Giornata di studio sul tema Il
rischio da ignoto tecnologico,
Milano, 1 dicembre 2001
Intervento di Valeria Torre
Diritto penale e gestione
collettiva dei fattori produttivi
Nel fronteggiare i
fenomeni criminali emergenti nella società c.d. del rischio, il modello di
responsabilità penale di matrice codicistica svela tutta la sua inadeguatezza.
La ricostruzione della tipicità mostra, infatti, evidenti segni di crisi in un
contesto criminale che si sviluppa, prevalentemente, nell’ambito
dell’esercizio di attività rischiose.
Organizzata secondo
modelli decisionali procedimentalizzati, la gestione dei fattori produttivi è
affidata ad una fitta rete di interconnessioni, che identifica l’agire
collettivo. Ciò ha comportato una “progressiva svalutazione” della
componente personalistica dell’illecito, che esalta la tendenza del danno a
diventare anonimo[1]: ovvero la maggiore
difficoltà nell’individuazione della condotta tipica si traduce, da un lato,
in un’estrema oggettivazione delle pretese dell’ordinamento rispetto alle
possibilità del singolo, dall’altro, in una generalizzazione ed astrazione
dei doveri di diligenza; tutti fattori che impediscono di isolare singole
condotte nell’ambito delle strutture complesse[2].
In questo contesto
l’agire individuale perde la sua identità ed autonomia, determinando una
crisi “da incontenibilità” e “da complessità” del diritto penale,
costruito – come notoriamente è stato detto - sul modello dell’omicidio,
sulla figura dell’autore individuale[3].
Tuttavia
nell’accumulazione di effetti decisionali, nelle conseguenze a lunga scadenza
di decisioni non più identificabili, nei rapporti causali sovracomplessi e non
più ricostruibili, esistono delle condizioni che possono scatenare eventi
dannosi anche notevoli, senza che sia possibili attribuirli a singole decisioni[4].
Sotto un diverso
punto di vista queste manifestazioni criminali sono generalmente caratterizzate
dal verificarsi di macro-eventi o dalla creazione di eventi lesivi
“diffusi”, che rendono sfumata l’identità del soggetto passivo.
L’indeterminatezza del soggetto passivo ostacola – di conseguenza - la
descrizione dell’evento lesivo, riducendo le potenzialità esplicative delle
leggi causali. Questo modello di illecito, c.d. a vittimizzazione di massa[5],
rende quindi nebulosi i rapporti di derivazione causale, infirmando la validità
e la legalità di un procedimento di tipizzazione, basato su paradigmi causali[6].
L’impossibilità di
individuare delle decisioni individuali come antecedenti causali di eventi
dannosi e la difficoltà di selezionare i requisiti della responsabilità penale
sembrerebbero suggerire l’individuazione di fattispecie penali di mera
condotta[7],
di pericolo astratto[8],
basate sul modello autorizzativo e/o al superamento di una soglia limite, che
rappresenta il più delle volte la soglia di catastrofe[9],
o anche l’individuazione, per via legislativa, di posizioni di garanzia
nell’ambito dell’attività pericolosa[10],
la cui rilevanza penale è legata alla violazione di un obbligo. In
questa ottica l’intervento penale risulta funzionale a logiche gestionali, di
governo globale delle attività economiche, e, in questa visione meramente
utilitaristica, si insinua il sospetto di una strumentalizzazione
dell’individuo a fini di politica criminale, laddove per soddisfare le
esigenze di mera ascrizione della responsabilità penale, al di là dei
fondamenti e dei limiti entro i quali dovrebbe essere affermata, svaniscono sia
il contenuto offensivo, che il carattere personale dell’illecito[11].
Muta anche la ragione
e la giustificazione della sanzione, che viene invocata non più a tutela di
beni giuridici e risulta proporzionale non all’offesa, bensì costituisce un
corrispettivo di una legalità mercanteggiata[12].
Ovvero un’attività
è riconosciuta come lecita se è possibile individuare un responsabile, un
centro di imputazione che assuma gli oneri delle disfunzioni economiche e
sociali che eventualmente possono derivarne[13]. In questo senso il riconoscimento della libertà
di azione nelle scelte imprenditoriale dovrebbe essere il frutto di una
complessa ponderazione, che vede la partecipazione di chi assume la decisione
dell’impresa e di chi subisce le conseguenze della decisione. Questa apertura
al pluralismo di interessi, richiamata in una ideale negoziazione collettiva,
nella realtà si riduce notevolmente al momento della concreta definizione delle
scelte aziendali. In questa fase il titolare dell’attività è libero di
scegliere se tenere il comportamento approvato dalla collettività e definito
lecito dall’ordinamento o in alternativa violare le regole e sottoporsi alle
sanzioni, costringendo i soggetti coinvolti nelle scelte imprenditoriali a
subire un rischio ed un eventuale danno[14].
Si spiega quindi come
la sanzione penale si trasformi essa stessa in una condizione di liceità delle
attività pericolose nell’ambito di una giustizia contrattata[15],
e presenti un margine di operatività talmente ampio e differenziato, da
configurarsi come una scelta di politica legislativa quanto meno opinabile nelle
scelte concrete delle politiche aziendali.
L’emersione di
nuove oggettività giuridiche.
Questo mutamento di
scopi nel sistema penale comporta ovviamente una trasformazione dell’orizzonte
dogmatico in cui si iscrivono le linee politico criminali del diritto penale del
rischio.
Un intervento penale,
realizzato al di fuori di un sostrato materiale di offesa, legato a mere azioni,
stenta a trovare la sua legittimazione e reagisce creando nuovi oggetti di
tutela, in base ai quali è possibile giustificare il ricorso alla sanzione
penale[16].
Così le attività
rischiose richiedono l’intervento penale non già per la lesione di beni
giuridici individuali, bensì perché ledono interessi metaindividuali, già
nella realizzazione di condotte di per sé non autorizzate[17].
Nondimeno il
tentativo di legittimazione esterna, politico-criminale attraverso la categoria
degli interessi collettivi e/o diffusi, lascia sussistere dubbi e perplessità,
in quanto l’esercizio lecito di attività rischiose è condizionato da una
molteplicità di valutazioni, per cui non è sempre facile individuare un
interesse prevalente, alla cui tutela la normativa giuridica è finalizzata. La
continua ponderazione fra istanze contrapposte non permette, infatti, di isolare
un univoco obiettivo di tutela, ma piuttosto l’ambiguità e l’ambivalenza (o
polivalenza) del testo legislativo si presta ad una molteplicità di letture[18].
Questa evanescente
identità culturale e giuridica della normativa complementare rappresenta un
dato peculiare della c.d. legislazione penale del rischio, emanata non per
tutelare interessi consolidati, bensì per “gestire” ed “organizzare”
fattori produttivi e “supportare” l’attività di controllo pubblico e
privato, ponendosi quale segmento di rafforzamento e/o di supporto della
disciplina e dell’attività di gestione e di governo esterno delle attività
economiche[19].
Il ruolo strumentale
che il diritto penale assume rispetto alla “amministrazione” del settore
economico si riflette anche sulla tecnica legislativa utilizzata,
tendenzialmente fondata sul rinvio e su clausole sanzionatorie[20].
Questa marcata
propensione del diritto penale a svolgere un ruolo meramente sanzionatorio,
implica non solo la subalternità del significato della norma penale al
contenuto precettivo altrove fissato dalla norma di rinvio, ma, altresì,
un’operatività del diritto penale condizionata ad un ruolo attivo della P.A.[21].
Schematizzando
l’influenza che il contesto sociale, economico e tecnologico esercita sul
diritto penale, è possibile affermare che la complessità e la rilevanza dello
sviluppo tecnologico, nell’attuale mercato economico, implicano una situazione
di rischio standardizzato e diffuso, il cui controllo sembra richiedere una
tutela anticipata[22],
in quanto subordinare l’intervento penale alla produzione di un danno potrebbe
significare la realizzazione di effetti catastrofici e/o irreversibili, che
banalizzano in toto la sanzione penale[23].
Mutata la prospettiva
di azione dell’intervento penale, prevale un’ottica utilitaristica, in cui
l’efficienza preventiva risulta direttamente proporzionale al grado di
specificità della normativa, che implica una valutazione il più possibile
aderente alla realtà fattuale, in modo da ritagliare le regole cautelari sul
rischio specifico connesso ad una determinata attività. Di qui l’inutilità
di definizioni e discipline generali ed astratte, che spiega la crisi del
monopolio del legislatore in materia penale e la necessità di ripartire la
competenza normativa tra più organi.
L’accoglimento
di questa filosofia preventiva, ispirata ai principi di precauzione e
dell’azione preventiva, si traduce, quindi, in modelli di illecito,
prevalentemente di natura contravvenzionale, che impongono condizioni di liceità,
tramite l’imposizione di obblighi, animati da specifici finalismi preventivi,
per cui è la violazione della regola cautelare ad assurgere ad illecito,
penalmente sanzionato[24].
Il
bilanciamento degli interessi e il contenuto della tipicità
Il mutamento di
obiettivi di politica criminale si spiega alla luce di una complessa
stratificazione dei conflitti sociali ed economici, il cui dinamismo implica una
serie continua di bilanciamenti, che impone per ogni definizione normativa di
tener conto di visioni prospettiche antagoniste, attraverso una realizzazione
“temperata”, parziale degli interessi particolaristici[25].
A livello sistematico
si coglie una “inversione” del contenuto e del significato dei singoli
elementi del reato. Mentre, infatti, l’operazione di bilanciamento, nel
diritto penale classico, costituisce il fondamento delle cause di
giustificazione e trova pertanto collocazione sistematica nell’ambito
dell’antigiuridicità; nel diritto penale del rischio, invece, il
bilanciamento è anticipato a livello di tipicità: già, quindi, nella
definizione della materia del divieto. Così nel definire i limiti del rischio
consentito è necessario includere la valutazione di interessi contrapposti
nella stessa tipicità[26].
L’anomalia
apparente in realtà risulta coerente anche con gli scopi di tutela della
legislazione penale del rischio e con le linee politico-criminali in cui si
inscrive.
Infatti mancando a
priori un interesse giuridicamente prevalente, non è possibile costruire la
fattispecie oggettiva su un univoco obiettivo di tutela, ma la stessa
fattispecie deve dare spazio ad un giudizio complesso fra vari interessi
contrapposti. In questo modo i limiti esterni alla norma penale, ovvero i limiti
scriminanti, tradizionalmente individuati negli interessi diversi da quelli
direttamente tutelati tramite la norma incriminatrice, vengono inclusi nella
definizione della tipicità, trasformandosi in limiti interni, esegetici.
Questa contrazione
degli elementi del reato nella sola definizione della tipicità trova ulteriore
conferma se si analizza il contenuto delle fattispecie contravvenzionali che
caratterizzano il diritto penale del rischio. La difficile demarcazione fra
tipicità ed antigiuridicità è dovuta, infatti, alla costruzione
dell’illecito secondo il modello dei reati di mera trasgressione[27].
Ovvero il fatto tipico non è più identificabile in un fatto materiale, indizio
di antigiuridicità, bensì si evince solo dal contrasto del fatto con il
diritto. L’antigiuridicità diventa di conseguenza segno di tipicità,
connotata da una forte normativizzazione. Questo significa una perdita di
identità del diritto penale, che nella definizione delle fattispecie astratte
smarrisce la propria autonomia contenutistica, per appiattirsi su un giudizio di
sola antigiuridicità, per cui le condotte realizzate nell’ambito di attività
lecite risultano penalmente rilevanti solo se contrastano con gli standards
legali.
Quale conseguenza di
questa confusione fra antigiuridicità e tipicità, quale effetto della
normativizzazione del fatto tipico, muta la struttura dell’illecito, per cui
si registra anche un’interscambiabilità fra fare ed omettere[28].
Il diritto tra assenza di una
prospettiva assiologica ed esigenza di flessibilità
E’ evidente come la
mancanza di un bene giuridico, l’assenza di una valutazione in termini di
offensività, l’evanescenza delle modalità di aggressione penalmente
rilevanti, l’impossibilità di rinvenire un’indicazione univoca sulle
esigenze di tutela all’interno di una società fortemente frammentata[29]
rendono problematico cogliere le ragioni sostanziali della legittimità
dell’intervento penale, che si uniforma su una giustificazione di mera legalità,
per cui si punisce non chi produce danni, ma chi produce danni senza la
prescritta autorizzazione. La sanzione sembrerebbe, quindi, stigmatizzare
esclusivamente l’infedeltà giuridica.
Nel rapporto
problematico fra diritto e tecnica emerge l’esigenza di adottare strumenti
giuridici flessibili, idonei a fronteggiare le continue emergenze determinate
dall’incessante mutamento sociale ed economico.
Cogliere la
complessità del fenomeno giuridico analizzato, significa anche accettare come
presupposto un diritto piegato alla contingenza, che inevitabilmente perde il
suo contenuto assiologico, per modularsi rispetto alle esigenze della realtà,
attraverso un processo di formalizzazione, strumentale ad una logica meramente
regolativa ed organizzativa[30].
Del resto la
trasformazione subita dal sistema giuridico è solo espressione di un mutamento
del sostrato sociale ed economico, che mira a disciplinare.
La difficoltà di
individuare un complesso di valori quale criterio di orientamento nelle opzioni
di politica criminale si traduce nell’impossibilità di operare scelte di
valore attraverso il diritto, riflesso di una società disomogenea, incapace di
trovare delle forze e dei valori catalizzatori di consenso per la definizione e
la distinzione fra lecito ed illecito[31].
Così anche il
concetto di rischio consentito, tradizionalmente connesso al concetto di
adeguatezza sociale, quale sua corrispondente definizione giuridica, risulta
coincidente con l’espressione meramente formale di limiti di legalità
nell’esercizio dell’attività autorizzata[32].
Tutto ciò comporta
sicuramente una notevole difficoltà nell’individuare un obiettivo
giuridico–penale di tutela, in quanto l’intervento del diritto penale è
originato esclusivamente dalla difficoltà che il sistema sociale o il sistema
economico incontrano nel risolvere un conflitto. Sotto questo punto di vista il
fenomeno dell’ipertrofia penale costituisce sicuramente un aspetto patologico
innanzitutto del sistema politico, laddove il ricorso alla sanzione è soltanto
in funzione simbolica, mirato alla manipolazione o alla creazione del consenso[33].
Questo processo di
formalizzazione del diritto penale culmina nella legislazione complementare
degli anni novanta, con modelli di disciplina orientati a definire modelli
procedimentalizzati di gestione collettiva delle attività rischiose.
Negli interventi in
materia di diritto ambientale e di diritto penale del lavoro l’oggetto della
tutela giuridico-penale è il procedimento, in cui si articola la gestione
collettiva del rischio, nell’ambito di un sistema giuridico ispirato al
principio precauzionale e dell’azione preventiva[34].
Questa tendenza costituisce la conferma di una maggiore sensibilità per le
esigenze di una società complessa e disomogenea, che nell’aspirazione al
pluralismo, cerca nelle garanzie di una corretta procedimentalizzazione delle
decisioni a rischio, una possibile alternativa non tanto al diritto penale, ma
alle logiche meramente repressive del sistema penale[35].
Il d.l.vo 334/1999
Esempio paradigmatico
di questo modello normativo è il d.l.vo 334/99, attuativo della direttiva
Seveso bis, n.96/82, sulla protezione e il controllo dei pericoli di incidenti
rilevanti.
Il testo legislativo
è caratterizzato dall’assenza di indicazioni sulle misure preventive da
assumere nell’esercizio dell’attività di impresa. Tale vuoto è compensato,
però, dalla previsione e dalla predisposizione di una serie di documenti di
sicurezza e di procedure di controllo, che mirano, da un lato, alla
responsabilizzazione dello stesso gestore nella riduzione del rischio,
dall’altro, alla maggiore collaborazione fra i diversi soggetti nella
definizione di una politica di sicurezza[36].
La logica
co-gestionale di tutela sembrerebbe realizzarsi, infatti, attraverso
l’interrelazione fra diversi momenti e soggetti in un complesso procedimento
che, nel definire un programma di sicurezza, approda all’individuazione di una
serie di misure di prevenzione da applicare al singolo stabilimento, definendo,
così, i limiti di tolleranza giuridica dell’esercizio dell’attività.
In questo modo la
dimensione del rischio consentito si fonda su una valutazione, in cui vengono in
considerazione tutti gli aspetti rilevanti della situazione assunta nella sua
concretezza.
Questa maggiore
aderenza della misura di liceità rispetto al rischio situazionale garantisce
indubbiamente una maggiore efficacia preventiva, in quanto ogni programma di
sicurezza è ritagliato rispetto allo specifico rischio, insito nella
particolare attività svolta. Un simile modello di gestione permette, inoltre,
una definizione dinamica e mutevole delle condizioni di liceità, in quanto, nel
prevedere una serie di controlli periodici e di obblighi di aggiornamento,
garantisce un continuo e costante adeguamento ai migliori standards di
sicurezza.
A livello applicativo
questa definizione legale della dimensione di tolleranza giuridica potrebbe
agevolare l’interprete nel ridescrivere, nell’ambito dell’imputazione
oggettiva e soggettiva dell’evento, il contenuto del dovere di diligenza, che
condiziona l’esercizio lecito delle attività rischiose. Questo modello di
diritto penale preventivo, che assume come giustificazione e legittimazione una
prospettiva efficientista ed utilitaristica, costituisce una possibile
alternativa al modello repressivo, in cui la concretizzazione del rischio
consentito è, invece, affidato prevalentemente ad un sistema di regole, a
formazione giurisprudenziale, alle volte frutto dell’emotività del
contingente.
Il procedimento
descritto dal d.l.vo 334/99, nel prevedere una complessa procedura, il cui esito
è la predisposizione di un programma globale di tutela ambientale e della
persona, porta ad individuare come fulcro dell’intero sistema normativo un
processo di implementazione degli scambi di informazioni per una gestione
collettiva del rischio. A tal riguardo il decreto legislativo
può essere assunto quale traduzione giuridica di un sistema di risk
managment, ovvero come progetto finalizzato al maggior controllo della
gestione dei rischi connessi ad attività industriali, costruito su un sistema
di accesso, sia da parte della pubblica amministrazione, sia da parte dei
privati, alle informazioni riguardanti fattori produttivi. In questa ottica si
spiega il motivo per cui la condotta di trasgressione che comprometta il
rapporto collaborativo fra i diversi soggetti rappresenti il significato di
massimo disvalore anche penale[37].
Infatti proprio la corretta informazione costituisce la base per un rapporto fra
vari sottosistemi, che si intersecano nella ricerca di una risposta adeguata
alla minaccia ambientale[38].
Coerente con questa
tendenza risulta, di conseguenza, anche la tecnica normativa adottata
particolarmente complessa. Il testo legislativo non si pone come un corpo
normativo definito e completo, ma dà impulso ad un’attività normativa di
fonte secondaria e costituisce il presupposto di operatività di normative già
esistenti. L’informazione giuridica viaggia, quindi, prevalentemente su reti
normative “minori”, particolaristiche (finanche private, si pensi ai
documenti della sicurezza), secondarie, sancendo, definitivamente,
un’irreversibile crisi di legalità[39].
La stessa analisi
strutturale del testo del decreto legislativo, che prevede delle disposizioni
finali, caratterizzate dall’esclusivo elemento sanzionatorio e prive di
precetto, costituisce un ulteriore riconoscimento di una logica strumentale del
diritto penale rispetto al procedimento[40].
Conferma
significativa di questa filosofia co-gestionale, è data, innanzitutto, dalla
funzione che assume l’apparato sanzionatorio, che risulta finalizzato al
rafforzamento degli strumenti di democrazia partecipativa nell’ambito del
mercato economico, per cui assumono
un ruolo fondamentale gli obblighi di informazione e di comunicazione.
L’indicazione da cui è possibile dedurre questa marcata tendenza a
privilegiare un sistema di controllo del rischio attraverso la predisposizione
di una rete informativa, è costituita dal ricorso alla sanzione penale in caso
di violazione di obblighi di notifica e di comunicazione. Prevale in questo
senso la possibilità di verificare documentalmente l’adozione di misure di
sicurezza, rispetto all’adempimento concreto degli obblighi cautelari che le
prescrivono[41].
Nell’ampio settore
della legislazione complementare si riscontra, anche in questo caso, l’uso
strumentale – sanzionatorio – del diritto penale rispetto a precetti che,
nell’imporre obblighi, definiscono le singole fasi di un più ampio
procedimento volto alla composizione di un conflitto fra forze antagoniste[42].
La filosofia co-gestionale cui sembra ispirarsi può, in un certo modo,
giustificare il vuoto contenutistico sugli aspetti sostanziali delle misure di
sicurezza.
La più volte
denunciata perdita di identità del diritto penale si comprende, quindi, se
posta in relazione all’ambizioso progetto di tutela integrata dell’ambiente
e della persona, in cui il ruolo giocato dalla sanzione penale è di mero
supporto alle funzioni espletate da organi pubblici e di promozione della
partecipazione della società civile nell’ambito di decisioni “critiche”[43].
L’analisi esegetica
Il modello descritto
rappresenta un prototipo normativo, la cui concretizzazione nella legislazione
vigente tradisce, però, qualche segno di debolezza.
Attraverso
l’analisi esegetica[44]
emergono, infatti, alcune incongruenze, sintomatiche di una normativa ad alto
rischio di ineffettività. Pur accettando la discutibile funzione promozionale
del diritto penale nell’affermazione di interessi soccombenti e la sua
strumentalità rispetto al funzionamento di un procedimento, finalizzato ad un
più equilibrato contemperamento di interessi, è possibile individuare una
serie di elementi che svelano una distanza fra le finalità di tutela e gli
effetti che l’intervento sanzionatorio del diritto penale produce[45].
Le
fattispecie si costruiscono generalmente su condotte meramente omissive,
privilegiando, come già affermato, la tutela degli aspetti formali del sistema
giuridico di gestione del rischio. L’art. 271 prevede, infatti, una
fattispecie contravvenzionale nel caso di omessa notifica, o mancata
presentazione nei termini prescritti del rapporto di sicurezza o del documento
sulla politica aziendale di sicurezza. Il limite di liceità in questa
fattispecie è dunque segnato non dall’omissione, bensì dal mancato rispetto
dei termini di presentazione della documentazione obbligatoria, per cui si
equipara la condotta di omissione e il mero ritardo nell’adempimento degli
obblighi informativi[46].
L’aver
incentrato tutto il disvalore penale sul mancato rispetto dei termini conduce ad
un duplice ordine di considerazioni.
In
primo luogo la valutazione della rilevanza penale dipende dall’asfittica
condizione del rispetto dei termini. Rispetto a questa previsione è sicuramente
confermata la tesi istituzionale della tutela giuridica dell’ambiente, che
esalta gli aspetti strumentali della legislazione ambientale, in cui si
privilegiano le azioni di supporto alle funzioni della P.A., quale forma mediata
di tutela del bene ambiente, trascurando l’individuazione di condotte dotate
di una certa lesività.
In
secondo luogo, pur accogliendo la tesi istituzionale della tutela giuridica
dell’ambiente e del reato ambientale, quale reato programmatico[47],
per cui la disciplina giuridica dell’ambiente richiederebbe una lungimirante
politica economica e di sviluppo, nel cui ambito vengono esaltati i profili
funzionali e di supporto alla P.A., non è possibile ignorare a quali
disfunzioni conduce una risposta sanzionatoria così uniforme rispetto a
condotte segnate da un diverso coefficiente di offensività.
L’aspetto
che tradisce maggiore incongruenza, anche entro le coordinate di un diritto
penale preventivo, è rappresentato della mancanza di qualsiasi meccanismo di
non punibilità nei casi di presentazione della dovuta documentazione, dopo la
scadenza dei termini. Sarebbe stato, infatti, ragionevole ed opportuno
introdurre un meccanismo di forte attenuazione o di esclusione della punibilità
nel caso di osservanza tardiva del precetto violato, come ad esempio la causa
estintiva del reato prevista all’art. 24 del d.l.vo n.758/94[48].
Il
gestore che colposamente lascia decorrere i termini di presentazione dei
documenti di cui agli artt. 6-7-8 non avrebbe alcun incentivo a regolarizzare la
sua posizione, recuperando un rapporto di collaborazione con l’autorità
competente attraverso un tardivo adempimento, in quanto ciò equivarrebbe ad
autodenunciarsi.
Ma
il profilo che desta maggiori preoccupazioni, in questa rete legale di Risk
assessment e Risk management, è determinato dall’operatività
“condizionata” della norma penale al ruolo attivo della P.A.. Questo
implica, in caso di inadempienze o di ritardi dell’autorità amministrativa,
il fallimento della logica co-gestionale, che si riduce, invece, ad
un’autogestione dei fattori di rischio, realizzata dal produttore in base ad
una visione prospettica limitata alle sole considerazioni di ordine aziendale[49].
Oltre
all’elevato rischio di ineffettività, bisogna anche evidenziare alcune lacune
di tutela, fra le quali emerge per gravità l’ipotesi di informazioni non
veritiere. La falsità della documentazione obbligatoria può certamente essere
rilevata nella fase istruttoria e di controllo, ma essendo priva di sanzione,
sia penale che amministrativa, rischia di essere una situazione giuridicamente
irrilevante.
Più
grave è la condizione che si determina in caso in cui si verifichi un incidente
rilevante. Può accadere allora che il gestore preferisca fornire informazioni
non veritiere sui sistemi di sicurezza adottati e sulle modalità di
verificazione dell’incidente, per evitare l’imputazione degli eventi
verificatisi a causa di omissioni di misure di sicurezza[50].
Anche
sotto il profilo sanzionatorio si evidenziano alcune disfunzioni. L’apparato
sanzionatorio, che correda la disciplina sugli incidenti rilevanti, costituisce,
infatti, un tentativo di variazioni sanzionatorie in funzione dell’illiceità
delle condotte. Non si può ignorare l’aspirazione del decreto qui esaminato,
di realizzare un sistema di tutela coordinata fra sanzione amministrativa e
sanzione penale. La necessità di una risposta sanzionatoria diversificata è,
infatti, presupposto di legittimità ed effettività dell’intervento penale
rispetto alla tutela dei beni c.d. a largo spettro[51].
Ad
una più attenda riflessione l’art.27 sembrerebbe realizzare, piuttosto, una
duplicazione sanzionatoria. L’operatività della sanzione amministrativa
intesa in senso ampio, infatti, si sovrappone totalmente alla sfera di illiceità
penale, applicandosi in modo indifferenziato a tutte le violazioni degli
obblighi previsti dal d.l.vo 334/99, già punite con l’arresto.
La progressione
sanzionatoria – diffida, sospensione, chiusura dello stabilimento – è,
inoltre, in funzione solo della reiterazione del comportamento inosservante,
senza alcuna considerazione della gravità dell’inadempimento delle
prescrizioni imposte dall’autorità. Un simile automatismo annulla qualsiasi
discrezionalità nella applicazione della sanzione amministrativa e contraddice
i caratteri generali delineati dalla legge 689/81, la quale all’art.11
introduce un meccanismo commisurativo affine a quello previsto dall’art.133
c.p., graduato in funzione della gravità dell’inosservanza e del coefficiente
soggettivo. Ciò rende quantomeno problematica l’inclusione di tali misure
nell’ambito del sistema sanzionatorio, dovendosi, invece, qualificare come
meri provvedimenti amministrativi, assunti dalla p.a. nell’ambito
dell’attività di vigilanza.
Sintomatico
dell’assenza di coordinamento fra la struttura sanzionatoria e il contenuto
precettivo del testo del d.l.vo, è, inoltre, la mancanza di un apparato
punitivo idoneo ad incidere sull’ente collettivo, pur prevedendo la persona
giuridica come destinatario degli obblighi e soggetto attivo degli illeciti[52].
La totale assenza di pene accessorie acuisce maggiormente gli effetti negativi
di tale dimenticanza; situazione lasciata immutata anche dopo l’intervento di
un sistema di sanzioni amministrative nei confronti delle persone giuridiche,
previsto dalla legge n. 300/2000. Il decreto legislativo di attuazione, 8 giugno
2001, n.231, frutto di un evidente compromesso fra potere politico e potere
economico, appare pesantemente mutilato nell’apparato punitivo in ambito
ambientale, aggravando il vuoto di tutela nell’esercizio di attività
rischiose, articolate in forme plurisoggettive.
Conclusioni
La
complessità del progetto teorico del d.l.vo 334/99 si riflette inoltre anche a
livello strutturale. Una fitta trama normativa ha prodotto un’inutile
sovrapposizione di obblighi (basti pensare agli obblighi di informazione che si
distinguono in obbligo di notifica, obbligo di presentazione della scheda
informativa, obbligo di presentazione del documento sulla politica di sicurezza
e obbligo di presentazione del rapporto di sicurezza), cui corrisponde solo un
aggravio burocratico, senza alcun rafforzamento di tutela o in termini di
effettività[53].
Anche
a livello istituzionale la caotica ripartizione di competenze realizza un
progetto incompleto, provvisoriamente organizzato attraverso l’intervento di
organi istituzionali supplenti.
A
ciò si aggiunga che l’iter
procedimentale prevede il coinvolgimento di una molteplicità di soggetti
pubblici, il cui intervento è meramente formale, essendo solo destinatari di
comunicazioni obbligatorie del gestore.
Questa
complessa burocratizzazione del processo di risoluzione dei conflitti si
traduce, pertanto, nell’individuazione di una serie di obblighi che
effettivamente stabiliscono delle condizioni di liceità, ma non rispondono
affatto alla funzione delimitativa del rischio consentito.
La
procedimentalizzazione di una prassi di bilanciamento di interessi avrebbe
dovuto garantire una definizione della dimensione del rischio consentito,
secondo modelli di razionalità culturale, democraticamente legittimati. Tutto
ciò si sarebbe dovuto tradurre nell’enucleazione di un apparato normativo,
caratterizzato da una finalità preventivo-cautelare.
Ma
a questa conclusione non sembra giungere l’intera disciplina del decreto, che
proprio in chiusura, dopo aver tentato di costruire un tessuto sociale,
istituzionale e giuridico di connessione, si sfilaccia in un apparato
sanzionatorio che trascura gli aspetti sostanziali.
La
definizione solo degli aspetti di legalità formale e procedurali non assume,
pertanto, rilevanza nella delimitazione sostanziale del rischio consentito,
inteso quale spazio giuridico delle attività pericolose, autorizzate solo in
quanto il loro esercizio sia contenuto nei limiti di tollerabilità per la
salute umana.
In
un certo senso questa difficoltà nella definizione delle condizioni di liceità
riflette il deficit di positività,
che caratterizza la definizione delle regole cautelari nell’ambito delle
attività pericolose, traducendosi a livello pratico/applicativo
nell’impossibilità per il giudice di appoggiarsi a definizioni giuridiche del
rischio consentito.
La
normativa sulle attività pericolose non solo non riesce a fornire alcuna
indicazione di valore, ma non garantisce neanche l’effettività di un
procedimento che a tale scopo è orientato.
In
questo modo sfuma anche la possibilità di cogliere una possibile connessione
fra la dimensione di liceità legalmente riconosciuta e la misura che segna i
confini del rischio consentito, nell’ambito dell’imputazione oggettiva
dell’evento. L’assenza di un criterio orientativo per il giudice
nell’accertamento in concreto della responsabilità penale e il vuoto
contenutistico, che caratterizza il diritto penale moderno, costruiscono un
universo giuridico pulsante, in cui gli spazi di libertà riconosciuti
dall’ordinamento sono ridiscussi e ridefiniti in decisioni giurisprudenziali,
riflesso di fluttuanti esigenze contigenti.
La
conclusione che si può trarre è che la formalizzazione del diritto penale,
funzionale alla procedimentalizzazione delle decisioni critiche sull’esercizio
di attività pericolose, introduce solo un apparato normativo dotato di un alto
grado di ineffettività, che alimenta un fenomeno di ipertrofia e di
burocratizzazione, assumendo una direzione del tutto eccentrica rispetto
all’esigenza di tutela di funzioni, la cui legittimità può riconoscersi solo
in considerazione di una tutela mediata dei beni.
Il
diritto penale del rischio risulta pertanto diverso da quel diritto penale
“preventivo”, descritto in via teorica dalla dottrina e incentrato tutto su
anticipazione di tutela e reati di pericolo, da rendere inutile una sua
identificazione con un sotto-sistema punitivo, assunto come corrispondente
preventivo del diritto penale dell’offesa. Lontana da una logica
all’offensività, ma anche da un sistema imperniato sulla pericolosità, il
diritto penale del rischio, effettivamente esistente e vigente, sembra più
ispirato ai modelli di risk assessment e
risk managment, in cui, da un lato, si sperimentano nuove forme di
partecipazione, procedimentalizzando l’iter decisionale nell’ambito di
attività rischiose, dall’altro, si individuano nuove forme di ascrizione
della responsabilità penale, non più in funzioni di incerti legami causali, ma
rispetto alla trasgressione di obblighi di informazione. Da questo punto di
vista l’esercizio lecito delle attività rischiose è strettamente connesso
con la capacità di dominare i decorsi causali attivati con il proprio agire,
per cui la responsabilità sembra sempre più definita in funzione di un sapere,
di cui è doveroso dotarsi.
A
ben riflettere questo obiettivo sembrerebbe esorbitare dai compiti del diritto
penale, che non può ridurre il suo ruolo alla sola funzione di “educare”
alla collaborazione, sensibilizzando gli operatori economici attraverso la
minaccia della pena. Sono evidenti, pertanto, i caratteri di un diritto penale
simbolico, c.d. di compromesso, caratterizzato da clausole sanzionatorie, basate
sulla tecnica del rinvio, in cui si verifica uno scollamento fra i fini e le
funzioni della disciplina, dovuta alla concretizzazione di effetti latenti,
accanto alla totale ineffettività degli scopi assunti come ratio legis[54].
dott.ssa Valeria Torre
assegnista di ricerca
Università degli Studi di Trento
[1] Sul punto: Sgubbi, Responsabilità per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, 138 ss.. Con il concetto di danno anonimo si evidenzia la difficoltà di localizzare un centro di imputazione del danno e della conseguente