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DEFINIZIONE DI RIFIUTO: NUOVI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E DELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA

 

Sabrina Bigatti – Provincia di Vercelli – Settore Tutela Ambientale – Ufficio Legale[1]

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Due recenti sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee sembrano suffragare la validità della L. 8 agosto 2002, n.178[2] nella parte in cui reca l'interpretazione autentica della definizione di rifiuto. In particolare pare trovare sostegno l'art.14 co.2 lett.a) a norma del quale :

 

" non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del co.1 per beni sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente".

 

Le sentenze cui ci si riferisce sono del 18 aprile 2002[3] e dell’11 settembre 2003[4] ( le indicheremo di seguito, per comodità, rispettivamente Palin Granit e Avesta Polarit, dal nome delle Ditte coinvolte). Nel prosieguo ci si soffermerà su entrambe e su alcune pronunce interne di legittimità e di merito che sembrano ispirarsi allo stesso filone interpretativo.

 

1. Sentenza della Corte di Giustizia del 18 aprile 2002 (PALIN GRANIT)

Tale sentenza è relativa ad una vicenda in cui era coinvolta una Società finlandese ( denominata Palin Granit) che si occupava della realizzazione di cave.

La causa ha visto contrapposte due posizioni: quella della Commissione della UE (e di alcune autorità finlandesi) e quella della Ditta interessata. La prima sosteneva la necessità di qualificare come rifiuti dei detriti derivanti dall'attività estrattiva depositati nel luogo di produzione. La seconda si è opposta affermando che tali detriti non dovevano ricadere nell'ambito di applicabilità della normativa sui rifiuti poiché destinati alla commercializzazione in quanto idonei ad essere riutilizzati per lavori di riporto o per la costruzione di porti e frangiflutti ; non solo, la ditta sottolineava anche il fatto che avendo, tali residui, la stessa composizione minerale dei blocchi di pietra estratti dalla cava, non avrebbero creato danni all'ambiente tanto più che erano depositati nel luogo in cui erano prodotti.

La Corte dopo aver premesso che” i detriti provenienti dall'attività estrattiva che non si configurano come produzione principale derivante dallo sfruttamento della cava….rientrano, in via di principio, nella categoria dei residui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime di cui al punto Q11 dell'allegato I della direttiva 75/44", ha respinto la tesi propugnata dalla Palin Granit non in quanto non la ritenesse , in linea di principio, condivisibile[5] bensì a causa "dell'incertezza relativa ai progetti di utilizzo dei detriti nonché dell'impossibilità di riutilizzarne l'integralità", e ancora: "in quanto il loro riutilizzo non era completo, né immediato né tanto meno sempre prevedibile".

 

La pronuncia in esame è significativa in quanto delinea chiaramente, in termini “positivi”[6], il confine tra la categoria dei “ rifiuti” e quella dei “sottoprodotti” fermo restando che entrambe sono riconducibili alla più ampia categoria dei “residui di produzione”[7].

In particolare dal testo della sentenza si evince quanto segue :

 

1) un residuo di produzione costituisce un “rifiuto” quando :

o non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore;

o non è lo scopo primario del ciclo produttivo;

o viene prodotto solo in via accessoria e chi lo produce cerca di limitarne la quantità[8].

 

2) Un residuo di produzione deve qualificarsi come “sottoprodotto” e non come rifiuto quando:

  • viene riutilizzato senza subire trasformazioni preliminari ( e ciò può verificarsi in particolare quando il residuo presenta la stessa composizione – minerale - e lo stesso stato fisico della "materia prima" dalla cui lavorazione proviene ed è quindi idoneo ad essere riutilizzato "tal quale");

o il suo riutilizzo è completo ed attuato immediatamente o quanto meno in tempi certi e preferibilmente ( ma non necessariamente) nel luogo e nel corso del processo di produzione che lo ha generato[9];

o tale riutilizzo avviene senza arrecare pregiudizio all’ambiente.

 

3) Siffatta impostazione è compatibile con l’obbligo di interpretare in modo estensivo la nozione di rifiuto[10] ( obbligo finalizzato a limitare i danni e gli inconvenienti dovuti alla natura dei rifiuti).

 

2. Sentenza 11 settembre 2003 – (AVESTA POLARIT)

Le considerazioni sopra riportate sono state approfondite in una successiva sentenza relativa alla gestione di residui di produzione di una miniera di cromo situata in Lapponia e sfruttata da una società denominata Avesta Polarit Chrome Oy.

Vale la pena richiamare i punti della sentenza che descrivono efficacemente il contesto cui essa si riferisce:

Ai punti 26 e 27 si legge: "l'attività della miniera consiste nell'estrarre il materiale grezzo tramite perforazione e brillamento e nel trasformarlo tramite frantumazione, digrossamento e raffinazione….[11]

L'area della miniera non è sistemata. Essa è circondata da zone boschive e paludose (…) esistono vari bacini di decantazione della sabbia di scarto che rimane dalle operazioni di arricchimento del minerale. I terreni intorno fanno parte della zona ausiliaria della miniera, la cui sistemazione definitiva sotto il profilo paesaggistico sarà decisa una volta concluso lo sfruttamento della miniera.

Nella zona della miniera sono già accumulati circa 100 milioni di tonnellate di detriti. E' previsto che per circa 70, 100 anni una parte sarà utilizzata per riempire lo spazio sotterraneo della miniera, ma che, prima di ciò, le masse di detriti saranno integrate nel paesaggio. Una parte di detriti ammassati potrebbe rimanere sul posto a tempo indeterminato. Solo una piccola parte dei detriti, circa un 20% è utilizzabile come materia prima per conglomerati. Le masse di detriti già accumulate non possono servire per produrre conglomerati, ma possono però eventualmente essere utilizzate come materiali di riempimento per frangiflutti e terrapieni."

Al punto n.34 della Sentenza , la Corte, rifacendosi alle considerazioni contenute nella sentenza Palin Granit, afferma che i detriti e la sabbia di scarto risultanti dalle operazioni di arricchimento del minerale costituiscono "residui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime di cui al punto Q11 dell'Allegato I della direttiva 75/442”.

Aggiunge tuttavia che, al fine di stabilire se applicare o meno la normativa sui rifiuti, occorre distinguere i residui che sono utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario riempimento delle gallerie, dagli altri residui.

Fatta questa distinzione la Corte giunge a conclusioni diverse a seconda delle categorie di rifiuti, conclusioni che di seguito si sintetizzano:

 

  • residui utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario riempimento delle gallerie

Riguardo a tali residui i giudici di Lussemburgo affermano che in quanto utilizzati come materia nel processo industriale minerario propriamente detto, non possono essere considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi, poiché invece esso ne ha bisogno per la sua attività principale.

Tali residui possono non essere considerati come rifiuti alle seguenti condizioni:

  • il loro utilizzo non deve essere vietato per qualche motivo ( es. per ragioni di sicurezza o di tutela dell'ambiente) e non vi deve essere un obbligo di riempire e sostenere le gallerie in modo diverso (in questo caso il detentore avrebbe l'obbligo di disfarsi di tali residui che quindi costituirebbero dei rifiuti);
  • il gestore dovrà essere in grado di identificare fisicamente i residui che saranno effettivamente utilizzati nelle gallerie e fornire all'autorità competente garanzie sufficienti di tale utilizzo. "A questo riguardo – precisa la Corte - spetta all'autorità compente valutare se la durata di ammasso dei residui prima della loro reintroduzione nella miniera non sia così lunga che le dette garanzie non possano essere realmente fornite”.

 

  • Residui la cui utilizzazione non è necessaria nel processo di produzione per riempire le gallerie

Tale categoria si suddivide in due sottocategorie:

· detriti accumulati in forma di ammassi e destinati a restare sul posto a tempo indeterminato;

· sabbia di scarto destinata a restare nei vecchi bacini di decantazione a tempo indeterminato.

La Società interessata ha sostento che una parte di tali residui avrebbe potuto essere utilizzata per la costruzione di porti e frangiflutti e una parte alla produzione di conglomerati

La Corte ha ritenuto che tali residui erano da considerarsi rifiuti a causa, da un lato, dell'incertezza dei progetti di utilizzo e dall’altro in quanto la produzione di conglomerati aveva come presupposto che i residui fossero sottoposti ad un trattamento preliminare[12].

 

 

3. La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione

L'orientamento della Corte di Giustizia, come sopra precisato, sembra suffragare, per certi aspetti, la validità dell'interpretazione autentica della definizione di rifiuto contenuta nell’art.14 della L. 178/2002.

E’ interessante notare che al medesimo filone interpretativo possono ricondursi alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione.

Di seguito si citeranno quelle che appaiono più significative .

La prima, relativa al riutilizzo di rottami ferrosi, è stata pronunciata pochi mesi dopo l'entrata in vigore della L. 178/2002, la seconda, riguardante un caso di riutilizzo in loco di residui da demolizione, è più recente e, come le ultime che si richiamano, si ispira espressamente alle citate statuizioni della Corte di Lussemburgo.

 

Con Sentenza n.1642 del 24 febbraio 2003 (Ferriere Nord Spa ed altro) ricordando la circolare del 28 giugno 1999 (Circolare recante chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto) la Corte di Cassazione ha espressamente affermato:

"con riferimento al caso…di residui riutilizzati senza trattamento bisogna affermare il principio che: quando non vi sia necessità di trattamento ma possibilità di riutilizzo immediato nel ciclo produttivo, non si possa parlare di rifiuto, ma di materia prima, di per sé riutilizzabile".

La Corte aggiunge che "il rottame ferroso, riutilizzato di per sé, senza alcuna operazione di trattamento preliminare, è inquadrabile in quest'ultimo caso, con la conseguente inapplicabilità della normativa relativa ai rifiuti”[13].

 

Con una più recente sentenza la Corte di Cassazione si è espressa in materia di residui da demolizione e costruzione. Vale la pena riportare integralmente alcuni importanti passaggi della pronuncia:

 

Corte di Cassazione, Sez III penale – Sentenza 2 ottobre 2003 n.37508

" (…)Nel caso che interessa …i detriti erano conseguenza di un processo di produzione (comprendente la demolizione di un muro ed il reimpiego integrale sul posto, senza trasformazione preliminare, con riutilizzo certo in attività compatibile (materiale di riporto per sottofondo di un piazzale antistante). Il materiale presente nel muro demolito ( compresi alcuni blocchi di cemento misto a ferro) non presentava carattere di disomogeneità, né era mescolato a sostanze diverse ( tipo eternit, gomme di veicoli e comunque sostanze estranee a quelle già presenti nell'opera demolita), sicché non si poneva in concreto un problema di preventivo trattamento per non compatibilità ambientale. Il materiale non è stato trasferito da un soggetto (produttore) ad un altro (utilizzatore), perché è mancata la volontà di disfarsi di esso. Il legislatore nazionale è già intervenuto con la legge 443/2001 escludendo le terre e le rocce da scavo anche di gallerie, dall'ambito dei rifiuti e dalla relativa normativa (Dlgs 22/97), perfino nell'ipotesi che siano state contaminate durante il ciclo produttivo ( purché non oltre determinate concentrazioni).

Si consente in tal modo il riutilizzo di materiali derivanti da attività di escavazione, perforazione e costruzione. Certamente esiste una differenza con i materiali di demolizione degli edifici, ossia con i cosiddetti inerti. Tale differenza non comporta una ontologica diversità, posto che il riutilizzo di rocce e terre da scavo può avvenire - a certe condizioni - anche se esista una contaminazione.

Nel caso concreto, i detriti da demolizione non contengono materiali disomogenei significativi sicché alla luce dell'art.14 legge 178/2002 e dell'indirizzo comunitario sopracitato ( sentenza del 18 aprile 2002) si può pervenire allo stesso risultato di cui alla legge 443/2001, escludendo la natura di rifiuto, secondo un criterio astratto di valutazione. Manca la prova di un reale pericolo per l'ambiente ed il riutilizzo è avvenuto secondo i principi enunciati”[14].

In Cassazione Penale, Sez III, 15 aprile 2003,n.17656 si legge: “La cosiddetta “interpretazione autentica” della definizione di rifiuto, introdotta con l’art. 14 del D.L. n.138/2002, deve essere interpretata alla luce delle norme comunitarie immediatamente operative nell’ordinamento nazionale e secondo i principi interpretativi fissati dalla Corte di Giustizia ( in particolare nella sentenza 18 aprile 2002); pertanto, la natura di rifiuto di un sottoprodotto può essere esclusa solo a condizione che il riutilizzo del medesimo: sia certo, e non soltanto eventuale; avvenga senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione”.

Al medesimo filone interpretativo si devono ascrivere le seguenti sentenze: Cass. Pen., 31 luglio 2003, n.32235 ( citata alle note n.6 e 9) e Cass. Pen. 20 gennaio 2003, n.1421 (Passerotti) . Esse sono relative al riutilizzo di “slops”[15], sottoposti a decantazione e trattamento per la produzione di olio combustibile Btz ( a bassa tenore di zolfo) destinato alla vendita per uso industriale ai consumatori finali.

Nella prima si legge che l’art. 14 della L. 178/2002 “ (…) evidenzia che, quando il riutilizzo avvenga in modo serio ( cioè effettivamente ed oggettivamente) nello stesso ciclo produttivo o di consumo ( od anche in uno analogo o diverso) viene meno lo stesso presupposto soggettivo del “disfarsi”, in quanto il soggetto economico intende continuare a ricevere benefici dal bene economico e dunque, il rifiuto ab origine non è venuto ad esistenza giuridica come tale”; non solo, la medesima pronuncia precisa anche che “in una visione economica integrata, salva sempre l’esigenza di protezione ambientale, la valutazione - circa l’esistenza di un rifiuto – può essere operata caso per caso, sia perché le categorie di rifiuti di cui all’art.6 del Decreto legislativo 22/97 hanno valore puramente indicativo ed il legislatore , come si è già detto, ha già dato una interpretazione chiarificatrice con l’art.14 D.L. 138/02, sia perché la volontà di “disfarsi” deve essere esaminata in concreto (Corte di Giustizia Ce in cause riunite C-418/97 e C-419/97 punti 73, 88 e 97) ”.

Nella seconda sentenza è scritto: “ (…) posto che i residui oleosi di cui si tratta appaiono rientrare nelle sostanze pericolose di cui al menzionato allegato D del D.lgs 22/97 ( sembrano venire in rilievo specialmente i numeri 1301, 1302,1304,1305 e 1306 del Codice CER) il giudice di merito dovrà in particolare verificare se il detentore …se n’era effettivamente disfatto, avviandole ad una delle …operazioni di smaltimento o di recupero; oppure se voleva riutilizzarle in un altro ciclo di produzione o di consumo, dopo un trattamento preventivo incompatibile con la tutela dell’ambiente, ovvero dopo un trattamento preventivo che comportasse una delle operazioni di recupero come sopra identificate ( per es. destinandole a una utilizzazione come combustibile, identificata in R1, oppure a una rigenerazione o un altro impiego dell’olio, identificata in R9 dell’allegato C del D.Lgs 22/97). Ove una di queste ipotesi risultasse positivamente verificata, ne sarebbe confermata la natura di rifiuto delle sostanze trasportate (…)”

 

4. L’onere della prova : Tribunale di S. Angelo dei Lombardi 19 settembre 2002

Un aspetto rilevante della tematica di cui si discute riguarda l’onere della prova. La giurisprudenza prevalente è, al riguardo, molto chiara: spetta a chi invoca l’esenzione dalla normativa sui rifiuti provare[16] che il residuo di produzione che si afferma essere destinato al riutilizzo è riutilizzato effettivamente e direttamente ( cioè senza subire alcun trattamento preventivo) in un ciclo produttivo o di consumo, in quanto idoneo a tale destinazione.

Appare significativa, in tal senso, una sentenza del Tribunale di S. Angelo dei Lombardi del settembre 2002 che si cita non solo in quanto tratta del problema in esame ma anche perché lo tratta in riferimento al siero di latte e quindi ad un residuo di produzione diverso da quello cui si riferivano le sentenze sopra indicate, a riprova del fatto che la tematica in esame riguarda potenzialmente qualsiasi tipologia di residui di produzione.

Ai fini dell’applicazione dell’art.14 citato, riprendendo i principi affermati dalla Corte di Cassazione[17] rispetto ai numerosi decreti legge in materia di residui, deve ritenersi…necessario che vi sia la prova, da parte dell’imputato, della destinazione dei residui al riutilizzo, anche quando ciò avvenga ad opera di altri soggetti economici; la verifica andrà fatta in concreto e caso per caso, sulla scorta di circostanze oggettive e non solo in base alla oggettiva idoneità del materiale al trattamento dovendosi diversamente considerare i residui veri e propri “rifiuti”, sottoposti alla normativa per lo smaltimento; il riutilizzo, infine, dovrà essere totale e avvenire in tempi ragionevoli”[18]

 

5.Osservazioni conclusive

Alla luce di quanto sopra esposto non pare irragionevole affermare che un residuo di produzione può essere gestito al di fuori della normativa sui rifiuti quando il residuo medesimo venga riutilizzato ( in quanto idoneo a questo scopo) in modo effettivo e completo, senza trasformazioni preliminari, nel corso del processo di produzione[19] e senza arrecare pregiudizio all’ambiente.

Tale impostazione si fonda sulL’ art.14, comma 2 lett. a) della L. 178/2002 e sulle sentenze della Corte di Giustizia sopra citate i cui principi hanno trovato conferma in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione.

Quanto all’aspetto probatorio spetta all’interessato che invochi il regime differenziato dimostrare che il riutilizzo è certo, effettivo e completo; spetta, per contro, all’autorità competente in sede progettuale valutare il grado di credibilità dei progetti di riutilizzo di residui di produzione.

Non si può fare a meno di chiedersi in che misura l’ orientamento dei giudici lussemburghesi ( le cui decisioni , secondo la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia[20]) influirà sulla procedura di infrazione avente ad oggetto l’art.14 della L. 178/2002[21].

Gli elementi di cui si dispone legittimano ad ipotizzare la “sopravvivenza” dell’art.14 co.2 lett.a) richiamato all’inizio del presente scritto.

Resta, in ogni caso, agli operatori del diritto, tra l’altro, il non facile compito di verificare la perdurante attualità del DM 5 febbraio 1998 (quanto meno nelle parti in cui disciplina ipotesi di riutilizzo “diretto” di residui di produzione) che, in base ai recenti orientamenti giurisprudenziali ai quali sopra si è fatto cenno, pare essere già intaccata.

 

 



[1] Le opinioni esposte nel presente scritto sono espresse a titolo personale e non in nome e per conto della Provincia di Vercelli.

[2] “Conversione in legge, con modificazioni,del decreto-legge 8 luglio 2002, n.138, recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate” (in S.O. n.168 alla G.U. del 10 agosto 2002, n.187)

[3] Causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon Kansanterveystyon Kuntayhtyman hallitus .

[4] Causa C-114/01, KorKein hallinto-oikeus (Finlandia) e AP.C.O., già O.C.O.

[5]Non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni della direttiva n. 75/442 che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero di rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti” – Punto n.35 della Sentenza - .

 

[6] Sino alla sentenza in esame, come evidenziato in Cass. Pen. 31 luglio 2003, n. 32235, la Corte di Lussemburgo aveva affrontato il problema in termini “negativi”, limitandosi, cioè, “ad individuare le condizioni che non consentono di escludere una sostanza o un oggetto dal regime generale dei rifiuti”.

[7] E’ interessante notare che già nella sentenza del 18.12.1997 (Inter Environnement Wallonie) la Corte ha ribadito la necessità di distinguere "…tra il recupero di rifiuti ai sensi della direttiva 75/442 ….e il normale trattamento industriale di prodotti che non costituiscono rifiuti, a prescindere peraltro dalla difficoltà di siffatta distinzione."

Si veda “Dalla nozione autentica di rifiuto va escluso il riutilizzo “tal quale”, in Ambiente e Sicurezza n. 23/2003 con commento di P. Fimiani

 

[8] Si legge in proposito nel punto n.32 della Sentenza: "per comune esperienza un rifiuto è ciò che viene prodotto accidentalmente nel corso della lavorazione di un materiale o di un oggetto e che non è il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente.

 

[9] "Non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di "disfarsi" bensì un "autentico prodotto" un residuo "il cui riutilizzo non sia solo eventuale ma certo senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione – Punti nn.36 e 37 della Sentenza -.

Sembra meglio definirsi e circoscriversi quanto sostenuto dalla Corte nella sentenza 28 marzo 1990 (cause riunite C-206/88 e C-207/88), Vessoso e Zanetti (Racc. pag. I-1461, punto 9) in cui si è affermato che la nozione di rifiuto è comprensiva delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico; si ricorda che questa interpretazione è stata confermata nella sentenza 25 giugno 1997 (cause riunite C-304/94, C-330/94, C-324/94 e C-224/95) Tombesi e a. (Racc. pag.I-3561.punto 52) nella quale la Corte ha specificato che il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442 intende riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, recupero o di riutilizzo.

Riferendosi alla sentenza Palin Granit la Corte di Cassazione ( sentenza del 31 luglio 2003, n.32235) ha affermato: “ (…) Si tratta di una prima apertura dell’orientamento comunitario, incentrata sul concetto di “prodotto” e di “sottoprodotto”….avente una autonoma rilevanza rispetto al “rifiuto” benché i confini siano labili (…)”.

 

[10] ”Tenuto conto dell'obbligo…di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitarne gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione” – Punto n.36 della Sentenza - .

Nella Sentenza Palin Granit, sull’argomento, si legge: “23. Il verbo disfarsi deve essere interpretato alla luce delle finalità della direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo considerando, è la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell’art.174, n.2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo – v.sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a. – Racc., p. I-4475, punti da 36 a 40 -.

24. Nel caso specifico, la questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva 75/442 ed in modo da non pregiudicarne l’efficacia - sentenza ARCO Chemie Nederland e a. cit. punti 73, 88 e 97”.

 

[11] L’attività cui la sentenza in esame si riferisce è delle seguenti dimensioni:

La capacità annua della miniera è di 300.000 tonnellate di cromo digrossato arricchito, 450.000 tonnellate di cromo raffinato e 500.000 tonnellate di altri minerali. Per un anno di attività i detriti ammontano in media a circa 8.000.000 di tonnellate, i minerali a circa 1.100.000 tonnellate”. – punto 26 della Sentenza -

Nella sentenza Palin Granit si legge che il quantitativo dei detriti derivanti dallo sfruttamento della cava oggetto della causa era di circa 50.000 metri cubi all’anno, pari a circa il 65-80% del volume globale estratto – punto 17 della Sentenza-.

 

[12] Punto 40: “ per quanto riguarda i residui la cui utilizzazione non è necessaria nel processo di produzione per riempire le gallerie, essi devono, in ogni caso, essere considerati, nel loro complesso come rifiuti”.

Punto 41: “Ciò è vero non solo per i detriti e la sabbia di scarto la cui utilizzazione nelle operazioni di costruzione o per altri usi è incerta (v. punti 37 e 38 della sentenza Palin Granit), ma anche per i detriti che saranno trasformati in conglomerati, poiché, anche quando una tale utilizzazione sia probabile, essa necessita precisamente di un'operazione di recupero di una sostanza che, come tale, non è utilizzata né nel processo di produzione mineraria né per l'uso finale previsto - v. punto 36 della sentenza Palin Granit”.

 

[13] Si veda altresì Cass. Pen., sez III, 26 febbraio 2003, n.84 (Costa)

[14] Si vedano di Luciano Butti, “Tra sentenze comunitarie e nazionali nozione autentica di rifiuto allo sbando” in Ambiente e Sicurezza 16 settembre 2003 n.16; di Gianfranco Amendola “Interpretazione autentica di rifiuto: le prime sentenze della Cassazione”, in Dirittoambiente.com.

[15] Miscele e residui oleosi, derivanti da svuotamento dei bracci di scarico delle valvole di sicurezza, dal recupero di idrocarburi presenti nelle acque di piazzamento degli oleodotti, dagli idrocarburi provenienti dal trattamento delle acque reflue.

[16] Ma si veda Cass. Pen. 20 gennaio 2003, n.1421 nella parte citata al paragrafo n.3

[17] Cassazione, sezione III, 16 giugno 1995,n.6914, ud. 3 giugno 1995, Di Pampero e altro; Cass. Sezione III, 9 febbraio 1998, ud. 1 dicembre 1997 – Pres. A. Giuliano – Rel. A. Franco, P.M. in proc. Nardino, per cui “in tema di smaltimento di rifiuti speciali, l’applicazione della normativa di cui al D.L. n.66 del 9 marzo 1995, e degli altri decreti legge reiterati in materia ed i cui effetti sono stati fatti salvi dalla L. n.575 del 1996, è subordinata al previo accertamento, nel caso concreto, che i materiali oggetto di raccolta e stoccaggio siano destinati all’effettivo ed oggettivo utilizzo.”

[18] Si veda “Nozione autentica di rifiuto ancora più confusa con le ultime pronunce giurisprudenziali” in “Ambiente e sicurezza” n.5, 11 marzo 2003 in cui , tra l’altro si legge:

Nella fattispecie esaminata dal Tribunale (di S. Angelo dei Lombardi) gli imputati sono stati assolti perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, avendo la difesa dimostrato che il siero prodotto nell’opificio di uno degli imputati stessi, nel quale si effettuava quotidianamente la trasformazione di circa 300 litri di latte in formaggio, era convogliato in una cisterna e ceduto ad un terzo, il quale, a sua volta, lo utilizzava direttamente e senza alcun procedimento di trasformazione nell’alimentazione animale; il Giudice ha ritenuto che “può ragionevolmente escludersi valsisi pregiudizio all’ambiente o pericolo per la salute umana: ciò non solo per la non pericolosità del residuo dell’industria lattiero-casearia, ma per il concreto utilizzo che della materia prima secondaria è stato fatto nel ciclo alimentare animale: come documentato dal referto di analisi prodotto dalla difesa, il prodotto, ricco di proteine e lattosio, essendo altamente deperibile, va somministrato nell’arco delle 24 ore o comunque, di 4 giorni, se conservato alla temperatura di 4°; il siero era poi conservato in apposite cisterne e quotidianamente ritirato”.

Nello stesso senso si vedano: Ordinanza del GIP di Udine 16 ottobre 2002, proc. N.3075/02 R.G.N.R. (“la carenza di riscontri in ordine alla natura, composizione e, conseguentemente, alla classificazione dei materiali oggetto di trattamento e, soprattutto, l’assenza di elementi dai quali inferire che gli sessi possano essere e siano effettivamente riutilizzati senza recare pregiudizio all’ambiente, impedisce di poter applicare l’art.14, comma 2 lettere a) e b), D.L. n.138/2002, convertito in legge 178/2002, conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza formatasi sulla decretazione d’urgenza di modifica al D.P.R. n.915/1982, in materia di rifiuti, che, nel creare la categoria dei residui e dei materiali quotati in borsa, presupponeva implicitamente la necessità di una garanzia non puramente nominalistica del riutilizzo dei materiali nel senso che doveva documentarsi la effettiva e in equivoca destinazione al riutilizzo il quale non poteva essere supposto o teorico, né ritenuto in re ipsa per il solo fatto del cenno al tipo di materiale nel sistema degli elenchi creati dalla decretazione d’urgenza in questione ( …..)”).

In carenza di prova certa in ordine a detta destinazione dei residui, devesi applicare il regime ordinario dell’autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti e, di conseguenza, le corrispondenti sanzioni”.

Gli stessi principi si trovano espressi ad es. anche in Cass. Pen., sez. III, sentenza del 27 novembre 2002.

[19] Il fatto che il riutilizzo di un residuo avvenga nel corso del processo di produzione non sempre è considerato dalla giurisprudenza conditio sine qua non per escludere l’applicazione della normativa sui rifiuti. E’ importante altresì sottolineare che la locuzione “nel corso del processo di produzione” non coincide con la locuzione “nel medesimo luogo di produzione”; in altri termini il riutilizzo di un residuo nel corso e nel luogo in cui si svolge il processo di produzione che lo ha generato è una circostanza preferibile ma non necessaria perché si possa invocare l’esenzione dalla normativa sui rifiuti.

 

[20] Tali sentenze "si traducono in un obbligo di attuazione della normativa comunitaria rivolta a tutti i soggetti giuridicamente tenuti all'attuazione delle leggi ed in particolare alle autorità giurisdizionali e amministrative(…)" - C.d. S. parere del 13.5.92

Si veda anche Corte di Cassazione, Sez III, 15 aprile 2003, n.17656 "sussiste la necessità dell'applicazione immediata, diretta e prevalente, nell'ordinamento nazionale, dei principi fissati dai regolamenti comunitari e dalle sentenze della Corte europea di giustizia”. Nello stesso senso Tribunale di Grosseto 12 luglio 2003, n.571 in cui si legge: “le sentenze della Corte di Giustizia sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale”.

Interessante è lo scritto di Pasquale Giampietro, Prime "controdeduzioni" ai rilievi della Commissione CE sull'art.14 del D.L. 138/2002 (interpretazione autentica della definizione di rifiuto, in Giust. It, n.1-2003)

 

[21] Il 9 luglio 2003 la Commissione delle Comunità Europee ha espresso, sul punto, un parere motivato indirizzato alla Repubblica Italiana a titolo dell’art. 226 del Trattato che istituisce la Comunità Europea, per non conformità all’art.1 della direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti come modificata dalla direttiva 91/156/CEE.