Cass. Sez. III n. 18269 del 3 maggio 2023 (UP 13 apr 2023)
Pres. Ramacci Rel. Liberati Ric. D’Andrioa ed altro
Urbanistica.Fiscalizzazione illecito edilizio
La disciplina prevista dall’art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, avente a oggetto la procedura di cosiddetta “fiscalizzazione dell’illecito edilizio” trova applicazione, in via esclusiva, per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità al titolo abilitativo
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 23 maggio 2022 la Corte d’appello di Lecce ha riformato la sentenza del Tribunale di Lecce del 21 febbraio 2019 dichiarando non doversi procedere nei confronti di Roberto D’Andria per essere i reati ascrittigli estinti per morte dell’imputato, confermando nel resto la sentenza impugnata, con la quale il Tribunale di Lecce aveva dichiarato Andrea Salvatore D’Andria e Maria Lucia Fanizza responsabili dei reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 d.lgs. n. 42 del 2004 (per avere realizzato, in area sottoposta a vincolo paesaggistico e idrogeologico e in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, un fabbricato della superficie di mq. 77,48 e mc. 209,20 a uso residenziale, suddiviso da tramezzature che formavano tre ambienti composti ciascuno da una camera da letto e servizio igienico, oltre un ingresso e un corridoio, completamente rifinito, con annessa una struttura ombreggiante in legno della superficie di mq. 8,65 costituita da pilastrini in legno e fissati al balcone del primo piano; accertato in Porto Cesareo il 16 marzo 2017), e li aveva condannati alla pena di mesi cinque di arresto ed euro 25.000,00 di ammenda ciascuno, disponendo per entrambi la sospensione condizionale della pena subordinatamente alla eliminazione, ad opera dei due imputati, delle conseguenze dannose dei reati, tramite demolizione delle opere abusive e rimessione in pristino dello stato dei luoghi, da eseguirsi nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza.
2. Avverso tale sentenza gli imputati hanno presentato due distinti ricorsi per cassazione.
3. Il ricorso presentato, mediante l’Avvocato Riccardo Giannuzzi, da Andrea Salvatore D’Andria consta di tre motivi.
3.1. Con il primo motivo ha lamentato l’inosservanza ed erronea applicazione di disposizioni di legge penale con riferimento agli artt. 29 e 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e la manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato la penale responsabilità dell’imputato con riferimento alle fattispecie di reato lui contestate, quale utilizzatore dell’immobile ritenuto abusivo e figlio dei proprietari dell’immobile medesimo, in assenza di prova certa della effettiva committenza da parte del ricorrente delle opere abusive; e ciò tenuto conto della circostanza che l’art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001 indica quali soggetti responsabili ai fini e per gli effetti delle disposizioni contenute nel medesimo Testo Unico soltanto il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore e il direttore dei lavori.
3.2. Con il secondo motivo ha lamentato l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 131 bis cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione sul punto, avendo la Corte territoriale escluso l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto nonostante la condotta oggetto della imputazione avesse avuto carattere episodico e nonostante l’opera edilizia abusiva si inserisse su un fabbricato già regolarmente assentito e inserito a sua volta nel contesto di un centro urbanizzato densamente abitato, in conformità allo strumento urbanistico generale.
3.3. Con il terzo motivo ha lamentato la violazione di disposizioni di legge penale in relazione agli artt. 34 e 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 165 cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha subordinato la sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza impugnata, nonostante la demolizione delle opere in oggetto, poste al primo piano, fosse pregiudizievole per la stabilità del piano terra, la cui costruzione era avvenuta in base a legittimo permesso di costruire; e ciò, in particolare, tenendo conto della circostanza che l’art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede, nei casi in cui non si possa procedere alla demolizione se non a rischio di pregiudicare la parte regolarmente assentita, la possibilità di applicare una sanzione pari al doppio del costo di produzione in luogo della sanzione della demolizione.
4. Il ricorso presentato, mediante l’Avvocato Giuseppe Romano, da Maria Lucia Fanizza consta anch’esso di tre motivi.
4.1. Con il primo motivo la ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 192, 533 e 535 cod. proc. pen. e la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, avendo la Corte territoriale pronunciato sentenza di condanna sulla base dell’erroneo presupposto che l’imputata fosse proprietaria dell’immobile di cui si discute, e ciò nonostante dalle produzioni documentali si evincesse chiaramente che la medesima ne era in realtà solamente usufruttuaria, peraltro solo formalmente; dichiarando l’imputata penalmente responsabile dei reati alla medesima ascritti, la Corte territoriale aveva, inoltre, del tutto obliterato le dichiarazioni dei testi Quatraro e Spagnolo, alla luce delle quali era stato il figlio, Andrea Salvatore D’Andria, a interessarsi in prima persona delle opere e ad abitare l’immobile nel periodo in cui i lavori abusivi erano iniziati. La responsabilità della ricorrente non potrebbe neppure emergere dalla circostanza che la stessa fosse a conoscenza della attività svolta dal figlio, configurandosi in questo caso una condotta di connivenza non punibile, tale da non assurgere neppure al livello del concorso morale.
4.2. Con il secondo motivo ha lamentato l’erronea applicazione di disposizioni di legge penale e la manifesta illogicità della motivazione, con riferimento all’art. 131 bis cod. pen. La Corte territoriale avrebbe dedotto l’inapplicabilità della causa di non punibilità dalla mera ricorrenza di quei presupposti che la legge richiede perché siano integrate le fattispecie di reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 e di cui all’art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, e cioè, rispettivamente, l’assenza del permesso di costruire e l’assenza di autorizzazione paesaggistica, e ha sottolineato la avvenuta violazione nel caso di specie di norme giuridiche poste a tutela di due beni giuridici diversi, senza tenere conto della circostanza che la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. è applicabile indipendentemente dalla natura del bene giuridico tutelato dalle norme violate. Neppure l’inapplicabilità della causa di non punibilità potrebbe desumersi dalla sussistenza nel caso di specie del concorso formale di reati, poiché la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto non è preclusa dalla presenza di più reati legati dal vincolo del concorso formale o della continuazione, dal momento che l’istituto della continuazione non implica l’abitualità del comportamento. La causa di non punibilità avrebbe dovuto, quindi, trovare applicazione nel caso di specie, avendo la condotta tenuta dalla ricorrente assunto i caratteri della non gravità e della occasionalità, ed essendo l’imputata medesima incensurata.
4.3. Con il terzo motivo ha lamentato la violazione di disposizioni di legge penale con riferimento agli artt. 132 e 133 cod. pen. e il vizio della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio, oltre che l’erronea applicazione dell’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 e degli artt. 163 e 165 cod. pen. La Corte territoriale avrebbe motivato il rigetto del motivo di appello relativo alla riduzione del trattamento sanzionatorio senza tener conto degli elementi dedotti in appello, in particolare: la precarietà dell’opera realizzata, l’assenza di pregiudizi arrecati a terzi e la personalità della ricorrente. Quanto, invece, alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo, la Corte territoriale ha confermato la pronuncia di primo grado senza tener conto della circostanza che la demolizione non potrà avvenire per iniziativa della ricorrente, priva com’è la medesima di qualsivoglia diritto sull’immobile realizzato: tale situazione renderebbe la pronuncia della Corte d’appello sul punto del tutto illegittima e ingiusta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso presentato da Andrea Salvatore D’Andria è manifestamente infondato, mentre quello presentato da Maria Lucia Fanizza è fondato quanto al terzo motivo.
2. Il primo motivo del ricorso proposto da Andrea Salvatore D’Andria, avente a oggetto la violazione di disposizioni di legge penale e il vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta responsabilità penale dell’imputato quale utilizzatore dell’immobile, è manifestamente infondato. La Corte d’appello ha motivato adeguatamente circa gli elementi probatori posti a fondamento della dichiarazione di penale responsabilità del ricorrente D’Andria, elementi tali da escludere che il medesimo potesse essere considerato mero “utilizzatore” dell’immobile. In particolare, la Corte territoriale ha richiamato le dichiarazioni rese dai testi Quatraro e Spagnolo, i quali durante l’esame testimoniale hanno riferito che l’imputato abitava nell’immobile già nell’ottobre 2016, in concomitanza con l’inizio dei lavori, e che il medesimo si interessava in prima persona della realizzazione dell’opera abusiva. Pertanto, poiché in base a quanto affermato dai testi risultava provata l’attiva partecipazione dell’imputato ai fatti, la Corte territoriale ha in modo logico ritenuto di dover escludere la estraneità ai fatti del ricorrente e, con motivazione congrua e immune da vizi logici, ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della decisione di confermare la sentenza di condanna emessa in primo grado. A fronte di tale motivazione, con il primo motivo di ricorso l’imputato, pur denunciando formalmente la violazione di legge e il vizio di motivazione, solleva in realtà delle censure in fatto relative alla propria partecipazione alla realizzazione delle opere, proponendo una ricostruzione dei fatti alternativa a quella fatta propria dai giudici di primo e secondo grado; si tratta di profili di merito non censurabili in sede di legittimità e su cui peraltro la Corte territoriale si è adeguatamente pronunciata. Pertanto, il primo motivo di ricorso risulta inammissibile perché relativo alla ricostruzione degli aspetti fattuali della vicenda, oltre che manifestamente infondato, alla luce di quanto accertato circa la partecipazione del ricorrente alla realizzazione delle opere abusive.
3. Il secondo motivo del ricorso D’Andria, avente ad oggetto la erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata applicazione all’imputato della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen., è manifestamente infondato. Il ricorrente riproduce con il presente motivo censure già sollevate in sede di appello e adeguatamente disattese dalla Corte territoriale. Quest’ultima, in particolare, con motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha motivato la decisione di escludere l’applicabilità della causa di non punibilità ponendo l’accento sulla oggettiva consistenza dell’intervento abusivo, nonché sulla circostanza che gli imputati con la propria condotta illecita hanno violato norme di legge poste a tutela di due differenti beni giuridici, quali il territorio e il paesaggio. Il ricorrente mostra di non confrontarsi con il contenuto della motivazione e richiama elementi di fatto in parte già valutati dalla Corte d’appello ed in parte del tutto irrilevanti nell’ottica di escludere la ritenuta gravità dell’illecito, quale la circostanza che il manufatto abusivo accede a un’opera legittimamente costruita. Per queste ragioni, il secondo motivo di ricorso risulta privo della necessaria specificità, ossia del prescritto confronto critico con le ragioni poste a fondamento della decisione censurata, di contenuto non consentito nel giudizio di legittimità e, comunque, manifestamente infondato.
4. Il terzo motivo del ricorso D’Andria, avente a oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla eliminazione delle opere abusive, è manifestamente infondato perché generico. Come affermato dalla Corte territoriale, la circostanza che la stabilità del piano terra dell’immobile sarebbe pregiudicata dalla demolizione del piano superiore abusivamente realizzato non è stata provata dalla difesa in sede di merito, e alcuna indicazione aggiuntiva sul punto risulta dal ricorso per cassazione. Peraltro, in base a un consolidato orientamento di legittimità, la disciplina prevista dall’art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, avente a oggetto la procedura di cosiddetta “fiscalizzazione dell’illecito edilizio” trova applicazione, in via esclusiva, per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità al titolo abilitativo (Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018, Pellegrino Rv. 273291; Sez. 3, n. 24661 del 15/04/2009, Ostuni, Rv. 244021). Si tratta di una situazione di fatto differente rispetto a quella che viene in rilievo nel caso di specie, in cui l’opera abusiva al primo piano è stata realizzata in totale assenza del permesso di costruire e della autorizzazione paesaggistica, con la conseguente manifesta infondatezza dei rilievi sollevati sul punto con il terzo motivo di ricorso.
5. Il primo motivo del ricorso proposto da Maria Lucia Fanizza, avente a oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla affermata responsabilità penale dell’imputata nonostante la medesima fosse usufruttuaria, e non proprietaria, dell’immobile oggetto dell’intervento abusivo è manifestamente infondato. La difesa fonda il motivo di ricorso sull’erroneo presupposto che la ricorrente, in quanto usufruttuaria dell’immobile, debba essere ritenuta estranea ai fatti di reato alla medesima ascritti in concorso con il figlio o, al più, mera connivente non punibile. Tuttavia, se è vero che, in tema di reati edilizi, la mera qualifica di usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato non è sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Sez. 3, n. 45072 del 24/10/2008, Lavanco, Rv. 241789; Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, dep. 2019, Carillo, Rv. 275509; Sez. 3, n. 25546 del 14/03/2019, Pinto, Rv. 275564), è anche vero che nel caso di specie ricorrono diversi elementi concreti tali da integrare quel “quid pluris” richiesto dalla medesima giurisprudenza di legittimità richiamata perché all’usufruttuario possa essere attribuita la qualifica di compartecipe nella commissione del reato. Sul punto, in particolare, la Corte d’appello ha richiamato la sussistenza del rapporto di parentela con Andrea Salvatore D’Andria, l’avere la ricorrente messo a disposizione del figlio il terreno per l’esecuzione delle opere, oltre che la ritenuta consapevolezza in capo alla donna del carattere abusivo dell’immobile realizzato, consapevolezza desumibile dal comportamento tenuto dalla Fanizza dopo che i lavori erano stati completati e consistito nel donare al figlio l’usufrutto dell’immobile. Peraltro, in quanto usufruttuaria dell’immobile al momento dei lavori, la Fanizza aveva a quel tempo la piena disponibilità giuridica del medesimo. Pertanto, poiché la Corte territoriale ha compiutamente motivato circa gli elementi dai quali desumere il coinvolgimento dell’imputata nella realizzazione delle opere, e non essendosi la ricorrente confrontata sul punto con la motivazione resa dalla Corte d’appello, il primo motivo di ricorso risulta inammissibile, a causa della sua genericità e della sua manifesta infondatezza.
6. Il secondo motivo del ricorso Fanizza, avente a oggetto la erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata applicazione all’imputata della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen., è manifestamente infondato. La Corte territoriale ha motivato il rigetto del motivo di appello relativo alla mancata applicazione di detta causa di non punibilità sulla base della circostanza che il fatto oggetto di imputazione non è da ritenersi tenue, e ciò alla luce della oggettiva consistenza dell’intervento abusivo e della sua gravità – desumibile dalla applicazione di pena superiore al minimo edittale -. Peraltro, con sindacato avente ad oggetto una valutazione di merito – e, dunque, non censurabile in questa sede -, la Corte territoriale ha sottolineato la circostanza che, con la loro attività illecita, gli imputati hanno concorso a violare norme di legge poste a tutela di due differenti beni giuridici – il territorio e il paesaggio -, edificando in area sottoposta a vincolo idrogeologico. Si tratta di valutazione di merito che, in quanto non manifestamente illogica e fondata sulle risultanze probatorie richiamate dalla Corte d’appello, non è censurabile in sede di legittimità.
7. Il terzo motivo del ricorso Fanizza, avente ad oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione in punto di quantificazione del trattamento sanzionatorio, è parzialmente fondato nella parte relativa alla illegittimità della subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo.
Quanto alla mancata riduzione della sanzione inflitta in primo grado e confermata in sede di appello, il motivo è manifestamente fondato. Sul punto la ricorrente richiama elementi di giudizio già indicati in appello e adeguatamente vagliati dalla Corte territoriale, la quale ha sottolineato la circostanza che l’intervento abusivo ha avuto non modesta consistenza, che dalla condotta cui la imputata ha preso parte è scaturita la violazione di norme giuridiche poste a tutela di due beni giuridici diversi, e che il manufatto è stato realizzato in assenza del permesso di costruire e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale; circostanze queste che hanno ragionevolmente indotto il giudice di appello a escludere la invocata riduzione della pena inflitta alla imputata.
Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato quanto alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla eliminazione dell’opera abusiva e alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi. Preliminarmente, va in questa sede ricordato che la giurisprudenza di legittimità riconosce ormai pacificamente, in tema di disciplina urbanistica, la legittimità della subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive, alla luce della circostanza che tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, rappresentate dalla presenza sul territorio di un manufatto abusivo (Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Rv. 255466; Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Rv. 237825; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999, Rv. 216444). Analoghi principi sono stati affermati quanto alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, atteso che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi, in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze dannose o pericolose e che la sanzione specifica della rimessione in pristino ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso (Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Rv. 261164; Sez. 3, n. 38739 del 28/05/2004, Rv. 229612). Tali principi, tuttavia, riguardano il proprietario o comunque colui che materialmente dispone ha eseguito le opere e ne dispone e che per queste ragioni può provvedere all’adempimento della condizione apposta al beneficio; per gli altri soggetti, pur se coinvolti nella realizzazione dell’opera abusiva, la possibilità di adempiere sarebbe subordinata alla volontà del proprietario. La Corte di cassazione ha in più occasioni rilevato che la subordinazione della sospensione condizionale della pena all’ordine di demolizione, sebbene in sé legittima, richiede tuttavia la condizione che l’eliminazione delle opere abusive sia esigibile da parte del condannato, ovvero che questi abbia la disponibilità giuridica del bene da demolire (Sez. 3, n. 41051 del 15/09/2015, Fantaccini, Rv. 264976; Sez. 3, n. 42566 del 07/06/2019, Mirabassi, non mass.). La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, precisato in altra occasione che, in tema di reati edilizi, il giudice, nel disporre la condanna dell’esecutore dei lavori e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all’ordine di demolizione (Sez. 3, n. 17991 de 21/01/2014, Ciccone, Rv. 261497; Sez. 3, n. 41051 del 15/09/2015, Fantaccini, Rv. 264976, cit.). Nel caso di specie, pertanto, se la decisione di subordinare la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell’opera abusiva e alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi risulta corretta nei confronti di Andrea Salvatore D’Andria, in quanto soggetto avente la disponibilità giuridica e di fatto dell’immobile realizzato, lo stesso non può dirsi per la ricorrente Fanizza, che risulta a oggi priva di qualsiasi diritto sull’immobile e pertanto impossibilitata a intervenire per la sua demolizione, oltre che per la rimessione in pristino dello stato dei luoghi. Per queste ragioni, la doglianza sollevata sul punto risulta fondata.
8. La parziale fondatezza dell’ultimo motivo del ricorso Fanizza impone di rilevare che è frattanto decorso il termine massimo di prescrizione di entrambi i reati alla medesima ascritti – di cui agli art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001 e art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 -, essendo decorso detto termine (pari a cinque anni), tenendo conto delle sospensioni dello stesso intervenute nel corso del processo, alla data del 12 ottobre 2022. Ne consegue che, quanto alla posizione della Fanizza, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché i reati ascrittile sono estinti per prescrizione. Da ciò consegue la revoca dell’ordine di demolizione e di rimessione in pristino disposto nei suoi confronti, fermo restando detto ordine nei confronti del coimputato D’Andrea, il cui ricorso deve, invece, essere dichiarato inammissibile, stante la manifesta infondatezza di tutti i motivi ai quali lo stesso è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso D’Andria esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l'apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616; nonché Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966).
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso D’Andria consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere per lo stesso delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 3.000,00.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Fanizza Maria Lucia perché i reati sono estinti per prescrizione. Revoca l’ordine di demolizione e rimessione in pristino nei confronti di Fanizza Maria Lucia.
Dichiara inammissibile il ricorso di D’Andria Andrea Salvatore che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 13/4/2023