Cass. Sez. III  n. 27250 del 12 luglio 2007 (Cc 15 mar 2007)
Pres. Vitalone Est. Franco Ric. P.M. in proc. Contarini

REATI CONTRO L'ECONOMIA PUBBLICA, L'INDUSTRIA E IL COMMERCIO - DELITTI CONTRO L'INDUSTRIA E IL COMMERCIO - VENDITA DI PRODOTTI INDUSTRIALI CON SEGNI MENDACI - Marchio di origine "made in Italy" - Prodotti agroalimentari - Marchi di origine DOP e IGP - Luogo di derivazione geografica - Necessità - Prodotti agroalimentari "generici" - Individuazione dell'origine - Codice doganale comunitario - Necessità.

In tema di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, per quanto riguarda i prodotti agroalimentari, la disciplina dettata dall'art. 4, comma 49, della L. 24 dicembre 2003, n. 350 (tutela del "made in Italy"), deve essere interpretata nel senso che l'origine degli stessi è definita dalla loro derivazione geografica ed indipendentemente dalla localizzazione delle fasi di lavorazione esclusivamente per i prodotti recanti marchio DOP (denominazione di origine protetta) ovvero IGP (indicazione geografica protetta) attributivi di una garanzia di tipicità e di qualità, mentre per tutti gli altri prodotti agroalimentari "generici" perchè sprovvisti di detti marchi, per stabilirne l'origine deve farsi riferimento ai criteri dettati dagli artt. 23 e 24 del codice doganale europeo (Reg. CEE 12 ottobre 1992, n. 2913 del 1992).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. VITALONE Claudio - Presidente - del 15/03/2007
Dott. TERESI Alfredo - Consigliere - SENTENZA
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - N. 223
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. GAZZARA Santi - Consigliere - N. 47645/2006
ha pronunciato la seguente:



SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI RAVENNA;
avverso l'ordinanza emessa il 2 novembre 2006 dal tribunale di Ravenna, quale giudice del riesame;
nei confronti di:
CONTARMI Roberto;
udita nella udienza in Camera di consiglio del 15 marzo 2007 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi i difensori avv. Sergio Scarlatella ed avv. Giovanni Scudellari.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con decreto del 25 settembre 2006 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Ravenna dispose il sequestro preventivo delle etichette recanti la scritta "made in Italy" apposte su confezioni di macedonia di frutta e di prugne allo sciroppo della ditta Contarmi Giovanni s.p.a., ritenendo sussistente il fumus del reato di cui all'art. 517 c.p., in quanto parte della frutta (in quantità variabile, ma comunque non superiore al 30%) utilizzata per la macedonia e tutta quella utilizzata per le prugne allo sciroppo era di provenienza estera.
2. Il tribunale del riesame di Ravenna, con l'ordinanza impugnata, annullò il decreto di sequestro escludendo il fumus del reato ipotizzato.
Osservò il tribunale:
- che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, la disposizione penale fa riferimento non alla origine e provenienza della merce da un determinato luogo, bensì da un determinato produttore; e tale principio non è stato modificato dalla Legge Finanziaria 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49;
- che, secondo il citato comma 49, costituisce falsa indicazione la stampigliatura "prodotto in Italia" o "made in Italy" su prodotti o merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine, ossia del codice doganale europeo (reg. CEE 2913 del 12.10.1992);
- che, nel caso in cui il prodotto sia interamente ottenuto in un unico paese, allora si applica il Codice Doganale, art. 23, mentre, qualora alla produzione contribuiscano due o più paesi, il criterio di attribuzione dell'origine è quello di cui all'art. 24 del detto codice, secondo cui l'origine è quella del "paese in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione";
- che, nell'interpretare tale disposizione, deve farsi riferimento anche ai canoni espressi dai provvedimenti attuativi del codice doganale, fra cui gli artt. 10, 11, 37 e 38 del reg. CEE n. 2454 del 2 luglio 1993;
- che il criterio di cui all'art. 24 del codice doganale europeo trova applicazione anche per i prodotti agroalimentari, in mancanza di qualsiasi appiglio normativo che consenta di applicare agli stessi un criterio diverso;
- che invero i marchi di qualità elaborati dal diritto europeo per alcuni prodotti agroalimentari (reg. CEE n. 2081 del 14.7.92) e che valorizzano la denominazione di origine protetta (DOP) e la indicazione geografica protetta (IGP) differiscono sostanzialmente dal marchio di origine, la cui protezione nazionale, del resto, deve conciliarsi con la normativa comunitaria sul commercio intracomunitario;
- che quindi non è consentita una interpretazione del citato art. 4, comma 49, che porti ad affermare che per i prodotti agroalimentari generici (non muniti dei marchi DOP o IGP) l'origine sia definita dalla mera derivazione geografica ed indipendentemente dalla localizzazione della fase di lavorazione;
- che, pertanto, per verificare la legittimità della applicazione della dicitura "prodotto in Italia", deve tenersi conto della normativa doganale europea;
- che le trasformazioni alle quali i prodotti semilavorati esteri erano sottoposti nello stabilimento della Contarmi dovevano ritenersi sostanziali e tali da portare alla creazione di un prodotto nuovo, tanto che avevano determinato una modifica della nomenclatura doganale;
- che quindi si trattava di merci che, sia pure non integralmente prodotte in Italia, potevano considerarsi di origine italiana in base alla normativa europea.
3. Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Ravenna propone ricorso per cassazione, deducendo violazione degli artt. 321 e 324 cod. proc. pen.; art. 127 c.p.p., n. 7, in relazione all'art. 125 c.p.p., n. 3; dell'art. 517 cod. pen.; della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49.
In particolare osserva:
1) che il tribunale del riesame non si è limitato al mero controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ed alla sola congruità degli elementi rappresentati dall'accusa, ma ha censurato tali elementi apprezzandone la coincidenza con le reali risultanze processuali;
2) che nella specie si trattava di prodotti vegetali raccolti in paese esteri, per cui illegittimamente, ai sensi dell'art. 4, comma 49, cit., era stata apposta la dicitura "made in Itaty", posto che la normativa comunitaria identifica l'origine nel paese in cui si è proceduto alla raccolta, come si evince dall'art. 23 Codice Doganale Europeo, che statuisce (punto 2b) che per merci interamente prodotte in un determinato paese si intendono "i prodotti del regno vegetale ivi raccolti" nonché (punto 2j) le merci che sono state ottenute esclusivamente dai prodotti vegetali ivi raccolti. Ne consegue che devono considerarsi di origine estera non solo i prodotti vegetali raccolti all'estero, ma anche quelli che all'estero hanno avuto una qualsiasi lavorazione successiva, come è avvenuto nella specie (dato che la frutta era già sbucciata, tagliata, inscatolata o seccata all'estero). L'ordinanza impugnata ha quindi arbitrariamente equiparato i prodotti industriali a quelli agricoli, facendo erroneamente riferimento agli artt. 35, 37 e 38 del reg. CEE 2.7.1993, n. 2454, che invece sono applicabili soltanto ai determinati prodotti per i quali tali disposizioni sono state emanate. Inoltre, poiché l'art. 24 Codice Doganale coincide con l'art. 5 del reg. n. 802/68, si deve avere riguardo a quest'ultima disposizione ed alla giurisprudenza comunitaria anteriore allo stesso codice doganale del 1992, la quale, per stabilire se una certa trasformazione o lavorazione sia sostanziale, ha fatto riferimento alla norma dell'art. 6 della convenzione per la semplificazione e l'armonizzazione dei regimi doganali (Convenzione di Kyoto) accettata con decisione del Consiglio europeo n. 415 del 3 giugno 1977.1 criteri indicati in quest'ultima decisione, portano a ritenere che un processo di trasformazione possa essere considerato sostanziale solo quando contribuisca non in minima parte a conferire alla merce le proprie caratteristiche o proprietà essenziali; non comprenda esclusivamente operazioni diretta a migliorare la qualità commerciale dei prodotti ovvero miscugli di merce di origine diversa che non conducano ad un prodotto ottenuto essenzialmente differente dalle caratteristiche delle merci che sono state mischiate. Pertanto, nell'applicare l'art. 24 Codice Doganale, occorre sempre accertare l'esistenza di un processo di trasformazione che conferisca alle materie prime, ai prodotti, o alle parti di prodotti utilizzate, nuove caratteristiche proprie essenziali, significativamente differenti dalle caratteristiche essenziali proprie che gli stessi avevano prima del processo di lavorazione. Nella specie non era riscontrabile alcun processo di lavorazione e trasformazione con tali caratteristiche. Si trattava di lavorazioni che non potevano essere considerate sostanziali e quindi la merce andava considerata di origine estera e non prodotta in Italia.
4. Nell'imminenza della udienza Roberto Contarmi ha depositato una articolata memoria di replica con la quale contesta le eccezioni del pubblico ministero ricorrente. Tra l'altro, osserva che è inesatto l'assunto secondo cui ai prodotti agricoli ed alimentari si applicherebbe soltanto l'art. 23 del Codice Doganale e non anche l'art. 24. Una tale interpretazione non è stata affatto affermata dalla sentenza 13712/2005 di questa Corte, la quale invece ha ritenuto che l'origine territoriale rileva solo per i prodotti agroalimentari la cui qualità è connessa in modo rilevante all'ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati o elaborati e quindi non per tutti i prodotti agroalimentari ma per quelli con registrazione DOP o IGP. In altre parole, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, non un qualsiasi prodotto alimentare o agricolo è identificabile in relazione alla origine geografica, ma solamente quelli che hanno una tipicità territoriale, mentre per gli altri prodotti, come ha correttamente ritenuto l'ordinanza impugnata, non esiste nessun appiglio normativo che consenta di ritenere che il criterio per determinare la loro origine, quando alla loro produzione abbiano partecipato più paesi, sia diverso da quello generale indicato dall'art. 24 del Codice Doganale Europeo, ossia il criterio del paese ove è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale. Del resto, l'applicazione a tutti i prodotti agroalimentari del solo art. 23 del Codice Doganale porterebbe a conseguenze assurde, impedendo, ad esempio, l'apposizione della dicitura "prodotto in Italia" alla tipica pasta italiana prodotta con grano duro, dal momento che da sempre vengono utilizzati e miscelati anche grani duri esteri.
Per quanto concerne il motivo di ricorso con cui si contesta l'esistenza nella specie di una lavorazione e trasformazione sostanziale, l'indagato ne eccepisce l'inammissibilità, trattandosi di questione di fatto. In ogni caso l'apprezzamento del tribunale del riesame è assolutamente corretto e fondato sulla dettagliata analisi del ciclo produttivo sia della macedonia allo sciroppo sia delle prugne allo sciroppo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5. Il primo motivo di ricorso è infondato. In sostanza, il pubblico ministero ricorrente sostiene che il sindacato del tribunale del riesame non potrebbe investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma dovrebbe limitarsi alla verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzata dall'organo dell'accusa, accertando la sussistenza del fumus solo sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non potrebbero essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che andrebbero valutati così come proposti dal pubblico ministero. Questo principio, che pure talvolta è stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, è stato però disatteso innumerevoli volte dalla giurisprudenza più recente, alla quale questo Collegio aderisce, secondo cui, invece, il tribunale del riesame, per espletare il ruolo di garanzia che la legge gli demanda, a tutela di diritti costituzionalmente protetti, non può avere riguardo solo alla astratta configurabilità del reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza in concreto del fumus del reato contestato (cfr., Sez. 1, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, Cantoni, m. 227.498, e da ultimo, ex plurimis, Sez. 3, 16.3.2006 n. 17751; Sez. 3, 8.11.2006, Pulcini; Sez. 3, 9 gennaio 2007, Sgadari). 6. Il ricorso è infondato anche nel merito.
Il tribunale del riesame ha puntualmente ricordato la giurisprudenza di questa Corte sull'art. 517 c.p. e sulle norme introdotte dalla Legge Finanziaria 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49. L'art. 517 cod. pen. (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci), invero, punisce, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, "chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodottò".
Si è specificato che per "origine" deve intendersi il luogo o il soggetto di produzione, fabbricazione o coltivazione della merce;
mentre per "provenienza" deve intendersi il luogo o il soggetto che funge da intermediario tra il produttore e gli acquirenti. L'oggetto giuridico della norma è la tutela dell'ordine economico, comprensivo sia della libertà e buona fede del consumatore sia della protezione del produttore dalla illecita concorrenza (Sez. 3 17.2.2005, Acanfora).
La giurisprudenza di legittimità è poi costante nel ritenere che la garanzia assicurata dalla norma riguarda l'origine e la provenienza della merce non già da un determinato luogo bensì da un determinato produttore, cioè da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione (Sez. 3, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438; Sez. 3, 21 ottobre 2004, Fro s.r.l.;
Sez. 3, 17.2.2005, Acanfora; Sez. 3, 19.4.2005, Tarantino; Sez. 3, 2 marzo 2005, Dewar). Infatti, ciò che è generalmente rilevante per l'ordine economico come sopra specificato non è l'origine o la provenienza geografica, bensì la fabbricazione da parte di un determinato imprenditore, il quale, coordinando giuridicamente, economicamente e tecnicamente il processo produttivo, assicura la qualità del prodotto. Come sottolinea la sentenza Thum "la induzione in inganno di cui all'art. 517 c.p. riguarda l'origine, la provenienza o qualità dell'opera o prodotto, ma i primi due elementi sono funzionali al terzo, che è in realtà il solo fondamentale, posto che il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è indifferente alla qualità del prodotto stesso". Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. Com'è noto, la funzione tradizionale del marchio è triplice, perché indica la provenienza imprenditoriale, assicura la qualità del prodotto e agisce come richiamo per la clientela ovverosia come suggestione pubblicitaria. Orbene questa triplice funzione del marchio non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerosi imprenditori si avvalgono legittimamente di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo (Sez. 3, 17.2.2005, Acanfora). Il marchio, quindi, rappresenta il segno distintivo di un prodotto siccome proveniente da un determinato imprenditore e contenente determinate caratteristiche qualitative, in quanto risultato di un processo di fabbricazione del quale il detto imprenditore, titolare del segno distintivo, coordina i vari momenti del procedimento di produzione o, comunque, se ne fa garante. 7. In questa materia è intervenuto la la L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, (legge finanziaria 2004) che ha inteso soprattutto proteggere e promuovere i prodotti fabbricati in Italia, o "made in Italy", "anche attraverso la regolamentazione dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte nel territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine" (comma 61), stabilendo al riguardo la necessità di un apposito regolamento governativo (comma 63), che peraltro non risulta ancora emanato.
Nell'ambito di questa finalità, il citato art. 4, comma 49, ha anche previsto strumenti di tutela penale dell'ordine economico, disponendo, nel primo periodo, che "l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell'art. 517 c.p.". In seguito, al D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 9, convertito con L. 14 maggio 2005, n. 80, ha inserito, nel citato comma 49, dopo le parole "fallaci indicazioni di provenienza" quelle "o di origine".
Ha più volte ritenuto questa Corte che con la disposizione in esame, anche a seguito della modifica introdotta con il D.L. n. 35 del 2005, il legislatore ha inteso meglio definire l'ambito della illecita vendita di prodotti con segni mendaci, senza però fissare una definizione di "origine" o di "provenienza" che si discosti da quella costantemente enunciata dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina, secondo la quale, ai sensi dell'art. 517 c.p., salvo espresse indicazioni contrarie, per origine o provenienza di un prodotto deve intendersi la provenienza del prodotto stesso da un determinato produttore e non già da un determinato luogo (Sez. 3, 21 ottobre 2004, s.r.l. Fro; Sez. 3, 17 febbraio 2005, Acanfora; Sez. 3, 2 marzo 2005, Dewar; Sez. 3, 19 aprile 2005, Tarantino). Ed invero, il legislatore - se non altro con il D.L. n. 35 del 2005 e con la legge di conversione n. 80/2005, intervenuti dopo le prime interpretazioni giurisprudenziali della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, - si sarebbe espresso in modo assai diverso, sia sul piano lessicale sia su quello sistematico, qualora effettivamente avesse voluto modificare sostanzialmente e profondamente la portata precettiva dell'art. 517 c.p. ed il significato che, secondo il diritto vivente, deve attribuirsi alla nozione di origine e di provenienza di un prodotto.
In realtà, pertanto, l'intenzione del legislatore nel porre la disposizione di cui al citato comma 49 è stata, oltre quella principale di promuovere l'istituzione e la tutela del marchio "made in Italy", quella di risolvere il contrasto giurisprudenziale sul momento consumativo del reato di cui all'art. 517 c.p., stabilendo che esso si perfeziona sin dal momento della presentazione dei prodotti e delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica, nonché quella di estendere ai prodotti agricoli la tutela penale approntata dall'art. 517 c.p., prevedendo genericamente la punibilità dell'apposizione di false o fallaci indicazioni sui "prodotti" commercializzati, laddove l'art. 517 c.p. si riferiva a "opere dell'ingegno o prodotti industriali".
8. Le ricordate pronunce riguardavano per la gran parte fattispecie di prodotti fabbricati all'estero per conto di un produttore o importatore italiano - che sovrintendeva, organizzava e dirigeva il processo produttivo, assumendosene la responsabilità giuridica, economica e tecnica, o comunque assumendo la garanzia della qualità della merce - prodotti sui quali era indicato soltanto il nome del produttore italiano ed eventualmente la località in cui esso aveva sede, ma senza specificazione del luogo in cui il prodotto era stato fabbricato.
La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro sempre evidenziato che diverso è invece il caso - come quello in esame - nel quale sul prodotto non sia stato inserito soltanto il nome e la sede del produttore italiano, ma anche o solo la scritta "prodotto in Italia" o "made in Italy". In questa ipotesi, invero, attraverso l'apposizione di tale scritta, si fornisce al consumatore una indicazione normalmente atta ad essere intesa nel senso che il prodotto è stato interamente fabbricato in Italia, cioè una indicazione che - qualora invece il prodotto sia stato invece fabbricato all'estero - è sicuramente falsa circa l'origine del prodotto stesso. In tale ipotesi la circostanza che il prodotto sia stato fabbricato all'estero per conto di un produttore italiano e che assicuri la qualità propria di quel produttore sembra irrilevante, atteso che il consumatore ben potrebbe determinarsi ad acquistare un prodotto soltanto in quanto effettivamente "prodotto in Italia" (o non "prodotto in Italia") o prodotto in qualche altra località, e ciò in base alle più svariate considerazioni soggettive, non necessariamente attinenti alla qualità del prodotto stesso. L'apposizione di una scritta o etichetta recante la dicitura "prodotto in Italia" o "made in Italy" su un prodotto fabbricato all'estero, non importa se per conto di un produttore italiano, è quindi sicuramente idonea a trarre in inganno il consumatore (Sez. 3, 15 aprile 2005, Tarantino).
Un comportamento del genere, quindi, integrava già il reato di cui all'art. 517 c.p., a prescindere dalla previsione della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, il quale espressamente dispone che "costituisce falsa indicazione la stampigliatura "made in Italy" su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine". Questa disposizione, peraltro, assume ora rilievo determinante per la configurabilità del reato in quanto ha normativamente fissato le condizioni che devono ricorrere per stabilire quando un prodotto possa qualificarsi come fabbricato o non fabbricato in Italia e quando, pertanto, la stampigliatura "prodotto in Italia" o "made in Italy" apposta sullo stesso costituisca falsa indicazione sull'origine del prodotto ed integri il reato di cui all'art. 517 c.p..
Il secondo periodo dell'art. 4, comma 49, cit., relativo appunto alla tutela del marchio "made in Italy", ha invero disposto, unitamente al successivo comma 61 (che parla di "marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine") che, in attesa del regolamento delegato previsto dal successivo comma 63, la dicitura "prodotto in Italia" o "made in Italy" possa essere apposta solo quando il prodotto sia appunto integralmente prodotto in Italia (secondo quanto dispone il comma 61) ovvero possa qualificarsi di origine italiana ai sensi della normativa europea sull'origine dei prodotti.
9. È pacificamente riconosciuto che questa normativa europea sull'origine è costituita, in particolare, dal regolamento (CEE) n. 2913/92 del 12.10.1992, che ha istituito il codice doganale comunitario ed ha definito negli artt. 22-26, l'origine delle merci ai fini doganali.
Ora, nell'art. 23 del Codice Doganale si definiscono originarie di un paese le merci interamente ottenute in tale paese, precisandosi che per tali devono intendersi: a) i prodotti minerali estratti nel suo territorio; b) i prodotti del regno vegetale ivi raccolti; c) gli animali vivi, nati e allevati in detto paese; d) i prodotti che provengono da ammali vivi che ivi sono allevati; e) i prodotti della caccia e della pesca ivi praticate; f) i prodotti della pesca marittima e gli altri prodotti estratti dal mare da navi immatricolate o registrate in tale paese e battenti bandiera del medesimo; g) le merci ottenute a bordo di navi-officina (immatricolate o registrate nel paese e battenti la sua bandiera) utilizzando prodotti di cui alla lettera f); h) i prodotti estratti dal suolo o dal sottosuolo marino situato al di fuori delle acque territoriali, sempreché tale paese eserciti diritti esclusivi per lo sfruttamento di tale suolo o sottosuolo; i) i rottami e i residui risultanti da operazioni manifatturiere e gli articoli fuori uso, sempreché siano stati ivi raccolti e possano servire unicamente al recupero di materie prime: j) le merci ottenute esclusivamente dalle merci di cui alle lettere da a) ad i) o dai loro derivati, in qualsiasi stadio esse si trovino.
È stato messo in evidenza che si tratta, per lo più, di merci o prodotti di tipo agricolo, minerario o animale, le cui caratteristiche sono in qualche modo collegate al loro ambiente territoriale, che non hanno subito lavorazioni o trasformazioni significative o comunque lavorazioni che implichino anche l'utilizzazione di prodotti diversi o provenienti da paesi diversi. Per tutti gli altri prodotti, invece, assume rilevanza soprattutto la disposizione del successivo art. 24, il quale precisa che "una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un 'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione".
In altre parole, qualora si tratti di merci estratte, raccolte e in generale prodotte integralmente in un determinato paese, ovvero interamente ed esclusivamente ottenute da prodotti di un dato paese o da loro derivati, allora trovera' applicazione il criterio dettato dall'art. 23 Codice Doganale. Quando non sussistano queste condizioni, ossia quando si tratti di merce non prodotta interamente ed esclusivamente in un determinato paese ma alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi, allora dovrà applicarsi il criterio fissato dall'art. 24 del codice, e cioè il criterio dell'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale. Si tratta di una nozione che è stata stabilita per il funzionamento del codice doganale comunitario, non già per la tutela dei consumatori dalla frodi o dei produttori dalla illecita concorrenza (Sez. 3, 17 febbraio 2005, Acanfora). Tuttavia, per effetto del richiamo effettuato dalla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, secondo periodo, la stampigliatura "prodotto in Italia" o "made in Italy", sempre in attesa del regolamento delegato di cui al comma 63, può essere apposta non solo quando il prodotto è stato integralmente fabbricato sul territorio nazionale, ma anche quando ricorrano le condizioni di cui all'art. 24 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del 12.10.1992, ossia anche quando la merce è stata in parte prodotta o fabbricata all'estero, ma in Italia è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione (Sez. 3, 19 aprile 2005, Tarantino).
10. Il tribunale del riesame ha altresì puntualmente rilevato come l'ordinamento europeo contenga una serie di disposizioni attuative, che indicano all'interprete i canoni da seguire per stabilire, almeno per alcune tipologie di prodotti, quando una certa lavorazione determini una trasformazione sostanziale del prodotto. In particolare, ha richiamato il regolamento CEE n. 2454/93 della Commissione del 2 luglio 1993, che fissa appunto alcune disposizioni per la applicazione del codice doganale europeo, ed specificamente l'art. 35 e segg., che stabiliscono alcuni principi guida "sia per le materie tessili ed i loro manufatti... sia per taluni prodotti diversi dalle materie tessili e dai loro manufatti", principi cui può attribuirsi il valore di regole generali, valevoli per tutti i prodotti per i quali ne è possibile l'applicazione.
Più specificamente, il tribunale ha rilevato come un principio basilare sia individuato dall'art. 37 del reg. 2454/93, che considera trasformazioni sufficienti ed utili per l'attribuzione dell'origine doganale "le lavorazioni o trasformazioni che hanno l'effetto di classificare i prodotti ottenuti in una voce della nomenclatura combinata diversa da quella relativa a ciascuno dei prodotti non originari utilizzati" (ed, regola del cambio della voce doganale); e che altro principio generale fondamentale che permette di definire "per esclusione" la trasformazione sufficiente è posto dal successivo art. 38, secondo il quale "si considerano sempre insufficienti a conferire il carattere originario", che vi sia o meno cambiamento di voce tariffaria, una serie di lavorazioni o trasformazioni, quali, ad esempio, le manipolazioni destinate ad assicurare la conservazione dei prodotti tal quali durante il trasporto e il magazzinaggio; le semplici operazioni di spolveratura, vagliatura, cernita, classificazione, assortimento (ivi compresa la composizione di serie di prodotti), lavatura, riduzione in pezzi; i cambiamenti d'imballaggio; le divisioni e riunioni di partite; la semplice insaccatura, nonché il semplice collocamento in astucci, scatole o su tavolette, ecc., e ogni altra semplice operazione di condizionamento; l'apposizione sui prodotti e sul loro imballaggio di marchi, etichette o altri segni distintivi di condizionamento; la semplice riunione di parti di prodotti per costituire un prodotto completo.
Il tribunale ha anche fatto ineccepibilmente riferimento alle regole sulla origine doganale contenute negli allegati 10 ed 11 del reg. CEE 2454/93, che riportano, per taluni prodotti, le cd. "regole di lista", vale a dire la descrizione dettagliata delle lavorazioni da ritenere sostanziali che permettono al prodotto finito di acquisire l'origine del paese dove dette lavorazioni sono avvenute, nonché agli elenchi delle lavorazioni atte alle acquisizione di origine presentati dall'Unione europea all'Organizzazione Mondiale del Commercio al fine di armonizzare le regole di origine non preferenziale.
11. Deve però a questo punto risolversi un ulteriore problema preliminare, ossia se l'art. 49, comma 4, cit., nel richiamare la normativa europea sull'origine dei prodotti, faccia riferimento al codice doganale europeo anche per i prodotti agroalimentari, ovvero se per essi, o per alcuni di essi, il richiamo si riferisca ad una diversa normativa europea sull'origine.
Come si è prima evidenziato, l'art. 23 Codice Doganale fa espresso riferimento anche e soprattutto ai prodotti del regno vegetale, agli animali, ai prodotti che provengono da animali vivi, ai prodotti della caccia e della pesca, alle merci ottenute esclusivamente da tali prodotti o dai loro derivati, di modo che non sembra discutibile che, in mancanza di specifiche disposizioni diverse, le regole del codice doganale vadano applicate anche per stabilire l'origine dei prodotti agroalimentari.
Il diritto europeo ha invero elaborato una disciplina speciale esclusivamente per i prodotti agroalimentari la cui qualità è connessa in modo rilevante e determinante all'ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati o elaborati, prodotti per i quali sono stati appunto creati speciali marchi di qualità volti a valorizzarne l'origine territoriale. In particolare, questa materia è stata disciplinata dal regolamento del Consiglio n. 2081 del 14.7.1992, il quale ha previsto la possibilità di registrare:
a) la "denominazione di origine protetta" (DOP) per i prodotti agricoli o alimentari originari di un determinato territorio la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all'ambiente geografico, comprensivo dei fattori naturali ed umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell'area geografica di origine;
b) la "indicazione geografica protetta" (IGP) per i prodotti agricoli o alimentari originari di un determinato territorio, di cui una qualità o caratteristica possa essere attribuita all'origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell'area geografica determinata (art. 2 Reg. CEE 2081/92). La registrazione avviene purché, in entrambi i casi, sia rispettato un determinato "disciplinare", che indica soprattutto le materie prime o le principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche del prodotto, nonché il metodo di ottenimento del prodotto stesso (art. 4 Reg. CEE 2081/92). Orbene, la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, 17 febbraio 2005, Acanfora), ha già ritenuto che "per siffatti prodotti agroalimentari, anche quando non si arrivi a registrare un marchio di denominazione o indicazione geografica, ciò che rileva per l'ordine economico, inteso come protezione dei consumatori e dei produttori, è proprio l'origine territoriale... Ne deriva che per simili prodotti agroalimentari, o più esattamente per i prodotti industriali di natura alimentare aventi una tipicità territoriale, la origine a cui si riferisce la norma dell'art. 517 c.p. non è soltanto quella imprenditoriale ma anche e soprattutto quella geografica".
Nel caso in cui si tratti di prodotti tutelati dal marchio di "denominazione di origine protetta" (DOP) o dal marchio di "indicazione geografica protetta" (IGP), pertanto, la falsa applicazione di tali marchi integrano sicuramente il reato di cui all'art. 517 c.p. ed alla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49.
12. Tutto ciò, tuttavia, a ben vedere, non sembra avere decisiva influenza sul diverso problema della individuazione della origine dei prodotti agroalimentari al fine della applicazione del marchio "made in Italy". E difatti, come esattamente ed ineccepibilmente osserva il tribunale del riesame di Ravenna, "se è vero che nel sentire comune è forte l'aspettativa del consumatore che un certo prodotto agricolo dichiaratamente originario di un certo paese sia effettivamente proveniente da quel paese in quanto lì raccolto (e
indipendentemente, salvo i casi in cui è la stessa peculiare lavorazione a conferire qualità al prodotto, dal luogo delle successive trasformazioni") non esiste alcun appiglio normativo che consenta di ritenere che il criterio per determinare l'origine dei prodotti agroalimentari, alla produzione dei quali hanno partecipato più paesi, sia diverso da quello generale estrapolabile dall'art. 24 Codice Doganale che ... porta a sovrapporre il concetto di origine commerciale con quello di origine doganale".
D'altra parte, i marchi DOP e IGP differiscono sostanzialmente dal marchio di origine "made in Italy", in quanto presuppongono l'esistenza di un collegamento dimostrabile - attraverso appositi disciplinari - fra una determinata caratteristica del prodotto e un determinato luogo di produzione, spazialmente determinato. Al contrario, il marchio di origine "made in Italy" non presuppone e non assicura in alcun modo la presenza di specifiche caratteristiche dei prodotti, ma si limita ad indicare al consumatore che l'impresa che ha realizzato il prodotto è ubicata in un determinato paese. Si tratta cioè di una situazione assimilabile a quella che la Corte di giustizia europea ha definito come "denominazione di origine geografica semplice", ovvero indicazione che "non implica alcun rapporto tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica" (sent. 7.11.2000, nel proc. C-312/98). 13. Il tribunale del riesame ha, del resto, anche perspicuamente messo in rilievo come la protezione del marchio di origine deve conciliarsi con la normativa europea che disciplina il commercio intracomunitario. Ed invero più volte la Corte di Giustizia ha censurato, perché incompatibili con l'istituzione di un mercato unico e ritenute vere e proprie infrazioni al divieto di realizzare restrizioni quantitative all'importazione tra gli Stati membri o misure ad effetto equivalente, condotte dei paesi membri dirette a subordinare l'utilizzazione di una certa denominazione di qualità (diversa dalla DOP o dalla IGP) all'ubicazione nel territorio nazionale di una parte del processo produttivo.
Può ricordarsi in proposito la sent. 12 ottobre 1978, Joh. Eggers Sohn et CO. c. Città di Brema, causa C-13/78, la quale ha, tra l'altro, affermato il principio, massimato nel senso che "costituiscono misure d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, vietata dall'art. 30 (ora 28) del Tratto, e non giustificata dall'art. 36 dì questo, le norme di uno Stato membro, le quali subordinino l'uso per un prodotto nazionale dì una denominazione di qualità, foss'anche facoltativa (che non costituisca ne' una denominazione di origine ne' un 'indicazione di provenienza ai sensi dell'art. 2, n. 3, lett. s) della direttiva della commissione 22 dicembre 1969, n. 70/50), alla condizione che una o piu' fasi del processo produttivo precedenti alla fase della preparazione del prodotto finito abbiano avuto luogo nel territorio nazionale".
14. Ad ulteriore conferma che per i prodotti agroalimentari cd. generici (ossia diversi da quelli DOP e IPG) nell'ordinamento comunitario non esistono regole che impongano di individuare la loro origine esclusivamente dalla loro derivazione geografica ed indipendentemente dalla localizzazione delle fasi di lavorazione, e che agli stessi devono quindi applicarsi i principi dettati dagli artt. 23 e 24 Codice Doganale, può ricordarsi anche il regolamento CE n. 510/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006 (relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli e alimentari) il quale ha abrogato e sostituito il precedente regolamento CEE n. 2081/92. Anche questo regolamento, pur avendo indicato nelle premesse che "un numero sempre crescente di consumatori annette maggiore importanza alla qualità anziché alla quantità nell'alimentazione. Questa ricerca di prodotti specifici genera una domanda di prodotti agricoli o alimentari aventi un'origine geografica identificabile", specifica poi che il suo campo di applicazione si limita "ai prodotti agricoli e alimentari per i quali esiste un legame fra le caratteristiche del prodotto o dell'alimento e la sua origine geografica" e quindi definisce ancora "due diversi tipi di riferimento geografico, ossia le indicazioni geografiche protette e le denominazioni di origine protette".
Anche questo nuovo regolamento, quindi, attribuisce rilevanza giuridica ai fini dell'origine dei prodotti agricoli destinati all'alimentazione umana, esclusivamente:
a) alla "denominazione di origine protetta" (DOP), ossia al "nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare:
originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese, la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata";
b) alla "indicazione geografica protetta" (IGP), ossia al "nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata" (art. 2 reg. CEn. 510/2006). Anche secondo la nuova disciplina, in entrambi i casi la registrazione DOP o IPG avviene purché il prodotto agricolo o alimentare rispetti un determinato "disciplinare", che indica specialmente le materia prime, o le principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche o organolettiche, il metodo di ottenimento del prodotto, nonché gli elementi che giustifichino il legame fra le qualità e le caratteristiche del prodotto agroalimentari e l'ambiente geografico (art. 4 reg. CE 510/2006). Per tutti gli altri prodotti agricoli e alimentari, invece, nemmeno questo regolamento pone, per la individuazione della loro origine, norme speciali rispetto alle regole generali di cui agli artt. 23 e 24 Codice Doganale.
15. In conclusione, deve ritenersi che la L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, nella parte che concerne il marchio "prodotto in Italia" o "made in Italy", deve essere interpretato nel senso che, per quanto concerne i prodotti agroalimentari, la loro origine è definita dalla mera derivazione geografica ed indipendentemente dalla localizzazione delle fasi di lavorazione, esclusivamente per i prodotti con i marchi DOP e IPG, che attribuiscono una garanzia di tipicità e di qualità, mentre per tutti gli altri prodotti agroalimentari cd. generici (ossia diversi da quelli DOP e IPG) per stabilirne l'origine deve farsi riferimento ai criteri dettati dagli artt. 23 e 24 Codice Doganale europeo (applicabili, in mancanza di espresse esclusioni, anche per le merci provenienti, come nella specie, da paesi extracomunitari).
Ne consegue che, qualora si tratti - come nel caso in esame - di prodotti vegetali (così come analogamente per gli animali, i prodotti provenienti da animali vivi, i prodotti della caccia e della pesca, ecc.) per paese di origine deve intendersi quello in cui i prodotti sono stati raccolti ovvero quello dove la merce è stata interamente ed esclusivamente ottenuta dai prodotti ivi raccolti o dai loro derivati, secondo quanto stabilisce il criterio generale dettato dall'art. 23 Codice Doganale.
Qualora invece si tratti di prodotti vegetali (e più in generale agroalimentari) che non siano commercializzati così come sono stati raccolti o di prodotti che non sono stati ottenuti interamente ed esclusivamente da prodotti raccolti in un determinato paese o dai loro derivati, ossia quando si tratti di prodotti agroalimentari alla cui produzione abbiano contribuito due o più paesi, che abbiano cioè subito una trasformazione o lavorazione in un paese diverso da quello della raccolta, allora il criterio per determinarne l'origine ai fini della disposizione in esame è quello fissato dall'art. 24 Codice Doganale europeo, secondo cui in tali casi la merce deve considerarsi originaria del paese in cui è avvenuta "l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un 'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione". Nel caso di specie e' pacifico che non si trattava ne' di frutta commercializzata così come raccolta, ne' di merce interamente ed esclusivamente ottenuta mediante frutti raccolti in un determinato paese o da loro derivati, bensì di merce alla cui produzione avevano contribuito due o più paesi, ossia di prodotti finali che avevano subito un procedimento di lavorazione o trasformazione in un paese diverso da quello della raccolta, sicché il criterio applicabile era appunto quello indicato dal citato art. 24, sempre che, ovviamente, nel caso di specie sussistessero tutte le condizioni ed i presupposti ivi indicati, ed in primo luogo la effettiva presenza di una trasformazione o lavorazione "sostanziale".
16. L'erroneità della tesi del pubblico ministero ricorrente, del resto, si manifesta anche sotto un altro profilo. Questa tesi, invero, sembra fondarsi sull'assunto che un prodotto agroalimentare di natura composita potrebbe considerarsi di origine italiana soltanto se tutti i suoi componenti di natura alimentare siano stati prodotti o raccolti in Italia, dovendo applicarsi sempre ed in ogni caso il solo art. 23 Codice Doganale.
Come esattamente evidenzia il difensore dell'indagato nella sua memoria, tale assunto, però, oltre che contrario alle disposizioni normative dianzi esaminate, porterebbe a delle conseguenze manifestamente assurde e certamente palesemente in contrasto con la ratì o della disposizione e le finalità perseguite dal legislatore attraverso la L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49. Tanto per fare un esempio, infatti, se così fosse, anche un tipico prodotto del made in Italy come la pasta di semola, non potrebbe più legittimamente fregiarsi di tale marchio, essendo noto, da un lato, che una delle principali caratteristiche della pasta italiana è quella di venir prodotta esclusivamente con l'impiego di grano duro, come, del resto, è legislativamente prescritto, e, dall'alto lato, che l'Italia non produce grano duro in quantità sufficiente a coprire il fabbisogno dell'industria pastaia, e che quindi una buona percentuale del grano duro utilizzato in Italia è di provenienza estera. Ora, se fosse esatta l'interpretazione prospettata nel ricorso del pubblico ministero, trattandosi di un prodotto agroalimentare ed essendo per ciò solo esclusa la disciplina dell'art. 24 Codice Doganale, e cioè l'origine del paese in cui è avvenuta l'ultima lavorazione sostanziale, ma applicando solo l'art. 23 Codice Doganale cit., si avrebbe la conseguenza che la pasta non potrebbe essere etichettata come "prodotta in Italia" e che, se lo fosse, sarebbe configurabile il reato di cui alla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49. E lo stesso avverrebbe, ad esempio, per un panettone che utilizzasse, per la sua composizione, anche un singolo prodotto (come un candito) proveniente da un frutto raccolto all'estero, o per un cioccolato lavorato o un caffè torrefatto in Italia, che non potrebbero avere la dicitura di "prodotto in Italia" se non si dimostrasse che sono stati realizzati esclusivamente con i frutti di piante di cacao o di caffè cresciute in Italia. L'assurdità di tali conseguenze conferma che, anche in campo agroalimentare, nel caso si tratti non già del prodotto vegetale così come raccolto ma di un prodotto, per così dire complesso o composito, frutto della lavorazione o trasformazione di diversi prodotti naturali provenienti da paesi diversi, il criterio per determinarne l'origine non possa essere quello meramente geografico bensì necessariamente quello della lavorazione o trasformazione sostanziale, come del resto previsto dalla normativa comunitaria e dalle convenzioni internazionali.
17. Il pubblico ministero ricorrente sostiene anche - rifacendosi, a quanto sembra, ad una nota della guardia di finanza - che - poiché il regolamento CEE n. 2454/93 (contenente disposizioni di attuazione del codice doganale europeo), sarebbe applicabile solo ai particolari prodotti ivi contemplati (e non quindi anche ai prodotti vegetali ed agricoli) e poiché l'art. 24 Codice Doganale ha contenuto coincidente con quello dell'art. 5 del regolamento n. 802/68 - dovrebbe ritenersi che per i prodotti per i quali non esistono disposizioni attuative specifiche, e quindi per i prodotti vegetali ed agricoli, dovrebbe farsi riferimento alla normativa ed alla giurisprudenza comunitarie antecedenti il codice doganale comunitario del 1992, ed in particolare alle norme della Convenzione di Kyoto per la semplificazione e l'armonizzazione dei regimi doganali, accettata dalla comunità europea con la decisone del consiglio n. 415 del 3 giugno 1977, obbligatoria per gli Stati membri. Secondo i criteri dettati da tali norme, il processo di trasformazione subito della merce nel caso in esame non potrebbe ritenersi sostanziale, perché non avrebbe apportato ai prodotti utilizzati nuove caratteristiche proprie essenziali, significativamente differenti dalle caratteristiche proprie che essi avevano prima di essere sottoposti al processo di lavorazione.
18. L'assunto del pubblico ministero ricorrente è però infondato in diritto e comunque inconferente in punto di fatto.
Innanzitutto, infatti, il regolamento CEE n. 802/68 del Consiglio del 27 giugno 1968 (relativo alla definizione comune della nozione di origine delle merci) è stato a-brogato dal reg. CEE 2913/1992, e pertanto l'interprete non può più applicare ne' le sue disposizioni nè la giurisprudenza o le norme di attuazione che allo stesso fanno specifico riferimento.
In ogni modo, il richiamo a detto regolamento 802/68 è del tutto irrilevante, perché i suoi arti 4 e 5 hanno contenuto
sostanzialmente identico a quello degli artt. 23 e 24 Codice Doganale europeo, stabilendo anch'essi, tra l'altro, che sono originari di un dato paese i prodotti vegetali ivi raccolti o le merci interamente ed esclusivamente ottenute dagli stessi o dai loro derivati, mentre fuori da questa ipotesi e quando nella produzione della merce siano intervenuti due o più paesi l'origine è quella del paese in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, così come dispone l'art. 24 cit..
Il ricorrente poi si limita a citare, quale norma di attuazione che dovrebbe essere presa in considerazione per l'applicazione dei suddetti artt. 4 e 5 del reg. 802/68 (e quindi anche dei corrispondenti artt. 23 e 24 Codice Doganale) la norma 6 della Convenzione di Kyoto per la semplificazione e l'armonizzazione dei regimi doganali, accettata dalla comunità europea con la decisone del consiglio n. 415 del 3 giugno 1977.
Orbene, l'Allegato D.1. alla detta Convenzione, accettato con la decisione n. 415/1977, stabilisce appunto in via generale che "le regole utilizzate per determinare l'origine delle merci si avvalgono di due differenti criteri di base: quello delle merci "interamente prodotte" in un determinato paese, se un solo paese viene preso in considerazione per l 'attribuzione dell'origine di una determinata merce, e quello della "trasformazione sostanziale", allorche' due o più paesi contribuiscono alla produzione di una determinata merce. Il criterio delle merci "interamente prodotte", che si applica principalmente ai prodotti "naturali" ed alle merci che da essi derivano, esclude generalmente dal suo campo di applicazione le merci che contengono parti o materie importate ovvero di origine indeterminata. Il criterio della "trasformazione sostanziale" può essere espresso mediante vari metodi di applicazione". Il medesimo Allegato poi precisa che "in pratica, il criterio della trasformazione sostanziale può essere espresso: - mediante la regola del cambiamento di voce tariffaria in una nomenclatura determinata, corredata di elenchi di eccezioni; e/o - mediante un elenco delle operazioni dì trasformazione o di lavorazione che conferiscono o no alle merci che vi sono state sottoposte l'origine del paese in cui vengono effettuate; e/o - mediante la regola della percentuale ad valorem, quando la percentuale del valore dei prodotti utilizzati o la percentuale del valore aggiunto raggiungono un determinato livellò". Viene peraltro espressamente precisato che "il presente allegato... non riguarda... le misure adottate allo scopo... di assicurare il rispetto delle indicazioni di origine o di altre designazioni commerciali in vigore".
In ogni modo, la norma 2 dell'Allegato D.1. pone una disposizione di contenuto identico a quella dell'art. 23 Codice Doganale; la norma 3, stabilisce che "qualora due o più paesi intervengano nella produzione di una merce, l'origine di quest'ultima è determinata in base al criterio della trasformazione sostanziale"; mentre la norma 6 dispone infine che "non devono essere considerate trasformazioni o lavorazioni sostanziali le operazioni che non contribuiscono affatto o soltanto in minima parte a conferire alle merci le loro caratteristiche o proprietà essenziali, ed in particolare le operazioni che comprendono esclusivamente uno o più dei seguenti elementi: a) manipolazioni necessarie per assicurare la conservazione delle merci durante il trasporto o il magazzinaggio; b) manipolazioni dirette a migliorare la presentazione o la qualità commerciale dei prodotti o a condizionarli per il trasporto, come l'apertura dei colli, l'estrazione del contenuto e la suddivisione per voce doganale, il ricondizionamento dei colli; c) semplici operazioni di montaggio; d) miscugli di merci di origine diversa, purché le caratteristiche del prodotto ottenuto non siano essenzialmente differenti dalle caratteristiche delle merci che sono state mischiate".
Come è evidente, il contenuto della norma 6 è stato sostanzialmente ricalcato, nei tratti più importanti, dall'art. 38 del regolamento n. 2454/93, disposizione quest'ultima che è stata ben tenuta presente ed applicata dal tribunale del riesame nella ordinanza impugnata. D'altra parte, anche a ritenere che debbano applicarsi, oltre alla norma 3 (che dispone che l'origine della merce è sempre determinata in base al criterio della trasformazione sostanziale e non dal luogo di raccolta quando due o più paesi intervengano nella produzione della merce stessa) tutte le altre regole contenute nella "norma 6" dell'Allegato D.1 alla convenzione citata e non testualmente riprodotte nel codice doganale o nel citato art. 38, non sarebbe comunque ravvisabile alcuna violazione di legge nella ordinanza impugnata, perché essa ha fatto corretta applicazione di tutti i criteri dianzi indicati (ivi compresi quelli di cui alla norma 6 cit.), accertando sulla base di essi, che nel caso in esame si era verificata una lavorazione o trasformazione sostanziale. Il tribunale del riesame, infatti, ha motivatamente ritenuto che la lavorazione effettuata dalla azienda dell'indagato contribuiva a conferire, non in minima parte, al prodotto finito le proprie caratteristiche o proprietà essenziali; non si risolveva esclusivamente in manipolazioni dirette a migliorare la presentazione o la qualità commerciale dei prodotti; non comprendeva esclusivamente miscugli di merce di origine diversa che non conducevano ad un prodotto finale essenzialmente differente dalle caratteristiche delle merci mischiate.
19. Come risulta dalle osservazioni fin qui svolte, il punto decisivo della questione sottoposta al tribunale del riesame consisteva nello stabilire se nella azienda dell'indagato i prodotti e le merci provenienti dall'estero subissero o meno una lavorazione o trasformazione "sostanziale" ai sensi dell'art. 24 Codice Doganale europeo, tale da potere considerare il prodotto finale ottenuto come di origine italiana e quindi legittima l'apposizione della stampigliatura "made in Italy".
È anche evidente che - trattandosi di una misura cautelare reale - le conclusioni cui è giunto il tribunale del riesame potrebbero essere sindacate da questa Corte soltanto se avessero fatto erronea applicazione di principi o norme di diritto ovvero se non fossero sorrette da adeguata motivazione, e non anche nella ipotesi in cui la motivazione fosse illogica o contraddittoria.
Orbene, l'ordinanza impugnata non solo ha fatto puntuale e corretta applicazione dei principi di diritto dianzi enunciati, sulla base di una esatta interpretazione delle disposizioni nazionali e comunitarie che venivano in considerazione, ma le sue conclusioni sono sorrette da una motivazione più che adeguata. Il tribunale del riesame ha invero ritenuto che le lavorazioni cui erano sottoposti nella specie i semilavorati esteri utilizzati per comporre i prodotti finali denominati "macedonia alla frutta" e "prugne allo sciroppo" dovevano considerarsi "sostanziali" e quindi tali da portare alla realizzazione di un prodotto nuovo. E ciò perché, per la "macedonia alla frutta", il ciclo produttivo non comportava la mera mescolanza della frutta importata, ma, mediante il trattamento della frutta fresca nazionale ed il dosaggio della stessa (almeno per il 70% del prodotto finito), l'unione ai semilavorati importati, il processo di pastorizzazione, portava alla produzione di un prodotto affatto diverso dalle componenti estere importate; mentre analogo processo si verificava per le "prugne allo sciroppo", il cui prodotto finito era ottenuto attraverso un laborioso procedimento di reidratazione delle prugne secche, seguito dalla miscelazione in liquido di governo e dalla finale cottura. Il tribunale del riesame ha altresì rilevato che, in entrambi i casi, le lavorazioni avevano determinato una modifica della nomenclatura doganale e che in entrambi i casi la lavorazione non si era limitata alle operazioni descritte nelle lett. da A) ad F) dell'art. 38 del reg. 2454/93, avendo aggiunto alle mere attività di pulitura, confezionamento e conservazione, le suddette rilevanti componenti e fasi produttive.
Non può quindi certamente essere censurata - specie in questa sede cautelare - la conclusione del tribunale del riesame secondo cui si tratta di merci che, sia pure non integralmente prodotte nel territorio italiano, possono essere considerate come di origine italiana in base alla normativa europea sull'origine, sicché l'apposizione sulle stesse della stampigliatura "made in Italy" deve considerarsi legittima perché autorizzata dalla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 49, comma 4.
Il ricorso del pubblico ministero va pertanto rigettato. P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 15 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2007