Cass. Sez. III n. 22826 del
12 giugno 2007 (Ud. 27 mar 2007)
Pres. Onorato Est. Marini
Ric. PG ed altri in proc. Artese
Rifiuti. Responsabilità per realizzazione e gestione di discarica abusiva
La situazione di grave illegalità e di rilevante pericolosità provocata dagli esiti di gestione di una società non possono trovare nelle oggettive e rilevanti difficoltà di soluzione una circostanza impropriamente scriminante. Così come non è accettabile, sul piano giuridico, che le cautele di intervento derivanti dalla legge e dagli atti amministrativi possano trasferire sugli enti territoriali e sulle amministrazioni pubbliche forme più o meno dirette di responsabilità che farebbero venir meno quelle degli amministratori o liquidatori della società che ha dato origine alla situazione di illegalità e pericolo. In altri termini, la violazione da parte dei privati delle regole di cautela e degli obblighi connessi alla realizzazione e gestione di una discarica non può perdere il carattere di illiceità sul presupposto che neppure le autorità e gli enti aventi competenza sul sito e sugli immobili hanno saputo riportare nell'ambito della legalità una situazione gravemente compromessa cui i privati hanno dato origine
Udienza pubblica del 27 marzo 2007SENTENZA
N.00930/2007
REG. GENERALE N.7054/2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Composta dagli ill.mi Sigg.:
Dott. Onorato Pierluigi Presidente
Dott. Marmo Margherita Consigliere
Dott. lanniello Antonio Consigliere
Dott. Marini Luigi Consigliere
Dott. Sarno Giulio Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI BARI
WWF ONLUS, PARTE CIVILE
CODACONS ONLUS, PARTE CIVILE
ARTESE STEFANO, nato a Merate il 28 luglio 1962
Avverso la sentenza in data del 21 Ottobre 2005 con cui la Corte di
Appello di Bari, in parziale riforma della sentenza emessa in 16 giugno
2004 dal Tribunale di Bari in composizione monocratica, lo ha mandato
assolto dai reati contestati ai capi B), C), D) ed E) della originaria
imputazione, ed ha confermato la condanna per il capo A), e
cioè per il reato previsto dall'art.51, comma 3, in
relazione agli artt.27, 28 e ss. Del decreto legislativo 5 febbraio
1997, n.22, con conseguente condanna, previa concessione delle
circostanze attenuanti generiche, alla pena (condizionalmente sospesa)
di anni 1 di arresto e Euro 12.000,00 di ammenda; confermando,
altresì, il provvedimento di confisca e la condanna al
risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle
parti civili costituite; disponendo, infine, la revoca delle
provvisionali disposte in primo grado, ad eccezione di quella in favore
del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, quantificata
in Euro 5.000,00, oltre accessori di legge,
Fatti di reato commessi fino al gennaio 2003.
Sentita la relazione effettuata dal Consigliere LUIGI MARINI
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Cons. GIOVANNI D'ANGELO,
che ha concluso per l'annullamento della sentenza con rinvio alla Corte
di Appello limitatamente ai capi B) e D) della rubrica; per
l'accoglimento della istanza di correzione di errore materiale
presentata dall'Avvocatura dello Stato per la parte civile Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio; per il rigetto di tutti i
restanti motivi di ricorso.
Uditi i Difensori del ricorrente, AVVOCATI FUMAGALLI E D'ARGENTO, che
hanno concluso per l'accoglimento del ricorso presentato, con
conseguente assoluzione del ricorrente "perché il fatto non
sussiste" o, in subordine, accertarsi la prescrizione del reato sub A);
per la inammissibilità dei ricorsi presentati dal
Procuratore Generale e delle parti civili.
RILEVA
Con decreto del Pubblico Ministero in data del 15 gennaio 2003, il Sig
ARTESE fu tratto a giudizio avanti il Tribunale di Bari, unitamente ai
Sigg.Galvani e Cuniolo, per rispondere, in qualità di
liquidatore della "Finanziaria Fibronit Srl", dei seguenti reati:
A) artt. 81 cpv., 110 c.p., 51, comma 3 in relazione agli
artt.27, 28 ss. del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, per
avere realizzato e gestito all'interno dello stabilimento industriale
Fibronit in Bari una discarica non autorizzata destinata allo
smaltimento di rifiuti pericolosi, in particolare prodotti di
cemento-amianto;
B) artt.81 cpv., 110, 674 c.p., per avere provocato l'emissione e la
dispersione nell'aria di derivati della lavorazione dell'amianto;
C) artL8l cpv., 110, 635, comma 2, n.3 c.p., per avere, a seguito di
inquinamento da amianto, distrutto o comunque deteriorato e reso
inservibili le falde acquifere sotterranee e le strade poste nelle
adiacente del complesso industriale;
D) artt.110 c.p., 50, comma 2 in relazione all'art. 14, comma 3 ultima
parte del citato decreto legislativo n.22 del 1997, per non avere
ottemperato alle ordinanze sindacali relative alla messa in sicurezza e
bonifica dell'area ex Fibronit entro 60 gg. dalla notifica;
E) arti. 81 cpv., 110 c.p., 51 bis del citato decreto legislativo n.22
del 1997 per avere omesso di procedere alla bonifica delle aree
inquinate secondo il procedimento previsto dall'art.17.
Fatti commessi dal 23 settembre 1999 al gennaio 2003, con permanenza.
Nel processo avanti il Tribunale si sono costituiti parti civili sia
gli enti territoriali, sia la curatela fallimentare, sia associazioni
come WWF Onlus, CODACONS Onlus, ed altre.
Va detto che nel corso del processo è stata emessa dal
Tribunale sentenza ai sensi dell'art.129 c.p.p. per essere deceduto il
co-liquidatore della società e coimputato, Sig.Cuniolo.
La sentenza 16 giugno 2004 del Tribunale di Bari.
All'esito del processo di primo grado per il Sig.Galvani
è stato ritenuto non doversi procedere per intervenuta
prescrizione dei reati, escluso il concorso di reati con il coimputato
Artese, mentre il Sig.Artese è stato condannato in data 16
giugno 2004 dal Tribunale di Bari per tutti i reati contestati (con
responsabilità per il capo C limitata ai soli danni arrecati
alle strade), determinando la pena in anni due di reclusione, con
sospensione della stessa. Il Tribunale ha disposto altresì
la confisca degli immobili interessati, fatti salvi gli obblighi di
bonifica, ed ha condannato il Sig.Artese al risarcimento dei danni, da
liquidarsi in separata sede, disponendo provvisionali in favore del
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio (Euro
5.000.000,00), della Regione Puglia e della Provincia di Bari (Euro
25.000,00 ciascuno), nonché in favore di WWF e CODACONS
(Euro 5000,00 ciascuno).
Avverso tale sentenza hanno proposto appello sia il Sig.Artese sia il
Pubblico Ministero (impugnazione poi rinunciata dalla Pubblica accusa
in sede di giudizio).
La sentenza 21 Ottobre 2005 della Corte di Appello di Bari.
Con sentenza in data 21 Ottobre 2005 la Corte di Appello di Bari, ha
mandato assolto il Sig.Artese dai reati contestati ai capi B) ed E),
con la formula "perché il fatto non sussiste", ed ai capi C)
e D), con la formula "per non avere commesso il fatto"; ha invece
confermato la condanna per il capo A), e cioè per il reato
previsto dall'art.51, comma 3, in relazione agli artt.27, 28 e ss. del
decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, con conseguente condanna,
previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena
(condizionalmente sospesa) di anni 1 di arresto e Euro 12.000,00 di
ammenda; confermando, altresì, il provvedimento di confisca
e la condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata
sede, ed alla rifusione delle spese del processo in favore delle parti
civili costituite; disponendo, infine, la revoca delle provvisionali
disposte in primo grado, ad eccezione di quella in favore del Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio, quantificata in Euro
5.000,00, oltre accessori di legge.
La dettagliata ricostruzione dei fatti operata nella prima parte della
sentenza consente di ritenere accertati, anche alla luce dei motivi di
impugnazione, alcune essenziali circostanze di fatto, la cui
esposizione appare fin d'ora necessaria ai fini della successiva
esposizione dei motivi di ricorso:
- Risale al 1933 l'inizio di attività in Bari della
Società Adriatica Prodotti in Cementoamianto (SAPIC)
controllata dalla famiglia Milanese, fino alla cessione alla
soc.Fibronit, sempre controllata dai sigg. Milanese fino a che, con
vari passaggi societari, la proprietà viene integrata e poi
assunta da altri soggetti; in particolare, per quanto di interesse in
questa sede, i Sigg. Galvani (che presiedeva la Fibronit Srl nel 1993)
e Cuniolo (che presiedeva la Finanziaria Fibronit Spa il 18 febbraio
1996, data in cui incorpora la Fibronit Srl);
- La Fibronit Finanziaria Spa è stata messa in liquidazione
il 14 maggio 1997, con nomina quali liquidatori dei Sigg.Cuniolo e
Attese;
- L'attività produttiva di cementoamianto si è
protratta nello stabilimento barese fino al 1985, generando una enorme
quantità di scarti e residui di lavorazione, compresi fanghi
e polveri di amianto, tutti prodotti qualificati (con il d.P.R. n.915
del 1982) come rifiuti tossici e nocivi e quindi (con il d.lgs. n.22
del 1997) come "rifiuti pericolosi";
- L'esistenza di quantità consistenti di rifiuti pericolosi
all'interno dell'area Fibronit, che è situata in adiacenze
di zone abitate, viene rilevata ufficialmente solo nel 1995, quando nel
corso di un sopralluogo vengono ispezionati sia la zona su cu
insistevano i capannoni produttivi, sia una vasta area incolta dove
giacciono oltre 100 tonnellate di giunti e tubi di cementoamianto;
- Una parte dei materiali esistenti risulta essere stata apportata
ancora nel novembre 1994, e cioè ad anni di distanza dalla
cessazione delle attività produttive;
- Nel corso delle attività di controllo, nell'agosto 1995 si
è accertato che i materiali venivano "smaltiti" mediante
attività di distruzione e di interramento all'interno
dell'area Fibronit;
- Solo a partire dal 1994 il Comune di Bari ha ritenuto di adottare le
prime misure di cautela: risale al maggio 1996 l'ordinanza sindacale di
attivazione delle procedure volte alla bonifica dell'area, cui fa
seguito nel successivo mese di Agosto la presentazione del piano di
lavoro per la bonifica dello stabilimento;
- Nel frattempo, il 10 ottobre 1995 il Pubblico ministero in sede
emette un provvedimento di sequestro probatorio dell'area in relazione
a violazioni degli artt.25 e 26 del d.P.R. n.915 del 1982, sequestro
che cesserà solo nell'agosto del 1998, essendo state
completate secondo il Pubblico Ministero, le attività di
acquisizione probatoria;
- A partire dal novembre 1997 l'area è comunque fatta
oggetto di interventi di "messa in sicurezza";
- Il 23 settembre 1999 nel corso di un nuovo sopralluogo viene
accertato che all'interno di un capannone giacciono abbandonati oltre
70 mc di materiali contenenti amianto, verosimilmente raccolti
nell'ambito della messa in sicurezza, che si trovavano all'interno di
sacchi ("big bags") che risultavano per una quota privi di data di
confezionamento e, per altra quota, confezionati in parte nel luglio
1997 e in parte nel marzo 1998, mentre altre quantità di
materiali simili, o comunque contenenti amianto, sono abbandonati
all'interno di altri capannoni ed in una diversa area dello
stabilimento;
- Negli anni successivi segue uno scambio di comunicazioni tra il
Comune e i responsabili della Fibronit, con una indicazione da parte di
questi ultimi delle attività poste in essere, ivi compreso
l'appalto dato per gli interventi di sicurezza programmati, e con
ripetute segnalazioni di inadempimento inviate dal Sindaco di Bari;
- Nel corso di sopralluogo effettuato il 25 e 27 luglio 2001 i
verbalizzanti accertano il permanere di materiali abbandonati che
creano situazioni di evidente pericolosità e verificarono
che solo aree molto limitate avevano subito interventi di bonifica o
messa a norma significativi; accertarono, altresì la
presenza di vani e di rifiuti non inseriti nel "piano generale di
sicurezza";
- In data 12 gennaio 2002 il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Bari dispone il sequestro preventivo dello stabilimento e
delle aree collegate;
- Un nuovo sopralluogo, effettuato il 23 gennaio 2002, ha portato
all'accertamento della permanenza di situazioni gravemente irregolari;
- Infine, un ultimo sopralluogo è stato effettuato dai
consulenti del Pubblico Ministero il 16 febbraio 2002, ed ancora una
volta è emersa la sussistenza di plurime situazioni
irregolari e gravemente pericolose, così come è
emerso che il crescente stato di degrado dell'area e delle strutture
esistenti costituisce elemento destinato ad aggravare la situazione
(sentenza Corte Appello, pagg.9-12);
- Con nuova ordinanza del 26 ottobre 2002 il Sindaco ha ordinato alla
Finanziaria Fibronit in liquidazione di dare corso agli interventi ed
ai lavori prescritti, ivi compresa la integrale rimozione dei materiali
contenenti amianto, con "immediata esecuzione in danno" della
società e "ferme restando le responsabilità
relative, anche di carattere penale, degli interventi elencati nel
verbale di sopralluogo del 26 novembre 2001";
- Preso atto dell'inottemperanza da parte della società, il
10 febbraio 2003 il Comune di Bari ha proposto l'approvazione della
spesa di Euro 3.720.000 per l'esecuzione in danno degli interventi
urgenti;
- I consulenti hanno accertato che i casi di decesso riconducibili
all'esposizione all'amianto sono stati tra i dipendenti della Fibronit
ben 204, con esclusione dei decessi per mesotelioma;
- Che i casi di decesso per mesotelioma tra la popolazione barese al
dicembre 2003 risultavano essere 119, e di questi: 16 tra ex dipendenti
Fibronit, 4 tra familiari dei dipendenti, 31 tra la popolazione
residente attorno all'opificio;
- Che aree circostanti la sede della Fibronit risultavano ancora
caratterizzate da situazione di pericolo.
Sulla base di queste circostanze, la Corte ha analiticamente ripercorso
la motivazione della sentenza di primo grado, esponendone i passaggi
essenziali, con riferimento, soprattutto (pag.29 ss.), al capo A),
soffermandosi in particolare sulla attività di "gestione"
(pag.39 ss.), sul tempo del commesso reato e sulle specifiche condotte
attribuite al Sig. Artese (pag.44 ss.), anche con riferimento ai poteri
da costui ricevuti quale co-liquidatore e alle relative
responsabilità, anche quale presidente della
società denominata "Beta" (pag.48 ss; si veda in particolare
la nota 98 di pag.53). Anche la motivazione della sentenza di primo
grado con riferimento alle restanti ipotesi contravvenzionali viene
analiticamente esposta (pag.57 ss.), così come le
dichiarazioni di appello presentate ed i relativi motivi (pag.82 ss.).
La motivazione della decisione della Corte di Appello
viene esposta nelle pagine 94 ss. In estrema sintesi:
Capo A) - La Corte di Appello ritiene di confermare il giudizio di
responsabilità formulato dal giudice di prime cure,
motivando sia sulla sussistenza dei presupposti in fatto e
dell'elemento soggettivo del reato contravvenzionale, sia sulla natura
permanente del reato (pag.96, con riferimento anche alla rilevanza del
sequestro preventivo dell'area), sia sull'assenza di violazioni di
legge quanto a corrispondenza tra contestazione e reato ritenuto in
sentenza (pag.97 e 98), sia sulla qualificazione giuridica del fatto
(pag.98 e 99);
Capo B) - La Corte ha ritenuto di escludere la sussistenza dell'ipotesi
contravvenzionale prevista dall'art.674 c.p. in quanto non risulta
provato il superamento dei limiti previsti per le emissioni, limiti
che, contrariamente alla tesi della pubblica accusa, non opererebbero
esclusivamente per le attività autorizzate; diversamente
opinando, il giudice, svincolato da parametri tecnici, si troverebbe a
"svolgere una funzione curativa" ricorrendo a parametri incerti,
così come avrebbe fatto il giudice di primo grado parlando
di "normale tollerabilità" e di "concreto disturbo".
Ciò, a maggior ragione, quando gli stessi consulenti hanno
affermato che le rilevazioni effettuate non consentono di avere un
quadro "effettivamente rappresentativo" della situazione, circostanza
che non può dirsi superata, in assenza di rilevazioni
costanti e precise, dal fatto che polveri provenienti dall'area
Fibronit furono rinvenute sui terrazzi delle abitazioni vicine.
Mancherebbe, in conclusione, la prova della rilevanza delle emissioni.
Capo C) - L'assoluzione del Sig.Artese dal reato di danneggiamento
delle sedi stradali si fonda su due considerazioni: a) che la prova che
il danneggiamento sia avvenuto è stata acquisita con
riferimento ad epoca anteriore al 1997 e non vi è prova di
condotte del Sig.Artese che abbiano provocato ulteriori danni,
circostanza decisiva quando non si è in presenza di reato
permanente; b) al Sig.Artese non risultano indirizzate ordinanze
sindacali né altri provvedimenti che lo obbligassero ad
intervenire.
Capo D) - La Corte premette (pag.102) che il capo di imputazione
risulta, a proprio parere, errato, nel senso che la commissione del
reato non avrebbe dovuto essere ancorata alla data delle ordinanze
sindacali, bensì al momento di cessazione del reato
permanente; ne consegue che lo scadere del sessantesimo giorno dalla
comunicazione dell'ordinanza avrebbe dovuto segnare l'inizio della
permanenza della condotta illecita, non certo la sua cessazione.
A differenza del reato sub A), la contravvenzione sub D) costituisce
reato proprio, cioè esclusivo dei destinatari formali della
ordinanza, e l'ordinanza del marzo 2001 era indirizzata solo al
Sig.Cunicolo. Il Sig. Artese fu successivamente destinatario di altra
ordinanza, anch'essa rimasta senza ottemperanza, ma tale fatto non
è stato oggetto di contestazione.
Capo E) - L'assoluzione con la formula "perché il fatto non
sussiste" dal reato previsto dall'art.5 l bis del d.lgs. n. 22 del
1997, è stata motivata con la circostanza che il capo di
imputazione non opera alcun riferimento al superamento dei limiti di
accettabilità fissati dal DM 15/12/1999 n. 471 (emanato in
attuazione dell'art.17 del citato d.lgs. n.22 del 1997, articolo cui
opera espresso rinvio l'art.51 bis). Il fatto che l'imputazione rinvii
ai precedenti capi d'imputazione ed alle disposizioni ivi citate quali
fonti dell'obbligo di bonifica non è stato ritenuto
sufficiente dalla Corte, che ha considerato non esaustivo il richiamo
del Tribunale alla nota sentenza della Corte di cassazione del 28
aprile 2000, Pizzuti e che ha richiamato quanto affermato con
riferimento al reato contestato sub B) in ordine al divieto di
interpretazione "creativa". Ha affermato, inoltre, la Corte che "la pur
doverosa tutela dell'ambiente e della salute pubblica non
può giustificare scorciatoie o pragmatismi probatori",
così che deve essere rispettata la "nozione rigidamente
formale di inquinamento" introdotta dal reato in esame e capace di
soddisfare i principi di certezza e determinatezza, così che
la responsabilità deve essere ancorata, al pari di quanto
previsto dall'art.59 del d.lgs. n.152 del 1999 in tema di inquinamento
delle acque, ad accertamenti tecnici precisi e non a valutazioni che
seguano criteri logico-induttivi come quelli seguiti dal giudice di
prime cure.
Infine, la Corte ha escluso che sussistano prove sufficienti a carico
specificamente del Sig. Artese in ordine al reato in esame. Il
principio fissato dall'art.27 della Costituzione impedisce di ritenere
che la titolarità legale di una società sia
sufficiente ad attribuire responsabilità penale, che vanno
pur sempre collegate a condotte specifiche che mettano in collegamento
l'imputato con l'evento inquinamento o con il suo pericolo concreto e
attuale.
Quanto all'appello circa le provvisionali concesse dal Tribunale, la
Corte di appello (pag.107 ss.), ha ritenuto di confermare
esclusivamente la provvisionale concessa al Ministero costituitosi
parte civile. Solo in questo caso, infatti, il Tribunale ha esposto i
parametri che ha posto a fondamento della determinazione della
provvisionale, seppure determinata espressamente (pag.86 della
motivazione della sentenza del Tribunale) "in via equitativa".
L'importo liquidato è inferiore a quello richiesto
dall'Avvocatura dello Stato (pari a Euro 6.746.130). La Corte evidenzia
che né nei motivi di appello né nella discussione
la difesa del Sig.Artese ha contestato i criteri seguiti per la
quantificazione dell'importo citato.
Al contrario, per tutte le altre parti civili il Tribunale non avrebbe
esposto in alcun modo gli elementi su cui fondava l'esistenza certa di
un danno e del suo ammontare, così che sul punto la sentenza
non viene confermata.
Deve segnalarsi, infine, che il dispositivo della sentenza della Corte
di appello, in contrasto con quanto esposto in motivazione, al punto 3
fissa in soli 5.000 Euro la provvisionale concessa al Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio.
Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno presentato ricorso la
Procura Generale della Repubblica in sede, le parti civili costituite
(WWF e CODACONS), il Sig.Artese ed i suoi difensori.
1. Il ricorso della Procura Generale della Repubblica
lamenta la violazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. b e lett.
e) c.p.p. con riferimento alla decisione di assoluzione dell'imputato
dal reato indicato al capo B) con la formula "perché il
fatto non sussiste" e per quello indicato al capo D) con la formula
"per non avere commesso il fatto". A parere del ricorrente, infatti, la
motivazione su questi punti risulterebbe manifestamente illogica e
contraddittoria e vi sarebbe stata erronea interpretazione delle norme
penali.
Rileva il ricorrente che la Corte, condannando il Sig.Artese per i
fatti contestati al capo A) della rubrica, ha accertato il protrarsi
fino al 2003 delle condotte illecite e pericolose, così che
non si comprendono le ragioni per cui non sussisterebbe la
responsabilità dell'imputato anche per le violazioni sub 13)
e D).
1.a - Quanto alla contravvenzione ax art.674 c.p., contestata
al capo B), e cioè la dispersione nell'aria di
fibre di amianto provenienti dai materiali illecitamente stoccati, il
ricorrente evidenzia come la sentenza si fondi sul richiamo alla
recente giurisprudenza di legittimità che ha interpretato la
locuzione "nei casi non consentiti dalla legge" nel senso che non
sussisterebbe violazione penale nei casi in cui - come in quello di
specie - gli accertamenti compiuti escludano che la presenza nell'aria
di agenti inquinanti superi i valori fissati dalle specifiche
disposizioni di legge. Osserva il ricorrente che tale impostazione
è pienamente condivisibile quando si versi in ipotesi di
attività legittimamente poste in essere dal cittadino, ma
non può essere accolta quando si sia in presenza di
un'attività abusiva o comunque illecita. In questo caso,
infatti, le "molestie" che le sostanze presenti nell'aria possono
apportare alla collettività derivano da una condotta posta
in essere al di fuori dei parametri di legalità,
così che non possono essere ricondotte all'interno di quella
"presunzione di legittimità" che deriva dal mancato
superamento dei limiti legali.
In questo senso, e cioè con conclusioni più
aderenti al fatto contestato al Sig. Artese, si sarebbe espressa la
giurisprudenza di legittimità che ha individuato la
sussistenza dei presupposti di applicazione dell'art.674 c.p. con
riferimento ai contenuti del provvedimento autorizzatorio,
così che solo per le attività regolarmente
autorizzate possono assumere valore i limiti quantitativi fissati dalla
normativa in vigore.
Erroneamente, dunque, la sentenza impugnata avrebbe fatto derivare la
soluzione assolutoria dalle semplice mancanza di prove del superamento
dei limiti quantitativi in vigore, del tutto trascurando la premessa
delle emissioni: e cioè il fatto che tali emissioni,
sicuramente avvenute, trovano la loro causa nella natura abusiva della
discarica esistente.
E non solo, perché la sentenza impugnata presenterebbe,
secondo il ricorrente, un secondo ordine di vizi logici e giuridici.
Nel ritenere non provato il superamento dei limiti di
tollerabilità, la Corte di Appello avrebbe omesso del tutto
di considerare il dettato della normativa fondamentale in tema di
amianto: la legge 27 marzo 1992, n.257. Tale legge ha reso in radice
illegale ogni attività che comporti estrazione, trasporto e
impiego dell'amianto (art.1), prevedendo come uniche eccezioni (art.3)
i casi delle attività produttive in cui sia possibile
trasformare o smaltire o bonificare l'amianto; solo in questi casi
avrebbero efficacia i limiti quantitativi, le soglie di
tollerabilità fissate. A conferma di queste conclusioni il
ricorrente evidenzia che il citato art.3 opera un rinvio all'art.3 i
del decreto legislativo 15 agosto 1991, n.227; disposizione questa, che
non a caso si riferisce ai soli luoghi di lavoro ed alla salute dei
lavoratori.
In conclusione, il ricorrente chiede che la sentenza venga censurata
per avere erroneamente - e cioè operando un riferimento a
limiti di tollerabilità non applicabili all'ipotesi di
inquinamento causato da discarica abusiva - escluso la sussistenza
della contravvenzione contestata.
1.b - Quanto alla assoluzione "per non avere commesso il
fatto" riferita al capo D) della contestazione - e
cioè violazione dell'art.50, comma 2 in relazione all'ultima
parte dell'art.14, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997, il
ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione.
La Corte di Appello, infatti, ha escluso la responsabilità
del Sig. Artese sulla base della circostanza che le ordinanze sindacali
non ottemperate erano state intestate e indirizzate al solo Sig.
Cuniolo. Tale conclusione si porrebbe in contrasto con le circostanze
che la stessa Corte ha ritenuto pacifiche, ed in particolare con la
circostanza che i Sigg. Artese e Cunicolo era stati nominati entrambi
liquidatori e, dunque, legali rappresentanti della società
destinataria delle ordinanze; per mero errore le ordinanze si dirigono
al Sig. Cuniolo, ancora qualificato come "presidente" della Finanziaria
Fibronit Spa in un momento in cui la società era in
liquidazione ed egli rivestiva, unitamente al Sig. Artese, la
qualità di liquidatore. In conclusione, la natura propria
del reato contestato non comporterebbe affatto la non
responsabilità del Sig. Artese, posto che occorrerebbe fare
riferimento non al formale destinatario delle ordinanze,
bensì all'incarico di rappresentanza legale ricoperto
effettivamente, come dimostra il fatto che in più occasioni
fu lo stesso Sig. Artese a indirizzare all'amministrazione comunale le
formali risposte alle ordinanze sindacali.
2. Il ricorso della parte civile CODACONS Onlus si
articola attorno a plurimi motivi, che possono così
sintetizzarsi:
2.a - quanto al capo B) della rubrica: violazione ai
sensi dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.674 c.p., alla legge 27
marzo 1992 n.257 e al D.M. 6 settembre 1994, per avere la sentenza
erroneamente escluso la responsabilità del Sig.Artese per la
contravvenzione sub B) ritenendo carente la prova del superamento dei
limiti fissati dal D.M. citato. Erroneamente la sentenza avrebbe omesso
di considerare il limite fissato dal D.M. 8 agosto 19994 e il fatto che
la legge 27 marzo 1992, n.257, agli artt.2 e 3, vieta ogni forma di
trattamento e dispersione di amianto, con l'unica eccezione dei luoghi
di lavoro in presenza di severissime cautele (D.M. 6 settembre 1994).
Con la conseguenza che in tutti i casi diversi la contravvenzione
sarebbe integrata da qualsiasi dispersione, anche di una sola fibra di
amianto, circostanza che la sentenza ritiene provata (pag.55).
2.b - Quanto al capo C) della rubrica:
violazione ai sensi dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.635 c.p.
per manifesta contraddittorietà della motivazione. Dopo
avere riconosciuto che il danneggiamento delle strade vi fu (pag.34 e
35), la motivazione irragionevolmente omette di considerare che questo
si protrasse anche durante il periodo in cui il Sig.Artese fu
liquidatore della soc.Fibronit: si veda pag.62 della sentenza di primo
grado là dove afferma che ancora il 16 febbraio 2002 le
strade limitrofe erano impregnate di amianto.
2.c - Quanto al capo D) della rubrica: violazione ai
sensi dell'art.606 c.p.p. e dell'art.50, comma 2 del citato d.lgs. n.22
del 1997 per erronea applicazione di legge. Erroneamente la sentenza
attribuisce l'obbligo di adempimento alla sola persona fisica
individuata nelle ordinanze, perché, in ottemperanza del
principio fissato dall'art,27 Costituzione, la
responsabilità gestionale fa capo a tutti i rappresentanti
legali della società.
2.d - Quanto al capo E) della rubrica: violazione ai
sensi dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.192 c.p.p. per erronea
applicazione della legge penale e contraddittorietà della
motivazione. Il principio del libero convincimento del giudice impone
allo stesso giudice una rigorosa valutazione del complessivo quadro
probatorio, così che l'assenza di campionamenti non potrebbe
essere sufficiente ad escludere la responsabilità del
Sig.Artese in presenza di numerosi e diversi ulteriori elementi di
prova a suo carico. Il ricorrente non comprende come la sentenza
impugnata possa fondare su un precedente giurisprudenziale in tema di
sospensione condizionale subordinata al ripristino o alla bonifica del
luoghi (Cassazione n.35501/2006, Spadetto, della III Sez.Pen.) una
valutazione negativa in tema di sufficienza del quadro probatorio, e
ciò dopo avere più volte riconosciuto l'esistenza
di una situazione di gravissimo e protratto inquinamento (pagg.3, 4, 9,
31 e 32).
2.e - Quanto alla disposta revoca della provvisionale,
erroneamente il giudice di appello avrebbe omesso di considerare che la
certezza del danno (mai messa in dubbio dalla stessa sentenza) e la sua
liquidabilità secondo equità sono elementi
sufficienti per concedere la provvisionale.
3. Il ricorso della parte civile WWF Onlus si
articola attorno ai medesimi motivi articolati dalla parte civile
Co.Da.Cons, così che è sufficiente rinviare a
quanto appena esposto, anche in tema di revoca della provvisionale.
4. Il ricorso presentato dal Sig.Artese. Con atto
di ricorso depositato il 5 dicembre 2005 il Sig.Artese propone
impugnazione avverso: a) la citata sentenza della Corte di Appello 21
Ottobre 2005; b) l'ordinanza dibattimentale del 21 Ottobre 2005 che
rigettava una istanza di sospensione del dibattimento in relazione
all'attività ispettiva in corso presso la sede della ditta
Fibronit; c) l'ordinanza dibattimentale in pari data con cui la Corte
ha rigettato l'istanza di rinnovazione parziale del dibattimento; d)
l'ordinanza con cui è stata dichiarata manifestamente
infondata la questione incidentale di legittimità
costituzionale, in quanto non sollevata nei motivi di appello, con
riferimento all'applicazione della nozione di "reato permanente".
Il ricorso si articola attorno a undici diversi motivi, così
riassumibili:
Per quanto concerne la SENTENZA DEL 21 OTTOBRE 2005:
4.1 - con riferimento al capo A) della rubrica: violazione
ai sensi dell'art.606, co.1, lett,b) c.p.p. in relazione agli artt. 81,
110 c.p., 51, co.3, 27, 28 ss. D.lgs. n.22 del 1997 per erronea
applicazione della legge. La condanna per reato continuato non sarebbe
stata in alcun modo motivata con riferimento al reato continuato
ritenuto sussistente. Mancherebbe in motivazione ogni riferimento
all'inizio delle condotte, alle violazioni, alla cessazione delle
condotte, alla più grave delle violazioni, alla natura
omogenea oppure eterogenea delle condotte; parimenti manca ogni
indicazione sulla pena base e sull'entità degli aumenti.
Sempre con riferimento al capo A), il medesimo motivo introduce una
diversa doglianza, concernente questa volta la stessa sussistenza della
fattispecie disciplinata dall'art.51, comma 3 del citato d.lgs. n.22
del 1997, ritenendo non conferente il richiamo agli artt.27 e 28 della
medesima legge, che disciplinano l'attivazione di un nuovo impianto di
smaltimento dei rifiuti o di un deposito temporaneo, e, dunque, una
radicale incoerenza nella stessa contestazione così come
accolta in sentenza.
Infine, si lamenta l'assoluta carenza di motivazione circa
l'applicazione dell'art.110 c.p., così che o si versa in
ipotesi di mancanza di motivazione, oppure la condanna ha avuto,
irritualmente, riguardo ad un reato monosoggettivo.
4.2 - sempre con riferimento al capo A) della rubrica:
violazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett.e) c.p.p. per manifesta
illogicità della motivazione, emergente dallo stesso testo
del provvedimento, con riferimento ai "tempi distinti" della condotta
incriminata. Sostiene il ricorrente che non versandosi in ipotesi di
reato continuato - ipotesi su cui la sentenza non avrebbe in alcun modo
motivato - nessun pregio può avere il richiamo ai "tempi
distinti" quando si è in presenza di "leggi miste
alternative". Nel caso di specie la nonna incriminatrice sanzione
chiunque "realizza o gestisce una discarica non autorizzata", e
ciò, a detta del ricorrente descrive "un reato che si
perfeziona indifferentemente sia con la realizzazione ... sia con la
gestione della discarica abusiva", per cui "la contestualità
nel tempo o la frazionabilità del comportamento ... sono del
tutto indifferenti ai fini della sussistenza del reato, apparendo come
modalità equipollenti della condotta di contrasto con la
legge penale...".
Ciò che la sentenza non affronta è quale sia il
legame fra la condotta ascritta al Sig.Artese ed i tempi distinti di
essa, né quale sia la sua condotta riconducibile ad una
contestazione che riguarda fatti commessi dal 1995 al 2002, quando
è pacifico che egli assunse la qualità di
liquidatore solo il 14 maggio 1997, e cioè (pare di capire)
dopo che la fattispecie di reato si sarebbe ormai perfezionata.
In particolare, osserva il ricorrente che la Fibronit aveva predisposto
un piano di risanamento dell'area industriale fin dal 20 agosto 1996;
che la diffida ad adempiere era stata intimata dal Comune di Bari alla
Fibronit il 2 maggio 1997, e cioè prima dell'ingresso del
Sig.Artese nell'incarico di liquidatore; che il Sig.Artese ha nel
tempo, a partire dal 20 maggio 1997 fino al 30 novembre 2001,
presentato plurimi piani di risanamento, così che va escluso
che egli abbia mai "gestito" una discarica abusiva, considerando anche
che i conferimenti di materiale sono cessati il 30 dicembre 1996, prima
cioè del suo ingresso nella società, e che,
comunque, a tale data andrebbe fissata la cessazione delle
contravvenzioni, con conseguente prescrizione dei reati al 30 giugno
2001.
4.3 - Ancora con riferimento al capo A): violazione
ai sensi dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta
illogicità della motivazione. In particolare si lamenta che
la sentenza dedichi la maggior parte delle sue argomentazioni alle
condotte di accumulo ed interramento dei materiali, condotte
pacificamente cessate nel 1996 e quindi non riferibili al Sig.Artese.
Tale circostanza dimostrerebbe che la Corte di Appello ha seguito il
percorso argomentativo del primo giudice, con conseguenti aporie e
contraddizioni insanabili, anche a seguito della assenza nel presente
giudizio dei presunti concorrenti nel reato.
4.4 - Ancora con riferimento al capo A): violazione
ai sensi dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta
illogicità della motivazione. In particolare si lamenta
l'illogicità della motivazione con riferimento alle condotte
ascritte al Sig.Artese relative all'utilizzo dei capannoni e dell'area
contrassegnata in planimetria come "Z", alla raccolta di rifiuti
pericolosi in sacchi, alla conservazione di materiale contenente
amianto ed in pessimo stato di conservazione. Erroneamente la sentenza
omette di considerare che fino all'ottobre 1999 i legali rappresentanti
Fibronit hanno operato ogni operazione possibile a tutela
dell'ambiente, fronteggiando eventi imprevisti (come l'incendio del
capannone "D5") e inadempienze contrattuali di terzi (quali la SAT
Impianti Sri), così come omette di considerare che gli
accertamenti tecnici hanno sempre rilevato che i valori esistenti
sull'area e attorno ad essa si conservavano al di sotto dei limiti
fissati dal DM 6 settembre 1994 e dall'OMS e, infine, che ancora
successivamente alla cessazione del Sig.Artese dall'incarico la
situazione di fatto non è mutata, neppure dopo che il sito
è stato preso in carico dagli enti territoriali costituitisi
poi parte civile. Ciò dimostrerebbe che il Sg.Artese ha
fatto quanto era in suo potere per gestire al meglio la situazione che
ha rinvenuto all'atto dell'assunzione dell'incarico di liquidatore.
4.5 - Ancora con riferimento al capo A): violazione
ai sensi dell'art.606, lett.a) c.p.p. per abnormità della
sentenza nella parte in cui crea la nozione di reato permanente quale
nozione rilevante ai fini della prescrizione. Considerato che il capo
di imputazione reca la menzione dell'art.81 cpv. c.p., la sentenza
avrebbe dovuto chiarire definitivamente in cosa consista il concetto di
permanenza, cui la sentenza di primo grado dedica appena un cenno a
pag.44. Nulla quaestio, ovviamente, qualora la permanenza si traducesse
in un istituto applicabile in bonam partem, unificando in unica figura
di reato tutti gli aspetti oggetto del capo di imputazione. Se, invece,
l'istituto si traduce in una applicazione in malam partem, allora
occorre che ne sia chiarito in modo definitivo il fondamento normativo,
evitando ogni soluzione "creativa" e rispettando i principi di
tassatività e legalità della fattispecie.
La sentenza si esprime per l'esistenza di una condotta protrattasi fino
al 15 gennaio 2003 che avrebbe provocato un'alterazione permanente
dello stato dei luoghi. Tale alterazione per il ricorrente non ha
niente a che vedere con la natura permanente del reato, posto che essa
rappresenterebbe una conseguenza esterna rispetto alla condotta
eventualmente posta in essere. Nel caso di specie non sussisterebbe
alcuno dei requisiti del reato permanente, nella sua accezione non
fattuale ma giuridica, posto che esso è caratterizzato non
dalla distruzione del bene protetto, ma solo dalla sua compressione,
così che col cessare della permanenza l'offesa viene a
cessare ed il bene protetto torna ad espandersi. Circostanze che la
stessa sentenza esclude caratterizzino i fatti oggetto del presente
giudizio.
Così stando le cose, l'applicazione dell'art.158 c.p. quale
conseguenza della ritenuta permanenza rappresenta una applicazione in malam
partem che non è consentita dal nostro
ordinamento. In realtà la condotta punibile ascritta al
Sig.Artese ha inizio, secondo la contestazione, il 14 maggio 1997 e,
applicando i termini prescrizionali per il reato continuato, i fatti
sono soggetti a prescrizioni che sarebbe maturata, al più
tardi, il 14 novembre 2002.
4.6 - Quanto alla confisca dell'area in sequestro:
violazione ai sensi dell'art.606,1ett.b) c.p.p. in relazione
all'art.51, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997 per erronea
applicazione della legge. La sentenza, non risolvendo i dubbi circa la
proprietà dell'area, già lasciati irrisolti dalla
decisione di primo grado, dispone la confisca degli immobili. Premesso
che in atti non è stato rinvenuto l'originale del
provvedimento di sequestro preventivo - che i giudici hanno acquisito
in copia incompleta - il ricorrente lamenta che. A) non vi è
prova alcuna che l'area su cui insiste la discarica sia di sua
proprietà, e che i giudici non hanno apprezzato
correttamente la circostanza che la "Finanziaria Fibronit Spa"
è rimasta del tutto estranea al processo; b) che la confisca
può essere disposta solo nel caso di "realizzazione" di una
discarica abusiva, condotta che non può essere addebitata al
Sig.Artese, eventualmente responsabile di condotta di gestione di una
discarica che altri avevano in precedenza realizzato.
4.7 - Quanto alle statuizioni civili: violazione ai
sensi dell'arrt.606, lett. e) c.p.p. per manifesta
illogicità della motivazione risultante dal testo del
provvedimento. Premesso che erroneamente la Corte di Appello ha
affermato che il Sig.Artese avrebbe proposto appello solo per le
statuizioni in tema di provvisionale, e non anche in tema di
responsabilità civile (in realtà, impugnando la
sentenza negli aspetti attinenti la responsabilità penale
egli avrebbe "implicitamente" contestato anche gli aspetti relativi
alla condanna al risarcimento dei danni), il ricorrente lamenta che la
sentenza non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla causazione
del danno e, in particolare, alle conseguenze derivanti sul punto
dall'assoluzione del Sig.Artese per tutti gli altri capi di imputazione.
Inoltre, del tutto incoerente appare la riduzione in sentenza della
provvisionale in favore del Ministero a soli 5.000,00 Euro (a fronte
dell'importo di 5 milioni di Euro statuito in prime cure) senza che sul
punto si motivi adeguatamente e senza che se ne faccia derivare una
almeno parziale compensazione delle spese fra imputato e Ministero.
Altrettanta incoerenza sussiste in sentenza nella misura in cui,
ritenuta assente la prova in ordine alla presenza fattuale di
particelle inquinanti nell'aria, si considera comunque sussistente un
danno risarcibile in favore delle parti civili.
Da tutto ciò avrebbe dovuto discendere l'obbligo per la
Corte di Appello di condannare le parti civili alla rifusione delle
spese processuali sopportate dal ricorrente (pari ad Euro 12.000,00
oltre Iva ed accessori), nonché a risarcire con Euro
100.000,00 i danni causati al ricorrente stesso mediante il gravemente
colposo esercizio dell'azione civile in sede penale, con provvisionale
pari ad Euro 45.000.000,00 (quarantacinque milioni), oltre accessori.
Tale richiesta viene meglio chiarita al punto 8 che segue: avendo le
parti civili eseguito gli accertamenti tecnici, ben avrebbero dovuto
sapere che le particelle di amianto presenti nell'aria non superavano
la soglia di tollerabilità, così che la loro
azione civile é stata promossa pur sapendo che non vi era
alcun danno da calcolare e risarcire.
Conseguentemente si richiede la sospensione dell'esecuzione della
condanna civile ai sensi dell'art.612 c.p.p.
4.8 - Con riferimento alla condanna ai danni ed alle spese:
violazione ai sensi degli artt.606, co.1, lett. b), 539 e 541 c.p.p.
per erronea applicazione della legge. L'iter logico della sentenza
appare contraddittorio nella parte in cui, dato per assodato che il
giudice di prime cure aveva determinato le provvisionali con criterio
equitativo, afferma che il giudice avesse in atti la prova che i danni
risarcibili in favore del Ministero costituitosi parte civile
ammontassero ad Euro 6.746.13,00, secondo il prospetto prodotto in
giudizio dallo stesso Ministero. Erroneamente la sentenza impugnata
afferma che la difesa del Sig.Artese non ha contestato i calcoli
prodotti dalle parti civili, perché, come già
esposto, il ricorrente afferma di avere impugnato la sentenza di primo
grado anche sul punto responsabilità civile "implicitamente"
in quanto ha agito in sede di appello per ottenere una sentenza
assolutoria. Non solo, ma la Corte di Appello ha omesso di considerare
che il Sig.Artese in sede di conclusioni aveva richiesto (ed in sede di
ricorso per cassazione ribadisce tale richiesta) la condanna delle
parti civili a rifondergli le spese sopportate ed i danni subiti.
Ciò detto, il ricorrente evidenzia che le parti civili hanno
chiesto un risarcimento con riferimento a tutti i reati contestati al
Sig.Artese, senza operare alcuno specifico riferimento al nesso causale
fra i danni richiesti e le condotte contestate al capo A). Ne consegue
che la richiesta è priva di ogni specificità sia
con riferimento al nesso causale, sia con riferimento all'an ed al
quantum del danno riconducibile eventualmente all'unico reato per cui
vi è stata affermazione di responsabilità. Tale
vizio travolge anche le richieste in punto di provvisionale.
Con riferimento alle ORDINANZE DIBATTIMENTALI
impugnate:
4.9 - Quanto alla mancata sospensione del dibattimento:
violazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett.c) c.p.p. in relazione
agli artt. 178, lett. c) e 185 c.p.p. per violazione delle norme
processuali stabilite a pena di nullità. A fronte di una
richiesta di sospensione del giudizio avanzata dalla parte civile
Regione Puglia, la Corte di Appello ha ritenuto che l'esistenza di una
attività ispettiva sugli immobili oggetto dell'imputazione,
e gli eventuali documenti che in tale contesto si sarebbero prodotti,
la difesa del Sig.Artese ha instato perché la sospensione
venisse concessa, in modo da comprendere gli estremi e le
caratteristiche dell'attività ispettiva e di poterne
valutare la rilevanza ai fini della propria difesa. La Corte ha,
invece, considerato che le attività in parola dedotte non
rivestissero rilievo probatorio nell'ambito del processo, ed ha
pertanto respinto l'istanza. A parere del ricorrente non solo la Corte
ha erroneamente motivato tale decisione con il richiamo all'art.16,
comma 11 bis del d.lgs. n.22 del 1997 - dovendo eventualmente
richiamare il successivo art.17, comma 11 bis - ma ha omesso di
considerare che non si era in presenza di mera attività
amministrativa, bensì di attività che, svolta
dalla polizia giudiziaria, presentava dirette connessioni con le
previsioni di accesso, messa in sicurezza e prevenzione dei danni che
concernono direttamente l'autorità giudiziaria.
Erroneamente, dunque, la Corte ha respinto l'istanza senza consentire
alla difesa di valutare la rilevanza probatoria delle nuove
attività con riferimento al processo in corso.
4.10 - Quanto alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale:
violazione ai sensi degli artt.606, co.1, lett. b), 495 e 603 c.p.p.
per erronea applicazione della legge. L'istanza di4ensiva, volta a
rinnovare parzialmente il dibattimento al fine di escutere alcuni
testi, è stata rigettata dalla Corte di Appello per
più ragioni: tardività, non essendo inclusa nei
motivi di i impugnazione; non necessità dell'escussione dei
testi; estraneità rispetto al
devolutum (trattandosi di circostanze estranee ai tempi
distinti della condotta dell'appellante) in quanto le testimonianze
erano state invocate con riferimento al reato previsto dall'art,674 c.p.
In realtà, secondo il ricorrente, le testimonianze sarebbero
risultate rilevanti, avendo ad oggetto la alterazione permanente dei
luoghi, ed essendo elementi sopravvenuti non avrebbero dovuto incorrere
in censure di non tempestività.
Evidentemente la Corte ha posto in relazione il tema della alterazione
permanente con la contravvenzione ex art. 674 c.p. ed omesso ogni
valutazione in ordine al legame con le condotte contestate al
Sig.Artese al capo A).
4.11 - Quanto alla questione di legittimità
costituzionale in relazione all'art.23 della legge 11 marzo 1953, n.23:
erronea applicazione della legge per essere stata la
questione ritenuta manifestamente infondata e non proposta ritualmente
con i motivi di appello. Premesso che l'art.24 della citata legge n.23
del 1953 prevede che la questione possa essere riproposta all'inizio di
ogni grado di giudizio, il ricorrente insiste nella questione,
censurando la decisione della Corte di Appello che ha impropriamente
ritenuto esistente un'analogia strutturale tra reato permanente e reato
continuato ed una consonanza tra reato permanente e reato abituale, con
il risultato di giungere ad una applicazione in malam partem che pone
1'art.158 c.p. in contrasto con gli artt.25 e 3 della Costituzione.
5. Il ricorso presentato dalla difesa del Sig.Artese.
Accanto ai motivi di impugnazione presentati dal Sig.Artese per mezzo
dei suoi difensori, e come sopra sintetizzati, sempre in data 5
dicembre 2005 la difesa ha presentato ulteriori e diversi motivi di
ricorso, così riassumibili: Violazione ai sensi
dell'art.606, co.1, lett. b), e) ed e) in relazione agli artt.516, 521
e 522 c.p.p., nonché art.530 c.p.p., nonché 40 e
42 c.p.
5.1 - Con riferimento al capo A) della rubrica,
erroneamente la sentenza di secondo grado avrebbe escluso la
sussistenza di un vizio nella correlazione fra accusa e decisum,
non ritenendo pregiudizievole per la difesa che né la
condanna in sede di appello abbia riferimento ad una ipotesi
contravvenzionale, e non ad ipotesi dolosa, né che la
decisione escluda l'ipotesi di concorso con il Sig.Galvani,
predecessore del Sig.Artese nella gestione societaria.
A fronte di tale valutazione della Corte di Appello, la difesa segnala
che nella contestazione iniziale le condotte addebitate al Sig.Artese
avevano carattere doloso e commissivo, mentre la sentenza di primo
grado aveva finito col ritenerlo responsabile per un reato omissivo
improprio. Si tratta di condotte ontologicamente diverse tra loro, e
tale circostanza non risulta meno grave per il fatto che il reato
ritenuto in sentenza abbia natura contravvenzionale, posto che il
pubblico ministero avrebbe comunque avuto l'obbligo di modificare la
contestazione ai sensi dell'art.516 c.p.p. Da tale violazione
dell'obbligo di modificare espressamente la contestazione
discenderebbe, a parere della difesa, la violazione da parte del
giudice dell'obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero,
con conseguente nullità dell'intera procedura ai sensi
dell'art.522 c.p.p.. Si chiede pertanto che il giudice di
legittimità annulli la sentenza impugnata, ai sensi degli
artt.521 e 522 c.p.p., con restituzione degli atti al pubblico
ministero competente.
5.2 - Sempre con riferimento al capo A),
erroneamente la sentenza ha omesso di mandare assolto il Sig.Artese
rispetto alla condotta di "realizzazione" della discarica.
Posto che l'art. 51 del citato d.lgs. n.22 del 1997 ricomprende due
distinte condotte, di realizzazione e di gestione della discarica, e
posto che è pacifico che il Sig.Artese assunse cariche
sociali dopo che la presunta discarica era stata realizzata da altri,
la difesa chiede che il giudice di legittimità escluda la
sussistenza delle condotta di realizzazione, annulli sul punto la
sentenza di appello e riduca conseguentemente la pena inflitta.
5.3 - Ancora con riferimento al capo A), la difesa
lamenta l'erronea qualificazione giuridica del fatto,
che avrebbe dovuto essere ricondotto alla diversa ipotesi prevista
dall'art.50, comma 1, oppure 51, comma 2 del d.lgs. n.22 del 1997. Tale
doglianza si riferisce al fatto che per il Sig. Artese la sentenza
riterrebbe addebitabile esclusivamente la fase conclusiva delle
condotte contestate, ed in particolare il solo avere ammassato 70 mc.
di materiale non avviato a discarica, con la conseguenza che avrebbe
dovuto parlarsi di deposito temporaneo incontrollato. Se
così fosse stato deciso, la Corte di Appello avrebbe dovuto
prendere atto che il reato era cessato comunque il 2 maggio 2001, e
cioè 60 giorni dopo l'ordinanza sindacale del 2 marzo 2001,
posto che, secondo la difesa, ai sensi "dell'art.8, comma 4 del D.Min.
471 del 1999" in caso di mancata individuazione o di inerzia del
responsabile dell'inquinamento scatta l'obbligo di intervento degli
enti territoriali, i quali divengono responsabili giuridici degli
interventi di bonifica, con la conseguenza che i loro ritardi non
possono riverberarsi in danno del Sig.Artese. Ciò senza
considerare che, nella contraddizione esistente alle pagine 95 e 96
della sentenza impugnata circa le attività di bonifica e di
messa in sicurezza, la motivazione alla pagina 97 finisce per
addebitare all'Artese una condotta meramente negligente, di mancata
rispetto alle inerzie del co-liquidatore, Sig.Cuniolo.
La sentenza deve quindi essere annullata.
5.4 - Erronea individuazione della data di commesso reato con
riferimento al capo A) della rubrica. La difesa lamenta che
il giudice dell'appello abbia erroneamente superato la prospettiva di
una cessazione del reato nel momento in cui, il 12 gennaio 2002,
intervenne un provvedimento di sequestro preventivo, ritenendo invece
di fissare tale momento alla data del 15 gennaio 2003, e
cioè alla data del decreto di citazione a giudizio.
La natura giuridica e le finalità del sequestro preventivo,
così come riconosciute in via generale da plurime decisioni
della Corte di Cassazione e dalla stessa motivazione adottata dal
giudice delle indagini preliminari (necessità di
interrompere un reato permanente i cui effetti erano ancora in atto),
avrebbero imposto alla Corte di Appello di ritenere cessate le condotte
criminose alla data del 12 gennaio 2002.
6. I motivi nuovi
Con atto depositato il 1° marzo 2007, la difesa del Sig. Artese
ha presentato motivi nuovi in relazione al regime introdotto dal T.U.
in materia di ambiente del 3 aprile 2006, n.152. In particolare si
sostiene che gli artt.192 e 255 di tale disciplina avrebbero
"depenalizzato" le condotte ascritte al Sig. Artese mediante la
introduzione di ipotesi di "abbandono" e "deposito incontrollato" dei
rifiuti per le quali sono previste sanzioni extra
penali.
Infine, si sollecita l'applicazione dell'art.257 del T.U. in parola,
sul presupposto che l'assoluzione del Sig.Artese dai reati contestati
ai capi da 13) ad E) dimostrerebbe la sussistenza di condotte di
osservanza dei progetti di risanamento, con conseguente obbligo per il
giudice di applicare la condizione di non punibilità
prevista dalla disposizione citata.
7. Le specifiche istanze successive ai moti d'impugnazione
Successivamente alla presentazione dei motivi d'impugnazione sono state
depositate due istanze.
7.a - Con memoria ai sensi dell'art.8 della legge n.46 del
2006, la difesa del Sig.Artese ha chiesto:
1. che la Corte voglia dichiarare non doversi procedere nei confronti
del ricorrente per essere il reato estinto per prescrizione. Posto che
la legge 5 dicembre 2005, n.251, all'art.6, comma 2 ha modificato
l'art.158, comma l c.p. nel senso di far decorrere il termine
prescrizionale dalla data di inizio della consumazione del reato
continuato, data che va fissata al 14 maggio 1997, il termine massimo
di prescrizione, pari ad anni 4 e mesi 6, risulterebbe decorso. Il
tutto ferme restando le richieste avanzate nei motivi di ricorso in
tema di pregiudiziale di costituzionalità e di condanna
delle parti civile costituite a risarcire i danni causati al Sig.Artese.
2. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus
superveniens costituito dalla modifica all'art. 533 c.p.p.,
come novellato dall'art.5 della legge 20 febbraio 2006 n.46, e quindi
accogliere anche sotto questo profilo il ricorso principale e mandare
assolto il ricorrente;
3. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus
superveniens rappresentato dalla modifica all'art.606, comma
1, lett. d) c.p.p. apportate dall'art.8 della citata legge n.46 del
2006 con riferimento alla mancata assunzione di prova "decisiva";
4. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus
superveniens rappresentato dalla modifica all'art.606, comma
1, lett. e) c.p.p. apportate dall'art.8 della citata legge n.46 del
2006 con riferimento al vizio di motivazione in relazione agli atti del
procedimento specificamente indicati nel ricorso, atti che consistono
nelle già richiamate ordinanze di reiezione delle istanze di
sospensione e di rinnovazione del dibattimento (motivi di ricorso n.9 e
10).
7.b - L'Avvocatura dello Stato, in favore del
Ministero dell'ambiente e delle tutela del territorio, in data 6
Ottobre 2006 ha presentato "rinnovazione di istanza di
correzione sentenza", segnalando che non può non
costituire mero errore materiale la riduzione da 5 milioni a 5 mila
Euro dell'importo della provvisionale disposta dalla sentenza di
appello in favore del predetto Ministero. Si tratta di errore evidente
che può trovare oggi correzione alla luce di plurime
decisioni della Corte di Cassazione (Sez.III Pen., 11/4/1994, Bessone;
Sez.V Pen., 13/11/2003, Aragona). In effetti, su istanza del Tribunale
di Bari, la Corte di Appello ebbe a fissare per la data dell'8 giugno
2006 una udienza per la correzione dell'errore; nel corso dell'udienza,
preso atto della proposizione dei ricorsi per cassazione, la Corte di
Appello decide si rimettere gli atti al giudice di
legittimità per ragioni di competenza.
OSSERVA
1. Come esposto nelle pagine che precedono, la complessa e ampiamente
motivata sentenza della Corte di Appello di Bari è stata
oggetto, al pari della altrettanto articolata sentenza del Tribunale di
Bari, di censure che riguardano sia le statuizioni in ordine alla
responsabilità penale del ricorrente, sia in ordine alla
contestazione mossa dalla pubblica accusa ed alla sua gestione
processuale, sia in ordine alle statuizioni civili. Ritiene
la Corte che, alla luce del dispositivo qui adottato, sia opportuno
prendere in esame preliminarmente le questioni di ordine processuale,
così da sgombrare il campo dalle censure di metodo prima di
passare all'analisi dei contenuti relativi alla sussistenza dei reati
ed alle conseguenze civili che sono ad essi riconnesse.
2. La corrispondenza tra accusa e decisum
Il ricorrente ha argomentato in modo ampio in ordine alla violazione
del principio di corrispondenza tra accusa e decisione, lamentando di
non essere stata messa in grado di adeguatamente difendersi.
Ciò sotto più aspetti: a) l'essere stata
contestata al Sig.Artese una ipotesi di concorso nel reato senza che
siano stati definiti in modo chiari i termini fattuali ed i rapporti
con i presunti concorrenti, rimasti estranei al processo; b) l'avvenuta
contestazione di una ipotesi di continuazione tra gli episodi
criminosi, non precisata nei termini temporali e per di più
caratterizzata da contraddittorietà per essere stato
l'istituto della continuazione impropriamente commisto alla struttura
permanente dei fatti reato relativi alla realizzazione e gestione della
discarica abusiva.
Tali censure non meritano accoglimento. La contestazione mossa dalla
pubblica accusa al Sig.Artese presenta contenuti chiari sia in ordine
ai fatti ed alle condotte, sia in ordine alla loro qualificazione
giuridica. E' evidente, infatti, che l'originaria imputazione
è stata mossa ad entrambi i liquidatori, uniti tra loro dal
vincolo del concorso di persone ex art.110 c.p., e ha riguardo a
più condotte protrattesi nel tempo ed aventi caratteristiche
fattuali chiaramente delineate. La circostanza che la posizione
processuale del coimputato sia stata definita con sentenza ex art.129
c.p.p. a seguito dell'avvenuto decesso nulla ha modificato in ordine ai
contenuti della contestazione mossa al Sig.Artese, persona che entrambe
le sentenze hanno ritenuto, pur nelle diversità di
valutazione sulla sussistenza dei reati, corresponsabile dei fatti e
delle condotte per cui vi è stata pronuncia di condanna. Non
solo, ma il Tribunale ebbe a valutare in termini negativi l'ipotesi di
concorso tra il Sig.Artese e il Sig.Galvani, escludendola e
considerando prescritti i reati allo stesso Galvani contestati, in tal
modo rapportando in modo articolato il proprio decisum all'originaria
contestazione mossa dalla pubblica accusa.
Quanto alla contestata continuazione tra i reati, nessuna violazione di
legge e nessuna limitazione dei diritti della difesa risultano
realizzate con la sentenza impugnata e, si aggiunge, con quella di
primo grado. Premesso che il capo di imputazione relativo alla
discarica abusiva (capo A) ipotizzava anche per il Sig.Artese sia la
condotta di realizzazione sia quella di gestione della discarica, la
sentenza impugnata chiaramente esclude che all'odierno ricorrente sia
addebitabile la prima delle due condotte e, in modo del tutto coerente,
afferma la di lui responsabilità solo per la condotta
gestionale evitando di applicare qualsiasi aumento di pena a titolo di
continuazione.
3. La continuazione e la permanenza del reato
Quanto si è appena detto impone di respingere anche le
censure mosse in ordine alla presunta incoerenza della contestazione,
sempre al capo A) della rubrica, di un reato insieme continuato e
permanente. Esclusa la sussistenza della contestata continuazione, la
sentenza ha qualificato come permanente il reato di gestione della
discarica abusiva. Si tratta di qualificazione che la Corte, come
vedremo, ritiene corretta e, soprattutto, di soluzione giuridica che
non presenta conflitti logici o giuridici né con il quadro
complessivo oggetto della contestazione, né con le
statuizioni adottate dalla Corte territoriale.
4. La questione di legittimità costituzionale
Sempre con riferimento alla contestazione di una ipotesi di permanenza
nel reato, la difesa ha censurato l'ordinanza con cui la Corte di
Appello ha dichiarato manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale sollevata con riferimento
all'art.158 c.p. per contrasto con gli articoli 3 e 24 della
Costituzione.
Premesso che questa Corte condivide le valutazioni che la Corte
territoriale ha dato della natura permanente del reato contestato al
capo A), che si pone del tutto in linea con la costante giurisprudenza
di legittimità relativa sia alla struttura del reato
permanente sia alla sua applicazione, ex art.158 c.p., con riferimento
all'istituto della prescrizione del reato, si osserva che la Corte
costituzionale con sentenza n.520 del 26 novembre-17 dicembre 1987 ha
affermato il seguente principio:
"La natura permanente o istantanea del reato non dipende da esplicita
ed apodittica qualificazione del legislatore, ma dalla sua naturale
essenza, trattandosi di un carattere che inerisce alla qualita' della
condotta cosi' come si presenta nella realta' e la cui definizione e'
affidata all'interpretazione dei giudici ordinari; pertanto, non
costituisce lacuna costituzionalmente rilevante l'omessa affermazione
legislativa del carattere permanente di un reato."
Coerentemente con tale principio, e con le altre sentenze del giudice
delle leggi in tema di permanenza del reato e prescrizione (in
particolare la sentenza n.46 del 25 febbraio-3 marzo 1998 e la sentenza
n.26 del 5-12 aprile 1978), la questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla difesa va ritenuta manifestamente
infondata ed il motivo di ricorso deve essere respinto.
5. La richiesta di sospensione del dibattimento
La difesa ha poi contestato una diversa violazione del diritto di
difesa, e cioè la reiezione della richiesta di sospensione
del processo in sede di appello con riferimento alla istanza di nuove
attività istruttorie.
Premesso che per giurisprudenza costante di questa Corte la
rinnovazione del dibattimento in appello o lo svolgimento in quella
sede di nuove attività istruttorie risponde a logiche di
eccezionalità, deve osservarsi che le attività di
integrazione probatoria richieste alla Corte di Appello avevano ad
oggetto circostanze successive all'epoca dei fatti contestati ed allo
stesso avvio della fase processuale. Si era, dunque, in presenza di
elementi probatori relativi a circostanze solo indirettamente ed
eventualmente incidenti sulla contestazione. In questo quadro deve
ritenersi correttamente motivata e non caratterizzata da
illogicità l'ordinanza del 21 ottobre 2005 con cui la Corte
di Appello ha ritenuto di non ammettere i nuovi mezzi di prova e di non
procedere alla sospensione del dibattimento così come
richiesta e illustrata dalla difesa del ricorrente. Tale ordinanza (che
questa Corte può esaminare versandosi in ipotesi di motivo
di ricorso di che ha riguardo ad aspetti procedurali); sottolinea come
i fatti sopravvenuti concernessero accesso richiesto
dall'Assessorato all'ambiente della Regione Puglia, così
dando luogo ad attività svoltasi il 24 e 29 settembre 2005
avente "natura prettamente amministrativa e priva di qualunque rilievo
probatorio nell'ambito di questo processo". In presenza di motivazione
corretta e coerente, questa Corte non può sostituire a
quella del giudice del merito la propria valutazione sulla rilevanza
dei nuovi mezzi richiesti, a ciò ostando le caratteristiche
e le finalità del giudizio di legittimità ancora
successivamente alla modifica apportata all'art.606 c.p.p. dalla legge
n.46 del 2006.
6. Le censure mosse ai sensi della lett.e) dell'art.606 c.p.p.
Così affrontate le censure della difesa in ordine alla
correttezza del rapporto fra accusa e decisum e
della gestione dello strumento processuale da parte dei giudici di
prime e seconde cure, occorre procedere all'esame delle censure mosse
dai diversi ricorrenti allo stesso decisum.
La Corte ritiene necessario premettere, atteso il tenore di alcune
delle predette censure, che la modifica apportata dall'art.8 della
legge 20 febbraio 2006, n.46, all'art.606, lett. e) c.p.p. non ha
trasformato la natura essenziale del giudizio avanti la Corte di
cassazione, che resta ancorato al controllo sulle violazioni di legge.
Tale conclusione emerge con chiarezza da numerosi precedenti, ed in
particolare dall'ampia motivazione, che viene condivisa da questo
Giudice, della sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte, 5
maggio-7 giungo 2006, n.19584, Capri ed altra (rv 233773, rv 233774, rv
233775) e della sentenza della Sesta Sezione Penale, 24 marzo-20 aprile
2006, n.14054, Strazzanti (rv 233454).
Osserva la sentenza Capri che prima delle novella del 2006 la
giurisprudenza pacificamente affermava che 1'art.606, lett.e) c.p.p.
non affidava alla Corte "il compito di accertare l'intrinseca
adeguatezza dei risultati dell'interpretazione delle prove, ma quello
ben diverso di stabilire se i giudici di merito avessero esaminato
tutti gli elementi a loro disposizione, se avessero dato esauriente
risposta alle deduzioni delle parti e se nell'interpretazione delle
prove avessero esattamente applicato le regole della logica, le massime
di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione
della prova...". Tali principi sono rimasti fermi anche dopo la legge
n.46 del 2006, e la natura del vizio denunciabile resta attinente alla
correttezza del discorso giustificativo della decisione e non al suo
contenuto valutativo.
Ciò non toglie importanza alla circostanza che il nuovo
testo del citato art.606, lett. e) sottolinea il valore decisivo che la
valutazione del fatto ha con riferimento alla corretta applicazione
della disposizione che si attaglia al caso concreto, posto che
un'errata applicazione delle regole sulla valutazione della prova si
trasforma in una non coerente applicazione della legge al fatto
realmente accaduto ed alle conseguenti responsabilità.
Tuttavia, resta fuori dubbio che il giudizio avanti la Corte di
cassazione risponde a logiche e finalità sue proprie, che
non ripetono quelle del giudizio avanti i giudici di merito. Una
dimostrazione di questa differenza la si ricava, tra l'altro, dalla
motivazione della sentenza n.26 del 2007 della Corte costituzionale,
là dove (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica
apportata dalla legge n.46 del 2006 al potere di impugnazione del
pubblico ministero, afferma che la possibilità di ricorso
avanti la Corte di cassazione è "rimedio (che) non attinge
comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece)
dall'appello".
Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha "la
pienezza del riesame di merito" che è propria del controllo
operato dalle corti di appello, ben si comprende come il riferimento
del nuovo testo dell'art.606, lett. e) agli "altri atti del processo"
su cui il ricorso può fondare la richiesta di annullamento
della sentenza di merito non significa affatto che il giudice di
legittimità sia chiamato, attraverso l'esame di tali atti, a
ripercorre l'intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.
Come giustamente osservato dalla citata sentenza Capri ed altra, il
rapporto tra il disposto degli artt. 544 e 546 c.p.p., e
cioè tra completezza e concisione della motivazione,
comporta che la motivazione del giudice di merito non deve dare conto
di tutti gli elementi di prova esaminati, ma concentrarsi su quelli che
assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che la
finalità della motivazione resta quello di rendere edotte le
parti delle ragioni essenziali della decisione stessa e del percorso
logico seguito. E' all'interno di questa prospettiva di ordine generale
che deve essere inteso il riferimento agli specifici atti del processo,
con la conseguenza che il giudice di legittimità
è chiamato a valutare l'incidenza di eventuali violazioni
commesse dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano
pertanto escluse dal controllo della Corte "non soltanto le deduzioni
che riguardano l'interpretazione e la specifica consistenza degli
elementi di prova, ma anche le incongruenze logiche che non siano
assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate in altri
passaggi argomentativi adottati dai giudici; cosicché non
possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di
ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai
ricorrenti né su altre spiegazioni fornite dalla difesa per
quanto plausibili, ma comunque inidonee ad inficiare la decisione di
merito. Al di là di questi limiti finirebbe per accreditarsi
la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali,
appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.".
In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene che il giudizio
sulla completezza e correttezza della motivazione della sentenza
impugnata non possa confondersi "con una rinnovata valutazione delle
risultanze acquisite, da contrapporsi a quella fornita dal giudice di
merito", con la conseguenza che una motivazione esauriente
nell'affrontare i temi essenziali e coerente nella valutazione degli
elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità.
Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del
2006 i principi essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite
Penali, n.2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv
203767).
7. Il reato contestato al capo A) della rubrica
Per quanto concerne la contestazione di gestione di discarica abusiva
(capo A), la sentenza impugnata appare correttamente motivata (pag.94
ss.) e il ricorso del Sig. Artese deve essere respinto.
7.1 Entrambe le decisioni dei giudici del merito (che la Corte
può esaminare congiuntamente attesa la coincidenza di gran
parte dei motivi di ricorso con quelli di appello) hanno affrontato in
modo completo e convincente il tema delle caratteristiche del sito e
della relativa disciplina giuridica. La sussistenza di una "discarica
non autorizzata" è certamente integrata dalla presenza di
grandi quantità di prodotti contenenti amianto stoccati in
magazzini non sufficientemente protetti oppure depositati addirittura
all'aperto, materiali soggetti al deterioramento della struttura ed
alla conseguente dispersione delle fibre. E, del resto, tutta la
corrispondenza fra la Finanziaria Fibronit, gli enti territoriali e le
autorità di controllo, come esposta in sentenza e sul punto
non contestata dal ricorrente, appare elemento univoco nel dimostrare
la esistenza di un sito che necessitava interventi di salvaguardia e di
bonifica. Né sembra possa mettersi in dubbio che i prodotti
contenenti amianto costituiscono tecnicamente "rifiuti" avente
carattere di pericolosità. Sul punto, richiamato l'univoco
dettato normativo, su cui dovrà tornarsi, si rinvia alla
costante giurisprudenza di questa Sezione della Corte, tra cui la
sentenza 26 ottobre-29 novembre 2006, n.39360, Lo Bello (rv 345464) e
la recentissima decisione del 27 Marzo 2007, n.sezionale 00959/2007,
Bertuzzi ed altri, non massimata.
7.2 Parimenti, la sentenza impugnata risulta pienamente convincente e
immune da vizi allorché afferma che il Sig.Artese ha avuto
co-responabilità nella integrazione del reato. Del tutto
coerente appare la motivazione su questo punto, considerato che tra le
altre cose vi si afferma (con circostanze in fatto che questa Corte
considera come elementi accertati) che l'incarico accettato dal
Sig.Artese non prevedeva una chiara ripartizione di compiti rispetto al
co-liquidatore; che successivamente al sopralluogo del 23 settembre
1999 intercorse per anni tra la soc.Fibronit e gli enti locali e le
autorità competenti una ripetuta corrispondenza avente ad
oggetto gli interventi da porre in essere per porre rimedio al grave
rischio ambientale; che il Sig.Artese fu soggetto attivo di tale
corrispondenza e della predisposizione di progetti di intervento; che
egli fu al vertice di una società costituita proprio al fine
di supportare quei progetti; che, dunque, non si può
escludere la sussistenza in capo al Sig.Artese delle
responsabilità gestionali e degli obblighi connessi
all'attività di liquidatore della società,
responsabilità ed obblighi certamente rilevanti ai sensi
dell'art.40 c.p. (si veda Sezione Terza Penale, sentenza 8 giugno-21
settembre 2006, n.31401, Boccabella, rv 234942).
7.3 Infine, si deve ritenere che la motivazione della sentenza
impugnata affronti in modo corretto il tema, posto nei motivi di
appello, della corrispondenza fra accusa e decisione (pagg.97-98). Non
solo il fatto di reato è stato esposto con chiarezza nel
capo di imputazione e non immutato dalla sentenza di primo grado, ma
appare pacifico che la ritenuta sussistenza della
responsabilità dell'odierno ricorrente a titolo di colpa
è del tutto riconducibile alla lettera del capo A) che
esplicita in modo in,equivoco sia la posizione del Sig.Artese di
liquidatore della società sia ed la condotta a lui ascritta.
8. A fronte di questo quadro complessivo, non può
condividersi la censura che il Sig.Artese muove alla sentenza impugnata
nella parte in cui non terrebbe conto del fatto, asseritamene decisivo,
che il co-liquidatore, Sig.Cuniolo, avesse, rispetto all'odierno
ricorrente, una più diretta presenza e relazione con il
luogo ove i materiali erano depositati. Tale circostanza assumerebbe,
secondo il Sig.Artese, rilievo decisivo per escludere la sussistenza di
una sua qualche responsabilità rispetto alla gestione della
discarica. Risulta dalle sentenze in atti che la situazione in cui
versava l'ex stabilimento era perfettamente nota alla
società, ai precedenti amministratori ed ai liquidatori
nominati nel 1997, tanto che l'attività di liquidazione era
strettamente legata alla bonifica ed alla possibile destinazione degli
immobili e dell'area, come dimostrano i progetti di lottizzazione, di
cui il Sig.Artese si occupò direttamente e che potevano
risultare praticabili solo nella eventualità che il recupero
e la bonifica dell'area andassero a buon fine. La sentenza impugnata ha
fatto buon uso di tali circostanze e la motivazione risulta coerente
con le premesse in fatto e priva di vizi logici, con la conseguenza che
anche sotto tale profilo i motivi di ricorso non meritano accoglimento.
9. Così ricostruiti i fatti, poche osservazioni merita il
ricorso del Sig.Artese nella parte in cui sostiene che egli ebbe ad
attivarsi presentando ben otto proposte di bonifica ed una proposta di
lottizzazione dell'area, circostanze che escluderebbero che egli possa
essere ritenuto responsabile di una illecita gestione della discarica.
Occorre qui chiarire che la situazione di grave illegalità e
di rilevante pericolosità provocata dagli esiti di gestione
della soc.Fibronit e della Finanziaria Fibronit non possono trovare
nelle oggettive e rilevanti difficoltà di soluzione una
circostanza impropriamente scriminante. Così come non
è accettabile, sul piano giuridico, che le cautele di
intervento derivanti dalla legge e dagli atti amministrativi possano
trasferire sugli enti territoriali e sulle amministrazioni pubbliche
forme più o meno dirette di responsabilità che
farebbero venir meno quelle degli amministratori o liquidatori della
società che ha dato origine alla situazione di
illegalità e pericolo. In altri termini, la violazione da
parte dei privati delle regole di cautela e degli obblighi connessi
alla realizzazione e gestione di una discarica non può
perdere il carattere di illiceità sul presupposto che
neppure le autorità e gli enti aventi competenza sul sito e
sugli immobili hanno saputo riportare nell'ambito della
legalità una situazione gravemente compromessa cui i privati
hanno dato origine: pur nella consapevolezza delle
difficoltà che si collegano alla sanatoria di una
realtà tanto complessa, quella prospettata dal Sig.Artese
costituisce una vera inversione dei principi di
responsabilità che non può essere in alcun modo
condivisa.
Del tutto infondate sono, dunque, le doglianze del Sig.Artese - e le
sue sorprendenti richieste di risarcimento dei danni rivolte ai
soggetti pubblici costituitisi parte civile - che censurano la sentenza
impugnata trasferendo sulle amministrazioni pubbliche le
responsabilità del mancato intervento di risanamento e
bonifica.
10. 11 reato sub A) come reato permanente
Considerate le caratteristiche del sito e la vicenda che in concreto ha
visto interessata la sede della ex fabbrica Fibronit, la Corte
può ritenere accertato che tale fabbrica ed i terreni di sua
pertinenza divennero una discarica in cui giacevano prodotti contenenti
amianto, ed accertato, altresì, che per tutto l'arco di
tempo oggetto della contestazione vi fu un pericolo altissimo di
inquinamento ambientale e sussistette in concreto la dispersione di
fibre di amianto.
A fronte di questo stato di cose, sorprende che il ricorso del
Sig.Artese insista con tanta larghezza di argomenti ed energia nel
contestare il carattere di permanenza del reato oggetto del capo A)
della rubrica e lo stesso fondamento di tale istituto giuridico.
La dottrina e la giurisprudenza da decenni (tra le moltissime si vedano
le sentenze di questa Sezione del 29 settembre-4 dicembre 1989,
n.12273, Barucca, rv 177178; 7 luglio-27 settembre 1995, n.2691,
'merito, rv 203476; 14 aprile-5 maggio 2005, n.16890, Gallucci e altro,
rv 231649) hanno esaminato e quindi fondato le caratteristiche del
concetto di permanenza nel reato e le differenze esistenti rispetto
alle diverse nozioni del reato istantaneo con effetti permanenti e del
reato continuato. Si tratta di osservazione talmente ovvia che questa
Corte può in questa sede limitarsi ad evidenziare come la
condotta di gestione di una discarica abusiva di rifiuti pericolosi
rappresenti un esempio paradigmatico e di solare evidenza di permanenza
del reato (sul punto si rinvia, tra le altre, alla sentenza di questa
Sezione del 15-27 gennaio 2004, n.2662, PM in proc.Zanoni, rv 227219;
si veda anche Quinta Sezione Penale, sentenza 14 gennaio-25 marzo 2005,
n.11924, Spagnolo e altri, rv 231704).
Diverso il discorso sulle conseguenze che la natura permanente del
reato ha con riferimento alla prescrizione del reato, discorso che
sarà affrontato dopo avere esaurito l'esame dei motivi di
ricorso relativi agli altri capi di imputazione.
11. Il reato previsto al capo D) della rubrica (art.50, co.2
d.lgs. n.22 del 1997)
Se, dunque, la sentenza impugnata merita di essere confermata con
riferimento alla decisione sul capo A) della rubrica, questa Corte
ritiene che essa, con riferimento al reato contestato al Sig.Artese al
capo D), abbia erroneamente attribuito valore dirimente alla
circostanza che le ordinanze sindacali del maggio e novembre 1997 e,
poi, del marzo 2001 furono indirizzate al solo co-liquidatore e non
anche al Sig.Artese.
Si è visto, in precedenza, che la Corte territoriale ha
considerato il Sig.Artese pienamente coinvolto nelle
attività di liquidazione e ricoprire di fatto un ruolo
attivo nelle attività volte ad affrontare la complessa
destinazione delle aree e degli immobili della soc.Fibronit. Se
ciò è vero ai fini della
responsabilità per il reato contestato al capo A) della
rubrica, non appare né coerente né logico
concludere che il Sig.Artese fosse, invece, all'oscuro delle ordinanze
sindacali del 1997 e del 2001, ordinanze che comportavano per la
Finanziaria Fibronit il sorgere di impegni che erano sia strettamente
interessati alle trattative in corso con gli enti territoriali sia
direttamente rilevanti ai fini della bonifica che, si è
visto, costituiva passaggio essenziale per ogni futura lecita
destinazione degli immobili a terzi (destinazione di cui il Sig.Artese,
come ripetutamente affermato dalla sua stessa difesa, ebbe ad occuparsi
direttamente).
L'ipotesi di reato prevista al capo D) della rubrica non può
essere considerata come meramente formale, quasi che la intestazione
delle ordinanze in capo ad uno solo degli amministratori della
società interessata possa per ciò solo avere come
conseguenza l'assenza del sorgere di obblighi giuridici per gli altri
amministratori. Ritiene la Corte che per restare esenti da
responsabilità questi ultimi debbano risultare del tutto
all'oscuro del provvedimento, mentre, come si è visto, la
stessa impostazione che la Corte territoriale ha dato alla
ricostruzione dei fatti sembra comportare nel caso di specie una
conclusione ben diversa.
Si è, dunque, in presenza di una
contraddittorietà evidente della motivazione e la sentenza
va annullata sul punto.
12. Il reato contestato al capo B) della rubrica (art.674 c.p.)
Ritiene la Corte che anche con riferimento al capo B) della rubrica la
sentenza impugnata risulti viziata e debba essere annullata.
Erroneamente, infatti, la motivazione fa discendere la non sussistenza
della violazione dal mancato superamento dei valori contemplati dal DM
6 settembre 1994.
Sul punto appare, al contrario, accoglibile l'impostazione dei
ricorrenti, Procura generale della Repubblica e parti civili, che
collegano la rilevanza giuridica di quei valori esclusivamente allo
svolgimento di attività autorizzate e regolamentate.
Infatti, sia la disciplina vigente all'epoca dei fatti (operante
nell'ambito dei principi fissati a partire dalla direttiva 80/1107/CEE
e ribaditi dalle Conclusioni del Consiglio in data 7 aprile 1998), sia
quella successiva (d.lgs. n.257 del 2006, avendo riguardo alla
direttiva 2003/18/CE) operano con riferimento al rispetto da parte
dell'imprenditore dei limiti posti a tutela delle persone che vengono
professionalmente a contatto con l'amianto e le fibre di amianto, in
tal modo assicurando che un'attività regolamentata riduca al
massimo grado i rischi inevitabilmente connessi alle lavorazioni, al
trattamento e allo smaltimento di tale sostanza.
Diverso il discorso per la dispersione delle fibre nell'ambiente
circostante, dispersione che assume carattere di incontrollata
pericolosità e riguarda una platea non limitata di possibili
destinatari. Ritiene pertanto la Corte che quando tale situazione di
pericolosità è collegata ad una situazione di
irregolare gestione di una discarica, il reato previsto dall'art.674
c.p. risulti integrato dalla prova che la dispersione di fibre vi sia
stata, senza che assuma rilievo il superamento dei valori che le regole
in vigore riferiscono ad attività autorizzate e controllate
e, come tali, poste all'interno di un sistema di cautele che
è capace di ridurre al massimo i rischi per le persone. Tale
sistema di cautele, infatti, ricomprende la formazione delle persone
che vengono o possono venire a contatto con le fibre di amianto, la
predisposizione di strumenti e di abbigliamento atti a ridurre il
pericolo che le fibre possano venire respirate, la predisposizione di
attività di decontaminazione: tutte cautele che restano
escluse nelle situazioni come quelle create dalla gestione della
soc.Fibronit e della Finanziaria Fibronit.
Se, dunque, vi è in atti la prova che una dispersione di
fibre di amianto vi fu (v. pag.101 della motivazione) e che polveri di
amianto furono rinvenute nelle pertinenze delle abitazioni adiacenti la
ex fabbrica (ibidem), non vi è dubbio che tali circostanze
fossero "idonee a cagionare danni alla salute dei cittadini",
così come contestato al capo B) della rubrica. A parere di
questa Corte l'affermare, come ha fatto il giudice di prime cure, che
si sia in presenza di "emissioni" punibili ai sensi dell'art.674 c.p.
non realizza alcuna "operazione creativa" e costituisce corretta
applicazione della disciplina giuridica al caso concreto.
La sentenza impugnata deve pertanto essere sul punto annullata.
13. I reati contestati ai capi C) ed E) della rubrica
(art.635, co.2 n.3 c.p. e art.51 bis d.igs. n.22 del 1997)
La stessa sentenza merita, invece, conferma con riferimento ai reati
contestati ai capi C) ed E) della rubrica. Quanto al reato previsto dal
comma secondo dell'art.635 c.p., la motivazione dà conto di
una situazione di fatto (pag.102) che ragionevolmente impone di
retrodatare il fatto lesivo ad epoca anteriore alla data in cui il
Sig.Artese assunse la qualità di liquidatore, non potendo
rilevare ai fini della sussistenza e dell'epoca del danneggiamento
l'eventuale successiva assenza di condotte riparatorie.
Quanto al reato previsto dall'art.5 i bis del d.lgs. n.22 del 1997, va
preso atto della circostanza che la Corte territoriale (pag.104-106
della motivazione) ritiene non sussistere la prova del superamento dei
limiti previsti dalla normativa attuativa dell'art.17 del d.lgs. n.22
del 1997 richiamato nello stesso capo d'imputazione. A differenza di
quanto esposto con riferimento al capo B)della rubrica, i valori di
riferimento (DM 25 ottobre 199/n.471) non si riferiscono ad
attività autorizzate e regolamentate, bensì alle
conseguenze di attività comportanti inquinamento
dell'ambiente o dei suoli, e cioè a situazioni
corrispondenti a quella che viene riferita alla
responsabilità del Sig.Artese.
In tale contesto normativo e di fatto, la esistenza di un deficit
probatorio su cui la Corte territoriale ha fondato la pronuncia di
assoluzione risulta motivata il modo logico e non censurabile in questa
sede.
14. La maturata prescrizione per i reati contestati ai capi
A), B) e D)
E' così giunto il momento di esaminare il motivo di ricorso
del Sig.Artese che ha ad oggetto la maturazione del termine
prescrizionale a seguito della cessazione della permanenza del reato in
coincidenza con il sequestro preventivo disposto
dall'autorità giudiziaria in data 12 gennaio 2002. Sostiene,
infatti, il ricorrente che l'eventuale permanenza del reato non avrebbe
potuto protrarsi oltre la data in cui iLSig.Artese, quale liquidatore
della Finanziaria Fibronit, ha perduto la disponibilità
dell'intera area seguito dell'intervenuto sequestro.
Ritiene la Corte di dover muovere dalla considerazione, costantemente
affermata dalla giurisprudenza di legittimità, che la
permanenza cessa nel momento in cui l'offesa al bene protetto viene
meno oppure nel momento in cui l'azione prescritta viene realizzata
oppure non è più esigibile, cessando in tal modo
l'antigiuridicità vuoi per fatto volontario dell'obbligato o
per altra causa (si vedano, tra le molte, Sezione Terza penale,
sentenza Barucca, cit., rv 177178; 23 ottobre 1996-29 gennaio 1997,
n.604, Salmeri, rv 207035; 16 aprile-23 maggio 1997, n.1721, PM in
proc.Sciarrino, rv 208053; 27 marzo-14 maggio 2002, n.18198, Pinori, rv
221995; 12 febbraio-18 marzo 2004, n.13204, Merico e altro, rv 227571;
24 settembre-12 novembre 2004, n.44249, PM in proc.Cascina, rv 230468).
Con specifico riferimento al reato previsto dal citato art.51, comma 3
del d.lgs. 5 febbraio 1997, n.22, merita segnalare che questa Sezione
della Corte ha già affrontato il tema della cessazione della
permanenza con riferimento al termine introdotto dal d.lgs. 13 gennaio
2003, n.36 (attuativo della direttiva 31/99/CE). Si tratta di termine
che, in assenza di rimozione dei rifiuti o di ottenimento della
autorizzazione, viene fissato in dieci anni a far data dall'ultimo
conferimento (si veda la sentenza 15-27 gennaio 2004, n.2662, PM in
proc.Zanoni, rv 227219). Detto termine, indipendentemente dal tema se
operi o meno secondo il principio del favor rei, non assume rilievo
diretto in questo caso, ma conferma il legame esistente fra la
persistenza degli effetti pericolosi e nocivi e la permanenza del reato
contestato al Sig.Artese.
15. Da tutto quanto si è detto, emerge con chiarezza che il
reato previsto dall'art.51, comma terzo del d.lgs. n.22 del 1997 non
può sussistere in forma del tutto indipendente dalla
riferibilità alla condotta, anche solo omissiva, della
persona responsabile. In modo coerente, la giurisprudenza di questa
Sezione ha costantemente affermato il principio che il sequestro
preventivo dell'area o dei beni interessati fa cessare il loro legame
con la persona e comporta la cessazione della permanenza (tra le altre,
Terza Sezione Penale, sentenza 8 maggio-20 giugno 2003, n.26811, PG in
proc.Orlando, rv 225734).
Questa Corte non può, peraltro, non rilevare che la Prima
Sezione Penale, con sentenza del 13 giugno-8 settembre 2006, n.29855,
Pezzetti e altro (rv 235255) ha, affermato il seguente principio: -In
tema di reati ambientali, il reato di inquinamento previsto dagli artt.
51 bis e 17, comma secondo, D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 - di natura
permanente anche dopo l'entrata in vigore degli artt. 242 e 257 del
D.Lgs. n. 152 del 2006 che ha abrogato (art. 264, comma primo lett. i)
il D.Lgs. n. 22 del 1997 - non cessa per effetto del sequestro del sito
inquinante, preordinato all'eliminazione del danno, ma persiste fino
agli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale
delle aree, condotte riparatorie - queste - previste anche dal nuovo
testo unico (art. 247 D.Lgs. n. 152 del 2006) che, ove poste in essere
prima della pronuncia giudiziale, fanno venire meno la punibilita' del
reato."
Si legge nella motivazione di tale decisione che "deve
escludersi che il sequestro del sito faccia cessare la permanenza del
reato, per gli effetti di cui all'art.158 C.P. in relazione all'art.
157, la quale persiste fino a quando non vengono fatte venire meno le
conseguenze dannose o pericolose ovvero con la sentenza di condanna
anche non irrevocabile. Il sequestro infatti era ed è
preordinato alla eliminazione del danno e non impedisce, neppure dopo
la entrata in vigore del d.lgs. n.152 del 2006 (art,247), cosi come non
impediva prima, gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e
ripristino ambientale delle aree anche al fine di evitare la ulteriore
propagazione degli inquinanti ed il conseguente peggioramento della
situazione ambientale. Sarebbe invero singolare che il sequestro delle
aree ... possa determinare la cessazione della permanenza e
cioè della antigiuridicità di una condotta che il
responsabile della stessa è tenuto a denunciare ed a
riparare evitando pure il sequestro se si mette immediatamente a
disposizione e predispone gli interventi riparatori. ".
Conclude sul punto la motivazione che "soltanto la
eliminazione del danno" - che non risulta nel caso intervenuta -
"avrebbe potuto determinare la cessazione della permanenza".
16. A fronte di tale diversa impostazione, questa Corte
ritiene, nei termini che seguono, di dover condividere l'orientamento
illustrato fin qui seguito dalla Sezione.
Non vi è dubbio che la decisione assunta dalla prima Sezione
Penale con la sentenza Pezzetti e altro si fa carico di un rischio
connesso alla interpretazione che fa derivare dal sequestro la
cessazione della permanenza del reato: il rischio che proprio la
condotta inerte dei responsabili del sito o della discarica,
costringendo l'autorità ad un intervento cautelare, finisca
per trasformarsi in un vantaggio ai fini del decorso dei termini
prescrizionali. In sostanza, coloro che si attivassero per porre
rimedio alla situazione di pericolo vedrebbero permanere il reato fino
al momento in cui le attività positive fanno cessare il
pericolo stesso, mentre coloro che omettessero ogni intervento
vedrebbero cessare la permanenza in momento potenzialmente anticipato
grazie al doveroso intervento delle autorità.
La soluzione adottata con tale sentenza non può essere
criticata affermando, secondo l'impostazione generale del ricorso del
Sig.Artese, che in tal modo la situazione giuridica
dell'indagato/imputato diverrebbe incerta in quanto il decorso del
termine prescrizionale dipenderebbe da circostanza a lui estranea, e
cioè dalla adozione o non adozione di misure cautelari da
parte delle autorità. Si tratta di obiezione che non
considera che l'intervento cautelare dell'autorità
costituisce, innanzitutto, una misura a tutela degli interessi offesi o
messi in pericolo dalla condotta del responsabile e si trasforma, poi,
in un (immeritato) vantaggio per il responsabile stesso in relazione
all'estinzione del reato per prescrizione. Nessuna conseguenza
pregiudizievole, dunque, per la posizione giuridica della persona
indagata o imputata.
Osserva a questo punto la Corte che nel caso in esame il sequestro
conservativo disposto dall'autorità giudiziaria barese dopo
alcuni anni dall'inizio delle indagini si fonda proprio sulla inerzia
dei responsabilità della Finanziaria Fibronit rispetto alla
esigenza di interventi operativi effettivi che facessero cessare la
situazione di gravissimo pericolo e di attuale danno protraentesi ormai
da moltissimo tempo.
Occorre dunque chiedersi se, il Sig.Artese, qualora avesse inteso dare
finalmente corso alle necessarie attività, avrebbe potuto
ancora farlo. La risposta, alla luce degli atti, non può
essere univocamente positiva. L'atto di sequestro preventivo adottato
dal giudice delle indagini preliminari il 12 gennaio 2002 nei confronti
di Galvani, Cuniolo, Artese e altri, non prevede in alcuna forma la
prosecuzione delle attività o comunque la
possibilità per gli indagati di accedere all'area e agli
immobili, così definitivamente facendo cessare per essi la
disponibilità dei beni. Deve ritenersi, in conclusione, che
le condotte penalmente rilevanti trovino nel sequestro preventivo un
momento discriminante e debbano considerarsi esaurite.
E' ben vero che gli indagati avrebbero potuto attivarsi per richiedere
le opportune modifiche del provvedimento giudiziale anche al fine di
porre in essere nuove condotte attive, ma si tratta di elementi che,
oggi probabilmente rilevanti ai sensi degli artt.242 ss. del d.lgs. 3
aprile 2006, n.152, non sembrano avere valore decisivo nella vigenza
della precedente nomativa.
Ritiene conclusivamente la Corte che il reato debba intendersi cessato
alla data del 12 gennaio 2002 e che il termine massimo di prescrizione,
non essendosi in presenza di motivi inammissibili, sia oggi
definitivamente maturato.
17. Osserva la Corte che risultano prescritti anche i reati
contestati ai capi B) e D) della rubrica.
Per il primo di essi la contestazione deve ritenersi cessata al momento
del sequestro preventivo dell'area e degli immobili. Una volta ritenuto
che la perdita della disponibilità dei beni comporti
l'interruzione del rapporto tra la condotta e la lesione del bene
protetto, non vi è dubbio che ciò vale a maggior
ragione per la contravvenzione prevista dall'art.674 c.p., le cui
caratteristiche sono state in precedenza esaminate.
Per il reato contestato al capo D), emerge dalla stessa rubrica che a
condotta punibile conseguente all'ultima ordinanaza sindacale in ordine
di tempo va collocata non oltre la data del 2 maggio 2001.
18. Le statuizioni civili.
Così esaminati i motivi di ricorso relativi ai
reati contestati al Sig.Artese, la Corte deve prendere in
considerazione i motivi di ricorso relativi alle statuizioni civili,
così come disposto dall'art.578 c.p.p. che fa obbligo alla
corte di appello e a quella di cassazione di pronunciare su tali
aspetti anche nel caso in cui dichiarino l'estinzione del reato per
amnistia o prescrizione.
La Corte ha, come si è visto, confermato le conclusioni cui
la sentenza impugnata è giunta relativamente al capo A), con
annullamento per essere nel frattempo maturato il termine
prescrizionale, mentre ha disposto l'annullamento della stessa sentenza
con riferimento all'assoluzione del Sig. Artese per i reati contestati
ai capi B) e D) della rubrica, anche in questo caso accertando
l'intervenuta prescrizione dei reati. Ha, invece, confermato la
sentenza impugnata nella parte in cui ha assolto il Sig.Artese per i
reati contestati ai capi C) ed E).
A fronte di tali conclusioni, che accolgono parzialmente i motivi di
ricorso delle parti civili costituite, la Corte non può che
disporre la condanna del Sig.Artese al risarcimento dei danni causati
alle parti civili, danni che andranno liquidati in separata sede,
così come disposto dalla sentenza della Corte territoriale.
Della richiesta di risarcimento avanzata dal Sig.Artese nei confronti
di alcune delle parti civili già si sono esposte le ragioni
che ne impediscono l'accoglimento.
Per quanto concerne i motivi di ricorso relativi alla provvisionale,
ritiene la Corte che erroneamente la sentenza impugnata abbia escluso
dal beneficio le parti civili WWF e CODACONS. Il fatto che la
quantificazione effettuata dal giudice di prime cure sia avvenuta "in
via equitativa" per tutte le parti civili (pag.108 della motivazione
della sentenza della Corte di Appello), non consente di ritenere che
ciò comporti l'assenza di qualsiasi prova in ordine
all'entità del danno, che sarà legittimamente
accertata in separata sede, e comporti l'arbitrarietà della
soluzione adottata dal Tribunale stesso. Ciò è
tanto vero che per la parte civile Ministero dell'ambiente la Corte
territoriale ha ritenuto la quantificazione fatta del Tribunale
compatibile con una valutazione anch'essa equitativa.
Venendo così alla provvisionale disposta nei confronti del
Ministero dell'ambiente, ritiene la Corte che debba essere accolta la
richiesta di correzione di errore avanzata dall'Avvocatura dello Stato
alla Corte territoriale e qui reiterata a seguito della decisione di
quella. Risulta pacificamente dalla lettura di pag.108 della
motivazione che la Corte ha ritenuto corretta e fondata la
quantificazione in Euro cinque milioni effettuata dal giudice di prime
cure; lettura che non lascia dubbi, proprio perché contiene
un riferimento "a contrario" alla scelta della Corte di Appello di non
confermare la provvisionale in favore delle altre parti civili.
Inoltre, il riferimento esplicito della motivazione ai costi di
bonifica ed ai decreti ministeriali 18 settembre 2001 e 8 luglio 2002
(valutati come provvedimenti doverosi ed efficaci), alla
quantificazione iniziale operata dall'Avvocatura dello Stato in oltre
sei milioni di Euro ed alla mancata contestazione da parte della difesa
concordano in modo in equivoco con la soluzione che vuole la Corte
territoriale confermare la provvisionale disposta dal Tribunale nella
misura di cinque milioni di Euro.
Così stando le cose, e non sussistendo su questo punto il
minimo dubbio, deve ritenersi ineqivoco che la indicazione di soli
cinque mila Euro contenuta nel dispositivo è frutto di
errore materiale. Tale errore che non può in alcun modo
riferirsi alla quantificazione che l'Avvocatura dello Stato ha
indicato, sul punto nelle proprie conclusioni, anche in tal caso
realizzando un contrasto con la richiesta di conferma della sentenza di
primo grado; si osserva a tale proposito che delle conclusioni
dell'Avvocatura dello Stato la sentenza non fa parola e che in
motivazione non si affronta in alcun modo l'eventuale contrasto tra le
diverse entità su cui la difesa ha insistito in sede di
discussione davanti a questa Corte.
19. La confisca
L'annullamento della sentenza impugnata con riferimento al capo A)
della rubrica comporta il venire meno dei presupposti per il
mantenimento della confisca disposta con riferimento all'area ex
Fibronit, che va pertanto restituita nella disponibilità
degli aventi diritto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio in ordine ai reati di cui
agli artt.674 c.p., nonché 51, comma 3 e 50, comma 2 del
d.lgs. n.22 del 1997 perché estinti per prescrizione.
Conferma le statuizioni civili relativamente al risarcimento dei danni
da liquidarsi in separata sede. Annulla la sentenza impugnata
relativamente alla mancata liquidazione di provvisionale in favore
delle parti civili WWF Onlus e CODACONS, con rinvio alla Corte di
Appello di Bari in sede civile. Corregge il dispositivo della sentenza
impugnata nel senso che la provvisionale in favore del Ministero
dell'ambiente deve intendersi determinata in Euro cinque milioni.
Annulla altresì la sentenza impugnata senza rinvio in ordine
alla disposta confisca e dispone la restituzione agli aventi diritto
delle cose confiscate.
Respinge nel resto i ricorsi.
Dichiara manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale sollevata nel ricorso Artese.
Così deciso, in Roma il 27 Marzo 2007.