Il canto del cigno delle Province
di Massimo GRECO
“Meno le persone sanno di come vengono fatte le salsicce e le leggi e meglio dormono la notte”
Otto Von Bismarck
Sommario:
1. Il disegno criminoso del legislatore
2. La decretazione d’urgenza
3. La tecnica legislativa
4. Il rapporto tra le fonti normative
5. Le funzioni di indirizzo e coordinamento
6. La nuova governance di 2° livello
7. Gli organi di governo
8. Profili d’incostituzionalità
9. Il ruolo delle Regioni
10. Considerazioni finali.
Nell’annuario delle politiche pubbliche l’anno 2011 sarà certamente ricordato come un anno di crisi, tagli e sacrifici, se non altro perché lo Stato è stato costretto a bussare più di una volta alla porta degli italiani non certo per augurare nuovi propositi ma per chiedere contributi straordinari alla nota causa comune di ridurre l’indebitamento pubblico contrastandone i processi regressivi.
Il 2011 sarà però ricordato anche per un fatto di inedita gravità istituzionale. Dopo tante polemiche e tanti tentativi andati a vuoto, sull’Istituzione Provincia è finalmente calato il sipario (rectius, the end). Il decreto legge n. 201 del 6/12/2011, convertito nella legge n. 214 del 22/12/2011 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 300 del 27/12/2011, ha infatti introdotto nell’ordinamento il percorso terapeutico previsto per quelle Istituzioni giunte allo stadio terminale, così eguagliando quel primato che solo il fascismo era riuscito a conquistare.
Sul perchè sia accaduto tutto ciò se ne potrà anche parlare nelle aule universitarie in un mix didattico di storia, diritto, scienza della politica e sociologia, ma pensare di trovare oggi un filo logico, una ragione giustificatrice, una motivazione plausibile è lavoro decisamente perso. Non sono infatti bastati tutti i documenti prodotti dall’Unione delle Province Italiane sul paventato risparmio, le ricerche demoscopiche e le analisi del Censis, dell’Istat, del Formez, lo studio dell’Università Politecnica delle Marche del 2008, il recente studio dell’Università Bocconi sul riassetto delle Province. Non sono bastate neanche le recentissime riflessioni della dottrina opportunamente raccolte in un’unica iniziativa editoriale[1], così come non è bastata la “tavola rotonda” promossa il 12 dicembre scorso dalla Provincia Regionale di Enna nel tentativo disperato di far ragionare, al netto di pregiudizi e slogan, esponenti della politica, delle istituzioni e del mondo accademico.
E’ prevalsa la “linea Barabba”, metodo pilatescamente scelto da una debole classe politica che si è arresa di fronte alle spinte demagogiche dell’antipolitica. Hanno vinto, tra gli altri, gli editoriali della nota coppia giornalistica Stella-Rizzo e della trasmissione radiofonica “Zapping” di Aldo Forbice che, attraverso un organizzato martellamento comunicativo, sono riusciti a falsare la realtà contaminando l’opinione pubblica già accecata dai nemici della “casta”.
E’ stato facile, nel contesto di un’emergenza economica e finanziaria, in cui tutti sono chiamati al sacrificio, buttare nell’arena quell’anello debole della catena istituzionale che prima e più degli altri avrebbe mostrato il tanto atteso e spettacolare “sangue”, facendo godere sugli spalti dell’antipolitica tutti coloro che, con la “bava in bocca”, puntano l’indice verso, pensando, ingenuamente, di determinare le sorti e il futuro degli altri. Niente di più errato e di più scorretto, ma sarà la storia a trarne le conclusioni, adesso è troppo tardi per dire “aprite gli occhi” e troppo presto per dire “avevamo ragione”.
Non ci resta che prenderne atto, anche perché alcuni Ministri del Governo Monti hanno già fatto i loro programmi di governo senza tenere conto delle Province. Fabrizio Barca, Ministro per la Coesione territoriale, in un suo recente intervento sul Sole 24Ore ha annunciato “il metodo del confronto, fra tutti i soggetti, interni ed esterni al territorio (…) la costruzione di coalizioni orizzontali (fra Comuni, sistemi di imprese, cittadini organizzati) e verticali (fra livelli di Governo)”[2]. Fra questi attori mancano le Province, sarà un lapsus freudiano?
Ecco perché l’ennesima arringa, per quanto argomentata, sul rapporto Provincia/Territorio ovvero sul rapporto Provincia/Costi sarebbe ultronea e comunque tardiva. L’interlocutore, infatti, non è più il legislatore, né tanto meno la “politica”, atteso che quest’ultima ha mostrato manifestamente non solo i propri limiti ma anche la volontà di procedere “a prescindere” sulla via intrapresa dell’espunzione dall’ordinamento dell’Istituzione Provincia.
Non ci resta che appellarci all’unico Organo dello Stato chiamato ad assicurare la correttezza dei rapporti interni alle Istituzioni di rango costituzionale, preso atto che anche il Presidente della Repubblica, che pure in questo periodo è stato elogiato dagli alleati europei per avere tracciato la “Ragion di Stato” e gli orizzonti del nuovo Governo Monti, ha pensato di “glissare” sull’argomento. E’ la Corte Costituzionale il nostro interlocutore, ovvero il Giudice delle leggi, quell’Organo dello Stato che in più occasioni, nella storia repubblicana, ha dimostrato di essere immune dalle pressioni che puntualmente le arrivano dal “sistema”. Alla Corte Costituzionale si chiede un intervento che, nel caso in specie, sia immune non solo dalla “politica” ma soprattutto dall’”antipolitica”, vista la forza plebiscitaria che, almeno su questa vicenda delle Province, ha dimostrato di avere.
E però tale intervento, in assenza del controllo preventivo di costituzionalità, invece previsto in altri paesi europei, non potrà arrivare se non nel contesto di una procedura incidentale che dovrà essere promossa dal cosiddetto giudice a quo. Così come è da escludere l’ipotesi di un accesso diretto al contenzioso costituzionale sia dell’Unione delle Province Italiane[3], trattandosi di un’associazione di diritto privato non “…competente a dichiarare definitivamente la volontà di un potere dello Stato per la delimitazione di una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali”[4], che delle medesime Province. In proposito va evidenziato che le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3/2001, non comportano un’innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato e delle Regioni per l’accesso diretto alla Corte Costituzionale.[5]
Ciò significa che la legge produrrà inevitabilmente i suoi effetti giuridici, incurante dei vizi di costituzionalità di cui è verosimilmente affetta fin quando, ammesso che non sia troppo tardi, la Corte Costituzionale si pronunci sulla legittimità costituzionale di siffatto impianto legislativo. Corollario di questo percorso di non breve periodo è che, fuori dall’auspicata ipotesi di ricorso diretto alla Corte a cura delle Regioni[6], le Province dovranno impugnare al Tar i singoli atti amministrativi attuativi delle disposizioni di legge che Stato e Regioni adotteranno nell’ambito delle rispettive competenze, chiedendo al citato giudice a quo di sollevare la questione di costituzionalità per la rilevanza della medesima ai fini del giudizio amministrativo e per la non manifesta infondatezza delle ragioni argomentate.
1. Il disegno criminoso del legislatore
La tecnica usata dal legislatore non è quella di sopprimere, sic et simpliciter, le Province ma di svuotarle di contenuto, nel tentativo di passare indenni dal filtro a maglie strette incastonato nella Costituzione a difesa del principio di autonomia locale. E così, con una serie di disposizioni prima si degrada la Provincia ad un ente locale di “serie B”[7] con “…funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 23, comma 14), poi la si priva di rappresentanza diretta dei propri organi introducendo il sistema di 2° grado per l’elezione degli stessi (art. 23, comma 16) ed infine riduce a dieci i componenti del Consiglio Provinciale eletti dai Comuni ricadenti nel territorio della Provincia (art. 23, comma 16).
Cioè, in sostanza, con tali disposizioni il legislatore mira al cuore della Provincia demolendone lo status di ente territoriale di governo, cioè di ente a competenza generale. Chiaro è il progetto prefigurato, quello di espungere definitivamente dalla Costituzione questo tipo di ente intermedio per lasciare posto ad un non precisato ente locale de-costituzionalizzato preposto alla cura di interessi pubblici di cui oggi si sconosce la collocazione istituzionale. La tacita verità è che le norme contenute nella presente articolazione normativa rappresentano la prima tappa del progetto, mentre quelle contenute nel disegno di legge costituzionale approvato dal Governo Berlusconi il 13/09/2011 rappresentano la seconda ed ultima tappa del più ambizioso processo di soppressione delle Province.
Sbaglia quindi chi pensa, ingenuamente, che le Province continueranno ad esistere perché un ente privo di autonomia politica, privo di quella rappresentanza esponenziale delle comunità interessate e privo di quelle funzioni fondamentali, ovvero proprie, che legano l’istituzione al cittadino secondo il principio no taxation without representation non solo non è un ente territoriale di governo, ma non è neanche un modo corretto e funzionale di essere dei Comuni, atteso che in discussione non è la funzione o la dimensione del livello istituzionale ma la qualità dell’azione di governo affidata all’individuato ente. Peraltro, l’esperienza in materia di gestione associata di servizi di area vasta da parte dei Comuni conferma tale affermazione. Basti pensare all’esito delle autorità d’ambito territoriale ottimale per la gestione dei rifiuti e delle risorse idriche prima introdotte e poi espunte dal medesimo legislatore per accertata inadeguatezza del relativo modello istituzionale.
Orbene, non potendo, per i motivi su indicati, ri-argomentare le questioni sottese al rapporto Provincia/Territorio e Provincia/Costi non ci resta che illustrare alcuni dei limiti che le disposizioni di legge che ci occupano presentano sotto il profilo sistematico e costituzionale, non certo per fornire suggerimenti alla suprema Corte ma per continuare a dare il nostro contributo alla formazione di quella “cittadinanza competente”[8] che mantiene “cocciutamente” la responsabilità di sensibilizzare l’opinione pubblica per una “rimotivazione collettiva”[9], atteso che sono l’elites che “…risultano determinanti nel bene e nel male”[10] resistendo alle forze disgregatrici e difendendo le Istituzioni.
2. La decretazione d’urgenza
Preliminarmente va evidenziata l’inidoneità dello strumento legislativo della decretazione d’urgenza per introdurre interventi così invasivi nell’architettura del sistema delle autonomie locali, attesa l’assenza dei presupposti di necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77 della Costituzione. Presupposti che mancano per espressa ammissione del Governo Monti che, relativamente agli aspetti della finanza pubblica, attorno alla quale ruota la genesi del decreto Salva-Italia, nella parte dedicata alle Province, non omette di evidenziare che “il risparmio di spesa associabile al complesso normativo in esame – 65 milioni di euro lordi – è destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via prudenziale non viene considerato in quanto verrà registrato a consuntivo”[11]. Né tale vizio di costituzionalità può ritenersi sanato con la conversione in legge del decreto-legge, poiché tutto il meccanismo della procedura d’urgenza affidata al Governo si fonda su un potere legislativo di tipo derogatorio rispetto all’ordinaria funzione legislativa solennemente affidata dalla Costituzione al Parlamento (art. 70) e come tale non suscettibile di interpretazione estensiva.
Inoltre il Governo, attraverso la decretazione d’urgenza è intervenuto su una materia, qual’è certamente quella in questione, sottratta alla sua disponibilità. L’art. 14 della l. n. 400/88 ha espressamente chiarito che non possono formare oggetto di decretazione d’urgenza da parte del Governo le materie previste dall’art. 72, comma 4, della Costituzione, tra le quali sono incluse le norme di carattere costituzionale o elettorale. In questo senso va subito respinta l’eventuale eccezione dell’assenza di norme a contenuto costituzionale, in considerazione che l’artificio legislativo di mantenere solo formalmente in vita il contenitore Provincia non può reggere di fronte alla sostanziale opera demolitoria di un Ente a valenza costituzionale contenuta nelle disposizioni censurate. Dello stesso avviso è la dottrina secondo cui “Si potrebbe dibattere se le norme statali in questione violino il dettato formale della Costituzione, quello che possiamo dire è che sicuramente ne violino lo <<spirito>>”[12].
3. La tecnica legislativa
La tecnica legislativa utilizzata è delle peggiori perché introduce disposizioni normative su argomenti già ampiamente disciplinati da leggi precedenti senza alcuna avvertenza di coordinamento. Non si comprende infatti se alcune disposizioni vanno coordinate con quelle esistenti o si pongono in modo alternativo e/o sostitutivo secondo il principio della successione cronologica delle leggi. Già con Circolare del 24/02/1986 n. 1.1.26/10888.9.68 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’auspicare un processo di miglioramento qualitativo della produzione legislativa attraverso un affinamento ed una omogeneizzazione della tecnica di formulazione dei testi normativi, aveva scoraggiato le modifiche implicite o indirette di atti legislativi vigenti, privilegiando la modifica testuale della massima ampiezza possibile (“novella”). Nella medesima Circolare veniva scoraggiata altresì la tecnica delle abrogazioni implicite, sollecitando quanto più possibile forme di abrogazione esplicita.
Orbene, il comma 14 dell’art. 23 della l. n. 214/2011 così recita: “Spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. Detta disposizione collide non poco sia con l’art. 19 del TUEL (d.lgs. n. 267/2000) che attribuisce alle Province le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardano vaste zone intercomunale o l’intero territorio provinciale in dieci settori, che con la legge sul Federalismo fiscale n. 42/2009 che qualifica come “fondamentali” le funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo delle Province. Ma per tutte queste funzioni il legislatore sembra avere previsto “il grande rientro”. Il comma 18 del medesimo art. 23 prevede infatti che "Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 30 aprile 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 30 aprile 2012, si provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, con legge dello Stato". Quindi prepariamoci ad una grande operazione legislativa ed amministrativa di Stato e Regioni volta a fare rientrare tutte quelle funzioni amministrative nel tempo trasferite e/o attribuite alla Provincia. Come non condividere lo stupore dei primi commentatori su questa fantasiosa idea del legislatore[13].
Secondo il noto criterio cronologico della successione delle leggi saremmo infatti in presenza di un’abrogazione implicita di quelle parti del TUEL in contrasto con la novella legge (e col suo progetto!?), lasciando in vita ed all’interprete la sola esigenza di coordinamento del citato 2° comma dell’art. 19. Infatti la nuova disposizione, nell’attribuire alla Provincia “esclusivamente” le funzioni di indirizzo e di coordinamento, esclude implicitamente le precedenti funzioni ad essa espressamente assegnate per singolo settore.
L’unica funzione prevista dal TUEL in capo alle Province che potrebbe ritenersi salva, perché compatibile con le novelle disposizioni, rimane pertanto quella contenuta al 2° comma dell’art. 19 che, nei settori economico, produttivo, commerciale, turistico, sociale, culturale e sportivo, rimanda ad un’attività di collaborazione e coordinamento di programmi ed attività dei Comuni.
4. Il rapporto tra le fonti normative
In disparte la discutibile tecnica utilizzata dal legislatore per le ragioni già illustrate, una considerazione di merito concerne i rapporti gerarchici tra le fonti normative in discussione. Siamo infatti in presenza di norme primarie che ben possono essere modificate, sostituite ovvero abrogate dal medesimo legislatore ordinario. Tuttavia andrebbe in questa sede indagata meglio la portata normativa del TUEL, che certamente viene introdotto nell’ordinamento attraverso una norma primaria ma che, secondo una scala gerarchica a maglie più strette, si trova ad un gradino decisamente più alto di un’ordinaria legge approvata dal Parlamento. Siamo infatti in presenza di una norma, che “metabolizzando” la precedente legge di riforma delle autonomia locali n. 142/90, attua per la prima volta il principio di valorizzazione e promozione dell’autonomia locale contenuto nell’art. 5 della Costituzione. Trattandosi, quindi, di una norma attuativa di una previsione costituzionale, si ritiene che la stessa operi ad un livello superiore a quello della legge statale[14]. La Corte di Cassazione[15], evidenziando la portata innovativa del TUEL, ha affermato che tale legge ha profondamente inciso nei rapporti tra fonti normative e statali e locali.
E, sul piano della coerenza ordinamentale, come non evidenziare altresì la portata innovativa delle leggi Bassanini (legge n. 59/97 e d.lgs. n. 112/98) che in applicazione dell’art. 128 della Costituzione hanno trasferito alle Province un vasto ventaglio di funzioni amministrative. La legge n. 59 del 1997 contiene infatti un’ampia delega al Governo per l'attuazione, fra l'altro, di un organico disegno di ulteriore decentramento di funzioni (dopo quello realizzato, per quanto riguarda le Regioni, e sempre per via di legislazione delegata, in base all'art. 17 della legge n. 281 del 1970 e successivamente, con criteri meno restrittivi, in base all'art. 1 della legge n. 382 del 1975), comportando l'impiego, da parte del legislatore delegato, di tutta la gamma di strumenti costituzionalmente ammessi per il decentramento delle funzioni, dal trasferimento di nuove funzioni amministrative alle Regioni nelle materie di cui all'art. 117 della Costituzione (utilizzando i margini di flessibilità insiti nella definizione legislativa delle materie elencate dalla Costituzione), alla delega alle Regioni di funzioni in altre materie, alla attribuzione di funzioni agli enti locali.
Incoerente si profila la scelta del legislatore statale anche in rapporto con il sistema del Federalismo fiscale introdotto nell’ordinamento con la l. n. 42/2009 in attuazione dell’art. 119 Cost. ed in particolare con i principi ed i criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni fondamentali delle Province che incrociano inevitabilmente il pluralista disegno istituzionale. Infatti la prospettiva disegnata è quella di favorire un processo di razionalizzazione delle competenze e delle funzioni amministrative in capo ai soggetti istituzionali che, sulla base dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, sono, più di altri, in grado di esercitarle. Secondo questa prospettiva condivisibile è l’affermazione secondo cui “il senso complessivo del percorso avviato nel 2009 è proprio quello della predisposizione di un meccanismo di responsabilizzazione degli enti territoriali nel reperimento e nell’impiego delle risorse finanziarie”[16]. In tale contesto, si profila la violazione del principio di unicità per la non chiarezza della ripartizione funzionale, per l’assenza di responsabilizzazione degli amministratori e per la mancata ripartizione delle risorse finanziarie, atteso che “Il principio presente nella legge n. 59 del 1997, non è stato costituzionalizzato, ma lo si può considerare implicitamente compreso in quello di sussidiarietà”[17].
Incomprensibile diventa quindi l’attività del legislatore che da qualche anno ha avviato un processo centripeto di semplificazione istituzionale nei settori cruciali delle risorse idriche e dei rifiuti. La gestione sovra comunale in tali settori non è venuta meno a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 2, comma 186-bis, della legge n. 191/2009, come introdotto dall’articolo 1, comma 1-quinquies, del d.l. 2/2010, convertito con la legge n. 42/2010. Detta disposizione, infatti, nel prevedere la soppressione delle Autorità di Ambito, dispone che, entro un anno[18], “le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. In tale modo, “Il legislatore statale non ha voluto senz’altro ripudiare la scelta di gestire il servizio in un ambito sovraccomunale, ma soltanto consentire una ricollocazione delle funzioni (…) secondo le diverse esigenze dei territori e delle collettività regionali, prevedendo comunque (evidentemente, per ragioni di contenimento della spesa) l’eliminazione di un’entificazione autonoma del soggetto titolare delle funzioni”[19]. Chiaro l’intento del legislatore statale nell’indurre le Regioni a trasferire tali competenze all’ente locale di livello provinciale. Ora, come farà, ad esempio, la Regione Campania che con l.r. n. 4/2008 ha affidato le funzioni in materia di organizzazione, affidamento e controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti alle Province? A quale ente andranno attribuite dette funzioni visto che il livello comunale non sembra idoneo ad assicurare una gestione integrata e che gli ATO vanno soppressi?
5. Le funzioni di indirizzo e coordinamento
L’azione del legislatore con la quale si attribuiscono alla Provincia le sole funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni, nelle materie indicate con legge statale o regionale secondo le rispettive competenze, non è altro che un artificio, un raggiro, un abbindolamento normativo per mantenere solo formalmente in vita un ente locale al quale è stato notificato “il foglio di via” (rectius, espunzione) dall’ordinamento costituzionale. Non si comprende infatti in cosa possa consistere la funzione di indirizzo e coordinamento verso un altro livello istituzionale, quello comunale, che non è affatto sotto ordinato a quello provinciale per espressa volontà equi ordinatrice della Costituzione (art. 114). In un contesto ordinamentale in cui il principio di “sussidiarietà responsabile” da un lato e la spettanza al Comune di tutte le funzioni amministrative che riguardano il territorio comunale dall’altro, orientano le politiche pubbliche locali secondo il criterio della competenza, deve ritenersi azzardato ipotizzare che il ruolo del Comune possa essere confinato nell’ambito della mera attuazione di scelte precostituite dalla Provincia nell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. Invero, il nostro ordinamento conosce tale funzione ma nell’ambito del rapporto gerarchico tra le fonti del diritto (tra leggi cornice e leggi regionali in materie a competenza concorrente), ovvero, nel contesto della pubblica amministrazione, tra le amministrazioni a struttura gerarchica, all’interno delle quali la sede centrale indirizza e coordina le sedi periferiche.
Anche con l’esperienza della pianificazione territoriale di area vasta, contemplata dall’art. 15, comma 2, della legge n. 142/90 poi sostituito dall’art. 20, comma 2 del TUEL, è stato infatti affermato dalla giurisprudenza che “l’intervento amministrativo della Provincia potrà avvenire solo nei confronti di quegli atti che pur essendo stati posti in essere da altri enti, hanno un oggetto rientrante nelle competenze e attribuzioni della Provincia, non suscettibile al tempo stesso, di porsi in contrasto con la riconosciuta affermata autonomia normativa di altri enti”[20], atteso che le esigenze di tutela e salvaguardia delle autonomie locali, costituzionalmente garantite dall’art. 5 della Costituzione e formalmente attuate con la legge n. 142/90 prima e dal TUEL dopo, trovano riconoscimento nell’affermazione dell’autonomia normativa e regolamentare in capo ai Comuni.
Inoltre, ammesso che il legislatore statale/regionale possa stabilire, in questi termini e con questa temerarietà, quali funzioni fondamentali attribuire alle Province e, di converso, quali funzioni togliere in forza dell’art. 117, comma 2°, lett. p) della Cost., tale sorte non può essere riservata anche alle funzioni proprie, cioè a quelle funzioni storicamente esercitate dall’ente intermedio perché dotate di mirata copertura costituzionale. L’art. 118, comma 2°, della Cost. stabilisce infatti che “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. In tale contesto la Corte Costituzionale, pur negando che possa distinguersi fra le “funzioni fondamentali”, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), e le “funzioni proprie” degli enti locali, di cui all’art. 118, secondo comma, Cost.[21], e che il mancato riferimento, da parte del legislatore, alle funzioni proprie della Provincia non implica il disconoscimento dell’esistenza di un nucleo di funzioni intimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia degli enti locali sancito dall’art. 5 Cost[22], non ha escluso la utilità del criterio storico “per la ricostruzione del concetto di autonomia provinciale e comunale”, circoscrivendone l’utilizzabilità “a quel nucleo fondamentale delle libertà locali che emerge da una lunga tradizione e dallo svolgimento che esso ebbe durante il regime democratico”[23]. Può, invero, pacificamente ritenersi che siffatta posizione, costituzionalmente qualificata, sia anche funzionale alla migliore tutela delle prerogative di cui godono le Province, tra le quali vi è certamente il riconoscimento di un “diritto” all’integrità del proprio territorio (inteso come elemento costitutivo e identitario di qualunque categoria di enti in cui si articola la Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost.), della relativa popolazione (art. 133 Cost,) e delle funzioni proprie (art. 118 Cost.).
Nel caso in specie, occorre molta fantasia per ritenere che la sola ed “esclusiva” funzione di indirizzo e coordinamento possa rappresentare quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia della Provincia richiesto dalla Costituzione ed individuato dallo Stato ai sensi dell’art. 117. In tale contesto è veramente difficile pensare che una norma, per quanto caratterizzata da elementi riconducibili alle emergenziali esigenze di coordinamento e finanza pubblica, possa d’emblée sortire i prefigurati effetti demolitori contenuti nelle fondamentali leggi di riforma del sistema delle autonomie locali, considerato altresì che una tanto arbitraria configurazione del nuovo ente intermedio farebbe torto alla ragionevolezza di qualunque sistema giuridico.
6. La governance di 2° livello
I commi 15,16,17 e 20 dell’art. 23 disciplinano la forma di governo della nuova Provincia e, in coerenza col disegno criminoso, mirano a depotenziare la governance innestando un elezione mediata sia per il Presidente della Provincia che per i Consiglieri Provinciali. In sostanza il legislatore “scardina” la conquista dell’elezione diretta dell’organo monocratico introdotta nell’ordinamento degli enti locali con la legge n. 81/93 e prevede che il Presidente sia eletto da un Consiglio Provinciale i cui componenti, a loro volta, sono designati dai Comuni ricadenti nel territorio della stessa con modalità non ancora stabilite.
Sotto il profilo della governance, appare evidente che il sistema è annoverabile tra quelli di 2° grado, atteso che la nuova Provincia è espressione dei comuni che, invece, essendo enti di governo locale continuano a godere di un rapporto di fiducia diretta ed esponenziale con le comunità amministrate. E, in questa prospettiva, non desta alcuna meraviglia che gli organi di governo siano espressione dei Comuni e non della società civile. Infatti, “Il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo degli enti territoriali è strumento essenziale dell’autonomia, cui hanno riguardo gli artt. 5 e 128 della Costituzione. Non può ritenersi, invero, che quei principi non possano osservarsi, anche in caso di elezioni di secondo grado e, conseguentemente, non può escludersi la possibilità di siffatte elezioni, che, del resto sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato (art. 83)”[24].
Se però, un siffatto sistema di governance non presenta alcun vizio di costituzionalità, essendo riconosciuta allo Stato tale competenza (art. 117, comma 2, Cost.), sul piano funzionale e della coerenza istituzionale i rilievi sono numerosi. Infatti l’impatto sull’ordinamento locale dopo 152 anni[25] di sedimentazione di un modello fondato sulle Province sarebbe traumatico. In disparte il fatto che l’abolizione di organi di governo direttamente eletti produrrebbe risparmi assai limitati e costituirebbe solamente un pericoloso vulnus per la legittimazione democratica delle Istituzioni locali; nelle future Province verrebbe infatti azzerato il confronto tra le forze politiche, essendo potenzialmente possibile avere un Consiglio Provinciale composto da rappresentanti dei Comuni di omogenea estrazione politica.
Del resto, “E’ difficilmente negabile che la scelta popolare diretta del Capo dell’esecutivo non mediata dai partiti…instaura circuiti di legittimazione e di responsabilità politica in qualche misura autonomi, e quindi conduce ad una più marcata personalizzazione della politica ed alla valorizzazione del ruolo delle istituzioni a scapito di quello delle forze politiche”[26]. Ancora, sull’importanza della funzione elettiva degli organi della Provincia, è stato già detto che “Matura quindi la natura di ente elettivo rappresentativo, perché ci si convince sempre più che non c’è capacità di governo senza rappresentanza eletta, senza rendere conto agli elettori di come si governa”[27].
Il modello elettivo del sistema di governance di qualsiasi organizzazione pubblica ha refluenze anche sul grado di partecipazione del cittadino al processo di costruzione della decisione pubblica locale. Il ruolo della partecipazione dei cittadini alle articolazioni territoriali del potere pubblico può subire oscillazioni in relazione al concreto riparto di competenze stabilito, “ma deve, (ovunque) mantenere il medesimo significato e la medesima <<dignità>>”[28].
7. Gli organi di governo
Al comma 15 dell’art. 23 il legislatore prevedendo che gli organi di governo della Provincia sono il Consiglio Provinciale e il Presidente della Provincia - la cui durata in carica è mantenuta in cinque anni – sopprime, implicitamente, l’organo esecutivo della Giunta previsto dagli artt. 46, 47 e 48 del TUEL. Rispetto alle altre disposizioni questa sembra la più logica atteso che mantenere in vita tre organi (Presidente, Giunta e Consiglio) per esercitare solo una funzione di indirizzo e coordinamento delle attività comunali non avrebbe avuto veramente senso. Meno logico è non avere pensato a quale organo affidare le competenze attribuite dal TUEL alla Giunta che, oltre all'adozione dei regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, è competente in tutte le altre materie non espressamente attribuite ad altri Organi stante il potere residuale generale ad essa riconosciuta.
Per la verità è discutibile anche la permanenza di un Consiglio Provinciale così configurato; in disparte il silenzio del legislatore sulle competenze da attribuire, non si comprende infatti quali atti d’indirizzo politico possa esprimere un’assemblea priva di autonomia politica. Né è facilmente ipotizzabile che il Consiglio Provinciale possa esercitare una funzione di indirizzo politico nei confronti del Presidente della Provincia chiamato, a sua volta, ad esercitare la novella funzione di indirizzo e coordinamento sulle attività dei Comuni del comprensorio. Peraltro, che il legislatore non abbia tanta considerazione del nuovo organo consiliare lo si evince dal successivo comma 16 dedicato al numero dei componenti. Detta disposizione così recita: “Il Consiglio Provinciale è composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalità di elezione sono stabilite con legge dello Stato entro il 30 aprile 2012”. Orbene, senza ritornare nel merito della questione sottesa al sistema di 2° grado utilizzato, appare verosimile prefigurare uno scenario di futuri Consigli Provinciali i cui componenti, scelti “ovviamente” nel numero massimo di dieci, risultino privi di adeguata rappresentatività politica. Se infatti “è ancora vero” che in un ordinamento plurale come quello italiano la sovranità appartiene al popolo, che la esercita per il tramite di Istituzioni governate da propri rappresentanti democraticamente eletti, è impensabile che il legislatore possa consentire al Consiglio Provinciale di una Provincia di Roma, che copre più di 4 milioni di abitanti, di avere designati lo stesso numero di componenti del Consiglio Provinciale di Asti, che copre appena 220 mila abitanti, senza incorrere nella violazione dell’art. 3 Cost., per la disparità della disciplina introdotta.
Evidente, anche in questo caso, è l’obiettivo, cioè quello di consentire alle Province di parlare “invano” di tutto e di più senza incidere sulle decisioni pubbliche del territorio e comunque fino al programmato spegnimento dei “microfoni”.
8. Profili d’incostituzionalità
Per tentare di valutare con maggiori ed orientati strumenti interpretativi la conformità costituzionale dell’articolato delle disposizioni in questione, illuminante appare la sentenza della Corte Costituzionale[29] secondo cui “La Costituzione conferisce al legislatore statale, ai fini della realizzazione del disegno complessivo di autonomia ispirato ai principi di cui all'art. 5, sia il potere-dovere di regolare per ogni ramo della pubblica amministrazione "il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni" ai sensi dell'art. 118, primo comma (VIII disp. trans. e fin., secondo comma); sia il potere di "delegare alla Regione l'esercizio di altre funzioni amministrative" (art. 118, secondo comma); sia, infine, quello di attribuire direttamente alle Province, ai Comuni e agli altri enti locali le funzioni amministrative "di interesse esclusivamente locale" nelle materie di spettanza regionale (art. 118, primo comma), e più in generale di determinare le funzioni di Province e Comuni con le "leggi generali della Repubblica" che fissano i principi della loro autonomia (art. 128). Nell'esercizio di questi poteri il legislatore statale gode di spazi di discrezionalità: così nello scegliere le materie in cui delegare alle Regioni ulteriori funzioni; nell'individuare direttamente le funzioni di interesse esclusivamente locale attribuite agli enti locali o nel demandare invece alla Regione, nell'esercizio della sua potestà legislativa e anche in attuazione del principio del "normale" esercizio decentrato delle funzioni amministrative della medesima (art. 118, terzo comma), il compito di identificare specificamente la dimensione dei relativi interessi "in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio", come ad esempio si esprime l'art. 3, comma 2, della legge n. 142 del 1990 sull'ordinamento delle autonomie locali; o ancora nell'individuare le esigenze e gli strumenti di raccordo fra diversi livelli di governo per un esercizio coordinato delle funzioni o per attuare la cooperazione nelle materie in cui coesistano competenze diverse”.
La Costituzione sembra quindi riconoscere al legislatore statale una discrezionalità piena in materia, tuttavia per rispondere compiutamente al quesito bisogna leggere con attenzione la seconda parte della medesima sentenza, allorquando il Giudice delle leggi afferma che “Ciò che rileva dal punto di vista costituzionale é che non siano violate le sfere di attribuzioni garantite alle Regioni, nonchè, a livello di principio, a Comuni e Province, dalle norme costituzionali, e più in generale che la disciplina del riparto di competenze e dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali sia in armonia con le regole e i principi derivanti dalle stesse norme costituzionali. La scelta, entro questi limiti, di modelli di riparto di funzioni e di disciplina di rapporti più nettamente ispirati al potenziamento del ruolo della Regione anche per quanto attiene all'assetto delle funzioni degli enti locali, ovvero invece alla determinazione diretta, con legge statale, di sfere di attribuzioni amministrative degli enti locali, garantite a priori anche nei confronti del legislatore regionale, rientra nell’ambito delle legittime scelte di politica istituzionale, che possono volta a volta avvalersi di questo o quello strumento apprestato in questo campo dalle norme costituzionali, e che non hanno ragione di essere discusse in questa sede, se non quando si tratti di verificare in concreto l'osservanza dei limiti costituzionalmente imposti”. Più recentemente, è stato affermato dalla medesima Corte Costituzionale che “ogni momento della vita di un ente locale è devoluto dal legislatore costituzionale alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, con la conseguenza che appare in re ipsa che siffatta devoluzione includa anche il momento genetico basilare della istituzione stessa di un ente locale, nelle sue componenti geografiche e personali, ivi compresa la fissazione del numero minimo di abitanti”[30].
Corollario di queste autorevoli argomentazioni è che il legislatore statale, come anche quello regionale ad autonomia particolare, può (nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni costituzionali), in presenza di esigenze di carattere generale, articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, “con il limite della permanenza di almeno una sfera adeguata di funzioni”[31]. La giurisprudenza della Corte Costituzionale[32] è ferma nel sostenere che una disposizione come quella di cui all’art. 5 della Costituzione certamente impegna la Repubblica, e anche quindi le Regioni ad autonomia speciale, a riconoscere e a promuovere le autonomie, ed ha anche aggiunto che le leggi regionali possono bensì regolare l’autonomia degli enti locali, ma mai comprimere fino a negarla. Analogamente, si è ritenuto doveroso il “coinvolgimento degli enti locali infraregionali alle determinazioni regionali di ordinamento”, in considerazione “dell’originaria posizione di autonomia ad essi riconosciuta”[33].
L’assenza di una qualche forma preventiva di raccordo e/o concertazione istituzionale con gli enti locali coinvolge sia le Province, direttamente interessate dall’azione legislativa di degradazione, che i Comuni, verso i quali si rileva il silenzio del legislatore in merito a modalità organizzative e finanziarie connesse ai programmati trasferimenti di funzioni. Ne deriva una palese irragionevolezza, che si riverbera inevitabilmente sia sul principio di leale collaborazione tra le Istituzione della Repubblica che sull’autonomia finanziaria dei medesimi Comuni.
9. Il ruolo delle Regioni
Nel perseguire il citato disegno “criminoso” il legislatore statale chiama in correità anche le Regioni. Il comma 18 dell’art. 23 stabilisce infatti che le Regioni, con propria legge, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, pena l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato ai sensi dell’art. 8 della l. n. 131/2003.
Neanche le Regioni a statuto speciale sembrano risparmiate dal fornire il proprio contributo. Il comma 20-bis dell’art. 23, aggiunto nella seconda versione del decreto-legge n. 201, così recita: “Le regioni a statuto speciale adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 2° entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Le medesime disposizioni non si applicano per le province autonome di Trento e Bolzano”[34].
Tuttavia, la disposizione normativa prevista per le Regioni a statuto speciale presenta un vistoso vizio di costituzionalità, configurando un intervento “a gamba tesa” verso una competenza legislativa che tali Regioni esercitano in via esclusiva in forza dei rispettivi statuti, soprattutto all’indomani della legge costituzionale n. 2/93 che estende a tutti le Regioni ad autonomia differenziata il medesimo livello di autonomia già riconosciuto alla Regione Sicilia in tema di ordinamento degli enti locali.
Rinviando integralmente alle argomentazioni di cui al paragrafo precedente in ordine ai profili d’incostituzionalità e ad uno specifico approfondimento dedicato al caso siciliano[35], stimolato da questioni analoghe contenute nel precedente decreto-legge n. 138 del 13/08/2011, possiamo qui aggiungere che la Regione ad autonomia differenziata non è vincolata all’osservanza, come invece preteso dall’odierno legislatore, di uno specifico modello istituzionale analogo alla legislazione statale per disciplinare l’assetto degli enti locali ma, come già affermato per la Regione Friuli-Venezia-Giulia, “deve rispettare il principio autonomistico o – meglio ancora – tramite le sue autonome determinazioni <<deve favorire la piena realizzazione dell’autonomia degli enti locali>>”[36].
Invero, anche il termine del 31/12/2012, entro il quale trasferire ai Comuni le funzioni delle Province, peraltro privo di sanzione nel caso di inosservanza, più che essere considerato ordinatorio è da intendersi alla stregua di una non vincolante “raccomandazione”.
Pertanto, sulla base delle argomentazioni illustrate nei paragrafi precedenti, è da escludere che interventi normativi di portata così invasiva, anche se inseriti nel contesto di una norma finanziaria, possano annoverarsi tra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico ovvero tra le norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, né, tanto meno, tra i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, attesa la più volte citata ammissione sull’incertezza finanziaria contenuta nella relazione tecnica governativa allegata al decreto legge n. 201 del 06/12/2011.
L’incostituzionalità di cui è verosimilmente affetta la disposizione normativa in commento non esime anche le Regioni a statuto speciale dalla opportunità/necessità di ricorrere alla Corte Costituzionale per sentirsi confermare le proprie lagnanze. Interessante sarebbe infatti conoscere il pensiero del Giudice delle leggi chiamato a sindacare il novello impianto normativo in rapporto al principio di autonomia locale contenuto sia nell’art. 5 della Costituzione che nell’art. 4, par. 4, della “Carta europea delle autonomie locali”, ratificata dall’Italia con la l. n. 439/1989, che nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” incorporata nel Trattato (2010/C-2010)[37].
10. Considerazioni finali
In teoria, è anche possibile immaginare un sistema di “enti intermedi” costituito da proiezioni organizzative e funzionali degli enti locali necessari (Comuni), con i medesimi uffici delle soppresse province, atteso che forme di coordinamento intercomunale sono state sperimentate in quelle realtà che per l’assenza di un livello intermedio tra i comuni e la regione (o lo Stato) affidano ai “consorzi di comuni” i compiti di gestione di aree territoriali che comprendono diversi municipi (i syndicats de comune in Lussemburgo), ma l’esperienza ci dice che mettere d’accordo tra loro 20 o 100 comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato, e non è detto costi meno che mantenere tali funzioni in capo ad enti territoriali autonomi come le attuali province. Infatti “i modelli associativi sopra descritti non risolvono sempre in modo convincente la questione fondamentale dei rapporti tra l’Ente associativo e le rispettive rappresentanze locali, soprattutto in sede di adozione delle scelte di governo”[38]. Basti pensare alla recentissima esperienza dei consorzi e società d'ambito per la gestione integrata dei rifiuti che in Sicilia ha già maturato un debito di oltre un miliardo di euro, per il quale il Governo regionale è ancora impegnato ad accendere uno specifico mutuo bancario.
Secondo questo ragionamento è quindi certamente da respingere la soluzione trovata dal legislatore atta a (ri)configurare le Province quale proiezione istituzionale dei Comuni, con rappresentanza di 2° grado, atteso che la perdita dello status di ente territoriale di governo comporta un’indebita intromissione nell’originaria autonomia organizzativa e funzionale delle Province, autonomia che è garantita dagli artt. 5 e 128 della Costituzione non solo nei confronti dello Stato e delle Regioni ad autonomia ordinaria, ma altresì nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale.
Di fronte a cotanta evidenza saremmo ancora una volta tentati di pretendere una risposta su tutto ciò e di insistere ancora una volta nel tentativo, inascoltato, di far comprendere all’opinione pubblica prima, e ai “decisori” dopo, che costi della politica e costi della democrazia non sempre sono due facce della stessa medaglia, ma forse è più comodo trincerarsi dietro le parole dell’opera teatrale di Pirandello: Così è (se vi pare).
Otto Von Bismarck
Sommario:
1. Il disegno criminoso del legislatore
2. La decretazione d’urgenza
3. La tecnica legislativa
4. Il rapporto tra le fonti normative
5. Le funzioni di indirizzo e coordinamento
6. La nuova governance di 2° livello
7. Gli organi di governo
8. Profili d’incostituzionalità
9. Il ruolo delle Regioni
10. Considerazioni finali.
Nell’annuario delle politiche pubbliche l’anno 2011 sarà certamente ricordato come un anno di crisi, tagli e sacrifici, se non altro perché lo Stato è stato costretto a bussare più di una volta alla porta degli italiani non certo per augurare nuovi propositi ma per chiedere contributi straordinari alla nota causa comune di ridurre l’indebitamento pubblico contrastandone i processi regressivi.
Il 2011 sarà però ricordato anche per un fatto di inedita gravità istituzionale. Dopo tante polemiche e tanti tentativi andati a vuoto, sull’Istituzione Provincia è finalmente calato il sipario (rectius, the end). Il decreto legge n. 201 del 6/12/2011, convertito nella legge n. 214 del 22/12/2011 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 300 del 27/12/2011, ha infatti introdotto nell’ordinamento il percorso terapeutico previsto per quelle Istituzioni giunte allo stadio terminale, così eguagliando quel primato che solo il fascismo era riuscito a conquistare.
Sul perchè sia accaduto tutto ciò se ne potrà anche parlare nelle aule universitarie in un mix didattico di storia, diritto, scienza della politica e sociologia, ma pensare di trovare oggi un filo logico, una ragione giustificatrice, una motivazione plausibile è lavoro decisamente perso. Non sono infatti bastati tutti i documenti prodotti dall’Unione delle Province Italiane sul paventato risparmio, le ricerche demoscopiche e le analisi del Censis, dell’Istat, del Formez, lo studio dell’Università Politecnica delle Marche del 2008, il recente studio dell’Università Bocconi sul riassetto delle Province. Non sono bastate neanche le recentissime riflessioni della dottrina opportunamente raccolte in un’unica iniziativa editoriale[1], così come non è bastata la “tavola rotonda” promossa il 12 dicembre scorso dalla Provincia Regionale di Enna nel tentativo disperato di far ragionare, al netto di pregiudizi e slogan, esponenti della politica, delle istituzioni e del mondo accademico.
E’ prevalsa la “linea Barabba”, metodo pilatescamente scelto da una debole classe politica che si è arresa di fronte alle spinte demagogiche dell’antipolitica. Hanno vinto, tra gli altri, gli editoriali della nota coppia giornalistica Stella-Rizzo e della trasmissione radiofonica “Zapping” di Aldo Forbice che, attraverso un organizzato martellamento comunicativo, sono riusciti a falsare la realtà contaminando l’opinione pubblica già accecata dai nemici della “casta”.
E’ stato facile, nel contesto di un’emergenza economica e finanziaria, in cui tutti sono chiamati al sacrificio, buttare nell’arena quell’anello debole della catena istituzionale che prima e più degli altri avrebbe mostrato il tanto atteso e spettacolare “sangue”, facendo godere sugli spalti dell’antipolitica tutti coloro che, con la “bava in bocca”, puntano l’indice verso, pensando, ingenuamente, di determinare le sorti e il futuro degli altri. Niente di più errato e di più scorretto, ma sarà la storia a trarne le conclusioni, adesso è troppo tardi per dire “aprite gli occhi” e troppo presto per dire “avevamo ragione”.
Non ci resta che prenderne atto, anche perché alcuni Ministri del Governo Monti hanno già fatto i loro programmi di governo senza tenere conto delle Province. Fabrizio Barca, Ministro per la Coesione territoriale, in un suo recente intervento sul Sole 24Ore ha annunciato “il metodo del confronto, fra tutti i soggetti, interni ed esterni al territorio (…) la costruzione di coalizioni orizzontali (fra Comuni, sistemi di imprese, cittadini organizzati) e verticali (fra livelli di Governo)”[2]. Fra questi attori mancano le Province, sarà un lapsus freudiano?
Ecco perché l’ennesima arringa, per quanto argomentata, sul rapporto Provincia/Territorio ovvero sul rapporto Provincia/Costi sarebbe ultronea e comunque tardiva. L’interlocutore, infatti, non è più il legislatore, né tanto meno la “politica”, atteso che quest’ultima ha mostrato manifestamente non solo i propri limiti ma anche la volontà di procedere “a prescindere” sulla via intrapresa dell’espunzione dall’ordinamento dell’Istituzione Provincia.
Non ci resta che appellarci all’unico Organo dello Stato chiamato ad assicurare la correttezza dei rapporti interni alle Istituzioni di rango costituzionale, preso atto che anche il Presidente della Repubblica, che pure in questo periodo è stato elogiato dagli alleati europei per avere tracciato la “Ragion di Stato” e gli orizzonti del nuovo Governo Monti, ha pensato di “glissare” sull’argomento. E’ la Corte Costituzionale il nostro interlocutore, ovvero il Giudice delle leggi, quell’Organo dello Stato che in più occasioni, nella storia repubblicana, ha dimostrato di essere immune dalle pressioni che puntualmente le arrivano dal “sistema”. Alla Corte Costituzionale si chiede un intervento che, nel caso in specie, sia immune non solo dalla “politica” ma soprattutto dall’”antipolitica”, vista la forza plebiscitaria che, almeno su questa vicenda delle Province, ha dimostrato di avere.
E però tale intervento, in assenza del controllo preventivo di costituzionalità, invece previsto in altri paesi europei, non potrà arrivare se non nel contesto di una procedura incidentale che dovrà essere promossa dal cosiddetto giudice a quo. Così come è da escludere l’ipotesi di un accesso diretto al contenzioso costituzionale sia dell’Unione delle Province Italiane[3], trattandosi di un’associazione di diritto privato non “…competente a dichiarare definitivamente la volontà di un potere dello Stato per la delimitazione di una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali”[4], che delle medesime Province. In proposito va evidenziato che le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3/2001, non comportano un’innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato e delle Regioni per l’accesso diretto alla Corte Costituzionale.[5]
Ciò significa che la legge produrrà inevitabilmente i suoi effetti giuridici, incurante dei vizi di costituzionalità di cui è verosimilmente affetta fin quando, ammesso che non sia troppo tardi, la Corte Costituzionale si pronunci sulla legittimità costituzionale di siffatto impianto legislativo. Corollario di questo percorso di non breve periodo è che, fuori dall’auspicata ipotesi di ricorso diretto alla Corte a cura delle Regioni[6], le Province dovranno impugnare al Tar i singoli atti amministrativi attuativi delle disposizioni di legge che Stato e Regioni adotteranno nell’ambito delle rispettive competenze, chiedendo al citato giudice a quo di sollevare la questione di costituzionalità per la rilevanza della medesima ai fini del giudizio amministrativo e per la non manifesta infondatezza delle ragioni argomentate.
1. Il disegno criminoso del legislatore
La tecnica usata dal legislatore non è quella di sopprimere, sic et simpliciter, le Province ma di svuotarle di contenuto, nel tentativo di passare indenni dal filtro a maglie strette incastonato nella Costituzione a difesa del principio di autonomia locale. E così, con una serie di disposizioni prima si degrada la Provincia ad un ente locale di “serie B”[7] con “…funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 23, comma 14), poi la si priva di rappresentanza diretta dei propri organi introducendo il sistema di 2° grado per l’elezione degli stessi (art. 23, comma 16) ed infine riduce a dieci i componenti del Consiglio Provinciale eletti dai Comuni ricadenti nel territorio della Provincia (art. 23, comma 16).
Cioè, in sostanza, con tali disposizioni il legislatore mira al cuore della Provincia demolendone lo status di ente territoriale di governo, cioè di ente a competenza generale. Chiaro è il progetto prefigurato, quello di espungere definitivamente dalla Costituzione questo tipo di ente intermedio per lasciare posto ad un non precisato ente locale de-costituzionalizzato preposto alla cura di interessi pubblici di cui oggi si sconosce la collocazione istituzionale. La tacita verità è che le norme contenute nella presente articolazione normativa rappresentano la prima tappa del progetto, mentre quelle contenute nel disegno di legge costituzionale approvato dal Governo Berlusconi il 13/09/2011 rappresentano la seconda ed ultima tappa del più ambizioso processo di soppressione delle Province.
Sbaglia quindi chi pensa, ingenuamente, che le Province continueranno ad esistere perché un ente privo di autonomia politica, privo di quella rappresentanza esponenziale delle comunità interessate e privo di quelle funzioni fondamentali, ovvero proprie, che legano l’istituzione al cittadino secondo il principio no taxation without representation non solo non è un ente territoriale di governo, ma non è neanche un modo corretto e funzionale di essere dei Comuni, atteso che in discussione non è la funzione o la dimensione del livello istituzionale ma la qualità dell’azione di governo affidata all’individuato ente. Peraltro, l’esperienza in materia di gestione associata di servizi di area vasta da parte dei Comuni conferma tale affermazione. Basti pensare all’esito delle autorità d’ambito territoriale ottimale per la gestione dei rifiuti e delle risorse idriche prima introdotte e poi espunte dal medesimo legislatore per accertata inadeguatezza del relativo modello istituzionale.
Orbene, non potendo, per i motivi su indicati, ri-argomentare le questioni sottese al rapporto Provincia/Territorio e Provincia/Costi non ci resta che illustrare alcuni dei limiti che le disposizioni di legge che ci occupano presentano sotto il profilo sistematico e costituzionale, non certo per fornire suggerimenti alla suprema Corte ma per continuare a dare il nostro contributo alla formazione di quella “cittadinanza competente”[8] che mantiene “cocciutamente” la responsabilità di sensibilizzare l’opinione pubblica per una “rimotivazione collettiva”[9], atteso che sono l’elites che “…risultano determinanti nel bene e nel male”[10] resistendo alle forze disgregatrici e difendendo le Istituzioni.
2. La decretazione d’urgenza
Preliminarmente va evidenziata l’inidoneità dello strumento legislativo della decretazione d’urgenza per introdurre interventi così invasivi nell’architettura del sistema delle autonomie locali, attesa l’assenza dei presupposti di necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77 della Costituzione. Presupposti che mancano per espressa ammissione del Governo Monti che, relativamente agli aspetti della finanza pubblica, attorno alla quale ruota la genesi del decreto Salva-Italia, nella parte dedicata alle Province, non omette di evidenziare che “il risparmio di spesa associabile al complesso normativo in esame – 65 milioni di euro lordi – è destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via prudenziale non viene considerato in quanto verrà registrato a consuntivo”[11]. Né tale vizio di costituzionalità può ritenersi sanato con la conversione in legge del decreto-legge, poiché tutto il meccanismo della procedura d’urgenza affidata al Governo si fonda su un potere legislativo di tipo derogatorio rispetto all’ordinaria funzione legislativa solennemente affidata dalla Costituzione al Parlamento (art. 70) e come tale non suscettibile di interpretazione estensiva.
Inoltre il Governo, attraverso la decretazione d’urgenza è intervenuto su una materia, qual’è certamente quella in questione, sottratta alla sua disponibilità. L’art. 14 della l. n. 400/88 ha espressamente chiarito che non possono formare oggetto di decretazione d’urgenza da parte del Governo le materie previste dall’art. 72, comma 4, della Costituzione, tra le quali sono incluse le norme di carattere costituzionale o elettorale. In questo senso va subito respinta l’eventuale eccezione dell’assenza di norme a contenuto costituzionale, in considerazione che l’artificio legislativo di mantenere solo formalmente in vita il contenitore Provincia non può reggere di fronte alla sostanziale opera demolitoria di un Ente a valenza costituzionale contenuta nelle disposizioni censurate. Dello stesso avviso è la dottrina secondo cui “Si potrebbe dibattere se le norme statali in questione violino il dettato formale della Costituzione, quello che possiamo dire è che sicuramente ne violino lo <<spirito>>”[12].
3. La tecnica legislativa
La tecnica legislativa utilizzata è delle peggiori perché introduce disposizioni normative su argomenti già ampiamente disciplinati da leggi precedenti senza alcuna avvertenza di coordinamento. Non si comprende infatti se alcune disposizioni vanno coordinate con quelle esistenti o si pongono in modo alternativo e/o sostitutivo secondo il principio della successione cronologica delle leggi. Già con Circolare del 24/02/1986 n. 1.1.26/10888.9.68 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’auspicare un processo di miglioramento qualitativo della produzione legislativa attraverso un affinamento ed una omogeneizzazione della tecnica di formulazione dei testi normativi, aveva scoraggiato le modifiche implicite o indirette di atti legislativi vigenti, privilegiando la modifica testuale della massima ampiezza possibile (“novella”). Nella medesima Circolare veniva scoraggiata altresì la tecnica delle abrogazioni implicite, sollecitando quanto più possibile forme di abrogazione esplicita.
Orbene, il comma 14 dell’art. 23 della l. n. 214/2011 così recita: “Spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. Detta disposizione collide non poco sia con l’art. 19 del TUEL (d.lgs. n. 267/2000) che attribuisce alle Province le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardano vaste zone intercomunale o l’intero territorio provinciale in dieci settori, che con la legge sul Federalismo fiscale n. 42/2009 che qualifica come “fondamentali” le funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo delle Province. Ma per tutte queste funzioni il legislatore sembra avere previsto “il grande rientro”. Il comma 18 del medesimo art. 23 prevede infatti che "Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 30 aprile 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 30 aprile 2012, si provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, con legge dello Stato". Quindi prepariamoci ad una grande operazione legislativa ed amministrativa di Stato e Regioni volta a fare rientrare tutte quelle funzioni amministrative nel tempo trasferite e/o attribuite alla Provincia. Come non condividere lo stupore dei primi commentatori su questa fantasiosa idea del legislatore[13].
Secondo il noto criterio cronologico della successione delle leggi saremmo infatti in presenza di un’abrogazione implicita di quelle parti del TUEL in contrasto con la novella legge (e col suo progetto!?), lasciando in vita ed all’interprete la sola esigenza di coordinamento del citato 2° comma dell’art. 19. Infatti la nuova disposizione, nell’attribuire alla Provincia “esclusivamente” le funzioni di indirizzo e di coordinamento, esclude implicitamente le precedenti funzioni ad essa espressamente assegnate per singolo settore.
L’unica funzione prevista dal TUEL in capo alle Province che potrebbe ritenersi salva, perché compatibile con le novelle disposizioni, rimane pertanto quella contenuta al 2° comma dell’art. 19 che, nei settori economico, produttivo, commerciale, turistico, sociale, culturale e sportivo, rimanda ad un’attività di collaborazione e coordinamento di programmi ed attività dei Comuni.
4. Il rapporto tra le fonti normative
In disparte la discutibile tecnica utilizzata dal legislatore per le ragioni già illustrate, una considerazione di merito concerne i rapporti gerarchici tra le fonti normative in discussione. Siamo infatti in presenza di norme primarie che ben possono essere modificate, sostituite ovvero abrogate dal medesimo legislatore ordinario. Tuttavia andrebbe in questa sede indagata meglio la portata normativa del TUEL, che certamente viene introdotto nell’ordinamento attraverso una norma primaria ma che, secondo una scala gerarchica a maglie più strette, si trova ad un gradino decisamente più alto di un’ordinaria legge approvata dal Parlamento. Siamo infatti in presenza di una norma, che “metabolizzando” la precedente legge di riforma delle autonomia locali n. 142/90, attua per la prima volta il principio di valorizzazione e promozione dell’autonomia locale contenuto nell’art. 5 della Costituzione. Trattandosi, quindi, di una norma attuativa di una previsione costituzionale, si ritiene che la stessa operi ad un livello superiore a quello della legge statale[14]. La Corte di Cassazione[15], evidenziando la portata innovativa del TUEL, ha affermato che tale legge ha profondamente inciso nei rapporti tra fonti normative e statali e locali.
E, sul piano della coerenza ordinamentale, come non evidenziare altresì la portata innovativa delle leggi Bassanini (legge n. 59/97 e d.lgs. n. 112/98) che in applicazione dell’art. 128 della Costituzione hanno trasferito alle Province un vasto ventaglio di funzioni amministrative. La legge n. 59 del 1997 contiene infatti un’ampia delega al Governo per l'attuazione, fra l'altro, di un organico disegno di ulteriore decentramento di funzioni (dopo quello realizzato, per quanto riguarda le Regioni, e sempre per via di legislazione delegata, in base all'art. 17 della legge n. 281 del 1970 e successivamente, con criteri meno restrittivi, in base all'art. 1 della legge n. 382 del 1975), comportando l'impiego, da parte del legislatore delegato, di tutta la gamma di strumenti costituzionalmente ammessi per il decentramento delle funzioni, dal trasferimento di nuove funzioni amministrative alle Regioni nelle materie di cui all'art. 117 della Costituzione (utilizzando i margini di flessibilità insiti nella definizione legislativa delle materie elencate dalla Costituzione), alla delega alle Regioni di funzioni in altre materie, alla attribuzione di funzioni agli enti locali.
Incoerente si profila la scelta del legislatore statale anche in rapporto con il sistema del Federalismo fiscale introdotto nell’ordinamento con la l. n. 42/2009 in attuazione dell’art. 119 Cost. ed in particolare con i principi ed i criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni fondamentali delle Province che incrociano inevitabilmente il pluralista disegno istituzionale. Infatti la prospettiva disegnata è quella di favorire un processo di razionalizzazione delle competenze e delle funzioni amministrative in capo ai soggetti istituzionali che, sulla base dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, sono, più di altri, in grado di esercitarle. Secondo questa prospettiva condivisibile è l’affermazione secondo cui “il senso complessivo del percorso avviato nel 2009 è proprio quello della predisposizione di un meccanismo di responsabilizzazione degli enti territoriali nel reperimento e nell’impiego delle risorse finanziarie”[16]. In tale contesto, si profila la violazione del principio di unicità per la non chiarezza della ripartizione funzionale, per l’assenza di responsabilizzazione degli amministratori e per la mancata ripartizione delle risorse finanziarie, atteso che “Il principio presente nella legge n. 59 del 1997, non è stato costituzionalizzato, ma lo si può considerare implicitamente compreso in quello di sussidiarietà”[17].
Incomprensibile diventa quindi l’attività del legislatore che da qualche anno ha avviato un processo centripeto di semplificazione istituzionale nei settori cruciali delle risorse idriche e dei rifiuti. La gestione sovra comunale in tali settori non è venuta meno a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 2, comma 186-bis, della legge n. 191/2009, come introdotto dall’articolo 1, comma 1-quinquies, del d.l. 2/2010, convertito con la legge n. 42/2010. Detta disposizione, infatti, nel prevedere la soppressione delle Autorità di Ambito, dispone che, entro un anno[18], “le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. In tale modo, “Il legislatore statale non ha voluto senz’altro ripudiare la scelta di gestire il servizio in un ambito sovraccomunale, ma soltanto consentire una ricollocazione delle funzioni (…) secondo le diverse esigenze dei territori e delle collettività regionali, prevedendo comunque (evidentemente, per ragioni di contenimento della spesa) l’eliminazione di un’entificazione autonoma del soggetto titolare delle funzioni”[19]. Chiaro l’intento del legislatore statale nell’indurre le Regioni a trasferire tali competenze all’ente locale di livello provinciale. Ora, come farà, ad esempio, la Regione Campania che con l.r. n. 4/2008 ha affidato le funzioni in materia di organizzazione, affidamento e controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti alle Province? A quale ente andranno attribuite dette funzioni visto che il livello comunale non sembra idoneo ad assicurare una gestione integrata e che gli ATO vanno soppressi?
5. Le funzioni di indirizzo e coordinamento
L’azione del legislatore con la quale si attribuiscono alla Provincia le sole funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni, nelle materie indicate con legge statale o regionale secondo le rispettive competenze, non è altro che un artificio, un raggiro, un abbindolamento normativo per mantenere solo formalmente in vita un ente locale al quale è stato notificato “il foglio di via” (rectius, espunzione) dall’ordinamento costituzionale. Non si comprende infatti in cosa possa consistere la funzione di indirizzo e coordinamento verso un altro livello istituzionale, quello comunale, che non è affatto sotto ordinato a quello provinciale per espressa volontà equi ordinatrice della Costituzione (art. 114). In un contesto ordinamentale in cui il principio di “sussidiarietà responsabile” da un lato e la spettanza al Comune di tutte le funzioni amministrative che riguardano il territorio comunale dall’altro, orientano le politiche pubbliche locali secondo il criterio della competenza, deve ritenersi azzardato ipotizzare che il ruolo del Comune possa essere confinato nell’ambito della mera attuazione di scelte precostituite dalla Provincia nell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. Invero, il nostro ordinamento conosce tale funzione ma nell’ambito del rapporto gerarchico tra le fonti del diritto (tra leggi cornice e leggi regionali in materie a competenza concorrente), ovvero, nel contesto della pubblica amministrazione, tra le amministrazioni a struttura gerarchica, all’interno delle quali la sede centrale indirizza e coordina le sedi periferiche.
Anche con l’esperienza della pianificazione territoriale di area vasta, contemplata dall’art. 15, comma 2, della legge n. 142/90 poi sostituito dall’art. 20, comma 2 del TUEL, è stato infatti affermato dalla giurisprudenza che “l’intervento amministrativo della Provincia potrà avvenire solo nei confronti di quegli atti che pur essendo stati posti in essere da altri enti, hanno un oggetto rientrante nelle competenze e attribuzioni della Provincia, non suscettibile al tempo stesso, di porsi in contrasto con la riconosciuta affermata autonomia normativa di altri enti”[20], atteso che le esigenze di tutela e salvaguardia delle autonomie locali, costituzionalmente garantite dall’art. 5 della Costituzione e formalmente attuate con la legge n. 142/90 prima e dal TUEL dopo, trovano riconoscimento nell’affermazione dell’autonomia normativa e regolamentare in capo ai Comuni.
Inoltre, ammesso che il legislatore statale/regionale possa stabilire, in questi termini e con questa temerarietà, quali funzioni fondamentali attribuire alle Province e, di converso, quali funzioni togliere in forza dell’art. 117, comma 2°, lett. p) della Cost., tale sorte non può essere riservata anche alle funzioni proprie, cioè a quelle funzioni storicamente esercitate dall’ente intermedio perché dotate di mirata copertura costituzionale. L’art. 118, comma 2°, della Cost. stabilisce infatti che “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. In tale contesto la Corte Costituzionale, pur negando che possa distinguersi fra le “funzioni fondamentali”, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), e le “funzioni proprie” degli enti locali, di cui all’art. 118, secondo comma, Cost.[21], e che il mancato riferimento, da parte del legislatore, alle funzioni proprie della Provincia non implica il disconoscimento dell’esistenza di un nucleo di funzioni intimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia degli enti locali sancito dall’art. 5 Cost[22], non ha escluso la utilità del criterio storico “per la ricostruzione del concetto di autonomia provinciale e comunale”, circoscrivendone l’utilizzabilità “a quel nucleo fondamentale delle libertà locali che emerge da una lunga tradizione e dallo svolgimento che esso ebbe durante il regime democratico”[23]. Può, invero, pacificamente ritenersi che siffatta posizione, costituzionalmente qualificata, sia anche funzionale alla migliore tutela delle prerogative di cui godono le Province, tra le quali vi è certamente il riconoscimento di un “diritto” all’integrità del proprio territorio (inteso come elemento costitutivo e identitario di qualunque categoria di enti in cui si articola la Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost.), della relativa popolazione (art. 133 Cost,) e delle funzioni proprie (art. 118 Cost.).
Nel caso in specie, occorre molta fantasia per ritenere che la sola ed “esclusiva” funzione di indirizzo e coordinamento possa rappresentare quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia della Provincia richiesto dalla Costituzione ed individuato dallo Stato ai sensi dell’art. 117. In tale contesto è veramente difficile pensare che una norma, per quanto caratterizzata da elementi riconducibili alle emergenziali esigenze di coordinamento e finanza pubblica, possa d’emblée sortire i prefigurati effetti demolitori contenuti nelle fondamentali leggi di riforma del sistema delle autonomie locali, considerato altresì che una tanto arbitraria configurazione del nuovo ente intermedio farebbe torto alla ragionevolezza di qualunque sistema giuridico.
6. La governance di 2° livello
I commi 15,16,17 e 20 dell’art. 23 disciplinano la forma di governo della nuova Provincia e, in coerenza col disegno criminoso, mirano a depotenziare la governance innestando un elezione mediata sia per il Presidente della Provincia che per i Consiglieri Provinciali. In sostanza il legislatore “scardina” la conquista dell’elezione diretta dell’organo monocratico introdotta nell’ordinamento degli enti locali con la legge n. 81/93 e prevede che il Presidente sia eletto da un Consiglio Provinciale i cui componenti, a loro volta, sono designati dai Comuni ricadenti nel territorio della stessa con modalità non ancora stabilite.
Sotto il profilo della governance, appare evidente che il sistema è annoverabile tra quelli di 2° grado, atteso che la nuova Provincia è espressione dei comuni che, invece, essendo enti di governo locale continuano a godere di un rapporto di fiducia diretta ed esponenziale con le comunità amministrate. E, in questa prospettiva, non desta alcuna meraviglia che gli organi di governo siano espressione dei Comuni e non della società civile. Infatti, “Il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo degli enti territoriali è strumento essenziale dell’autonomia, cui hanno riguardo gli artt. 5 e 128 della Costituzione. Non può ritenersi, invero, che quei principi non possano osservarsi, anche in caso di elezioni di secondo grado e, conseguentemente, non può escludersi la possibilità di siffatte elezioni, che, del resto sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato (art. 83)”[24].
Se però, un siffatto sistema di governance non presenta alcun vizio di costituzionalità, essendo riconosciuta allo Stato tale competenza (art. 117, comma 2, Cost.), sul piano funzionale e della coerenza istituzionale i rilievi sono numerosi. Infatti l’impatto sull’ordinamento locale dopo 152 anni[25] di sedimentazione di un modello fondato sulle Province sarebbe traumatico. In disparte il fatto che l’abolizione di organi di governo direttamente eletti produrrebbe risparmi assai limitati e costituirebbe solamente un pericoloso vulnus per la legittimazione democratica delle Istituzioni locali; nelle future Province verrebbe infatti azzerato il confronto tra le forze politiche, essendo potenzialmente possibile avere un Consiglio Provinciale composto da rappresentanti dei Comuni di omogenea estrazione politica.
Del resto, “E’ difficilmente negabile che la scelta popolare diretta del Capo dell’esecutivo non mediata dai partiti…instaura circuiti di legittimazione e di responsabilità politica in qualche misura autonomi, e quindi conduce ad una più marcata personalizzazione della politica ed alla valorizzazione del ruolo delle istituzioni a scapito di quello delle forze politiche”[26]. Ancora, sull’importanza della funzione elettiva degli organi della Provincia, è stato già detto che “Matura quindi la natura di ente elettivo rappresentativo, perché ci si convince sempre più che non c’è capacità di governo senza rappresentanza eletta, senza rendere conto agli elettori di come si governa”[27].
Il modello elettivo del sistema di governance di qualsiasi organizzazione pubblica ha refluenze anche sul grado di partecipazione del cittadino al processo di costruzione della decisione pubblica locale. Il ruolo della partecipazione dei cittadini alle articolazioni territoriali del potere pubblico può subire oscillazioni in relazione al concreto riparto di competenze stabilito, “ma deve, (ovunque) mantenere il medesimo significato e la medesima <<dignità>>”[28].
7. Gli organi di governo
Al comma 15 dell’art. 23 il legislatore prevedendo che gli organi di governo della Provincia sono il Consiglio Provinciale e il Presidente della Provincia - la cui durata in carica è mantenuta in cinque anni – sopprime, implicitamente, l’organo esecutivo della Giunta previsto dagli artt. 46, 47 e 48 del TUEL. Rispetto alle altre disposizioni questa sembra la più logica atteso che mantenere in vita tre organi (Presidente, Giunta e Consiglio) per esercitare solo una funzione di indirizzo e coordinamento delle attività comunali non avrebbe avuto veramente senso. Meno logico è non avere pensato a quale organo affidare le competenze attribuite dal TUEL alla Giunta che, oltre all'adozione dei regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, è competente in tutte le altre materie non espressamente attribuite ad altri Organi stante il potere residuale generale ad essa riconosciuta.
Per la verità è discutibile anche la permanenza di un Consiglio Provinciale così configurato; in disparte il silenzio del legislatore sulle competenze da attribuire, non si comprende infatti quali atti d’indirizzo politico possa esprimere un’assemblea priva di autonomia politica. Né è facilmente ipotizzabile che il Consiglio Provinciale possa esercitare una funzione di indirizzo politico nei confronti del Presidente della Provincia chiamato, a sua volta, ad esercitare la novella funzione di indirizzo e coordinamento sulle attività dei Comuni del comprensorio. Peraltro, che il legislatore non abbia tanta considerazione del nuovo organo consiliare lo si evince dal successivo comma 16 dedicato al numero dei componenti. Detta disposizione così recita: “Il Consiglio Provinciale è composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalità di elezione sono stabilite con legge dello Stato entro il 30 aprile 2012”. Orbene, senza ritornare nel merito della questione sottesa al sistema di 2° grado utilizzato, appare verosimile prefigurare uno scenario di futuri Consigli Provinciali i cui componenti, scelti “ovviamente” nel numero massimo di dieci, risultino privi di adeguata rappresentatività politica. Se infatti “è ancora vero” che in un ordinamento plurale come quello italiano la sovranità appartiene al popolo, che la esercita per il tramite di Istituzioni governate da propri rappresentanti democraticamente eletti, è impensabile che il legislatore possa consentire al Consiglio Provinciale di una Provincia di Roma, che copre più di 4 milioni di abitanti, di avere designati lo stesso numero di componenti del Consiglio Provinciale di Asti, che copre appena 220 mila abitanti, senza incorrere nella violazione dell’art. 3 Cost., per la disparità della disciplina introdotta.
Evidente, anche in questo caso, è l’obiettivo, cioè quello di consentire alle Province di parlare “invano” di tutto e di più senza incidere sulle decisioni pubbliche del territorio e comunque fino al programmato spegnimento dei “microfoni”.
8. Profili d’incostituzionalità
Per tentare di valutare con maggiori ed orientati strumenti interpretativi la conformità costituzionale dell’articolato delle disposizioni in questione, illuminante appare la sentenza della Corte Costituzionale[29] secondo cui “La Costituzione conferisce al legislatore statale, ai fini della realizzazione del disegno complessivo di autonomia ispirato ai principi di cui all'art. 5, sia il potere-dovere di regolare per ogni ramo della pubblica amministrazione "il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni" ai sensi dell'art. 118, primo comma (VIII disp. trans. e fin., secondo comma); sia il potere di "delegare alla Regione l'esercizio di altre funzioni amministrative" (art. 118, secondo comma); sia, infine, quello di attribuire direttamente alle Province, ai Comuni e agli altri enti locali le funzioni amministrative "di interesse esclusivamente locale" nelle materie di spettanza regionale (art. 118, primo comma), e più in generale di determinare le funzioni di Province e Comuni con le "leggi generali della Repubblica" che fissano i principi della loro autonomia (art. 128). Nell'esercizio di questi poteri il legislatore statale gode di spazi di discrezionalità: così nello scegliere le materie in cui delegare alle Regioni ulteriori funzioni; nell'individuare direttamente le funzioni di interesse esclusivamente locale attribuite agli enti locali o nel demandare invece alla Regione, nell'esercizio della sua potestà legislativa e anche in attuazione del principio del "normale" esercizio decentrato delle funzioni amministrative della medesima (art. 118, terzo comma), il compito di identificare specificamente la dimensione dei relativi interessi "in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio", come ad esempio si esprime l'art. 3, comma 2, della legge n. 142 del 1990 sull'ordinamento delle autonomie locali; o ancora nell'individuare le esigenze e gli strumenti di raccordo fra diversi livelli di governo per un esercizio coordinato delle funzioni o per attuare la cooperazione nelle materie in cui coesistano competenze diverse”.
La Costituzione sembra quindi riconoscere al legislatore statale una discrezionalità piena in materia, tuttavia per rispondere compiutamente al quesito bisogna leggere con attenzione la seconda parte della medesima sentenza, allorquando il Giudice delle leggi afferma che “Ciò che rileva dal punto di vista costituzionale é che non siano violate le sfere di attribuzioni garantite alle Regioni, nonchè, a livello di principio, a Comuni e Province, dalle norme costituzionali, e più in generale che la disciplina del riparto di competenze e dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali sia in armonia con le regole e i principi derivanti dalle stesse norme costituzionali. La scelta, entro questi limiti, di modelli di riparto di funzioni e di disciplina di rapporti più nettamente ispirati al potenziamento del ruolo della Regione anche per quanto attiene all'assetto delle funzioni degli enti locali, ovvero invece alla determinazione diretta, con legge statale, di sfere di attribuzioni amministrative degli enti locali, garantite a priori anche nei confronti del legislatore regionale, rientra nell’ambito delle legittime scelte di politica istituzionale, che possono volta a volta avvalersi di questo o quello strumento apprestato in questo campo dalle norme costituzionali, e che non hanno ragione di essere discusse in questa sede, se non quando si tratti di verificare in concreto l'osservanza dei limiti costituzionalmente imposti”. Più recentemente, è stato affermato dalla medesima Corte Costituzionale che “ogni momento della vita di un ente locale è devoluto dal legislatore costituzionale alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, con la conseguenza che appare in re ipsa che siffatta devoluzione includa anche il momento genetico basilare della istituzione stessa di un ente locale, nelle sue componenti geografiche e personali, ivi compresa la fissazione del numero minimo di abitanti”[30].
Corollario di queste autorevoli argomentazioni è che il legislatore statale, come anche quello regionale ad autonomia particolare, può (nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni costituzionali), in presenza di esigenze di carattere generale, articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, “con il limite della permanenza di almeno una sfera adeguata di funzioni”[31]. La giurisprudenza della Corte Costituzionale[32] è ferma nel sostenere che una disposizione come quella di cui all’art. 5 della Costituzione certamente impegna la Repubblica, e anche quindi le Regioni ad autonomia speciale, a riconoscere e a promuovere le autonomie, ed ha anche aggiunto che le leggi regionali possono bensì regolare l’autonomia degli enti locali, ma mai comprimere fino a negarla. Analogamente, si è ritenuto doveroso il “coinvolgimento degli enti locali infraregionali alle determinazioni regionali di ordinamento”, in considerazione “dell’originaria posizione di autonomia ad essi riconosciuta”[33].
L’assenza di una qualche forma preventiva di raccordo e/o concertazione istituzionale con gli enti locali coinvolge sia le Province, direttamente interessate dall’azione legislativa di degradazione, che i Comuni, verso i quali si rileva il silenzio del legislatore in merito a modalità organizzative e finanziarie connesse ai programmati trasferimenti di funzioni. Ne deriva una palese irragionevolezza, che si riverbera inevitabilmente sia sul principio di leale collaborazione tra le Istituzione della Repubblica che sull’autonomia finanziaria dei medesimi Comuni.
9. Il ruolo delle Regioni
Nel perseguire il citato disegno “criminoso” il legislatore statale chiama in correità anche le Regioni. Il comma 18 dell’art. 23 stabilisce infatti che le Regioni, con propria legge, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, pena l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato ai sensi dell’art. 8 della l. n. 131/2003.
Neanche le Regioni a statuto speciale sembrano risparmiate dal fornire il proprio contributo. Il comma 20-bis dell’art. 23, aggiunto nella seconda versione del decreto-legge n. 201, così recita: “Le regioni a statuto speciale adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 2° entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Le medesime disposizioni non si applicano per le province autonome di Trento e Bolzano”[34].
Tuttavia, la disposizione normativa prevista per le Regioni a statuto speciale presenta un vistoso vizio di costituzionalità, configurando un intervento “a gamba tesa” verso una competenza legislativa che tali Regioni esercitano in via esclusiva in forza dei rispettivi statuti, soprattutto all’indomani della legge costituzionale n. 2/93 che estende a tutti le Regioni ad autonomia differenziata il medesimo livello di autonomia già riconosciuto alla Regione Sicilia in tema di ordinamento degli enti locali.
Rinviando integralmente alle argomentazioni di cui al paragrafo precedente in ordine ai profili d’incostituzionalità e ad uno specifico approfondimento dedicato al caso siciliano[35], stimolato da questioni analoghe contenute nel precedente decreto-legge n. 138 del 13/08/2011, possiamo qui aggiungere che la Regione ad autonomia differenziata non è vincolata all’osservanza, come invece preteso dall’odierno legislatore, di uno specifico modello istituzionale analogo alla legislazione statale per disciplinare l’assetto degli enti locali ma, come già affermato per la Regione Friuli-Venezia-Giulia, “deve rispettare il principio autonomistico o – meglio ancora – tramite le sue autonome determinazioni <<deve favorire la piena realizzazione dell’autonomia degli enti locali>>”[36].
Invero, anche il termine del 31/12/2012, entro il quale trasferire ai Comuni le funzioni delle Province, peraltro privo di sanzione nel caso di inosservanza, più che essere considerato ordinatorio è da intendersi alla stregua di una non vincolante “raccomandazione”.
Pertanto, sulla base delle argomentazioni illustrate nei paragrafi precedenti, è da escludere che interventi normativi di portata così invasiva, anche se inseriti nel contesto di una norma finanziaria, possano annoverarsi tra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico ovvero tra le norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, né, tanto meno, tra i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, attesa la più volte citata ammissione sull’incertezza finanziaria contenuta nella relazione tecnica governativa allegata al decreto legge n. 201 del 06/12/2011.
L’incostituzionalità di cui è verosimilmente affetta la disposizione normativa in commento non esime anche le Regioni a statuto speciale dalla opportunità/necessità di ricorrere alla Corte Costituzionale per sentirsi confermare le proprie lagnanze. Interessante sarebbe infatti conoscere il pensiero del Giudice delle leggi chiamato a sindacare il novello impianto normativo in rapporto al principio di autonomia locale contenuto sia nell’art. 5 della Costituzione che nell’art. 4, par. 4, della “Carta europea delle autonomie locali”, ratificata dall’Italia con la l. n. 439/1989, che nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” incorporata nel Trattato (2010/C-2010)[37].
10. Considerazioni finali
In teoria, è anche possibile immaginare un sistema di “enti intermedi” costituito da proiezioni organizzative e funzionali degli enti locali necessari (Comuni), con i medesimi uffici delle soppresse province, atteso che forme di coordinamento intercomunale sono state sperimentate in quelle realtà che per l’assenza di un livello intermedio tra i comuni e la regione (o lo Stato) affidano ai “consorzi di comuni” i compiti di gestione di aree territoriali che comprendono diversi municipi (i syndicats de comune in Lussemburgo), ma l’esperienza ci dice che mettere d’accordo tra loro 20 o 100 comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato, e non è detto costi meno che mantenere tali funzioni in capo ad enti territoriali autonomi come le attuali province. Infatti “i modelli associativi sopra descritti non risolvono sempre in modo convincente la questione fondamentale dei rapporti tra l’Ente associativo e le rispettive rappresentanze locali, soprattutto in sede di adozione delle scelte di governo”[38]. Basti pensare alla recentissima esperienza dei consorzi e società d'ambito per la gestione integrata dei rifiuti che in Sicilia ha già maturato un debito di oltre un miliardo di euro, per il quale il Governo regionale è ancora impegnato ad accendere uno specifico mutuo bancario.
Secondo questo ragionamento è quindi certamente da respingere la soluzione trovata dal legislatore atta a (ri)configurare le Province quale proiezione istituzionale dei Comuni, con rappresentanza di 2° grado, atteso che la perdita dello status di ente territoriale di governo comporta un’indebita intromissione nell’originaria autonomia organizzativa e funzionale delle Province, autonomia che è garantita dagli artt. 5 e 128 della Costituzione non solo nei confronti dello Stato e delle Regioni ad autonomia ordinaria, ma altresì nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale.
Di fronte a cotanta evidenza saremmo ancora una volta tentati di pretendere una risposta su tutto ciò e di insistere ancora una volta nel tentativo, inascoltato, di far comprendere all’opinione pubblica prima, e ai “decisori” dopo, che costi della politica e costi della democrazia non sempre sono due facce della stessa medaglia, ma forse è più comodo trincerarsi dietro le parole dell’opera teatrale di Pirandello: Così è (se vi pare).
[1] Si vedano le riflessioni contenute nel volume “La faccia intermedia del Leviatano”, Novagraf, dicembre 2011, Assoro(EN).
[2] Fabrizio Barca, “Per il sud l’ora della concretezza”, Il Sole 24Ore, 24/12/2011.
[3] L’Unione delle Province Italiane, riuniti i propri organi il 21/12/2011, ha infatti deciso di promuovere la convocazione temporanea di tutti i Consigli Provinciali per il 31 gennaio 2012 e chiedere alle Regioni di attivare tutte le iniziative per impugnare il decreto legge in questione presso la Corte Costituzionale qualora fosse stato convertito in legge mantenendo le lesive norme sulle Province.
[4] Corte Cost. ordinanza 24/04/2009 n. 120.
[5] Tra le altre, si veda la sent. n. 533/2002, sulla quale si può leggere il commento di C. Padula, La problematica legittimazione delle Regioni ad agire a tutela della propria posizione di enti «esponenziali» (Nota a sent. Corte cost. n. 533/2002), in Forum di Quaderni Costituzionali. Si vedano anche le sentt. nn. 303/2003 e 196/2004. In generale, poi, sul problema in esame si veda F. Drago, I ricorsi in via d’azione tra attuazione del titolo V e giurisprudenza costituzionale (il giudizio in via principale delle leggi dopo i problemi legati allo jus superveniens), in Giur. cost. 2004, 6, 4787.
[6] In mancanza del Consiglio regionale delle Autonomie Locali e della possibilità di adire direttamente il Giudice delle leggi la tutela costituzionale delle prerogative degli Enti locali è affidata alle Regioni nell’esercizio di un riconosciuto potere di agire nel giudizio costituzionale. Con sentenza n. 343/91 la Corte Costituzionale ha configurato la Regione come “centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali”. Tale ruolo, relativamente alle regioni ad autonomia ordinaria, risultava, in particolare, dall’art. 3 della l. n. 142/90 e risulta oggi dall’art. 4 del TUEL; relativamente alle regioni ad autonomia speciale, esso è implicito nella loro attuale competenza in materia di ordinamento degli enti locali.
[7] La legislazione ordinaria (art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000) prevede una categoria di enti a valenza territoriale diversa rispetto a quella privilegiata degli enti locali che contribuiscono a formare la Repubblica ai sensi dell’art. 114.
[8] Carlo Carboni, “Parabola dei talenti per le élite”, Il Sole 24Ore, 09/05/2009.
[9] Pietro Barcellona, “Schiavi della solitudine, ripartiamo dall’amicizia”, La Sicilia, 30/12/2011.
[10] Pietro Grilli di Cortona, “Come gli stati diventano democratici”, Laterza, Roma-Bari 2009.
[11] Espressione tratta dalla Relazione tecnica del Governo che illustra il decreto legge.
[12] Alessandro Sterpa, “Il Decreto-legge n. 138 del 2011: riuscirà la Costituzione a garantire l’autonomia di Regioni e Comuni?”, Federalismi.it, 19/08/2011.
[13] Luigi Oliveri, “Province: la clausola <<Stella-Rizzo>> che non fa risparmiare nulla, ma che fa tanta <<audience>>.
[14] Corte Cost. 18 maggio 1959 n. 30, Corte Cost. n. 13/1974.
[15] Corte Cass. Sez. Unite Civ., sent. 16/06/2005 n. 12868.
[16] Giulio M. Salerno, “Che fine farà il Federalismo fiscale?”, Federalismi.it, 28/12/2011.
[17] Francesco Merloni, “Il riordino del sistema istituzionale e l’individuazione delle funzioni delle autonomie locali”, Amministrazione In Cammino, 20/10/2008.
[18] Termine prorogato al 31/1272012 dall’art. 13, comma 2°, del d.l. n. 29 dicembre 2011, n. 216 c.d. “mille proroghe”.
[19] Tar Umbria sent. n. 402/2010.
[20] Cons. Stato, sent. 20/03/2000 n. 1493.
[21] Corte Cost. sent. n. 238/2007.
[22] Corte Cost. sent. n. 238/2007.
[23] Corte Cost. sent. n. 52/1969.
[24] Corte Cost. sent. n. 96/68.
[25] La Legge comunale e provinciale del 1865 estese a tutt’Italia le previsioni della Legge Rattazzi del 1859 che per prima disegnò l’ente intermedio sulla scia del modello francese dei dipartimenti.
[26] Giovanni Pitruzzella, “Se il Presidente val meno di un Sindaco”, Cronache Parlamentari, gennaio/2000.
[27] Giuseppe Campos Venuti, Relazione all’Assemblea Nazionale dell’U.P.I. sul tema “Identità e ruolo della Provincia nel sistema delle autonomie”, Palazzo Doria Pamphili, Roma 6-7/10/1994.
[28] Simone Pajno, “L’adeguamento automatico degli Statuti speciali”, Federalismi.it, n. 23/2008.
[29] Corte Cost. sent. n. 408/98.
[30] Corte Cost. Sent. n. 261/2011.
[31] Corte Cost. sent. nn. 378/2000, 286/97, 83/97.
[32] Corte Cost. sent. n. 83/97.
[33] Corte Cost. sent. n. 229/2001.
[34] In questa occasione il legislatore non ha inserito la disposizione normativa di stile che tradizionalmente viene utilizzata per le Regioni a statuto speciale: “Le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e delle relative norme d’attuazione”.
[35] Si consenta il rinvio a Massimo Greco “La soppressione delle Province in territorio siciliano”, su AmbienteDiritto.it – Rivista giuridica pubblicata sul web all’indirizzo www.ambientediritto.it, 24/08/2011; su “Persona e Danno” – Rivista giuridica elettronica, pubblicata sul web all’indirizzo www.personaedanno.it, 24/08/2011; su Lexambiente – Rivista giuridica sull’ambiente pubblicata su internet all’indirizzo www.lexambiente.it, 25/08/2011; sul portale dell’Associazione Siciliana Amministratori Enti Locali (ASAEL) pubblicato su internet all’indirizzo www.asael.pa.it, 25/08/2011; sull’Organo d’informazione dell’Unione Regionale delle Province Siciliane, pubblicato sul web all’indirizzo www.urps.it, 29/08/2011; su Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica, pubblicata su internet all’indirizzo http://WWW.diritto.it, ISSN 1127-8579, 01/09/2011; in Osservatorio Giuridico “La Previdenza”, pubblicato su internet all’indirizzo www.laprevidenza.it, 10/09/2011; su “Norma”, quotidiano d’informazione giuridica, pubblicato su internet all’indirizzo http://www.norma.dbi.it/index.jsp, 24/08/2011; su “La faccia intermedia del Leviatano”, Novagraf, dicembre 2011, Assoro(EN).
[36] Corte Cost. sent. n. 238/2007.
[37] Nel nostro ordinamento, tra i principi fondamentali aventi forza costituzionale rafforzata vanno considerati quelli derivanti dal diritto internazionale e dei Trattati Europei.
[38] Marco Mordenti e Pasquale Monea, “Le unioni di Comuni, dall’unità d’Italia alla manovra di ferragosto”, LexiItalia, n. 9/2011.
[2] Fabrizio Barca, “Per il sud l’ora della concretezza”, Il Sole 24Ore, 24/12/2011.
[3] L’Unione delle Province Italiane, riuniti i propri organi il 21/12/2011, ha infatti deciso di promuovere la convocazione temporanea di tutti i Consigli Provinciali per il 31 gennaio 2012 e chiedere alle Regioni di attivare tutte le iniziative per impugnare il decreto legge in questione presso la Corte Costituzionale qualora fosse stato convertito in legge mantenendo le lesive norme sulle Province.
[4] Corte Cost. ordinanza 24/04/2009 n. 120.
[5] Tra le altre, si veda la sent. n. 533/2002, sulla quale si può leggere il commento di C. Padula, La problematica legittimazione delle Regioni ad agire a tutela della propria posizione di enti «esponenziali» (Nota a sent. Corte cost. n. 533/2002), in Forum di Quaderni Costituzionali. Si vedano anche le sentt. nn. 303/2003 e 196/2004. In generale, poi, sul problema in esame si veda F. Drago, I ricorsi in via d’azione tra attuazione del titolo V e giurisprudenza costituzionale (il giudizio in via principale delle leggi dopo i problemi legati allo jus superveniens), in Giur. cost. 2004, 6, 4787.
[6] In mancanza del Consiglio regionale delle Autonomie Locali e della possibilità di adire direttamente il Giudice delle leggi la tutela costituzionale delle prerogative degli Enti locali è affidata alle Regioni nell’esercizio di un riconosciuto potere di agire nel giudizio costituzionale. Con sentenza n. 343/91 la Corte Costituzionale ha configurato la Regione come “centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali”. Tale ruolo, relativamente alle regioni ad autonomia ordinaria, risultava, in particolare, dall’art. 3 della l. n. 142/90 e risulta oggi dall’art. 4 del TUEL; relativamente alle regioni ad autonomia speciale, esso è implicito nella loro attuale competenza in materia di ordinamento degli enti locali.
[7] La legislazione ordinaria (art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000) prevede una categoria di enti a valenza territoriale diversa rispetto a quella privilegiata degli enti locali che contribuiscono a formare la Repubblica ai sensi dell’art. 114.
[8] Carlo Carboni, “Parabola dei talenti per le élite”, Il Sole 24Ore, 09/05/2009.
[9] Pietro Barcellona, “Schiavi della solitudine, ripartiamo dall’amicizia”, La Sicilia, 30/12/2011.
[10] Pietro Grilli di Cortona, “Come gli stati diventano democratici”, Laterza, Roma-Bari 2009.
[11] Espressione tratta dalla Relazione tecnica del Governo che illustra il decreto legge.
[12] Alessandro Sterpa, “Il Decreto-legge n. 138 del 2011: riuscirà la Costituzione a garantire l’autonomia di Regioni e Comuni?”, Federalismi.it, 19/08/2011.
[13] Luigi Oliveri, “Province: la clausola <<Stella-Rizzo>> che non fa risparmiare nulla, ma che fa tanta <<audience>>.
[14] Corte Cost. 18 maggio 1959 n. 30, Corte Cost. n. 13/1974.
[15] Corte Cass. Sez. Unite Civ., sent. 16/06/2005 n. 12868.
[16] Giulio M. Salerno, “Che fine farà il Federalismo fiscale?”, Federalismi.it, 28/12/2011.
[17] Francesco Merloni, “Il riordino del sistema istituzionale e l’individuazione delle funzioni delle autonomie locali”, Amministrazione In Cammino, 20/10/2008.
[18] Termine prorogato al 31/1272012 dall’art. 13, comma 2°, del d.l. n. 29 dicembre 2011, n. 216 c.d. “mille proroghe”.
[19] Tar Umbria sent. n. 402/2010.
[20] Cons. Stato, sent. 20/03/2000 n. 1493.
[21] Corte Cost. sent. n. 238/2007.
[22] Corte Cost. sent. n. 238/2007.
[23] Corte Cost. sent. n. 52/1969.
[24] Corte Cost. sent. n. 96/68.
[25] La Legge comunale e provinciale del 1865 estese a tutt’Italia le previsioni della Legge Rattazzi del 1859 che per prima disegnò l’ente intermedio sulla scia del modello francese dei dipartimenti.
[26] Giovanni Pitruzzella, “Se il Presidente val meno di un Sindaco”, Cronache Parlamentari, gennaio/2000.
[27] Giuseppe Campos Venuti, Relazione all’Assemblea Nazionale dell’U.P.I. sul tema “Identità e ruolo della Provincia nel sistema delle autonomie”, Palazzo Doria Pamphili, Roma 6-7/10/1994.
[28] Simone Pajno, “L’adeguamento automatico degli Statuti speciali”, Federalismi.it, n. 23/2008.
[29] Corte Cost. sent. n. 408/98.
[30] Corte Cost. Sent. n. 261/2011.
[31] Corte Cost. sent. nn. 378/2000, 286/97, 83/97.
[32] Corte Cost. sent. n. 83/97.
[33] Corte Cost. sent. n. 229/2001.
[34] In questa occasione il legislatore non ha inserito la disposizione normativa di stile che tradizionalmente viene utilizzata per le Regioni a statuto speciale: “Le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e delle relative norme d’attuazione”.
[35] Si consenta il rinvio a Massimo Greco “La soppressione delle Province in territorio siciliano”, su AmbienteDiritto.it – Rivista giuridica pubblicata sul web all’indirizzo www.ambientediritto.it, 24/08/2011; su “Persona e Danno” – Rivista giuridica elettronica, pubblicata sul web all’indirizzo www.personaedanno.it, 24/08/2011; su Lexambiente – Rivista giuridica sull’ambiente pubblicata su internet all’indirizzo www.lexambiente.it, 25/08/2011; sul portale dell’Associazione Siciliana Amministratori Enti Locali (ASAEL) pubblicato su internet all’indirizzo www.asael.pa.it, 25/08/2011; sull’Organo d’informazione dell’Unione Regionale delle Province Siciliane, pubblicato sul web all’indirizzo www.urps.it, 29/08/2011; su Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica, pubblicata su internet all’indirizzo http://WWW.diritto.it, ISSN 1127-8579, 01/09/2011; in Osservatorio Giuridico “La Previdenza”, pubblicato su internet all’indirizzo www.laprevidenza.it, 10/09/2011; su “Norma”, quotidiano d’informazione giuridica, pubblicato su internet all’indirizzo http://www.norma.dbi.it/index.jsp, 24/08/2011; su “La faccia intermedia del Leviatano”, Novagraf, dicembre 2011, Assoro(EN).
[36] Corte Cost. sent. n. 238/2007.
[37] Nel nostro ordinamento, tra i principi fondamentali aventi forza costituzionale rafforzata vanno considerati quelli derivanti dal diritto internazionale e dei Trattati Europei.
[38] Marco Mordenti e Pasquale Monea, “Le unioni di Comuni, dall’unità d’Italia alla manovra di ferragosto”, LexiItalia, n. 9/2011.