Cass. Sez. III n.1340 del 19 gennaio 2007 (ud. 16 novembre 2006)
Pres. Lupo Est. De Maio Ric. Nardone
Rifiuti. Nozione di rifiuto

Sulla base di consolidati principi giurisprudenziali deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento o tramite il suo recupero. Rientra pertanto nell’attività di gestione quella di recupero di forni per la panificazione in disuso che, una volta smontati, vengano tenuti in deposito in un’area in vista del riutilizzo delle parti recuperabili

 

Motivazione

Con sentenza in data 9 dicembre 2003 del giudice monocratico del Tribunale di Benevento, Martino Nardone fu condannato alla pena di mesi quattro di arresto ed euro duemila di ammenda, oltre che al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, perché riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 50 co. 2 in relazione all’art. 14 co. 1 D.L.vo 22/57 (“perché, in qualità di legale rappresentante della Ditta Nardone Martino, depositava in modo incontrollato i propri rifiuti pericolosi e non pericolosi sul suolo, sito in un’area condominiale adiacente i propri locali. Nella specie depositava i rifiuti rappresentati da vari cumuli di materiali provenienti dalla lavorazione industriale, frammenti di lastre di cemento amianto compatto, guarnizioni, impastatrici, forni per panificazione ed altre attrezzature per il settore alimentare in disuso, reato accertato in S. Giorgio del Sannio il 15 e il 16 novembre 2001”)

A seguito di impugnazione dell’imputato, la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza in data 5 ottobre 2005; in parziale riforma di quella di primo grado, sostituì la pena dell’arresto con quella dell’ammenda di euro 4.560, rideterminando la pena complessiva in euro 6.560 e confermando nel resto.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, il quale denuncia con il primo motivo che i giudici di merito avevano ritenuto - con violazione degli artt. 6 e 51 D.L.vo 22/97, 14 D.L. 138/2002 nonché vizio di motivazione sul punto - che il materiale rinvenuto e prelevato nel deposito fosse classificabile come rifiuto; il ricorrente sostiene al riguardo che era stato dimostrato: a) che il deposito in cui era stato effettuato il sopralluogo “non era affatto condominiale, ma deposito privato concesso in locazione al Nardone”; b) che “il materiale esaminato dall’ARPAC era stato prelevato non da rifiuti abbandonati, ma da forni da poco ivi depositati non ancora visionati prima di decidere se riattarli e/o avviarli a smaltimento”.

Con il secondo motivo viene denunciata violazione dell’art. 6 co. 1 lett. m) D.L.vo 22/97, nonché “vizio di motivazione sul punto per palese travisamento e/o omessa valutazione delle risultanze processuali”, in quanto la difesa aveva sostenuto che nella specie erano state rispettate le condizioni stabilite dalla disposizione citata per il deposito temporaneo dei rifiuti.

Con il terzo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione del D.L.vo 22/97 con riguardo alla classificazione C.E.R. - vizio di motivazione sul punto per travisamento del fatto, in quanto i giudici di merito avevano ritenuto la presenza di rifiuti speciali non pericolosi, nonostante l’istruttoria dibattimentale non avesse consentito di provarla. Il ricorrente sostiene, in particolare, che “i soli due campioni che avevano rivelato la presenza di amianto” avrebbero dovuto essere classificati “quali rifiuti speciali non pericolosi in base al CER in vigore alla data del fatto contestato”; che su tale classificazione aveva convenuto anche la ASL - Benevento I con nota 7 novembre 2002, regolarmente depositata all’udienza del 6 maggio 2003, e, d’altra parte, “la stessa ARPAC per i due campioni che avevano rilevato la presenza di amianto non aveva proceduto ad alcuna classificazione in base al CER”.

E’ opportuno premettere che l’istanza di rinvio del difensore, per adesione alla deliberata astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria, è stata disattesa in quanto, in relazione al reato contestato, la detta astensione non è consentita, ricorrendo l’ipotesi di cui all’art. 4 lett. a) della regolamentazione provvisoria dell’astensione, adottata con deliberazione n. 02/136 del 4 luglio 2002 ai sensi dell’art. 13 lett. a) l. 146/1 990 come modif. dalla l. 83/2000; infatti, la prescrizione del reato si verificherebbe entro i 90 giorni dalla data odierna (data di consumazione 16 novembe 2001 - prescrizione, tenendo conto delle verificatesi sospensione, al 12 gennaio 2007).

Il ricorso va dichiarato inammissibile perché si basa su censure che o costituiscono mera riproposizione delle relative questioni già sottoposte ai giudici di appello e da questi disattese con ineccepibile motivazione ovvero si limitano a prospettare una diversa valutazione delle risultanze processuali. Infatti, in ordine alla questione sollevata con il primo motivo, la sentenza impugnata ha ritenuto in fatto, in contrasto con le citate deduzioni del ricorrente, che “la ditta Nardone recuperava forni per la panificazione in disuso; che, una volta smontati, gli stessi venivano tenuti in deposito nell‘area in questione in vista del riutilizzo delle parti recuperabili; che vi era, quindi solo una parte del materiale che, non potendo essere riutilizzata, veniva periodicamente smaltita mediante cessione a terzi”. Sul punto, è ineccepibile l’applicazione ad opera dei giudici di merito del principio, pacifico nella giurisprudenza di legittimità (puntualmente citata), secondo cui deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disti, o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento o tramite il suo recupero; ciò sulla base dell’interpretazione sia della nozione della legislazione nazionale, sia delle decisioni della Corte di Giustizia della Comunità Europea, che sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale, secondo cui la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell’ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l’applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dalla sola intenzione (realizzabile o meno a seconda di determinate eventualità, come nella specie) di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanze o degli oggetti di cui si disfa o si sia deciso e si abbia l’obbligo di disfarsi. Del tutto impropria è, quindi, la citazione da parte del ricorrente di precedenti di questa Corte circa l’art. 14 D.L. 138/2002, avendo questa Corte stessa precisato ulteriormente al riguardo che a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14 D.L. cit. non rientrano nella nozione di rifiuti solo quei beni (anche se sottoposti a trattamento preliminare) il cui riutilizzo sia non soltanto eventuale, ma certo (sez. III, 29 gennaio 2003 n. 4052, rv. 223532).

Quanto alla questione di cui al secondo motivo, la sentenza impugnata ha disatteso la tesi difensiva del deposito temporaneo, “tenuto conto che i rifiuti non erano prodotti nel luogo del deposito; che gli stessi non erano raggruppati per tipi omogenei e nel rispetto delle norme tecniche; che non erano state osservate le regole che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose, né tanto meno i tempi di durata del deposito”. Anche a tale riguardo la Corte territoriale ha fatto ineccepibile applicazione dei principi enunciati da questa Corte regolatrice (anche qui puntualmente citati) secondo cui: I) non può essere considerato produttore di rifiuti propri il soggetto che (come nella specie ha fatto la ditta Nardone) provvede allo smantellamento di impianti industriali altrui, trasportati in un area in sua dotazione, ove procede alla separazione dei vari metalli, al recupero dei residui riutilizzabili e all’accumulo degli scarti; i rifiuti, infatti, assumono tale carattere fin dal momento in cui vengono dimessi dal titolare dell’impianto che li conferisce per lo smaltimento; II) affinché possa configurarsi l’ipotesi del deposito controllato e temporaneo dì cui all’art. 6 lett. m) D.L.vo 22/97 è necessario che siano rispettate le condizioni di cui alla norma stessa e, in particolare, il raggruppamento dei rifiuti nel luogo di produzione e l’osservanza dei tempi di giacenza in relazione alla natura e alla quantità dei rifiuti; in mancanza, si configura il reato di abbandono e deposito dei rifiuti sanzionato dall’art. 51 co. 2 del decreto citato. A fronte di tali rilievi dei giudici di merito non possono avere rilievo (tanto più in questa sede) né il tentativo di svalutazione delle dichiarazioni del teste Porcelli (ric. a pag. 14), né le circostanze addotte dal ricorrente (pag. 13, secondo cui: “a) l‘attività di cernita che consentiva di individuare i forni da avviare a revisione e quelli invece da smaltire avveniva nel luogo del deposito”; b) anche a voler considerare rifiuti i forni, tali operazioni di smaltimento avvenivano comunque nel rispetto della normativa di cui al D.L.vo 22/97”).

Quanto alla questione di cui al terzo motivo, i giudici di merito da un lato hanno esattamente qualificato i rifiuti come pericolosi considerando che “i forni in disuso tenuti in deposito presentavano delle parti in amianto e che in particolare fu accertata la presenza di una striscia di guarnizione in amianto puro, secondo quanto riferito dai testi Albanese e Porcelli”; dall’altro, hanno contestato in modo giuridicamente esatto la valutazione espressa dal Porcaro, teste della difesa, il quale aveva classificato i rifiuti in questione come materiali contenenti amianto, come tali non pericolosi, secondo la classificazione vigente all’epoca dei fatti. A tale ultimo riguardo i giudici di merito hanno esattamente osservato che il CER vigente all’epoca includeva tra i rifiuti pericolosi i materiali isolanti contenenti amianto (codice 170601); che è incontestabile che i componenti del forno (guarnizione e letto) di cui hanno riferito i verbalizzanti “avessero, appunto, la natura di materiali isolanti; che dì nessun pregio è pertanto l’affermazione secondo cui si tratterebbe invece di materiali da costruzione, sia pure contenenti una modesta quantità di amianto mescolata al cemento”. Sullo stesso piano di irrilevan.za e di diversa valutazione delle risultanze processuali va collocata la deduzione finale del ricorrente secondo cui, in base alla deposizione del tecnico ARPAC De Gennaro Equino, dovrebbe escludersi che “nel deposito in questione sia mai stato abbandonato materiale di amianto puro”.

Va, infine, rilevato che la natura originaria della causa di inammissibilità impedisce di ipotizzare l’estinzione del reato per prescrizione sopravvenuta alla sentenza impugnata (anche a non voler considerare quanto sopra precisato in ordine ai termini di prescrizione del reato, scadenti solo il 12 gennaio 2007).

Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente alle spese, nonché (non essendo possibile ravvisare alcuna ipotesi di assenza di colpa) al versamento alla Cassa delle ammende della somma, equitativamente fissata, di euro mille. Il ricorrente va condannato anche alle spese del grado sostenute dalla parte civile e liquidate come in dispositivo.