Cass. Sez. III n. 45113 del 28 novembre 2022 (UP 28 ott 2022)
Pres. Di Nicola Est. Corbo Ric. Di Matteo
Rifiuti.Materie fecali e fertirrigazione

Le materie fecali sono escluse dalla disciplina dei rifiuti di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 a condizione che provengano da attività agricola e che siano effettivamente riutilizzate nella stessa attività e la pratica della "fertirrigazione", che sottrae il deposito delle deiezioni animali alla disciplina sui rifiuti, richiede sia l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, sia l'adeguatezza di quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture, sia l'assenza di dati sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la “fertirrigazione”, quali lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta a fine ciclo vegetativo.


RITENUTO IN FATTO

 

1. Con sentenza emessa in data 29 settembre 2021, il Tribunale di Vallo della Lucania ha dichiarato la penale responsabilità di Angela Maria Di Matteo per il reato di cui agli artt. 256, comma 2, e 191, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 e la ha condannata alla pena di 6.000,00 euro di ammenda. 

Secondo il Tribunale, l’imputata, quale legale rappresentante dell’omonima azienda agricola dedita all’allevamento di bufale e vitelli allo stato brado, avrebbe smaltito rifiuti costituiti da liquami zootecnici provenienti dall’allevamento bufalino da lei gestito mediante spandimento sul terreno, pur se in difetto di qualunque autorizzazione, con condotta accertata il 24 maggio 2016. 

 

2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Angela Maria Di Matteo, con atto sottoscritto dall’Avvocato Arnaldo Miglino, articolando dodici motivi.

2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 354 e 356 cod. proc. pen., nonché 114 disp. att. cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta legittimità degli accertamenti urgenti e del sequestro preventivo.

Si deduce che il sopralluogo ed il sequestro, effettuati dai Carabinieri il 24 maggio 2016, e documentati in un unitario verbale di sequestro, sono affetti da nullità, perché l’indagata non è stata avvisata della facoltà di farsi assistere da un difensore, e che tale nullità è stata eccepita sia con memoria depositata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento sia in udienza. Si rappresenta che l’indagata, pur non presente sul posto all’atto del sopralluogo e del sequestro, era prontamente reperibile, attraverso il marito, rinvenuto nel luogo degli accertamenti dalla polizia giudiziaria. Si osserva, inoltre, che il sequestro è stato applicato all’esito dell’attività di indagine compiuta “a sorpresa”.

2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 185, comma 2, 354 e 356 cod. proc. pen., nonché 114 disp. att. cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta legittimità degli atti successivi agli accertamenti urgenti ed al sequestro preventivo.

Si deduce che la nullità del sopralluogo, unica attività di indagine svolta, si è necessariamente propagata agli atti successivi, e, in particolare, all’avviso di conclusione delle indagini preliminari nonché al decreto di citazione a giudizio, con conseguente illegittimità dell’instaurazione del giudizio.

2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 431, 491, comma 2, 354 e 356 cod. proc. pen., nonché 114 disp. att. cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo alla acquisizione del verbale di sequestro ed alla ammissione delle prove testimoniali.

Si deduce che il verbale di sequestro, documentante anche le attività di sopralluogo, avrebbe dovuto essere espunto dal fascicolo per il dibattimento, perché affetto da nullità, e che le testimonianze, in particolare quella del Maresciallo Pasquale D’Arco, non avrebbero potuto essere ammesse, perché aventi ad oggetto un’attività, quella di sopralluogo, svolta in modo illegittimo. 

2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 185, comma 2, e 499, comma 5, cod. proc. pen., norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo alla illegittimità o inutilizzabilità delle dichiarazioni del Maresciallo Pasquale D’Arco.

Si deduce che il Maresciallo Pasquale D’Arco ha fatto uso del verbale di sopralluogo, senza esserne stato espressamente autorizzato, e che tale vicende ha determinato la nullità o inutilizzabilità della sua deposizione perché non può ritenersi consentita un’autorizzazione postuma a sanatoria.

2.5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo alla genericità della motivazione della sentenza impugnata.

Si deduce che la motivazione della sentenza impugnata non consente di individuare con precisione gli elementi istruttori dai quali è desumibile il convincimento del giudice in ordine alle attività di sversamento dei rifiuti, ed alla loro consistenza e rilevanza.

2.6. Con il sesto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo al difetto di correlazione tra accusa e sentenza.

Si deduce che la sentenza impugnata è nulla perché dalla sua motivazione emerge come l’affermazione di responsabilità sia fondata su una condotta di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti, ossia su una condotta diversa da quella contestata nell’imputazione, avente ad oggetto lo smaltimento di rifiuti in assenza della prevista autorizzazione. 

2.7. Con il settimo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 75, 112, comma 1, e 185, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, nonché al D.M. 7 aprile 2006 e al Decreto della Giunta Regionale Campania n. 120 del 2007, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta necessità di autorizzazione per il rilascio delle sostanze fecali su terreni agricoli a fini agronomici.

Si deduce che il fatto ritenuto in sentenza non può ritenersi integrare l’illecito penale, quanto meno sotto il profilo della colpevolezza, perché: -) l’art. 185 d.lgs. n. 152 del 2006 dispone l’inapplicabilità del d.lgs. medesimo alle materie fecali; -) il combinato disposto degli artt. 112, comma 1, e 75 d.lgs. n. 152 del 2006 prevede come unica condizione all’utilizzo agronomico degli effluenti di allevamento la comunicazione al Comune; -) il Decreto della Giunta Regionale Campania n. 120 del 2007, attraverso il richiamo al D.M. 7 aprile 2006, detta le norme tecniche per l’utilizzazione agronomica degli effluenti.

2.8. Con l’ottavo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla mancata valutazione degli elementi di prova prodotti dalla difesa per dimostrare la liceità dello spandimento di effluenti agricoli sul terreno.

Si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di considerare la “comunicazione per l’utilizzazione agronomica degli affluenti zootecnici ai sensi dell’art. 112 del D.Lvo 152/06, del DM 7 aprile 2006 e della DGR n. 120/07”, fatta al Sindaco competente in data 11 aprile 2016, e le dichiarazioni testimoniali dei titolari di tre aziende agricole vicine a quella dell’imputata, elementi istruttori dai quali si evince come i liquami rilasciati dagli animali dell’allevamento erano utilizzati per concimare i terreni dell’azienda e delle aziende vicine.

2.9. Con il nono motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 75, 112, comma 1, e 185, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, nonché al D.M. 7 aprile 2006 e al Decreto della Giunta Regionale Campania n. 120 del 2007, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta illegittimità delle modalità di spandimento dei liquami.

Si deduce che, siccome i liquami erano destinati alla concimazione dei terreni, è irrilevante che lo spandimento degli stessi sia avvenuto per «ruscellamento» dai lagoni e dalle tubazioni.

2.10. Con il decimo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 75, 112, comma 1, e 185, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, al D.M. 7 aprile 2006 e al Decreto della Giunta Regionale Campania n. 120 del 2007, e all’art. 131-bis cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla mancata considerazione delle dichiarazioni del funzionario dell’ARPAC e del verbale di sopralluogo dal medesimo prodotto in udienza, rilevante ai fini dell’apprezzamento dell’assenza o dell’esiguità del danno o del pericolo.

Si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare le dichiarazioni del funzionario dell’ARPAC e del verbale di sopralluogo dal medesimo prodotto in udienza, dai quali si rileva soltanto un «piccolo ristagno di liquami» e «cumuli di letame sul suolo», e, quindi, l’inoffensività della condotta, o comunque la particolare tenuità del fatto.  

2.11. Con l’undicesimo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 157 e 158 cod. pen., e agli att. 256, comma 2, e 192, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla mancata dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.

Si deduce che il reato è estinto per prescrizione perché i fatti sono stati accertati con riferimento ad un preciso momento temporale, il 24 maggio 2016 e non è ravvisabile una permanenza dell’illecito. Si rappresenta, infatti, che: -) in data 3 giugno 2016, il giudice ha autorizzato l’imputata ad usare i beni nel rispetto delle prescrizioni dell’A.S.L.; -) i funzionari dell’A.S.L., in data 1° giugno 2016, hanno accertato l’osservanza delle regole igieniche prescritte; -) il sequestro è stato revocato in data 27 aprile 2017.

2.12. Con il dodicesimo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 163 e 164 cod. pen. e 3 d.P.R. n. 313 del 2002, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla sospensione condizionale della pena.

Si deduce che è stata disposta la sospensione condizionale della pena, nonostante l’assenza di richiesta e di interesse dell’imputata in ordine al conseguimento del beneficio.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO 

 

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate. 

 

2. Manifestamente infondate sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano la legittimità degli accertamenti urgenti e del sequestro preventivo, in quanto effettuati senza dare avviso all’indagata della facoltà di nominare un difensore, secondo quanto previsto dagli artt. 354 e 356 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen.   

Invero, il combinato disposto degli artt. 354 e 356 cod. proc. pen. prevede la facoltà per il difensore della persona nei confronti vengono svolte le indagini di assistere al compimento degli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone, oltre che all’esecuzione di sequestri, ma non anche l’obbligo di informare detta persona della facoltà di nominare un difensore.

L’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., poi, dispone che la polizia giudiziaria, nel procedere al compimento degli atti indicati nell’art. 356 cod. proc. pen., avverte la persona sottoposta alle indagini, «se presente», della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia.

Nella specie, come indicato anche nel ricorso, l’indagata non era presente all’atto del sopralluogo e del sequestro. Mancava quindi il presupposto perché operasse l’obbligo di avvertimento di cui all’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. Né la disposizione può essere interpretata estensivamente, come prospettato nel ricorso, laddove si asserisce la pronta reperibilità dell’indagata, atteso il principio di tassatività delle nullità, fissato dall’art. 177 cod. proc. pen.   

 

3. Manifestamente infondate sono anche le censure formulate nel secondo e nel terzo motivo, che deducono, rispettivamente, l’uno, la nullità derivata degli atti processuali successivi al sopralluogo ed al sequestro, siccome strettamente consecutivi rispetto a questi ultimi, ritenuti affetti da nullità, e, l’altro, per la stessa ragione, l’illegittimità dell’acquisizione al fascicolo del dibattimento del verbale di sequestro e dell’ammissione della prova testimoniale in ordine alle attività di sopralluogo e di sequestro.

Queste censure, infatti, hanno come indefettibile presupposto la dichiarazione di nullità degli atti di sopralluogo e di sequestro, che, però, per le ragioni indicate in precedenza al § 2, deve essere esclusa.  

 

4. Manifestamente infondate, ancora, sono le censure proposte con il quarto motivo, che contestano l’utilizzabilità o comunque la validità delle dichiarazioni del Maresciallo dei Carabinieri Pasquale D’Arco, perché ha consultato in aiuto della memoria il verbale di sopralluogo senza essere preventivamente autorizzato dal Giudice, ma ricevendo da questi solo un’autorizzazione postuma. 

Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui la violazione delle regole per l'esame dibattimentale del testimone non dà luogo né alla sanzione di inutilizzabilità, poiché non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge, bensì di prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte; né ad una ipotesi di nullità, atteso il principio di tassatività vigente in materia e posto che l'inosservanza delle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178 cod. proc. pen. (così Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, Sapone, Rv. 241227-01, e Sez. 1, n. 39996 del 14/07/2005, Grancini, Rv. 232941-01, nonché, analogamente, Sez. 3, n. 52435 del 03/10/2017, M., Rv. 271883-01).

Di conseguenza, anche a voler ritenere che l’art. 499, comma 5, cod. proc. pen. preveda soltanto un’autorizzazione preventiva alla consultazione in aiuto della memoria degli atti redatti dal testimoni, e che, quindi, nel corso dell’esame dell’ufficiale di polizia giudiziaria sia stata violata tale disposizione, non si è verificata alcuna nullità o inutilizzabilità.

Per completezza, inoltre, va rilevato, che, per quanto emerge dal verbale di udienza allegato al ricorso, l’annotazione di servizio concernete il verbale di sopralluogo è stata chiaramente esibita al testimone sin dall’inizio della deposizione, senza che la difesa abbia formulato alcuna eccezione. L’eccezione, per la precisione, risulta formulata solo alla fine dell’esame del teste da parte del Pubblico Ministero.

 

5. Prive di specificità sono le censure indicate nel quinto motivo, che contestano la genericità della motivazione della sentenza impugnata, deducendo l’impossibilità di desumere, dalla stessa, quali siano gli atti istruttori ritenuti rilevanti, e perché gli stessi debbano essere ritenuti attendibili.

Invero, la sentenza pronunciata dal Tribunale, innanzitutto, ha indicato nominativamente i testi escussi e gli atti acquisiti e ritenuti utilizzabili, in particolare il verbale di sopralluogo. Ha poi precisato che i fatti di illegittimo sversamento dei rifiuti erano stati accertati sulla base delle «dichiarazioni dei testi della cui attendibilità non vi possono essere dubbi in quanto pubblici ufficiali, corroborate anche dalla documentazione fotografica raccolta nelle medesime circostanze». Ha inoltre spiegato di ritenere che l’imputata è responsabile del reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, «per aver fatto defluire in assenza delle prescritte autorizzazioni i liquidi provenienti dai paddock, privi di idonei sistemi di raccolta e regimentazione nel terreno circostante con evidenti ristagni», e per aver «depositato direttamente sul suolo letame proveniente dall’allevamento (cfr. verbale di sequestro e sopralluogo)». In proposito, ha anche ulteriormente aggiunto che «i predetti paddock era[no] privi di idonei sistemi di raccolta e reggimenti di effluenti che attraverso vari fori e/o feritoie ruscellavano sul terreno circostante declive disperdendosi in parte sul terreno e in parte nella sottostante vasca, ormai colma i cui liquidi tracimavano sul terreno circostante». 

Di conseguenza, nessun dubbio può sussistere circa le fonti di prova prese in esame dalla sentenza impugnata, il contenuto delle stesse, il giudizio in ordine alla loro affidabilità, e il risultato probatorio raggiunto sulla base delle medesime. Né sono rilevabili incongruenze tra il contenuto delle fonti di prova richiamate dal Tribunale ed il risultato probatorio che lo stesso ha ritenuto raggiunto.

Inoltre, e conclusivamente, le censure in argomento risultano meramente assertive e non si confrontano con quanto esposto nella motivazione della sentenza impugnata.  

 

6. Manifestamente infondate sono le censure enunciate nel sesto motivo, che contestano il difetto di correlazione tra accusa e sentenza, deducendo che la condanna è stata pronunciata per una condotta diversa da quella indicata nell’imputazione.

Si è appena detto, al § 5, che il Tribunale ha ritenuto l’imputata responsabile del reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, «per aver fatto defluire in assenza delle prescritte autorizzazioni i liquidi provenienti dai paddock, privi di idonei sistemi di raccolta e regimentazione nel terreno circostante con evidenti ristagni», e per aver «depositato direttamente sul suolo letame proveniente dall’allevamento». Per chiarezza, può essere utile precisare che il termine paddock nella sentenza è impiegato per designare l’ambiente destinato alla custodia ed allo stazionamento degli animali dell’allevamento.  

Nel capo di accusa, si contesta all’imputata il «reato p. e p. dall’art. 256 co. 2 in relazione all’art. 192 comma 1 D.L.vo 152/2006 perché, legale rappresentante dell’omonima azienda agricola dedita all’allevamento di bufale e vitelli allo stato brado […] su terreno distinto al foglio 5 p.lle 1185-1184 al fine di disfarsene, smaltiva rifiuti liquidi costituiti da liquami zootecnici palabili e non, provenienti dall’allevamento bufalino anzidetto mediante lo spandimento direttamente sul nudo terreno in assenza della prevista autorizzazione».

Come è possibile rilevare, la condanna è stata pronunciata esattamente per le condotte indicate nell’imputazione. Per la precisione, la sentenza e l’imputazione impiegano formule linguistiche leggermente differenti, ma di identico significato.

 

7. In parte manifestamente infondate e in parte prive di specificità sono le censure esposte nel settimo, nell’ottavo e nel nono motivo, esaminate congiuntamente perché tra loro connesse, le quali contestano l’affermazione di sussistenza del reato, deducendo l’assenza di necessità di autorizzazione per lo spandimento delle sostanze fecali, essendo queste destinate alla concimazione dei terreni dell’azienda dell’imputata e di altre tre aziende vicine.  

7.1. Secondo l’art. 185, comma 2, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006, non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del medesimo d.lgs., rubricata “Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati”, «f) le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lettera b), del presente articolo, la paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli sfalci e le potature effettuati nell'ambito delle buone pratiche colturali, utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana, nonché la posidonia spiaggiata, laddove reimmessa nel medesimo ambiente marino o riutilizzata a fini agronomici o in sostituzione di materie prime all'interno di cicli produttivi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».

Nell’interpretare la disposizione normativa appena citata, plurime pronunce di legittimità hanno precisato che le materie fecali sono escluse dalla disciplina dei rifiuti di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 a condizione che provengano da attività agricola e che siano effettivamente riutilizzate nella stessa attività (cfr., in particolare, Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rattenuti, Rv. 257686-01, la quale ha affermato la natura di rifiuto di rilevanti quantitativi di pollina provenienti da allevamento avicolo, ammassati e collocati in aree scoscese e prive di vegetazione, nonché Sez. 3, n. 8890 del 10/02/2005, Gios, Rv. 230981-01, la quale ha ritenuto la applicabilità della disciplina sui rifiuti alla gestione di materie fecali provenienti da un alpeggio di bovini in una malga). 

Nel medesimo ordine di idee, altre decisioni hanno osservato che la pratica della "fertirrigazione", che sottrae il deposito delle deiezioni animali alla disciplina sui rifiuti, richiede, in primo luogo, l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la “fertirrigazione”, quali, ad esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta a fine ciclo vegetativo (così, tra le altre, Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi, Rv. 264991-01, e Sez. 3, n. 15043 del 22/01/2013, Goracci, Rv. 255248-01).

7.2. Nella specie, la sentenza impugnata espone compiutamente la situazione riscontrata sui terreni dell’azienda.

Come si è già indicato in precedenza, il Tribunale, in primo luogo, sulla base delle dichiarazioni testimoniali, del verbale di sopralluogo e della documentazione fotografica raccolta in occasione del compimento di tale atto, rappresenta: «l’odierna proprietaria, titolare dell’omonima azienda agricola che svolge allevamento allo stato semibrado di capi bufalini e bovini per la produzione di latte crudo sversava direttamente sul terreno adiacente i rifiuti liquidi provenienti dai paddock coperti e scoperto prodotti dagli animali. Infatti i predetti paddock era[no] privi di idonei sistemi di raccolta e reggimenti di effluenti che attraverso vari fori e/o feritoie ruscellavano sul terreno circostante declive disperdendosi in parte sul terreno e in parte nella sottostante vasca, ormai colma i cui liquidi tracimavano sul terreno circostante». Osserva, quindi, che l’imputata si è resa responsabile della contravvenzione di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 «per aver fatto defluire in assenza delle prescritte autorizzazioni i liquidi provenienti dai paddock, privi di idonei sistemi di raccolta e regimentazione nel terreno circostante con evidenti ristagni», e per aver «depositato direttamente sul suolo letame proveniente dall’allevamento (cfr. verbale di sequestro e sopralluogo)».

7.3. Sulla base dei principi applicabili e della situazione di fatto compiutamente descritta, le conclusioni della sentenza impugnata, nel ritenere la sussistenza del reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 risultano immuni da vizi.

Si è detto che le materie fecali sono escluse dalla disciplina dei rifiuti di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 a condizione che provengano da attività agricola e che siano effettivamente riutilizzate nella stessa attività e che la pratica della "fertirrigazione", che sottrae il deposito delle deiezioni animali alla disciplina sui rifiuti, richiede sia l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, sia l'adeguatezza di quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture, sia l'assenza di dati sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la “fertirrigazione”, quali lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta a fine ciclo vegetativo.

Si è poi segnalato che la sentenza impugnata sottolinea come: -) i rifiuti liquidi rilasciati dagli animali allevati dall’azienda sversavano direttamente sul terreno e si disperdevano, almeno in parte, su quest’ultimo, siccome tracimavano dalla vasca di raccolta ormai colma; -) erano rilevabili «evidenti ristagni» di liquami prodotti dagli animali dell’allevamento sul terreno dell’azienda; -) risultava «depositato direttamente sul suolo letame proveniente dall’allevamento». Inoltre, non emergono indicazioni in ordine alla esistenza effettiva di colture in atto sulle aree sulle quali era stato accertato lo spandimento dei liquami e del letame.

Ne discende che correttamente il Tribunale ha escluso che le materie fecali fossero effettivamente riutilizzate nell’attività agricola. 

In particolare, prive di specificità sono le censure che contestano la mancata valutazione delle dichiarazioni dei titolari delle aziende vicine, attesa la situazione riscontrata e documentata in ordine allo spandimento dei liquami e del letame sul suolo dell’azienda della ricorrente, in assenza di colture suscettibili di “fertirrigazione”. 

Inoltre, manifestamente infondate sono le censure in ordine al difetto di colpevolezza: le stesse, infatti, posta la situazione di fatto appena descritta, si traducono nella denuncia del mancato riconoscimento di un errore sulla qualificazione dei liquidi e del letame come rifiuti, ossia, in ogni caso, di un errore sul precetto penale, rilevante solo in caso di ignoranza inevitabile, a norma dell’art. 5 cod. pen., nella formulazione da applicare a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata dal Giudice delle Leggi con sentenza n. 364 del 1988, e, però, non allegano alcunché per affermare l’inevitabilità di tale errore.   

 

8. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure esposte nel decimo motivo, le quali contestano l’affermazione di sussistenza del reato, deducendo l’assenza di offensività del fatto o comunque l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. 

In effetti, costituisce principio giurisprudenziale assolutamente consolidato quello in forza del quale, in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, né sul giudice di merito grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque sulla relativa causa di esclusione della punibilità (cfr., tra le tantissime, Sez. 5, n. 27/10/2021, dep. 2022, Polillo, Rv. 282773-01, e Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913-01, nonché, persino per il caso di riqualificazione in bonam partem all’esito del giudizio di appello, Sez. 5, n. 2727 del 13/12/2019, dep. 2020, Scermino, Rv. 278557-01).

Nella specie, la difesa dell’imputato nel giudizio di merito non risulta aver chiesto l’assoluzione perché il fatto non è punibile per la particolare tenuità del fatto, né vi è alcuna allegazione di diverso segno nel ricorso. 

In ogni caso, la sentenza impugnata descrive un’attività di sversamento e di abbandono di rifiuti fecali di notevoli dimensioni e si è discostata ampiamente dal minimo della pena allorché ha quantificato la sanzione da applicare.


9. Manifestamente infondate sono le censure formulate nell’undicesimo motivo, che contestano la mancata dichiarazione di estinzione del reato, deducendo, in particolare, la datazione dei fatti al 24 maggio 2016.

Invero, pur ritenendo il reato consumato alla data del 24 maggio 2016, deve ritenersi che il termine di prescrizione, pari a cinque anni, non era decorso alla data della pronuncia della sentenza impugnata, emessa il 29 settembre 2021. Precisamente, ai fini del computo del termine, nella specie, occorre tenere conto della sospensione del corso della prescrizione determinata dal rinvio dell’udienza dal 22 ottobre 2019 al 23 settembre 2020, ossia per oltre undici mesi, disposta per l’adesione del difensore all’astensione collettiva degli avvocati dalle udienze (per la computabilità dell’intero periodo del rinvio ai fini della sospensione del corso della prescrizione cfr., ad esempio, Sez. 3, n. 11671 del 24/02/2015, Spignoli, Rv. 263052-01).

 
10. Manifestamente infondate, infine, sono anche le censure enunciate nel dodicesimo motivo, che contestano l’applicazione della sospensione condizionale della pena, nonostante la mancata richiesta dell’imputata.
In proposito, va semplicemente rilevato che la sospensione condizionale della pena non è stata in alcun modo applicata. 


11. Alla dichiarazione di dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. 

Così deciso il 28/10/2022