dai CEAG

Cass. Sez. III sent. 507 del 23 settembre 2005 (c.c. l9 aprile 2005)
Pres. Zumbo Est. Franco Ric. Tarantino
Vendita di prodotti industriali con segni mendaci – Dicitura “made in Italy”

Relativamente ai prodotti industriali, la cui qualità dipende dall’affidabilità tecnica del produttore, per origine o provenienza del prodotto deve intendersi la sua origine imprenditoriale, cioè la sua fabbricazione da parte di un imprenditore che assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo produttivo. Per i prodotti agricoli o alimentari che sono identificabili in base all’origine geografica, la cui qualità essenzialmente dipende dall’ambiente naturale ed umano in cui sono coltivati, trasformati e prodotti, per origine del prodotto deve intendersi propriamente lasua origine geografica o territoriale. Diverso è il caso in cui sul prodotto non sia stato inserito solo il nome e la sede del produttore italiano, ma anche o solo la scritta “prodotto in Italia” o “made in Italy” perché, attraverso l’apposizione di tale scritta, si fornisce al consumatore una indicazione normalmente atta ad essere intesa nel senso che il prodotto sia stato interamente fabbricato in Italia, cioè un’indicazione che è sicuramente falsa circa l’origine del prodotto

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio Dott. ZUMBO Antonio - Presidente - del 19/04/2005 Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Consigliere - SENTENZA Dott. TERESI Alfredo - Consigliere - N. 507 Dott. GENTILE Mario - Consigliere - REGISTRO GENERALE Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - N. 7325/2005 ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: TARANTINO Cosimo, nato a Canosa il 20.10.1946; avverso l'ordinanza emessa l'11 novembre 2004 dal tribunale di Trieste, quale giudice del riesame; udita nella udienza in Camera di consiglio del 19 aprile 2005 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Amedeo Franco; udito il Pubblico Ministero in persona dell'Avvocato Generale Dott. SINISCALCHI Antonio, che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il 22 ottobre 2004 il pubblico ministero presso il tribunale di Trieste convalidò il sequestro probatorio operato dalla polizia giudiziaria su due magliette (su 16.662) provenienti dalla Romania e recanti l'etichetta "made in Italy", destinate alla s.p.a. Igam di Canosa, in relazione al reato di cui all'art. 517 cod. pen. ed all'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. Il tribunale del riesame di Trieste, con ordinanza dell'11 novembre 2004, respinse la richiesta di riesame. Tarantino Cosimo, quale legale rappresentante della s.p.a. IGAM, propone ricorso per Cassazione deducendo erronea applicazione degli artt. 517 cod. pen. e 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ed insussistenza del fumus del reato ipotizzato. Osserva, tra l'altro: a) che con l'art. 4, comma 49, cit. il legislatore ha voluto dettare solo una norma interpretativa per estendere il contenuto dell'art. 517 cod. pen. anche all'importazione ed esportazione, a fini di commercializzazione, di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza; b) che attualmente non occorre alcuna autorizzazione o licenza per fregiare il prodotto della dicitura "made in Italy", sempre che vi sia corrispondenza tra quanto dichiarato e l'origine del prodotto; c) che non si tratta quindi di un marchio collettivo, ma piuttosto di una indicazione di origine, tenendo conto che per il consumatore medio l'indicazione "made in Italy" è soprattutto sinonimo della qualità del prodotto; d) che, comunque, se si tratta di una indicazione di origine, per origine del prodotto deve intendersi la sua provenienza da un dato imprenditore, che è responsabile della sua produzione sotto il profilo giuridico, economico e tecnico, mentre è irrilevante il luogo geografico ove il prodotto è realizzato; e) che nella specie era pacifica la provenienza delle magliette in questione dall'imprenditore pugliese s.p.a. Ingam, come riconosciuto dallo stesso tribunale del riesame, sicché doveva ritenersi lecita l'indicazione di origine "made in Italy" pur se le magliette erano prodotte in uno stabilimento estero ma sotto lo stretto controllo della società italiana. MOTIVI DELLA DECISIONE Questa Sezione si è già occupata dell'interpretazione da dare all'art. 49, comma 4, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, in almeno due occasioni, e cioè con la sent. 21.10.2004/2.2.2005, n. 1263, ric. S.r.l. Fro e con la sent. 17.2.2005/14.4.2005, ric. Acanfora, giungendo, sia pure con diversi percorsi argomentativi, a soluzioni in parte analoghe, ed entrambe escludendo che nei concreti casi esaminati fosse ravvisabile il fumus del reato in questione. Va però subito messo in evidenza che il caso oggi in esame si differenzia da quelli esaminati dalle due indicate decisioni per un aspetto che, come si vedrà, deve ritenersi decisivo. Nella sentenza Fro srl, infatti, si trattava di elettrodi per saldatura prodotti in Romania per conto e sotto lo stretto controllo della s.r.l. Fro di Verona, i quali recavano sulle confezioni la dicitura "Fro via Torricelli 15/a Verona-Italy" senza riferimento alla provenienza rumena; nella sentenza Acanfora si trattava di capi di abbigliamento sportivo prodotti in Cina per conto e sotto il controllo della società italiana Legea, recanti una etichetta con la dicitura "Legea- Italy" oppure un cartellino con la scritta "Legea" ed un riquadro sottostante con i colori della bandiera italiana e la dicitura "Italy". Nel caso oggetto del presente giudizio si tratta invece di magliette prodotte in Romania per conto e sotto stretto controllo della società italiana Igam spa, recanti l'etichetta "made in Italy". Il tribunale del riesame ha anche accertato che le magliette sono prodotte in Romania dalla società "Charriere s.r.l.", con la quale la s.p.a. Igam ha stipulato un contratto di cooperazione produttiva e tecnica per la lavorazione di capi di biancheria intima; che la Igam ha non solo fornito alla società rumena i macchinali per la lavorazione e la confezione degli articoli, ma anche assunto l'impegno di fornire la documentazione tecnica relativa alla realizzazione e di supportare la srl Charriere con tecnici e personale specializzato; che in particolare la Igam spedisce in Romania i prodotti semilavorati mentre la Charriere li assembla in modo che il prodotto assemblato sia conforme al campione originale ed alla scheda tecnica dell'articolo forniti dalla Igam, che a disposizione degli operai rumeni vi è un centro chiamate gestito dalla Igam per fornire informazioni e spiegazioni. In sostanza, secondo quanto accertato dal giudice del merito, nello stabilimento pugliese della Igam avvengono la creazione dei modelli, la realizzazione degli stampi, la smacchiatura del filato con la lavorazione dei componenti del capo di biancheria e, in taluni casi, la lavorazione del tessuto, mentre l'attività fondamentale, rispetto alla quale tutte le altre sono propedeutiche, ossia l'assemblaggio definitivo e la realizzazione del capo indossabile viene compiuta in Romania. Può pertanto ritenersi che, se le magliette in questione avessero recato, ad esempio, una etichetta con la dicitura "Igam-Canosa" o "Igam-Italia" o simili, il caso sarebbe stato analogo a quelli esaminati dalle due citate decisioni ed avrebbe dovuto avere la stessa soluzione, nel senso che non si sarebbe potuto ritenere sussistente il fumus del reato di cui agli artt. 517 cod. pen. e 49, comma 4, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (anche con la modificazione apportata dall'art. 1, comma 9, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, comunque non applicabile nella specie perché successivo ai fatti). Nel caso in esame, però, si tratta di etichetta recante la dicitura "made in Italy" il che comporta che debba giungersi ad una soluzione diversa, in quanto tale dicitura comporta che non siano più pertinenti ed applicabili le considerazioni svolte nelle precedenti decisioni e che sia invece configurabile il reato ipotizzato. L'art. 517 cod. pen. (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci), invero, punisce, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, "chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto". Con le citate decisioni si è ricordato che, secondo il diritto vivente, come emergente dalla costante giurisprudenza di questa Corte, con l'espressione origine e provenienza del prodotto il legislatore (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge) ha inteso fare riferimento alla provenienza del prodotto da un determinato produttore e non già da un determinato luogo (Sez. 3^, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438). Invero, secondo la concorde e più accreditata dottrina e giurisprudenza, il marchio rappresenta il segno distintivo di un prodotto siccome proveniente da un determinato imprenditore e contenente determinate caratteristiche qualitative in quanto risultato di un processo di fabbricazione del quale il detto imprenditore, titolare del segno distintivo, coordina economicamente e giuridicamente i vari momenti e fattori del procedimento di produzione. Nell'interpretare il precetto penale, quindi, non può trascurarsi la funzione che il marchio ha nella attuale realtà economica, in cui numerose imprese, multinazionali o semplicemente nazionali, si avvalgono, ai fini della produzione, dell'attività di altre imprese in vario modo controllate. Tale tipo di organizzazione produttiva è pacificamente ritenuto lecito, proprio perché la garanzia che l'art. 517 cod. pen. ha inteso assicurare al consumatore riguarda l'origine e la provenienza del prodotto non già da un determinato luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge), bensì da un determinato produttore, e cioè da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione. Non può invero negarsi che l'imprenditore, nel campo dell'attività industriale, ben può affidare a terzi sub-fornitori l'incarico di produrre materialmente, secondo caratteristiche qualitative pattuite con l'esecutore, un determinato bene, e può imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi e quindi lanciarlo in commercio (Cass. 29.1.1979, Vitaloni). Si è anche ricordato che, secondo l'opinione prevalente, il consumatore confida sull'esistenza di determinati requisiti dei prodotti acquistati e la disposizione di cui all'art. 517 cod. pen. è volta a tutelare appunto la fiducia dell'acquirente. A tal fine, la induzione in inganno di cui all'art. 517 cod. pen. riguarda l'origine, la provenienza o qualità dell'opera o del prodotto; ma i primi due elementi sono funzionali al terzo che in realtà è il solo fondamentale posto che, normalmente, il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è indifferente alla qualità del prodotto stesso. Del resto, la disciplina generale del marchio non esige che venga pure indicato il luogo di produzione del prodotto e, dal punto di vista giuridico, il marchio non garantisce la qualità del prodotto ma rappresenta solo il collegamento tra un determinato prodotto e l'impresa, non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale, solo di fatto, ne garantisce la qualità nel senso che è il solo responsabile verso l'acquirente. A fortiori siffatta regola deve valere allorché si tratti di lavori su commissione in cui il sub- produttore deve attenersi alle regole tecniche impartite dal committente, perché l'attività del primo resta pacificamente in tal caso puramente materiale ed esecutiva ed il committente è legittimato a contraddistinguere il prodotto con il suo segno distintivo. E non è richiesto dalla disciplina generale del marchio che venga pure indicato il luogo di fabbricazione perché non imposto dalla legge e perché non sussiste per l'imprenditore l'obbligo di informare che egli non fabbrica direttamente i prodotti. Da questi principi era stata fatta appunto derivare la conseguenza che "anche una indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tassativi aspetti considerati dall'art. 517 cod. pen., in quanto deve ritenersi pacifico che l'origine del prodotto deve intendersi in senso esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la provenienza materiale, posto che origine e provenienza sono indicate, a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal produttore" (Sez. 3^, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438). Considerazioni queste che erano state ribadite da questa Sezione anche con la sentenza 14 novembre 2002, n. 20252/03, Moretti, in riferimento al reato di cui all'art. 515 cod. pen. (frode nell'esercizio del commercio), rilevandosi che anche tale reato riguarda la origine e la provenienza del prodotto da un determinato produttore e, cioè, da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione e non da un determinato luogo, non avendo alcuna rilevanza la provenienza materiale del bene, in sè considerata. La citata sent. 17.2.2005/14.4.2005, ric. Acanfora, ha peraltro giustamente precisato che diverse considerazioni valgono per i prodotti agroalimentari (che sono stati disciplinati dal regolamento n. 2081/92 CEE del Consiglio del 14.7.1992), la cui qualità è connessa in modo rilevante all'ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati od elaborati e per i quali, così come per i prodotti industriali di natura alimentare aventi una tipicità territoriale, la origine a cui si riferisce la norma di cui all'art. 517 cod. pen. non è soltanto quella imprenditoriale ma anche e soprattutto quella geografica. In questa materia è poi intervenuta la legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004) che nell'art. 4 ha inteso proteggere e promuovere il prodotto fabbricato in Italia, o "made in Italy", "anche attraverso la regolamentazione dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte nel territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine" (comma 61), stabilendo al riguardo la necessità di un apposito regolamento governativo (comma 63), che non risulta ancora emanato. Nell'ambito di questa finalità, il citato art. 4 ha anche previsto strumenti di tutela penale dell'ordine economico, sempre comprensivo degli interessi dei produttori e di quelli dei consumatori. Il comma 49 infatti dispone, al primo periodo, che "l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell'articolo 517 del codice penale". Nel secondo periodo dispone poi che "costituisce falsa indicazione la stampigliatura 'made in Italy' su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana". Il terzo periodo del medesimo comma stabilisce quindi che "le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio", mentre il quarto ed il quinto periodo dispongono rispettivamente che "la fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l'asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana" e che "la falsa indicazione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indicazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura 'made in Italy'". Come si è accennato, l'art. 1, comma 9, del recente decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, ha disposto che all'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, dopo le parole "fallaci indicazioni di provenienza" sono inserite le parole "o di origine". Non sembra però che questa modifica comporti la necessità di giungere a soluzioni interpretative diverse da quelle adottate dalle citate sentt. di questa Sezione 21.10.2004/2.2.2005, n. 1263, ric. S.r.l. Fro e 17.2.2005/14.4.2005, ric. Acanfora, dal momento che entrambe queste decisioni si sono fondate su argomentazioni che non si basavano esclusivamente o prevalentemente sulla distinzione fra provenienza ed origine dei prodotti, bensì sulla ricordata costante interpretazione dottrinale e giurisprudenziale secondo cui, ai sensi dell'art. 517 cod. pen., salvo espresse indicazioni contrarie per origine o provenienza di un prodotto deve intendersi la provenienza del prodotto stesso da un determinato produttore e non già da un determinato luogo. Si è invero messo in evidenza che le nuove disposizioni non potevano essere interpretate nel senso che con esse il legislatore avesse voluto stravolgere la costante e risalente interpretazione dottrinale e giurisprudenziale appena ricordata rendendo applicabile l'art. 517 cod. pen. anche ai casi di prodotti fabbricati o fatti fabbricare in stabilimenti esteri da un produttore o imprenditore italiano che si assume la piena responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione e che rechino solo il marchio o l'indicazione della impresa italiana e non anche la indicazione del fatto che la fabbricazione materiale è avvenuta in uno stabilimento estero, così potendo far ritenere al consumatore che il luogo di fabbricazione del prodotto sia uno stabilimento nazionale. Si è infatti osservato che il legislatore si sarebbe espresso in modo assai diverso, sia sul piano lessicale sia su quello sistematico, qualora effettivamente avesse voluto modificare sostanzialmente e profondamente la portata precettiva dell'art. 517 cod. pen. ed il significato che, secondo il diritto vivente, deve attribuirsi alla nozione di origine e di provenienza di un prodotto. Considerazione questa rafforzata dal fatto che, se fosse stata vera questa finalità, il legislatore avrebbe non solo ampliato la portata precettiva dell'art. 517 cod. pen. (e delle altre disposizioni penali che fanno riferimento alla origine e provenienza dei prodotti) estendendo i comportamenti delittuosi ivi previsti, ma avrebbe anche modificato la funzione di garanzia qualitativa che attualmente ha anche il marchio, incidendo non solo sulla liceità dei casi in cui il titolare appone il proprio marchio a prodotti fatti realizzare da terzi, ma anche sulla latitudine della facoltà per il titolare di concedere in licenza il marchio. Infatti, mentre ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 480/1992 sono possibili la cessione e la licenza del marchio senza la contemporanea cessione o licenza dell'azienda o del ramo di azienda, purché dal trasferimento o dalla licenza non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico, la nuova disposizione avrebbe invece attribuito rilevanza indifferenziata alla provenienza materiale dei prodotti, ossia avrebbe individuato in via generale ed indifferenziata nella provenienza materiale del prodotto da una determinata fabbrica un carattere del prodotto essenziale nell'apprezzamento del pubblico, con rilevanti conseguenze sia sulla liceità della licenza di marchio sia sulla praticabilità e la portata della diffusissima scelta del marchio commerciale, in cui è assoluta ed originaria la scissione tra marchio e produttore. Si è pertanto ritenuto che, in considerazione delle espressioni usate e della struttura e della collocazione della nuova disposizione, doveva ritenersi che l'intenzione del legislatore fosse non quella di modificare così profondamente il significato dei termini origine e provenienza del prodotto nell'art. 517 cod. pen. ed in altre disposizioni penali analoghe e di incidere sulla disciplina del marchio, bensì quella di risolvere il contrasto giurisprudenziale sul momento consumativo del reato (cfr. Sez. 3^, 26 aprile 2001, Andolfo, m. 219,216; Sez. 3^, 27 maggio 1999, Desaler, m. 215.530), stabilendo che esso si perfeziona sin dal momento della presentazione dei prodotti e delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica nonché quella di promuovere, anche attraverso la creazione di un apposito Ente (comma 61), l'istituzione e la tutela del marchio "made in Italy", la cui regolamentazione, peraltro, è stata demandata ad un apposito regolamento delegato (comma 63, del medesimo art. 4). La citata sent. 17.2.2005/14.4.2005, ric. Acanfora, ha peraltro anche evidenziato che ulteriore conseguenza della innovazione legislativa è che ora viene punita la commercializzazione oltre che di prodotti industriali, anche di prodotti agricoli con indicazione di origine o provenienza falsa, cioè non corrispondente alla realtà, oppure fallace, cioè atta a trarre in inganno sulla origine o provenienza medesime. Ed ha quindi ribadito che, trattandosi di reato contro l'ordine economico, assume rilevanza la provenienza, l'origine o la qualità del prodotto, anche se ciò che ha rilievo decisivo è la qualità, giacché provenienza ed origine sono sempre in funzione della qualità. Le due citate decisioni hanno quindi ribadito la consolidata interpretazione secondo cui, in genere, relativamente ai prodotti industriali, la cui qualità dipende dalla affidabilità tecnica del produttore, per origine o provenienza del prodotto deve intendersi la sua origine imprenditoriale, cioè la sua fabbricazione da parte di un imprenditore che assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo produttivo, specificandosi peraltro che per i prodotti agricoli o alimentari che sono identificabili in base all'origine geografica, la cui qualità essenzialmente dipende dall'ambiente naturale e umano in cui sono coltivati, trasformati e prodotti, per origine del prodotto deve intendersi propriamente la sua origine geografica o territoriale. Tutte le ricordate considerazioni - che vanno qui ribadite - riguardavano però la fattispecie di prodotti fabbricati all'estero per conto di un produttore italiano - che sovrintendeva, organizzava e dirigeva il processo produttivo, assumendosene la responsabilità giuridica, economica e tecnica - prodotti sui quali era indicato soltanto il nome del produttore italiano ed eventualmente la località in cui esso aveva sede, ma non era specificato che il prodotto era stato fabbricato, per conto del produttore italiano, in uno stabilimento estero. Diverso è invece il caso come quello in esame, nel quale sul prodotto non sia stato inserito soltanto il nome e la sede del produttore italiano, ma anche o solo la scritta "prodotto in Italia" o "made in Italy". Questo caso infatti è sostanzialmente diverso perché, attraverso l'apposizione di tale scritta, si fornisce al consumatore una indicazione normalmente atta ad essere intesa nel senso che il prodotto è stato interamente fabbricato in Italia, cioè una indicazione che è sicuramente falsa circa l'origine del prodotto. In questo caso la circostanza che il prodotto sia stato fabbricato all'estero per conto di un produttore italiano e che assicuri la qualità propria di qual produttore è irrilevante. Il consumatore, infatti, potrebbe essere indotto ad acquistare un prodotto proprio solo in quanto fabbricato (o non fabbricato) in un determinato luogo geografico e quindi soltanto in quanto effettivamente "prodotto in Italia" (o non "prodotto in Italia") o prodotto in qualche altra località, e ciò in base alle più svariate considerazioni soggettive, non necessariamente attinenti alla qualità del prodotto stesso. Non può pertanto dubitarsi che l'apposizione di una scritta o etichetta recante la dicitura "prodotto in Italia" o "made in Italy" su un prodotto fabbricato all'estero, non importa se per conto di un produttore italiano, sia sicuramente idonea a trarre in inganno il consumatore. Va solo rilevato che un comportamento siffatto integrava indubbiamente già il reato di cui all'art. 517 cod. pen. a prescindere dalle integrazioni apportate dall'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il quale si è limitato a dare indicazioni su quando un prodotto possa considerarsi non fabbricato in Italia e su quando, pertanto, la stampigliatura "prodotto in Italia" o "made in Italy" apposta sullo stesso costituisca falsa indicazione sull'origine del prodotto ed integri quindi il reato di cui all'art. 517 cod. pen. La ricordata sent. 21.10.2004/2.2.2005, n. 1263, ric. S.r.l. Fro ha rilevato che il comma 49 dell'art. 4 in esame contiene una complessa serie di disposizioni che si riferiscono a fattispecie diverse. Il primo periodo riguarda le false e fallaci indicazione di "provenienza" o di "origine" del prodotto e, per i motivi indicati, deve ritenersi che esso si riferisca alla provenienza ed all'origine come sono state sempre pacificamente intese, ossia alla provenienza da un produttore e non alla provenienza da un luogo determinato Il secondo periodo riguarda invece la tutela del marchio "made in Italy" ed ha appunto inteso specificare quando un prodotto debba intendersi fabbricato o non fabbricato in Italia e quando quindi l'apposizione di tale dicitura possa costituire falsa indicazione dell'origine del prodotto idonea a trarre in inganno il consumatore, stabilendo, unitamente al comma 61 (che parla di "marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine") che, in attesa del regolamento delegato previsto dal successivo comma 63, la dicitura "prodotto in Italia" o "made in Italy" possa essere apposta solo quando il prodotto sia appunto integralmente prodotto in Italia (secondo quanto dispone il comma 61) ovvero possa qualificarsi di origine italiana ai sensi della normativa europea sull'origine. In altre parole, se, secondo il significato proprio delle parole, si sarebbe dovuto o potuto altrimenti ritenere che la dicitura "prodotto in Italia" o "made in Italy" potesse essere apposta solo ai prodotti integralmente fabbricati in Italia (come riconosce il comma 61), il secondo periodo del comma 49 autorizza l'apposizione della dicitura stessa anche su tutti gli altri prodotti e merci qualificabili come di origine italiana ai sensi della richiamata normativa europea sull'origine. Questa normativa è costituita in particolare dal regolamento (CEE) n. 2913/92 del 12.10.1992, che ha istituito il codice doganale comunitario ed ha definito negli artt. 22-26. l'origine delle merci ai fini doganali. Orbene, nell'art. 23 si definiscono originarie di un paese le merci interamente ottenute in tale paese, precisandosi che per tali devono intendersi: a) i prodotti minerali estratti nel suo territorio; b) i prodotti del regno vegetale ivi raccolti; c) gli animali vivi, nati e allevati in detto paese; d) i prodotti che provengono da animali vivi che ivi sono allevati; e) i prodotti della caccia e della pesca ivi praticate; f) i prodotti della pesca marittima e gli altri prodotti estratti dal mare da navi immatricolate o registrate in tale paese e battenti bandiera del medesimo; g) le merci ottenute a bordo di navi- officina (immatricolate o registrate nel paese e battenti la sua bandiera) utilizzando prodotti di cui alla lettera f); h) i prodotti estratti dal suolo o dal sottosuolo marino situato al di fuori delle acque territoriali, sempreché tale paese eserciti diritti esclusivi per lo sfruttamento di tale suolo o sottosuolo; i) i rottami e i residui risultanti da operazioni manifatturiere e gli articoli fuori uso, sempreché siano stati ivi raccolti e possano servire unicamente al recupero di materie prime: j) le merci ottenute esclusivamente dalle merci di cui alle lettere da a) ad i) o dai loro derivati, in qualsiasi stadio esse si trovino. Come è stato ben messo in evidenza, si tratta per lo più di merci o prodotti di tipo agricolo, minerario o animale, le cui caratteristiche sono in qualche modo collegate al loro ambiente territoriale. Per gli altri prodotti industriali, invece, assume rilevanza soprattutto la disposizione del successivo art. 24, il quale dispone che quando alla produzione delle merci contribuiscono due o più paesi, deve intendersi come paese di origine quello in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione. Come è stato esattamente osservato (Sez. 3^, sent. 17.2.2005/14.4.2005, ric. Acanfora) si tratta di una nozione di origine che è stata stabilita per il funzionamento del codice doganale comunitario, non già per la tutela dei consumatori dalla frodi o dei produttori dalla illecita concorrenza. Tuttavia, per effetto del richiamo effettuato dall'art. 4, comma 49, secondo periodo, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, la stampigliatura "prodotto in Italia" o "made in Italy", sempre in attesa del regolamento delegato di cui al comma 63, può essere apposta non solo quando il prodotto è stato integralmente fabbricato sul territorio nazionale, ma anche quando ricorrano le condizioni di cui all'art. 24 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del 12.10.1992, ossia anche quando la merce è stata in parte prodotta o fabbricata all'estero, ma in Italia è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione. Nel caso di specie si tratta di magliette fabbricate in Romania sia pure per conto di una società italiana, la quale provvedeva solo alla fornitura dei macchinari per la lavorazione e la confezione degli articoli, alla creazione dei modelli, degli stampi e della smacchiatura del filato, al supporto tecnico, alla spedizione in Romania dei prodotti semilavorati, che venivano assemblati nello stabilimento rumeno. Si tratta quindi di merci che non sono state integralmente fabbricate nel territorio nazionale e per le quali in Italia non è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata e conclusasi con la fabbricazione di un prodotto nuovo. Si tratta quindi di prodotti che non possono considerarsi di origine italiana, ai sensi delle citate disposizioni, sicché l'apposizione sugli stessi della dicitura "prodotto in Italia" o "made in Italy" è idonea ad ingannare il consumatore sull'origine del prodotto ed integra il reato di cui all'art. 517 cod. pen. Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 19 aprile 2005. Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2005