Cass. Sez. III n.14323 del 7 aprile 2008 (Cc. 4 dic. 2008)
Pres. Lupo Est. Mancini Ric. PM in proc. Gervasini ed altri
Rifiuti. Sottoprodotti
Per la normativa attualmente in vigore in tanto si può parlare di sottoprodotto invece che di rifiuto in quanto si tratti di materiale con certezza destinato all\'impiego diretto da parte dell’impresa senza dover ricorrere ad ulteriori attività di trasformazione preliminare. Tale assunto è in stretta aderenza al contenuto della disposizione dettata dall\'art. 183 letto n ) del DLvo 152 che pone una serie di condizioni affinché possa parlarsi legittimamente di sottoprodotto, con il conseguente esonero dell\'imprenditore dal regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti.
Pres. Lupo Est. Mancini Ric. PM in proc. Gervasini ed altri
Rifiuti. Sottoprodotti
Per la normativa attualmente in vigore in tanto si può parlare di sottoprodotto invece che di rifiuto in quanto si tratti di materiale con certezza destinato all\'impiego diretto da parte dell’impresa senza dover ricorrere ad ulteriori attività di trasformazione preliminare. Tale assunto è in stretta aderenza al contenuto della disposizione dettata dall\'art. 183 letto n ) del DLvo 152 che pone una serie di condizioni affinché possa parlarsi legittimamente di sottoprodotto, con il conseguente esonero dell\'imprenditore dal regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti.
Fatto e diritto
Con ordinanza del 4 luglio 2007 il tribunale di Varese, decidendo sulla richiesta di riesame avanzata dalla difesa di Coppa Stefano e Coppa Daniele, presidente del Consiglio di amministrazione e rispettivamente consigliere della Transkopp srl, indagati per i reati di cui all’art. 256 co. 1 D.L.vo 152 del 2006, avente ad oggetto il sequestro preventivo (disposto dal GIP dello stesso tribunale il precedente 18 giugno) dell’area sita in Cantello alla via Varese identificata dalle particelle 2286, 2285, 2281, 3246 (in questo caso, per la quota non sottoposta a precedente sequestro penale), 2288 e 3248, ha annullato la misura cautelare disponendo la restituzione dei beni ai ricorrenti Coppa.
Ricorda il tribunale nella sua ordinanza di avere confermato con un suo precedente provvedimento, datato 27 ottobre 2006, il sequestro probatorio disposto dal PM di alcuni mappali della stessa società sul presupposto che l’area fosse “interessata da una attività di accumulo di materiale vario”, aggiungendo che l’attuale sequestro preventivo riguardava un’area diversa da quella sottoposta al precedente vincolo di indisponibilità, area che la società aveva destinato al ricovero degli automezzi ed alla ubicazione dei propri uffici.
Rileva il tribunale che questo nuovo provvedimento ablativo è scaturito da ulteriori indagini di polizia all’esito delle quali è emerso che l’azienda svolge in forma continuativa attività di raccolta e commercio di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da demolizioni ovvero di terre e rocce da scavo in assenza della prescritta autorizzazione o comunicazione, in tal modo realizzando la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 256 co. 1 D.L.vo 152 del 2006.
Chiarisce ancora che la nuova indagine è scaturita da una richiesta di parere indirizzata alla Provincia dalla società, volta a conoscere se fosse possibile commercializzare la roccia che importava dalla vicina Confederazione.
Le indagini della GdF avevano consentito di stabilire che tale importazione in effetti riguardava sia materiale di risulta dalla demolizione di edifici sia anche materiali di scavo da cantieri.
In proposito il tribunale evidenzia che lo stesso PM nel richiedere il sequestro al GIP aveva catalogato il primo di tali materiali come rifiuti speciali ex art. 184 co. 3 lett. b) del D.L.vo 152 del 2006 ed incluso l’altro (terre e rocce provenienti da scavo) fra i rifiuti, evidenziando in ogni caso il mancato rispetto da parte della società delle procedure di cui all’art. 186 co. 1 dello stesso decreto legislativo.
Dopo queste premesse il tribunale sottolinea in primo luogo come l’attività di importazione della società si sia svolta alla luce del sole nel pieno rispetto della normativa fiscale e doganale.
Rileva quindi che il thema probandum consiste nello stabilire se il materiale in questione sia riconducibile alla categoria dei rifiuti speciali di cui all’art. 184 co. 3 lett. b) del D.L.vo 152 notando subito dopo che esso viene ceduto dalla Svizzera ad imprese italiane che lo impiegano come sottofondo per la costruzione di strade, impianti industriali e simili.
Si nota quindi nell’ordinanza che tutto il materiale prima della importazione veniva sottoposto a procedimento di stabilizzazione e frantumazione ad opera di una ditta svizzera e prima della commercializzazione veniva analizzato per il controllo dei limiti fissati dal DM 5 febbraio 1998 All. 3.
Alla luce di tali elementi il tribunale ritiene di dover catalogare i materiali in questione come sottoprodotti, categoria contemplata dall’art. 183 lett. n), esente dal regime autorizzatorio riservato alla gestione dei rifiuti, posto anche che essi hanno avuto una destinazione finale conforme a quella prevista.
Infine, il tribunale considera degno di favorevole apprezzamento il fatto che le nuove indagini siano scaturite da una sorta di autodenunzia della società alla Provincia e che esiste la prova dei pregressi, continui contatti della società stessa con l’Ente pubblico, che dimostrerebbero comunque la disponibilità dell’azienda ad adeguarsi a tutte le indicazioni che quest’ultimo dovesse impartire.
Avverso la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il PM presso lo stesso tribunale ricordando in primo luogo che la società in questione - senza autorizzazione e senza avere proceduto alla comunicazione di procedura semplificata, attualmente prevista dagli artt. 214 e sgg. del più volte citato D.L.vo 152 - trattava, come risulta dai documenti di importazione e sdoganamento, i seguenti materiali “sassi, ghiaia, pietre frantumate dei tipi generalmente utilizzati per il calcestruzzo” “altri materiali provenienti da scavi e demolizioni”, tutti riconducibili alla categoria dei rifiuti speciali ex art. 184 co. 3 lett. b) del t.u. 152 del 2006 e richiamati anche nell’allegato allorché il legislatore elenca le tipologie dei rifiuti.
Sottolinea quindi che l’art. 14 del d.l. 138 del 2002 convertito nella L. 8 agosto 2002 n.178, contenente una interpretazione cd. autentica ma in realtà allargata della nozione di rifiuto è stato abrogato dall’art. 264 del vigente D.L.vo 152 e che tale abrogazione non è avvenuta per caso ma sotto la spinta dei competenti organi comunitari che hanno richiamato il nostro Paese ad attenersi ad una nozione di rifiuto dai contorni definiti e rigidamente delimitati.
Ora è indubbio, prosegue il PM, che nel nostro caso, dei materiali di che trattasi il detentore- produttore svizzero si sia disfatto considerandoli il residuo di lavori tipicamente edilizi, di talché essi non possono non considerarsi rifiuti secondo la definizione datane dall’art. 183 del predetto decreto legislativo.
Né gli indagati potrebbero, al fine di giustificare la mancata acquisizione delle autorizzazioni necessarie per la gestione dei rifiuti, invocare la nozione di sottoprodotto di cui allo stesso articolo, della quale non si ravvisano gli estremi come sottolineato dalla annotazione di pg del 31 maggio 2007 dalla quale è risaltato che i materiali subiscono prima di essere commercializzati un trattamento di stabilizzazione e frantumazione e vengono quindi utilizzati come sottofondi di strade, cioè a dire nella più classica delle operazioni di recupero assoggettate al regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti.
Neppure è possibile considerare tali materiali come materie prime secondarie in quanto in tale categoria non rientrano i materiali di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi e possono rientrarvi solo i residui di una attività di recupero inquadrabile nella più generale attività di gestione dei rifiuti.
Peraltro - ricorda il PM ricorrente - la giurisprudenza di legittimità ha sempre incluso fra i rifiuti il materiale oggetto delle presenti considerazioni e lo stesso assoggettamento di esso al cosiddetto test di cessione disciplinato dal DM 5 febbraio 1998 - cui fa riferimento la impugnata ordinanza - rientra in pieno nella attività dì gestione dei rifiuti, che deve essere debitamente autorizzata o almeno comunicata; senza contare comunque che questi tests da tempo non avevano più luogo.
Il ricorso si conclude con la denunzia del vizio motivazionale della impugnata ordinanza in punto di ritenuta ricorrenza delle esigenze cautelari.
Gli indagati hanno prodotto una memoria difensiva con la quale sostengono con ampiezza di argomentazioni la validità e legittimità della decisione del tribunale del riesame.
Tanto premesso in fatto, si osserva in diritto: il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
Nell’art. 183 e nell’all. D) del D.L.vo 152 del 2006 è contenuta una chiara distinzione fra il concetto di rifiuti e quello di sottoprodotto (ed anche, con il richiamo del precedente art. 181, con la nozione di materia prima secondaria) per il tramite della quale la nozione di rifiuto è stata altresì “riallineata” ai principi propri dell’ordinamento comunitario.
Una digressione da tali principi si era avuta dopo la entrata in vigore della legge 8 agosto 2002 n. 178, di conversione del D.L. 138/02, recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno della economia anche nelle aree svantaggiate, la quale all’art. 14, rubricato come interpretazione autentica della definizione di rifiuti di cui all’art. 6 co. 1 lett. a) del D.L.vo 22 del 1997, aveva in realtà ampliato tale nozione tanto da ricomprendervi (co. 2 lett. b) sostanze beni e materiali anche se avessero subito un trattamento preventivo in vista della loro immissione in altro ciclo produttivo.
La stessa Corte di giustizia delle Comunità europee aveva censurato questa più ampia definizione - con la sentenza 11 novembre 2004, causa C457/02, Niselli, emessa a seguito di domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dal tribunale di Terni con ordinanza del 18 dicembre 2002 - di talché anche per effetto di tale verdetto quella norma è stata espressamente abrogata dall’art. 264 co. 1 lett. l) del vigente D.L.vo 152.
Ciò posto, per la normativa attualmente in vigore in tanto si può parlare di sottoprodotto invece che di rifiuto in quanto si tratti di materiale “con certezza destinato all’impiego diretto da parte dell’impresa senza dover ricorrere ad ulteriori attività di trasformazione preliminare” (così Cass. Sez. III, n. 37303 del 2006 Rv 235076).
L’orientamento di questa Corte, quale appare fra altre da tale pronuncia, è in stretta aderenza al contenuto della disposizione dettata dall’art. 183 lett. n) del D.L.vo 152 che pone una serie di condizioni affinché possa parlarsi legittimamente di sottoprodotto, con il conseguente esonero dell’imprenditore dal regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti.
Alla stregua di tale disposizione il sottoprodotto deve, in primo luogo, essere direttamente impiegato dalla azienda che lo produce.
L’azienda stessa può anche commercializzarlo direttamente per il consumo o l’impiego successivo ma ciò deve avvenire a condizioni economicamente favorevoli” per chi lo cede.
L’impiego del sottoprodotto deve avvenire senza la necessità di trasformazioni preliminari, per tali dovendosi intendere le operazioni che fanno perdere al sottoprodotto la sua identità e siano necessarie per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere “certa e non eventuale”. A questo ultimo fine “deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo”.
Infine, quasi come norma di chiusura che peraltro esprime il senso di tutte le precauzioni prima puntigliosamente dettate al fine di evitare, con il ricorso alla incongrua nozione di sottoprodotto, il possibile aggiramento della rigorosa normativa sulla gestione dei rifiuti, la disposizione in esame esige che “l’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive”.
Alla luce di tali precisazioni risulta chiaramente che la definizione di sottoprodotto riferita dalla impugnata ordinanza al materiale in questione è assolutamente impropria e comunque non supportata da argomentazioni giustificative: donde la nullità del provvedimento giusta quanto disposto dal comma 3 dell’art. 125 c.p.p. in forza del quale le ordinanze al pari delle sentenze, come anche, in casi determinati, i decreti dell’Autorità giudiziaria devono essere motivate a pena, appunto, di nullità (non si è quindi nell’ambito del mero vizio motivazionale che, come ricorda la memoria difensiva prodotta dagli indagati, in subjecta materia non è deducibile come motivo di ricorso per cassazione per disposto dell’art. 325 co. 1 c.p.p., bensì di una vera e propria violazione di legge atteso che la mancanza di motivazione - come peraltro anche una motivazione che fosse solo apparente - si pone in diretto contrasto con un preciso precetto normativo).
Si legge invero nella ordinanza “appare provato che i materiali hanno avuto una destinazione finale conforme a quella propria di tale categoria; e ciò nonostante la carenza di formali attestazioni in tal senso”.
Ebbene in tale constatazione è addirittura esplicito il riconoscimento della mancanza di un requisito essenziale per la qualificazione del materiale come sottoprodotto, la dichiarazione cioè del produttore o detentore, controfirmata da chi procede all’effettivo utilizzo, della rispondenza della destinazione agli standard merceologici ed alle norme tecniche di cui prima si è detto. E la presenza di tale requisito - è bene sottolineare - è richiesta tassativamente dalla legge senza che siano ammessi equipollenti.
Si legge ancora nell’ordinanza che prima della esportazione in Italia il materiale viene sottoposto a procedimento di stabilizzazione e frantumazione ma si è visto in precedenza che in tanto si può parlare di sottoprodotto in quanto prima del riutilizzo il materiale non debba essere sottoposto a trattamenti di sorta.
Non si hanno infine notizie delle condizioni economiche alle quali il materiale veniva ceduto dalla impresa svizzera per essere impiegato in altro ciclo produttivo ed in precedenza si è rilevato che a mente del cit. art. 183 lett. n) la commercializzazione deve avvenire a “condizioni economicamente favorevoli”.
Consegue dalle considerazioni che precedono che non ricorrevano nella specie le condizioni perché i materiali in questione venissero considerati come sottoprodotti o almeno la diversa conclusione cui è pervenuto il tribunale del riesame appare priva, alla base, del necessario discorso giustificativo.
Consegue ulteriormente e coerentemente che appare errata l’affermazione della impugnata ordinanza per la quale difetterebbe nella specie il presupposto del fumus commissi delicti necessario per la legittimità del sequestro.
Al contrario in questa fase processuale, incidentale, quando le indagini preliminari sono ancora in corso e non si tratta di formulare un giudizio di merito sulla responsabilità degli imputati, in una situazione in cui manca la prova certa che i materiali commercializzati potessero legittimamente sottrarsi al regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti, l’ipotesi contravvenzionale per cui si procede, configurata nell’art. 256 co. 1 del D.L.vo 152, ha un suo indubbio fondamento, certamente tale da giustificare l’adozione ed il permanere della cautela reale richiesta ed ottenuta dal PM.
Evidente è poi la ricorrenza dell’altro presupposto della legittimità del sequestro, il cd. periculum in mora, atteso che l’area colpita dal provvedimento ablativo - su cui insistono gli uffici dell’azienda e che viene utilizzata per la sosta dei veicoli adibiti all’illecito traffico - è strettamente funzionale alla prosecuzione di quella attività aziendale che il sequestro si propone di impedire.
Si osserva da ultimo che a) in nulla possono modificare le conclusioni appena raggiunte le osservazioni contenute nella ordinanza del tribunale e nella memoria difensiva circa l’assenta buona fede degli indagati che emergerebbe anche dal carteggio intrattenuto con gli uffici della Provincia; b) non risulta, contrariamente a quanto si assume nella memoria medesima, che nella soggetta materia si sia formato un qualsiasi giudicato cautelare ma solo che su una parte, diversa, dell’area della società è stato adottato un provvedimento di sequestro probatorio, diverso dunque da quello che nella specie ne occupa; c) nel ricorso si rileva ad abundantiam - ed il rilievo è del tutto condivisibile - che i materiali in questione neppure potrebbero catalogarsi come materia prima secondaria ai sensi del combinato disposto degli artt. lett. q) e 181 co. 12 D.L.vo 152 in quanto tale definizione può applicarsi correttamente solo a sostanze, materiali ed oggetti che residuino all’esito del completamento di regolari operazioni di recupero di rifiuti svolte in presenza dei necessari titoli abilitativi.
L’accoglimento del ricorso comporta l’annullamento della impugnata ordinanza con rinvio degli atti al tribunale di Varese.
Con ordinanza del 4 luglio 2007 il tribunale di Varese, decidendo sulla richiesta di riesame avanzata dalla difesa di Coppa Stefano e Coppa Daniele, presidente del Consiglio di amministrazione e rispettivamente consigliere della Transkopp srl, indagati per i reati di cui all’art. 256 co. 1 D.L.vo 152 del 2006, avente ad oggetto il sequestro preventivo (disposto dal GIP dello stesso tribunale il precedente 18 giugno) dell’area sita in Cantello alla via Varese identificata dalle particelle 2286, 2285, 2281, 3246 (in questo caso, per la quota non sottoposta a precedente sequestro penale), 2288 e 3248, ha annullato la misura cautelare disponendo la restituzione dei beni ai ricorrenti Coppa.
Ricorda il tribunale nella sua ordinanza di avere confermato con un suo precedente provvedimento, datato 27 ottobre 2006, il sequestro probatorio disposto dal PM di alcuni mappali della stessa società sul presupposto che l’area fosse “interessata da una attività di accumulo di materiale vario”, aggiungendo che l’attuale sequestro preventivo riguardava un’area diversa da quella sottoposta al precedente vincolo di indisponibilità, area che la società aveva destinato al ricovero degli automezzi ed alla ubicazione dei propri uffici.
Rileva il tribunale che questo nuovo provvedimento ablativo è scaturito da ulteriori indagini di polizia all’esito delle quali è emerso che l’azienda svolge in forma continuativa attività di raccolta e commercio di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da demolizioni ovvero di terre e rocce da scavo in assenza della prescritta autorizzazione o comunicazione, in tal modo realizzando la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 256 co. 1 D.L.vo 152 del 2006.
Chiarisce ancora che la nuova indagine è scaturita da una richiesta di parere indirizzata alla Provincia dalla società, volta a conoscere se fosse possibile commercializzare la roccia che importava dalla vicina Confederazione.
Le indagini della GdF avevano consentito di stabilire che tale importazione in effetti riguardava sia materiale di risulta dalla demolizione di edifici sia anche materiali di scavo da cantieri.
In proposito il tribunale evidenzia che lo stesso PM nel richiedere il sequestro al GIP aveva catalogato il primo di tali materiali come rifiuti speciali ex art. 184 co. 3 lett. b) del D.L.vo 152 del 2006 ed incluso l’altro (terre e rocce provenienti da scavo) fra i rifiuti, evidenziando in ogni caso il mancato rispetto da parte della società delle procedure di cui all’art. 186 co. 1 dello stesso decreto legislativo.
Dopo queste premesse il tribunale sottolinea in primo luogo come l’attività di importazione della società si sia svolta alla luce del sole nel pieno rispetto della normativa fiscale e doganale.
Rileva quindi che il thema probandum consiste nello stabilire se il materiale in questione sia riconducibile alla categoria dei rifiuti speciali di cui all’art. 184 co. 3 lett. b) del D.L.vo 152 notando subito dopo che esso viene ceduto dalla Svizzera ad imprese italiane che lo impiegano come sottofondo per la costruzione di strade, impianti industriali e simili.
Si nota quindi nell’ordinanza che tutto il materiale prima della importazione veniva sottoposto a procedimento di stabilizzazione e frantumazione ad opera di una ditta svizzera e prima della commercializzazione veniva analizzato per il controllo dei limiti fissati dal DM 5 febbraio 1998 All. 3.
Alla luce di tali elementi il tribunale ritiene di dover catalogare i materiali in questione come sottoprodotti, categoria contemplata dall’art. 183 lett. n), esente dal regime autorizzatorio riservato alla gestione dei rifiuti, posto anche che essi hanno avuto una destinazione finale conforme a quella prevista.
Infine, il tribunale considera degno di favorevole apprezzamento il fatto che le nuove indagini siano scaturite da una sorta di autodenunzia della società alla Provincia e che esiste la prova dei pregressi, continui contatti della società stessa con l’Ente pubblico, che dimostrerebbero comunque la disponibilità dell’azienda ad adeguarsi a tutte le indicazioni che quest’ultimo dovesse impartire.
Avverso la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il PM presso lo stesso tribunale ricordando in primo luogo che la società in questione - senza autorizzazione e senza avere proceduto alla comunicazione di procedura semplificata, attualmente prevista dagli artt. 214 e sgg. del più volte citato D.L.vo 152 - trattava, come risulta dai documenti di importazione e sdoganamento, i seguenti materiali “sassi, ghiaia, pietre frantumate dei tipi generalmente utilizzati per il calcestruzzo” “altri materiali provenienti da scavi e demolizioni”, tutti riconducibili alla categoria dei rifiuti speciali ex art. 184 co. 3 lett. b) del t.u. 152 del 2006 e richiamati anche nell’allegato allorché il legislatore elenca le tipologie dei rifiuti.
Sottolinea quindi che l’art. 14 del d.l. 138 del 2002 convertito nella L. 8 agosto 2002 n.178, contenente una interpretazione cd. autentica ma in realtà allargata della nozione di rifiuto è stato abrogato dall’art. 264 del vigente D.L.vo 152 e che tale abrogazione non è avvenuta per caso ma sotto la spinta dei competenti organi comunitari che hanno richiamato il nostro Paese ad attenersi ad una nozione di rifiuto dai contorni definiti e rigidamente delimitati.
Ora è indubbio, prosegue il PM, che nel nostro caso, dei materiali di che trattasi il detentore- produttore svizzero si sia disfatto considerandoli il residuo di lavori tipicamente edilizi, di talché essi non possono non considerarsi rifiuti secondo la definizione datane dall’art. 183 del predetto decreto legislativo.
Né gli indagati potrebbero, al fine di giustificare la mancata acquisizione delle autorizzazioni necessarie per la gestione dei rifiuti, invocare la nozione di sottoprodotto di cui allo stesso articolo, della quale non si ravvisano gli estremi come sottolineato dalla annotazione di pg del 31 maggio 2007 dalla quale è risaltato che i materiali subiscono prima di essere commercializzati un trattamento di stabilizzazione e frantumazione e vengono quindi utilizzati come sottofondi di strade, cioè a dire nella più classica delle operazioni di recupero assoggettate al regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti.
Neppure è possibile considerare tali materiali come materie prime secondarie in quanto in tale categoria non rientrano i materiali di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi e possono rientrarvi solo i residui di una attività di recupero inquadrabile nella più generale attività di gestione dei rifiuti.
Peraltro - ricorda il PM ricorrente - la giurisprudenza di legittimità ha sempre incluso fra i rifiuti il materiale oggetto delle presenti considerazioni e lo stesso assoggettamento di esso al cosiddetto test di cessione disciplinato dal DM 5 febbraio 1998 - cui fa riferimento la impugnata ordinanza - rientra in pieno nella attività dì gestione dei rifiuti, che deve essere debitamente autorizzata o almeno comunicata; senza contare comunque che questi tests da tempo non avevano più luogo.
Il ricorso si conclude con la denunzia del vizio motivazionale della impugnata ordinanza in punto di ritenuta ricorrenza delle esigenze cautelari.
Gli indagati hanno prodotto una memoria difensiva con la quale sostengono con ampiezza di argomentazioni la validità e legittimità della decisione del tribunale del riesame.
Tanto premesso in fatto, si osserva in diritto: il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
Nell’art. 183 e nell’all. D) del D.L.vo 152 del 2006 è contenuta una chiara distinzione fra il concetto di rifiuti e quello di sottoprodotto (ed anche, con il richiamo del precedente art. 181, con la nozione di materia prima secondaria) per il tramite della quale la nozione di rifiuto è stata altresì “riallineata” ai principi propri dell’ordinamento comunitario.
Una digressione da tali principi si era avuta dopo la entrata in vigore della legge 8 agosto 2002 n. 178, di conversione del D.L. 138/02, recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno della economia anche nelle aree svantaggiate, la quale all’art. 14, rubricato come interpretazione autentica della definizione di rifiuti di cui all’art. 6 co. 1 lett. a) del D.L.vo 22 del 1997, aveva in realtà ampliato tale nozione tanto da ricomprendervi (co. 2 lett. b) sostanze beni e materiali anche se avessero subito un trattamento preventivo in vista della loro immissione in altro ciclo produttivo.
La stessa Corte di giustizia delle Comunità europee aveva censurato questa più ampia definizione - con la sentenza 11 novembre 2004, causa C457/02, Niselli, emessa a seguito di domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dal tribunale di Terni con ordinanza del 18 dicembre 2002 - di talché anche per effetto di tale verdetto quella norma è stata espressamente abrogata dall’art. 264 co. 1 lett. l) del vigente D.L.vo 152.
Ciò posto, per la normativa attualmente in vigore in tanto si può parlare di sottoprodotto invece che di rifiuto in quanto si tratti di materiale “con certezza destinato all’impiego diretto da parte dell’impresa senza dover ricorrere ad ulteriori attività di trasformazione preliminare” (così Cass. Sez. III, n. 37303 del 2006 Rv 235076).
L’orientamento di questa Corte, quale appare fra altre da tale pronuncia, è in stretta aderenza al contenuto della disposizione dettata dall’art. 183 lett. n) del D.L.vo 152 che pone una serie di condizioni affinché possa parlarsi legittimamente di sottoprodotto, con il conseguente esonero dell’imprenditore dal regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti.
Alla stregua di tale disposizione il sottoprodotto deve, in primo luogo, essere direttamente impiegato dalla azienda che lo produce.
L’azienda stessa può anche commercializzarlo direttamente per il consumo o l’impiego successivo ma ciò deve avvenire a condizioni economicamente favorevoli” per chi lo cede.
L’impiego del sottoprodotto deve avvenire senza la necessità di trasformazioni preliminari, per tali dovendosi intendere le operazioni che fanno perdere al sottoprodotto la sua identità e siano necessarie per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere “certa e non eventuale”. A questo ultimo fine “deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo”.
Infine, quasi come norma di chiusura che peraltro esprime il senso di tutte le precauzioni prima puntigliosamente dettate al fine di evitare, con il ricorso alla incongrua nozione di sottoprodotto, il possibile aggiramento della rigorosa normativa sulla gestione dei rifiuti, la disposizione in esame esige che “l’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive”.
Alla luce di tali precisazioni risulta chiaramente che la definizione di sottoprodotto riferita dalla impugnata ordinanza al materiale in questione è assolutamente impropria e comunque non supportata da argomentazioni giustificative: donde la nullità del provvedimento giusta quanto disposto dal comma 3 dell’art. 125 c.p.p. in forza del quale le ordinanze al pari delle sentenze, come anche, in casi determinati, i decreti dell’Autorità giudiziaria devono essere motivate a pena, appunto, di nullità (non si è quindi nell’ambito del mero vizio motivazionale che, come ricorda la memoria difensiva prodotta dagli indagati, in subjecta materia non è deducibile come motivo di ricorso per cassazione per disposto dell’art. 325 co. 1 c.p.p., bensì di una vera e propria violazione di legge atteso che la mancanza di motivazione - come peraltro anche una motivazione che fosse solo apparente - si pone in diretto contrasto con un preciso precetto normativo).
Si legge invero nella ordinanza “appare provato che i materiali hanno avuto una destinazione finale conforme a quella propria di tale categoria; e ciò nonostante la carenza di formali attestazioni in tal senso”.
Ebbene in tale constatazione è addirittura esplicito il riconoscimento della mancanza di un requisito essenziale per la qualificazione del materiale come sottoprodotto, la dichiarazione cioè del produttore o detentore, controfirmata da chi procede all’effettivo utilizzo, della rispondenza della destinazione agli standard merceologici ed alle norme tecniche di cui prima si è detto. E la presenza di tale requisito - è bene sottolineare - è richiesta tassativamente dalla legge senza che siano ammessi equipollenti.
Si legge ancora nell’ordinanza che prima della esportazione in Italia il materiale viene sottoposto a procedimento di stabilizzazione e frantumazione ma si è visto in precedenza che in tanto si può parlare di sottoprodotto in quanto prima del riutilizzo il materiale non debba essere sottoposto a trattamenti di sorta.
Non si hanno infine notizie delle condizioni economiche alle quali il materiale veniva ceduto dalla impresa svizzera per essere impiegato in altro ciclo produttivo ed in precedenza si è rilevato che a mente del cit. art. 183 lett. n) la commercializzazione deve avvenire a “condizioni economicamente favorevoli”.
Consegue dalle considerazioni che precedono che non ricorrevano nella specie le condizioni perché i materiali in questione venissero considerati come sottoprodotti o almeno la diversa conclusione cui è pervenuto il tribunale del riesame appare priva, alla base, del necessario discorso giustificativo.
Consegue ulteriormente e coerentemente che appare errata l’affermazione della impugnata ordinanza per la quale difetterebbe nella specie il presupposto del fumus commissi delicti necessario per la legittimità del sequestro.
Al contrario in questa fase processuale, incidentale, quando le indagini preliminari sono ancora in corso e non si tratta di formulare un giudizio di merito sulla responsabilità degli imputati, in una situazione in cui manca la prova certa che i materiali commercializzati potessero legittimamente sottrarsi al regime autorizzatorio proprio della gestione dei rifiuti, l’ipotesi contravvenzionale per cui si procede, configurata nell’art. 256 co. 1 del D.L.vo 152, ha un suo indubbio fondamento, certamente tale da giustificare l’adozione ed il permanere della cautela reale richiesta ed ottenuta dal PM.
Evidente è poi la ricorrenza dell’altro presupposto della legittimità del sequestro, il cd. periculum in mora, atteso che l’area colpita dal provvedimento ablativo - su cui insistono gli uffici dell’azienda e che viene utilizzata per la sosta dei veicoli adibiti all’illecito traffico - è strettamente funzionale alla prosecuzione di quella attività aziendale che il sequestro si propone di impedire.
Si osserva da ultimo che a) in nulla possono modificare le conclusioni appena raggiunte le osservazioni contenute nella ordinanza del tribunale e nella memoria difensiva circa l’assenta buona fede degli indagati che emergerebbe anche dal carteggio intrattenuto con gli uffici della Provincia; b) non risulta, contrariamente a quanto si assume nella memoria medesima, che nella soggetta materia si sia formato un qualsiasi giudicato cautelare ma solo che su una parte, diversa, dell’area della società è stato adottato un provvedimento di sequestro probatorio, diverso dunque da quello che nella specie ne occupa; c) nel ricorso si rileva ad abundantiam - ed il rilievo è del tutto condivisibile - che i materiali in questione neppure potrebbero catalogarsi come materia prima secondaria ai sensi del combinato disposto degli artt. lett. q) e 181 co. 12 D.L.vo 152 in quanto tale definizione può applicarsi correttamente solo a sostanze, materiali ed oggetti che residuino all’esito del completamento di regolari operazioni di recupero di rifiuti svolte in presenza dei necessari titoli abilitativi.
L’accoglimento del ricorso comporta l’annullamento della impugnata ordinanza con rinvio degli atti al tribunale di Varese.