenienti da operazioni di bonifica di terreni di cui al codice CER 191302, con la conseguente non operatività dell’autorizzazione ottenuta dalla Ambiente S.r.l. con procedura semplificata; che il fatto doveva essere ascritto al Rizzi a titolo di negligenza per non avere verificato se il rifiuto proveniente dalla Caffaro S.p.A. era stato classificato correttamente.
Avverso la sentenza ha proposto appello l’imputato e l’impugnazione è stata trasmessa a questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 568, ultimo comma, c.p.p..
Motivi della decisione
Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione del DM 5 febbraio 1998 e della L. n. 748/1994.
Si osserva che dalle analisi eseguite sui residui legnosi provenienti dalla Caffaro S.p.A. e da quelle sull’ammendante venduto dalla S.r.l. Ambiente era emerso che la presenza di mercurio non superava il valore limite di 1,5 mg/Kg stabilito dal decreto ministeriale citato.
Si deduce, quindi, che il primo dato in particolare contrasta con la qualifica di rifiuto attribuita dal giudice di merito ai residui legnosi forniti dalla Caffaro, mentre il secondo prova che l’ammendante prodotto dalla società Ambiente rispettava anche esso i parametri previsti dalla legge in materia; che nessuna delle disposizioni citate stabilisce, invece, che detti parametri debbano essere rispettati anche durante il procedimento di compostaggio dei rifiuti, nel corso del quale possono verificarsi particolari concentrazioni di determinati elementi a causa del procedimento chimico di trasformazione del rifiuto; che, peraltro, in materia contravvenzionale non è configurabile il tentativo del reato.
Con il secondo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia violazione di legge con riferimento alla decisione della Commissione 3 maggio 2000 n. 001532/CE e del DM. 9 aprile 2002.
Si deduce che il giudice di merito ha attribuito erroneamente al Rizzi la responsabilità per una non corretta classificazione dei rifiuti provenienti dalla Caffaro S.p.A., poiché ai sensi delle disposizioni citate la classificazione dei rifiuti compete esclusivamente al suo produttore, che se ne assume la relativa responsabilità; che, peraltro, il giudice di merito ha classificato erroneamente detti rifiuti con il codice CER 191302, poiché lo stesso si riferisce esclusivamente ai materiali provenienti dalla vera e propria attività di bonifica del sito ed in particolare dei terreni inquinati e non di quanto risulti depositato anche occasionalmente sul terreno; che a nulla rileva il fatto che detti materiali provenissero da “un sito inquinato di interesse nazionale”, poiché tale provenienza non è di per sé significativa al fine di attribuire una determinata qualificazione al rifiuto, che può risultare della più varia natura.
Con i successivi tre mezzi di annullamento il ricorrente denuncia la sentenza per contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla valutazione delle risultanze probatorie e ad altri vari profili.
Si deduce, in sintesi, che la sentenza impugnata ha affermato la colpevolezza dell’imputato in assenza di qualsiasi prova del fatto che la società Ambiente abbia fornito a terzi materiale non rispondente ai parametri di legge, in quanto gli accertamenti eseguiti presso la ditta Terra del Paradiso S.r.l. avevano attestato la conformità dell’ammendante a detti parametri; che il giudice di merito, al fine di affermare la colpevolezza dell’imputato, che deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio, ha qualificato come superficiale l’operato dell’ARPA, che aveva confermato, peraltro a seguito di specifiche analisi eseguite presso la Caffaro, la classificazione dei rifiuti provenienti da detta società con il codice CER 030301; che il giudice di merito ha escluso contraddittoriamente l’affidamento incolpevole dell’imputato, pur avendo dato atto che la classificazione del rifiuto era stata effettuata da un soggetto qualificato come l’azienda Caffaro e che detta classificazione è stata condivisa dai tecnici dell’ARPA, come accertato mediante la deposizione del rappresentante dell’Azienda, che ha dichiarato di condividere tuttora il codice CER attribuito alle cortecce.
Con l’ultimo motivo di gravame si denuncia, infine, la violazione degli art. 62 bis e 133 c.p..
Si deduce che il diniego delle attenuanti generiche è del tutto carente di motivazione, considerate le circostanze di fatto sopra riportate e che la determinazione della pena risulta effettuata in termini particolarmente rigorosi, superiore a quella applicata al coimputato, allora responsabile della Caffaro, chiamato a rispondere anche di altri reati, al fine di escludere l’applicabilità dell’indulto in favore del Rizzi, in assenza di un’adeguata motivazione al riguardo.
Il ricorso non è fondato.
Osserva la Corte che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente con i vari motivi di gravame afferenti all’affèrmazione di colpevolezza, la sentenza impugnata non ha ritenuto l’imputato responsabile della violazione ascrittagli quale conseguenza del fatto che il compost in corso di produzione presentava valori, con riferimento al mercurio, superiori al limite stabilito dal PM 5 febbraio 1998, ma per avere inferito da tale accertamento che i materiali pervenuti alla società Ambiente dalla Caffaro S.p.A. non rispettavano il citato parametro necessario per poter classificare detto materiale con il codice CER 030301, che ne consente il trattamento di trasformazione a seguito di autorizzazione ottenuta mediante la procedura semplificata di cui agli art. 31 e ss. del D. Lgs. n. 22/97.
La valutazione del giudice di merito sul punto, peraltro, risulta adeguatamente motivata mediante il riferimento ai risultati degli accertamenti tecnici disposti dal P.M., dai quali è emerso che il metallo inquinante di cui si tratta non è soggetto a degrado o modificazioni nel corso del procedimento di lavorazione del materiale che lo contiene, sicché dal citato dato tecnico si è desunto che la stessa percentuale di inquinamento doveva essere presente senza ombra di dubbio anche nel materiale fornito dalla Caffaro S.p.A..
Tale accertamento di fatto, peraltro, appare coerente con quello afferente alla natura (da mercurio) ed al grado dell’inquinamento dell’area in cui erano stati depositati per decenni i residui della lavorazione dei tronchi d’albero, che si presentava a “macchia di leopardo”, con la conseguenza che materiali provenienti da settori diversi della stessa area potevano risultare inquinati con superamento della soglia di tollerabilità prevista dalla disposizione citata.
Va ancora osservato sul punto che l’originaria natura dei rifiuti di cui si tratta, che ne avrebbero consentito la classificazione in base al codice CER 030301, non può essere considerato un dato di fatto destinato a permanere indefinitamente nel tempo, risultando evidente che, a seguito della esposizione ad agenti fortemente inquinanti protrattasi per un sufficiente periodo di tempo (nel caso in esame per vari decenni), il rifiuto perde le caratteristiche originarie, dovendo essere qualificato, così come ritenuto dal giudice di merito, quale materiale destinato ad essere bonificato, in quanto proveniente da sito inquinato da sottoporre a bonifica.
Anche in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, che si concreta anche nella mera negligenza, come ritenuto in sentenza, la valutazione del giudice di merito si palesa adeguatamente motivata ed immune da vizi logici.
Sul punto, infatti, la sentenza impugnata ha valorizzato la circostanza della notorietà del fatto che l’area dalla quale proveniva il materiale trattato dalla società Ambiente era costituita da un sito già dichiarato inquinato di interesse nazionale, soggetto alle procedure di bonifica di cui al DM n. 471 del 1999, e da tale circostanza ha desunto che l’imputato avrebbe dovuto, secondo la diligenza richiesta dalla particolare natura dell’attività espletata, o effettuare direttamente accertamenti in ordine alle caratteristiche del materiale fornito dalla Caffaro S.p.A. oppure chiedere a detta società i risultati delle analisi che supportavano la classificazione attribuita ai rifiuti legnosi conferiti.
Orbene, tale valutazione si palesa coerente con le risultanze fattuali accertate ed è peraltro conforme ai principi di diritto già affermati da questa Suprema Corte in materia (cfr. sez. III, 18 maggio 2000 n. 5715, Busisi ed altro, RV 217514).
E’, infine, infondato l’ultimo motivo di gravame.
In ordine alla quantificazione della pena, che peraltro è stata individuata in quella pecuniaria in ogni caso meno afflittiva di quella detentiva, alternativamente prevista dalla norma, la determinazione del giudice di merito risulta correttamente ancorata alla valutazione della gravità del fatto e della personalità dell’imputato, gravato da un precedente specifico, sicché anche la motivazione sul punto si sottrae al sindacato di legittimità.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In estrema sintesi il giudice di merito ha accertato in punto di finto che l’azienda di cui è rappresentante legale l’imputato era autorizzata al recupero di rifiuti mediante compostaggio per la produzione di ammendante destinato all’utilizzazione in agricoltura, in regime semplificato ai sensi dell’art. 31 del D.Lgs n. 22/97; che fornitrice dei predetti rifiuti, classificati con il codice CER 030301 (rifiuto legnoso costituito da segatura, trucioli, frammenti di legno, sughero, derivanti dall’attività di lavorazione del legno vergine), era la società chimica Caffaro S.p.A. di Torviscosa. Si rileva nella sentenza che rimpianto ubicato nel comune di Torviscosa costituisce uno dei principali poli industriali della chimica italiana, in cui avevano prima operato dagli anni trenta la SNIA Viscosa S.p.A., cui era subentrata la Chimica del Friuli S.p.A. e da ultimo la società Caffaro, aziende operanti in passato nel settore della produzione di paste chimiche di cellulosa per la cui lavorazione occorrevano ingenti quantitativi di tronchi d’albero. Di questi veniva utilizzata la polpa mentre il materiale residuo, precipuamente costituito da corteccia, era stato depositato per decenni in un’area dello stabilimento industriale che aveva raggiunto l’estensione di circa 20.000 mq per un quantitativo del rifiuto legnoso stimato in circa 40.000 tonnellate. Nel corso degli anni alla produzione della cellulosa, cessata nel 1992, si erano affiancate altre produzioni quale quella delle cloroparaffine e del cloro-soda, il cui procedimento produttivo richiede l’impiego di celle contenenti rilevanti quantitativi di mercurio. L’utilizzazione di detto metallo aveva provocato un vasto inquinamento da mercurio con maggiore concentrazione nell’area adiacente allo stabilimento di produzione del cloro-soda ed “a macchia di leopardo” nelle altre zone, secondo quanto era emerso dalle indagini effettuate dall’ARPA, che avevano determinato la perimetrazione del sito della Laguna di Grado e Marano, quale area inquinata di interesse nazionale. In base ad un contratto stipulato il 16 giugno 2003 la Ambiente S.r.l. si era impegnata con la Caffaro S.p.A. ad asportare e smaltire l’intero quantitativo di rifiuti legnosi presenti nell’area, recuperandoli mediante il procedimento di compostaggio.
Risultano inoltre rilevanti in punto di fatto le analisi fatte eseguire dal N.O.E. dei C.C. di Udine tramite l’ARPA sui residui legnosi provenienti dalla Caffaro S.p.A., nonché sul compost in corso di produzione e sull’ammendante già venduto alla società Terra del Paradiso S.r.l., dalle quali era emerso che nei residui legnosi e nell’ammendante la presenza di mercurio era inferiore al limite di legge, mentre era risultata superiore a detto limite nel compost in corso di produzione presso la società Ambiente. Altri accertamenti risultavano essere stati effettuati presso la Caffaro, previa suddivisione dell’area in cui erano depositati i residui di legno in lotti, dai quali era emerso che nella maggior parte dei lotti la concentrazione di mercurio era inferiore, pari o di poco superiore al limite di legge, mentre risultava superiore di varie volte nel lotto numero sei, più vicino all’impianto di produzione del cloro-soda.
Sulla base dei citati elementi di fatto il giudice di merito ha affermato che i rifiuti trattati dalla società Ambiente non potevano essere classificati con il citato codice CER 030301, ma dovevano essere qualificati quali rifiuti provenienti da operazioni di bonifica di terreni di cui al codice CER 191302, con la conseguente non operatività dell’autorizzazione ottenuta dalla Ambiente S.r.l. con procedura semplificata; che il fatto doveva essere ascritto al Rizzi a titolo di negligenza per non avere verificato se il rifiuto proveniente dalla Caffaro S.p.A. era stato classificato correttamente.
Avverso la sentenza ha proposto appello l’imputato e l’impugnazione è stata trasmessa a questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 568, ultimo comma, c.p.p..
Motivi della decisione
Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione del DM 5 febbraio 1998 e della L. n. 748/1994.
Si osserva che dalle analisi eseguite sui residui legnosi provenienti dalla Caffaro S.p.A. e da quelle sull’ammendante venduto dalla S.r.l. Ambiente era emerso che la presenza di mercurio non superava il valore limite di 1,5 mg/Kg stabilito dal decreto ministeriale citato.
Si deduce, quindi, che il primo dato in particolare contrasta con la qualifica di rifiuto attribuita dal giudice di merito ai residui legnosi forniti dalla Caffaro, mentre il secondo prova che l’ammendante prodotto dalla società Ambiente rispettava anche esso i parametri previsti dalla legge in materia; che nessuna delle disposizioni citate stabilisce, invece, che detti parametri debbano essere rispettati anche durante il procedimento di compostaggio dei rifiuti, nel corso del quale possono verificarsi particolari concentrazioni di determinati elementi a causa del procedimento chimico di trasformazione del rifiuto; che, peraltro, in materia contravvenzionale non è configurabile il tentativo del reato.
Con il secondo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia violazione di legge con riferimento alla decisione della Commissione 3 maggio 2000 n. 001532/CE e del DM. 9 aprile 2002.
Si deduce che il giudice di merito ha attribuito erroneamente al Rizzi la responsabilità per una non corretta classificazione dei rifiuti provenienti dalla Caffaro S.p.A., poiché ai sensi delle disposizioni citate la classificazione dei rifiuti compete esclusivamente al suo produttore, che se ne assume la relativa responsabilità; che, peraltro, il giudice di merito ha classificato erroneamente detti rifiuti con il codice CER 191302, poiché lo stesso si riferisce esclusivamente ai materiali provenienti dalla vera e propria attività di bonifica del sito ed in particolare dei terreni inquinati e non di quanto risulti depositato anche occasionalmente sul terreno; che a nulla rileva il fatto che detti materiali provenissero da “un sito inquinato di interesse nazionale”, poiché tale provenienza non è di per sé significativa al fine di attribuire una determinata qualificazione al rifiuto, che può risultare della più varia natura.
Con i successivi tre mezzi di annullamento il ricorrente denuncia la sentenza per contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla valutazione delle risultanze probatorie e ad altri vari profili.
Si deduce, in sintesi, che la sentenza impugnata ha affermato la colpevolezza dell’imputato in assenza di qualsiasi prova del fatto che la società Ambiente abbia fornito a terzi materiale non rispondente ai parametri di legge, in quanto gli accertamenti eseguiti presso la ditta Terra del Paradiso S.r.l. avevano attestato la conformità dell’ammendante a detti parametri; che il giudice di merito, al fine di affermare la colpevolezza dell’imputato, che deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio, ha qualificato come superficiale l’operato dell’ARPA, che aveva confermato, peraltro a seguito di specifiche analisi eseguite presso la Caffaro, la classificazione dei rifiuti provenienti da detta società con il codice CER 030301; che il giudice di merito ha escluso contraddittoriamente l’affidamento incolpevole dell’imputato, pur avendo dato atto che la classificazione del rifiuto era stata effettuata da un soggetto qualificato come l’azienda Caffaro e che detta classificazione è stata condivisa dai tecnici dell’ARPA, come accertato mediante la deposizione del rappresentante dell’Azienda, che ha dichiarato di condividere tuttora il codice CER attribuito alle cortecce.
Con l’ultimo motivo di gravame si denuncia, infine, la violazione degli art. 62 bis e 133 c.p..
Si deduce che il diniego delle attenuanti generiche è del tutto carente di motivazione, considerate le circostanze di fatto sopra riportate e che la determinazione della pena risulta effettuata in termini particolarmente rigorosi, superiore a quella applicata al coimputato, allora responsabile della Caffaro, chiamato a rispondere anche di altri reati, al fine di escludere l’applicabilità dell’indulto in favore del Rizzi, in assenza di un’adeguata motivazione al riguardo.
Il ricorso non è fondato.
Osserva la Corte che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente con i vari motivi di gravame afferenti all’affèrmazione di colpevolezza, la sentenza impugnata non ha ritenuto l’imputato responsabile della violazione ascrittagli quale conseguenza del fatto che il compost in corso di produzione presentava valori, con riferimento al mercurio, superiori al limite stabilito dal PM 5 febbraio 1998, ma per avere inferito da tale accertamento che i materiali pervenuti alla società Ambiente dalla Caffaro S.p.A. non rispettavano il citato parametro necessario per poter classificare detto materiale con il codice CER 030301, che ne consente il trattamento di trasformazione a seguito di autorizzazione ottenuta mediante la procedura semplificata di cui agli art. 31 e ss. del D. Lgs. n. 22/97.
La valutazione del giudice di merito sul punto, peraltro, risulta adeguatamente motivata mediante il riferimento ai risultati degli accertamenti tecnici disposti dal P.M., dai quali è emerso che il metallo inquinante di cui si tratta non è soggetto a degrado o modificazioni nel corso del procedimento di lavorazione del materiale che lo contiene, sicché dal citato dato tecnico si è desunto che la stessa percentuale di inquinamento doveva essere presente senza ombra di dubbio anche nel materiale fornito dalla Caffaro S.p.A..
Tale accertamento di fatto, peraltro, appare coerente con quello afferente alla natura (da mercurio) ed al grado dell’inquinamento dell’area in cui erano stati depositati per decenni i residui della lavorazione dei tronchi d’albero, che si presentava a “macchia di leopardo”, con la conseguenza che materiali provenienti da settori diversi della stessa area potevano risultare inquinati con superamento della soglia di tollerabilità prevista dalla disposizione citata.
Va ancora osservato sul punto che l’originaria natura dei rifiuti di cui si tratta, che ne avrebbero consentito la classificazione in base al codice CER 030301, non può essere considerato un dato di fatto destinato a permanere indefinitamente nel tempo, risultando evidente che, a seguito della esposizione ad agenti fortemente inquinanti protrattasi per un sufficiente periodo di tempo (nel caso in esame per vari decenni), il rifiuto perde le caratteristiche originarie, dovendo essere qualificato, così come ritenuto dal giudice di merito, quale materiale destinato ad essere bonificato, in quanto proveniente da sito inquinato da sottoporre a bonifica.
Anche in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, che si concreta anche nella mera negligenza, come ritenuto in sentenza, la valutazione del giudice di merito si palesa adeguatamente motivata ed immune da vizi logici.
Sul punto, infatti, la sentenza impugnata ha valorizzato la circostanza della notorietà del fatto che l’area dalla quale proveniva il materiale trattato dalla società Ambiente era costituita da un sito già dichiarato inquinato di interesse nazionale, soggetto alle procedure di bonifica di cui al DM n. 471 del 1999, e da tale circostanza ha desunto che l’imputato avrebbe dovuto, secondo la diligenza richiesta dalla particolare natura dell’attività espletata, o effettuare direttamente accertamenti in ordine alle caratteristiche del materiale fornito dalla Caffaro S.p.A. oppure chiedere a detta società i risultati delle analisi che supportavano la classificazione attribuita ai rifiuti legnosi conferiti.
Orbene, tale valutazione si palesa coerente con le risultanze fattuali accertate ed è peraltro conforme ai principi di diritto già affermati da questa Suprema Corte in materia (cfr. sez. III, 18 maggio 2000 n. 5715, Busisi ed altro, RV 217514).
E’, infine, infondato l’ultimo motivo di gravame.
In ordine alla quantificazione della pena, che peraltro è stata individuata in quella pecuniaria in ogni caso meno afflittiva di quella detentiva, alternativamente prevista dalla norma, la determinazione del giudice di merito risulta correttamente ancorata alla valutazione della gravità del fatto e della personalità dell’imputato, gravato da un precedente specifico, sicché anche la motivazione sul punto si sottrae al sindacato di legittimità.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.