Cass. Sez. III n 261 del 10 gennaio 2007 (ud. 16 nov. 2006)
Pres. Lupo Est. Teresi Ric. Perrini
Rifiuti. Discarica abusiva
Il reato di discarica abusiva può essere accertato anche in base alla consistenza ed allo stato di conservazione dei rifiuti, potendosi conseguentemente escludere una successiva utilizzazione dei materiali (nella fattispecie, pezzi di marmo asseritamente impiegati per la realizzazione di mosaici)

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 11 novembre 2004 la Corte d’Appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto - confermava la condanna alla pena dell’arresto e dell’ammenda inflitta nel giudizio di primo grado a Perrini Antonio per avere realizzato una discarica non autorizzata di rifiuti speciali in località Misonghia.

Rilevava la Corte che l’imputato aveva realizzato una discarica di rifiuti speciali non pericolosi, costituita da in ingente ammasso cuneiforme di detriti non selezionati (pezzi di legno, una grata, sacchi, scarti della lavorazione del marmo).

L’accumulo era avvenuto non in maniera occasionale e temporanea, ma con comprovata abitualità, atteso anche l’utilizzo di mezzi appositamente predisposti (un’apertura, coperta di grate, apribili, praticata nel muro perimetrale dell’opificio del Perrini) per agevolare lo sversamento del materiale di scavo della sua industria nel sito che in passato era stata una cava.

Proponeva ricorso per cassazione l’imputato denunciando violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità dei reato di discarica abusiva che doveva essere escluso perché nella cava dismessa venivano momentaneamente depositati ritagli di marmo di diverse misure per 10/15 giorni per essere riutilizzati per la realizzazione di mosaici.

Per l’equivocità della deposizione, non era credibile l’agente del Corpo forestale dello Stato, Netti, avendo l’imputato fornito elementi idonei ad escludere un deposito incontrollato e protratto nel tempo dei residui, riutilizzabili, della lavorazione del marmo, materiali che, in sede di bonifica dell’area, erano stati asportati in pochi giorni, donde l’insussistenza della discarica.

Chiedeva l’annullamento della sentenza.

Il ricorso non è puntuale perché censura con erronee argomentazioni giuridiche e in punto di fatto la decisione che è esente da vizi logico-giuridici, essendo stati indicati gli elementi probatori emersi a carico dell’imputato e confutata ogni obiezione difensiva.

La sentenza, infatti, ha correttamente ritenuto ricorrenti le condizioni che integrano il concetto normativo di discarica non autorizzata di rifiuti non pericolosi, nella specie costituiti da eterogenei materiali da scarti della lavorazione del marmo provenienti dall’opificio gestito dall’imputato, una grata, pezzi di legno, sacchetti di colore azzurro, accumulati nell’area di una cava, mentre le incongrue doglianze sulla qualificazione loro attribuita in sentenza sono irrilevanti ai fini del sindacato di legittimità.

L’art. 51 del d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 prevede e punisce, al terzo comma, la discarica non autorizzata di rifiuti per la cui configurabilità “sono necessari sia una condotta ripetuta nel tempo d’accumulo di rifiuti in un’area, sia il degrado dell’area stessa, consistente nell’alterazione permanente dello stato dei luoghi, requisito che è certamente integrato nel caso in cui sia consistente la quantità dl rifiuti depositati abusivamente” (Cassazione Sezione III, n 36062/2004, Tomasoni, RV. 229484).

Nella specie è stato accertato, con logiche argomentazioni, alla stregua di quanto rilevato in sede di sopralluogo, che i materiali era accumulati disordinatamente; che la cava, inaccessibile dal basso, era infestata da arbusti ed erbacce, sicché “sarebbe stato impossibile andare a cercare in quella massa di detriti ed altri oggetti i pezzi di marmo che si assume sarebbero poi serviti per realizzare pavimenti o mosaici”; che l’ammasso cuneiforme [perché il versamento dei materiali veniva effettuato dall’alto] era depositato da tempo perché presentava una diversa consistenza, più asciutto alla base e più umido nella zona apicale.

Le modalità di conservazione denotano, quindi, che l’area de qua è stata trasformata, di fatto, in deposito di rifiuti di vario genere, mediante una condotta consistente nell’abbandono per un lungo periodo di una notevole quantità di rifiuti, sicché è irrilevante la bonifica del sito in tempi ristretti.

L’inammissibilità del ricorso comporta condanna al pagamento delle spese del procedimento e al versamento alla cassa delle ammende della somma di €. 1.000, liquidata equitativamente.