Cass. Sez. III n. 49687 del 30 ottobre 2018 (Ud 7 giu 2018)
Pres. Savani Est. Di Nicola Ric. Bruno
Urbanistica.Permesso di costruire illegittimo e poteri del giudice penale
Nell’ipotesi in cui si edifichi con permesso di costruire illegittimo, non rileva più la disapplicazione di un atto amministrativo, ma la questione riguarda piuttosto il potere di accertamento del giudice penale dinanzi ad un provvedimento, che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato. In tale ambito l’individuazione dell’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche non serve per attribuire tipicità ad un fatto di reato che sia privo di tale indefettibile connotato, la qual cosa sarebbe, come ovvio, giuridicamente impraticabile, ma svolge piuttosto la funzione di attribuire l’esatto significato all’elemento normativo delineato nella fattispecie incriminatrice di riferimento e che, in quanto tale, è ricompreso toto iure nella tipicità del fatto, dovendo ritenersi compreso nel tipo e, dunque, nel controllo, tutto ciò che, al di là della lettera della legge, sia imposto dalla immancabile funzione interpretativa, anche estensiva, della disposizione penale che va condotta alla luce del bene giuridico tutelato, della ratio della norma e di ogni altro elemento ricavabile dal sistema per ricostruire l’intenzione del legislatore, sicché il giudice penale deve verificare, al fine di ritenere sussistente o meno il reato, tutto ciò che nella descrizione delle varie fattispecie penali, sia stato indicato, esplicitamente o implicitamente, come rilevante.
RITENUTO IN FATTO
1. Francesco Saverio Bruno e Ciro Buono ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Napoli, in composizione monocratica, ha dichiarato entrambi colpevoli del reato di cui all’articolo 44, comma 1, lettera a), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 così diversamente qualificata la condotta loro ascritta in concorso al capo A) della rubrica – relativa alla realizzazione di “un solaio di copertura perimetrato per tre lati da parapetto in muratura di altezza di circa cm 90 (essendo il quarto lato costituito dalla facciata del fabbricato limitrofo di proprietà aliena), con posizionamento di un’orditura di travi in ferro in senso longitudinale ed ortogonale, saldata ad appositi pilastrini in ferro ancorati alle strutture portanti del piano inferiore mediante piastre e bulloni (accertamento del 04.05.2012)” e di successiva chiusura della struttura in ferro realizzata sul lastrico solare con realizzazione di “un volume interamente chiuso, con modifica della sagoma, delle altezze e dei prospetti del corpo di fabbrica (accertamento del 09.07.2013)” – e li ha condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di euro 5000 di ammenda ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali, nonché, in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede, in aggiunta alle spese del grado, assolvendo i ricorrenti dai reati a loro ascritti ai capi b) e c) della rubrica per insussistenza dei fatti e dichiarando non doversi procedere nei confronti di Francesco Saverio Bruno in ordine al reato a lui esclusivamente ascritto al capo a), perché estinto per prescrizione.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti, tramite i rispettivi difensori, presentano i seguenti motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Francesco Saverio Bruno affida il gravame a cinque motivi.
2.1.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione della legge processuale penale e il vizio di motivazione in relazione all’articolo 522 del codice di procedura penale, per difetto di correlazione tra imputazione contestata e sentenza di condanna, anche quale effetto del travisamento della prova circa l’effettiva consistenza del cd. sottotetto, quale motivo riferito al punto concernente l’affermazione di penale responsabilità (articolo 606, comma 1, lettera c) ed e), del codice di procedura penale).
Sostiene che, con la sentenza impugnata, il Tribunale di Napoli dichiarava gli imputati colpevoli per il reato di cui all’articolo 44 lettera a) d.P.R. n.380 del 2001, così diversamente qualificando la condotta ascritta, inizialmente rubricata sotto la lettera c) del medesimo articolo 44.
Tuttavia la diversa qualificazione giuridica del fatto non sarebbe avvenuta, come ha sostenuto il Tribunale, in assenza di modificazione del fatto storico contestato, avendo il giudice di primo grado espresso il giudizio di responsabilità penale per una fattispecie, nella sua componente oggettiva, assolutamente diversa, da quella in descritta nell’originaria imputazione, sebbene in assenza di rituale contestazione delle norme violate.
Rileva che i due reati previsti sub a) e sub c) del medesimo articolo 44 d.P.R. 380 del 2001 prevedono in realtà presupposti, elementi del fatto e soprattutto conseguenze (in ordine al regime delle impugnazioni, al regime della definibilità con oblazione) molto differenti.
In particolare per le ipotesi sub b) e c) seconda parte, la fattispecie è tipizzata sulla esecuzione di opere in “assenza del permesso” a costruire ovvero sul superamento della funzione abilitativa dello stesso in termini di realizzazione di opere in “variazione essenziale” ovvero in “totale difformità” del permesso.
Per l’ipotesi sub a), invece, la condotta, a fattispecie multipla, fonda sulla inosservanza di norme, prescrizioni e modalità esecutive previste nel titolo IV del medesimo T.U., nonché (norme, prescrizioni e modalità esecutive previste) dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso a costruire, cosicché detta circostanza ha la sua ricaduta in termini procedurali contestativi in quanto si verterebbe in ambito di norma penale in bianco, atteso che una corretta contestazione del reato sub a) avrebbe dovuto comportare una puntuale indicazione di quali fossero e dove trovassero sede le norme, prescrizioni e modalità esecutive violate, poiché per la determinazione del precetto è fatto rinvio a dati prescrittivi, tecnici e provvedimenti di fonte extrapenale.
La contestazione, così come formulata, postulava l’assenza del permesso di costruire, pur in presenza del provvedimento autorizzativo rilasciato dal Comune di Pozzuoli per la “riconfigurazione della copertura del fabbricato sito alla via Vigna...”.
Tale provvedimento autorizzativo era stato ritenuto illegittimo perché rilasciato nonostante lo stato dei luoghi, rappresentato nei grafici allegati alla richiesta del permesso a costruire, non corrispondesse a quello documentato nel titolo di proprietà e si rimproverava agli imputati di aver, nonostante non fosse stata documentata la legittimità dello stato dei luoghi, proseguito nelle opere abusive, senza che a questa descrizione fattuale fosse accompagnata la minima indicazione circa la norma violata e la sede ove essa fosse espressa.
Erroneamente poi il tribunale ha ritenuto essere il “piano sottotetto” una struttura in sopraelevazione prima inesistente, essendo tale convincimento smentito dalla principale teste di accusa del ricorrente, peraltro costituitasi parte civile, sig.ra Vincenza Ferrara Taddeo.
Conclusivamente, il macroscopico travisamento sul “piano sottotetto” che altro non era se non “un sottotetto di altezza interna di mt 1,80... non utilizzabile... allo stato grezzo...”, ricavato all’interno della originaria altezza del manufatto e giammai “nuova costruzione avendo determinato la creazione di una struttura volumetrica in sopraelevazione, prima inesistente”, rende maggiormente comprensibile, secondo il ricorrente, il tema della surrettizia ed intervenuta modifica del fatto contestato.
Espunta pertanto dalla contestazione la componente connessa al piano sottotetto, gli ulteriori profili di illegittimità dell’intervento edilizio, sulla cui base il tribunale ha fondato la contrarietà con specifiche disposizioni degli strumenti urbanistici (artt. 5, 6 e 24 delle norme di attuazione del PRG), assumono una valenza contestativa ex novo e, pertanto, tale da realizzare la immutatio del fatto rilevante ai sensi dell’articolo 522, comma 1, del codice di procedura penale, posto che realizzano la integrazione normativa della fattispecie di cui all’articolo 44, lettera a), d.P.R. n. 380 del 2001 colmando le lacune sulla identificazione e sulla collocazione delle norme, prescrizioni e modalità esecutive violate, mai contestate specificamente al ricorrente e per le quali egli ha, in definitiva, riportato la condanna.
2.1.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’inosservanza della legge penale nonché il difetto di motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale) sotto il profilo della erronea applicazione della legge penale sostanziale in relazione agli articoli 133 e 62 n. 6 del codice penale.
Risultando dal testo della sentenza impugnata che le opere abusive sono state eliminate, tanto che non ne è stata ordinata la demolizione, il ricorrente sostiene che ciò avrebbe dovuto comportare il riconoscimento dell’attenuante prevista dall’articolo 62 n. 6 del codice penale, applicabile in considerazione della spontanea ed efficace eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.
2.1.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale nonché il vizio di motivazione con riferimento al diniego delle attenuanti generiche (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e) del codice di procedura penale).
Assume che il tribunale ha motivato il diniego alla concessione delle attenuanti generiche sulla base di due considerazioni: l’esclusione di ogni automatismo fondato sulla semplice assenza di precedenti penali ed altresì sulla circostanza che non sarebbe stato rinvenuto in atti alcun concreto e razionale motivo che potesse giustificare una attenuazione della pena parametrata sulla base dei criteri dosimetrici di cui all’articolo 133 del codice penale.
Tuttavia, tale snodo motivazionale sarebbe, ad avviso del ricorrente, in aperto contrasto con quanto più volte ribadito nel testo della sentenza impugnata, in merito all’intervenuta demolizione delle opere oggetto del permesso a costruire n. 6 del 2012.
Tale condotta ripristinatoria ha poi giustificato la compensazione parziale delle spese processuali, con la conseguenza che sarebbe evidente la contraddizione nella quale si è imbattuto il Tribunale, laddove ha affermato che “non si rinviene in atti alcun concreto e razionale motivo che possa giustificare una attenuazione della pena …”, salvo poi dare atto che vi era stata una demolizione spontanea dell’opera, ben prima dell’inizio del processo tale da determinare la caducazione del danno collegato alla mera realizzazione dell’intervento, e tale da comportare, per questa via, una compensazione parziale delle spese processuali, svalutando contemporaneamente anche una condotta positiva post delictum idonea perciò a radicare almeno la concessione delle attenuanti generiche.
2.1.4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole dell’inosservanza della legge penale e processuale sotto il profilo della violazione dell’articolo 323, comma 1, del codice di procedura penale, motivo riferito al capo della sentenza con il quale è stata dichiarata l’intervenuta prescrizione dei reati contestati in via autonoma al ricorrente (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).
Evidenzia come il Giudice in sentenza, seguendo la formulazione letterale della contestazione, abbia scisso la condotta in due segmenti: il primo concernente le opere contestate al solo ricorrente, cioè quelle relative alla conformazione dell’immobile come riscontrata in sede di sopralluogo in data 4 maggio 2012; il secondo concernente le opere contestate in concorso al ricorrente ed al tecnico Ciro Buono, vale a dire le opere realizzate in ossequio al permesso a costruire n. 6 del 2012.
Queste ultime erano state demolite mentre, quanto alle prime, il reato è stato dichiarato estinto per prescrizione.
Ciò posto, poiché l'immobile de quo fu sottoposto a sequestro preventivo con decreto del GIP presso il Tribunale di Napoli e poiché le altre opere, quelle cioè poste in contestazione in concorso a carico del ricorrente e di Ciro Buono, erano state spontaneamente demolite, andava disposta la restituzione del manufatto, per il chiaro disposto dell’articolo 323, comma 1, del codice di procedura penale, essendo il sequestro preventivo divenuto inefficace in ragione della certa appartenenza della sentenza di prescrizione al genus delle sentenze di proscioglimento.
2.1.5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce l’inosservanza della legge penale nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in relazione all’articolo 538 del codice di procedura penale, sotto il profilo della contraddittorietà della motivazione circa la prova del danno civilistico, nonché violazione e falsa applicazione degli articoli 869, 870, 871 e 872 del codice civile (articolo 606, lettere b) ed e), del codice di procedura penale).
Sostiene che il tribunale ha ritenuto che gli articoli 870 e 871 del codice civile riguardino un danno comprensivo di quello previsto dall’articolo 872 stesso codice.
Osserva che le conseguenze sono rilevanti in tema di distribuzione dell’onere probatorio, in quanto il danno generato dall’illecito, di cui alle norme edilizie, costituisce una ipotesi di danno in re ipsa, mentre la fattispecie normativa di cui all’articolo 872 del codice civile è invece sottoposta ad un carico probatorio di cui è onerato il soggetto che ritiene di aver subito un pregiudizio.
Ne consegue che, nel caso di violazione di norme speciali di edilizia e, in mancanza di un asservimento di fatto del fondo contiguo, il proprietario, che ritiene di aver subito un danno, è tenuto alla prova sia in ordine alla sua esistenza che alla entità dello stesso, secondo i principi di cui all’articolo 2697 del codice civile.
Avrebbe dunque errato il tribunale laddove ha ritenuto sussistente un danno in re ipsa sul presupposto della violazione degli articoli 869, 870, 871, 872 del codice civile; mentre alla luce di una corretta interpretazione, già consolidata ín giurisprudenza, il Tribunale avrebbe dovuto valutare la mancanza di asservimento di fatto del fondo, escludendo il danno in re ipsa quale scaturente dalle norme in materia edilizia; conseguentemente, in considerazione della necessità della prova sia in ordine all’an che al quantum, il tribunale avrebbe dovuto valutare la mancata violazione delle disposizioni sulle distanze e sulla normativa a tutela della proprietà per il mancato assolvimento dell’onere probatorio ovvero per l’inesistenza del danno.
2.2. Il ricorso proposto da Ciro Buono è articolato su cinque motivi.
2.2.1. Il primo ed il quinto motivo sono sostanzialmente analoghi a quelli sollevati da Francesco Saverio Bruno.
2.2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale) per l'evidente illogicità della argomentazioni sulle quali il Giudice ha fondato la sua decisione, con il travisamento della prova, nonché per la violazione dell’articolo 44, lettera a), d.P.R. 380 del 2001.
Assume che il Giudice, accertato che l'opera edilizia oggetto della contestazione era stata realizzata in forza ed in conformità al permesso a costruire n. 6 del 2012 rilasciato dal Comune di Pozzuoli, pur non disapplicando il provvedimento amministrativo comunale, ha ritenuto configurata la violazione della disposizione di cui alla lettera a) dell’articolo 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sulla base di tale presupposto ha ritenuto configurabile la violazione dell’articolo 44 lettera a) del d.P.R. n. 380 del 2001 evidenziando che il permesso di costruire n. 6 del 2012 non avrebbe potuto essere rilasciato.
Obietta il ricorrente che, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, la valutazione del giudice ordinario sull’atto amministrativo non può estendersi all’analisi dei presupposti di diritto e di fatto sui quali la Pubblica Amministrazione ha emesso il provvedimento: condotta che, altrimenti, sarebbe riconducibile ad una vera e propria disapplicazione dell’atto amministrativo che, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, non può essere consentita. In sostanza, il giudizio in ordine al rispetto delle “norme, prescrizioni e modalità esecutive” previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 nonché dal regolamento edilizio e dallo strumento urbanistico, secondo la dizione dell’articolo 44 lettera a) d.P.R. n. 380/2001, deve essere relativo a profili diversi da quelli che sono stati oggetto di specifica valutazione da parte della Pubblica Amministrazione.
Nel caso di specie, l’amministrazione comunale aveva specificamente valutato la sussistenza delle condizioni di fatto e di diritto in base alle quali il sig. Bruno, per tramite dell'arch. Buono, aveva richiesto il rilascio del permesso di costruire per l’esecuzione della “riconfigurazione della copertura del fabbricato” e non, come erroneamente riportato in sentenza “la riconfigurazione del piano sottotetto”. Ed infatti, con riferimento a tale aspetto, nel provvedimento n. 6 del 2012 rilasciato dal Dirigente dell'Ufficio Tecnico del comune di Pozzuoli si era evidenziato specificamente che la commissione edilizia aveva espresso parere favorevole alla realizzazione dell’opera in quanto “come si legge nella relazione preistruttoria, la richiesta è afferente esclusivamente alla creazione di un tetto ventilato sulla copertura del fabbricato, finalizzata al miglior isolamento ed alla eliminazione di infiltrazioni ed umidità. Dall'esame del progetto si evince che il solaio aggiuntivo viene collocato in posizione tale da non superare il parapetto esistente sulla copertura, pertanto esso non altera i prospetti dell'immobile e risulta visibile dall'esterno”.
D’altronde, la commissione edilizia aveva anche valutato la legittimità della preesistente struttura urbanistica.
Inoltre, quanto agli aspetti relativi al rispetto della preesistente sagoma, dei prospetti e dell’altezza del manufatto, ovvero, della sua conformazione planovolumetrica, sottolinea il ricorrente che la Sovrintendenza Archiettonica ne aveva valutato la perfetta conformità alle disposizioni poste a tutela del paesaggio, rilasciando parere favorevole.
Quanto poi alle violazioni che il tribunale ha ritenuto sussumibili nell’ambito dell’articolo 44, lettera a) d.p.r. 380 del 2001, il ricorrente osserva come il giudice del merito abbia erroneamente ritenuto la illegittimità del vano sottotetto giacché l’opera, non comportando aumenti di volumetria e modifiche della sagoma e dei prospetti dell’edificio in quanto ricavata dalla preesistente altezza interna, non necessitava del preventivo rilascio del permesso a costruire.
Infine, quanto alla specifica realizzazione delle opere di riconfigurazione della copertura del fabbricato, osserva il ricorrente che le stesse, come chiarito nel permesso di costruire, avevano l’unica funzione di proteggere l’abitazione dalle azioni esterne, garantendo elevate prestazioni di impermeabilità all’acqua, resistenza al vento e isolamento termico e non ultimo risparmio energetico. Per tale ragione la struttura realizzata costituiva un elemento tecnologico della copertura, al pari dei pannelli solari o del cappotto termico, e quindi perfettamente ascrivibile alla categoria della manutenzione straordinaria.
2.2.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 42 del codice penale (articolo 606, lettera b), del codice di procedura penale).
Osserva che, nel caso di specie, il manufatto in contestazione non era stato realizzato attraverso una procedura ricettizia (DIA, CIL, CIA), ma attraverso quella prevista per il rilascio del permesso di costruire, nonché a seguito delle specifiche valutazioni espresse dall'amministrazione comunale sulla richiesta formulata dal sig. Bruno, e della natura dell’opera oggetto del permesso, con la conseguenza che non dovrebbe esservi dubbio sul fatto che, seppure le attività poste in essere dagli imputati avessero astrattamente configurato una inosservanza delle disposizioni del P.R.G. o del d.P.R. n. 380 del 2001, gli stessi non avevano avuto coscienza e volontà di violare la legge, così come previsto dall’articolo 42 del codice penale
In ogni caso, ulteriore riscontro alla assoluta buona fede degli imputati sarebbe rappresentata dalla circostanza che gli stessi avevano immediatamente e spontaneamente provveduto al ripristino dello stato dei luoghi.
2.2.4. Con il quarto motivo il ricorrente denunzia l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 157 del codice penale (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale), sul rilievo che il tribunale, tenuto conto della diversa qualificazione del fatto contestato, in relazione al quale ha ritenuto configurata la violazione dell’articolo 44, lettera a), d.P.R. n. 380 del 2001, avrebbe dovuto dichiarare il reato prescritto.
Infatti, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, la condotta illecita attribuita gli imputati, relativa alla “inosservanza di norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 nonché dal regolamento edilizio e dallo strumento urbanistico” non si è completata con l’ultimazione delle opere descritte in contestazione, realizzate all’esito della sospensiva del provvedimento di sospensione dei lavori concessa dal TAR, ma con la presentazione della domanda di rilascio del permesso di costruire ed il consequenziale rilascio del titolo autorizzatorio, avvenuto il 9 febbraio 2012.
Ed infatti, posto che il Giudice Ordinario non può disapplicare il permesso di costruire, non v'è dubbio che questo, una volta rilasciato, produce i suoi effetti legittimamente quanto alla realizzazione dell’opera. D'altro canto, proprio per tale ragione è stata esclusa la sussistenza della violazione della lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001, che sanziona l'ipotesi di “esecuzione di lavori in totale difformità o in assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l'ordine di sospensione”.
3. Francesco Saverio Bruno ha presentato un motivo nuovo con il quale deduce la contraddittorietà della motivazione anche sotto il profilo del travisamento della prova, in relazione alla determinazione della data di ultimazione dei lavori conseguenti al permesso numero 6 del 2012, come risultante dal testo del provvedimento impugnato, in quanto si afferma che i lavori “furono ultimati e collaudati come da comunicazione in data 03-12-2012 protocollo 42817” mentre in altra parte del provvedimento si sostiene che la comunicazione di ultimazione dei lavori da parte del direttore dei lavori protocollo 42817 fosse del 3 dicembre 2013, richiamando, all’uopo, la nota dell’area tecnica del comune di Pozzuoli n. 568 del 15 luglio 2013; tuttavia, la detta nota dell’area tecnica, acquisita agli atti del procedimento ed allegata in copia al motivo aggiunto, afferma che la comunicazione di ultimazione dei lavori protocollo n. 42817 è del 3 dicembre 2012, con la conseguenza che, anche calcolando in termini di sospensione della prescrizione, la causa estintiva sarebbe definitivamente maturata in data 4 febbraio 2018.
Il ricorrente, sulla base di ciò, chiede pertanto la declaratoria ex articolo 129 del codice di procedura penale di estinzione del reato per prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono fondati limitatamente all’eccezione di prescrizione del reato così come esposta nel motivo nuovo.
I restanti motivi sono inammissibili o, comunque, infondati.
2. Nell’ordine logico, va esaminato il secondo motivo del ricorso Buono che, estensibile al Bruno in quanto non strettamente personale, introduce la questione dei poteri del giudice penale sull’atto amministrativo e, se risolto nel senso pronosticato dal ricorrente, renderebbe recessiva la causa estintiva del reato, relativa alla prescrizione, rispetto all’assoluzione nel merito ex articolo 129 del codice di procedura penale.
2.1. Sebbene la questione specifica trovi espressa soluzione nella sentenza delle Sezioni Unite Borgia (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993), opportunamente richiamata dal Tribunale nel testo della sentenza impugnata, il Collegio ritiene, anche in virtù di recenti arresti, di ripercorrere il percorso giuridico attraversato dalla giurisprudenza di legittimità e, in particolare, dalla giurisprudenza della Terza Sezione penale negli ultimi decenni.
A tale proposito, giova ricordare che, in via principale, il ricorrente sostiene che l’opera edilizia era stata realizzata in forza ed in conformità al permesso di costruire n. 6 del 2012 rilasciato dal Comune di Pozzuoli, con la conseguenza che, in presenza del titolo autorizzativo, alcuna fattispecie penalmente rilevante poteva essere configurata, neppure quella di cui all’articolo 44, comma 1, lettera a), d.P.R. n. 380 del 2001, non potendo la valutazione del giudice ordinario estendersi all’analisi dei presupposti di diritto e di fatto sui quali la Pubblica Amministrazione aveva emesso il provvedimento ampliativo.
Diversamente, l’attività del giudice ordinario, risolvendosi inevitabilmente in un sindacato sull’atto amministrativo, si concretizzerebbe in una vera e propria disapplicazione di esso che, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, non sarebbe consentita dagli articoli 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E) che, sebbene entro determinati limiti, ammettono la disapplicazione dell’atto amministrativo.
2.2. Va allora ricordato come la giurisprudenza di merito, già negli anni settanta del secolo scorso, equiparò la concessione edilizia (ora, permesso di costruire) illegittima a quella mancante, affermando che, pur in presenza di lavori edili assentiti, il giudice penale, avvalendosi dei poteri attribuiti al giudice ordinario dall’articolo 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E), poteva compiere una valutazione del titolo abilitativo, al fine di verificarne la legittimità, con la conseguenza che, qualora avesse riscontrato eventuali vizi di violazione di legge, poteva disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, considerando ad ogni effetto i lavori come eseguiti in assenza del titolo abilitante.
La giurisprudenza di legittimità non fece registrare, sul punto, un indirizzo uniforme, dando luogo, come si ricava dal testo della sentenza a Sezioni Unite Giordano (Sez. U, n. 3 del 31/01/1987), della quale si darà conto, a due opposti orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, l’illegittimità della concessione edilizia, ritenuta dal giudice a norma degli articoli 4 e 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E), comportava la giuridica inesistenza dell’atto amministrativo e, conseguentemente, la sussistenza obbiettiva del reato urbanistico (per tutte, Sez. 3, n. 6388 del 05/03/1984 Sorrentino, Rv. 165265).
Quanto poi all’integrazione dell’elemento soggettivo di detto reato, le posizioni, all’interno di tale indirizzo, divergevano, in quanto alcune pronunce escludevano che il costruttore potesse invocare la buona fede sulla base del solo fatto di aver ottenuto una concessione illegittima (per tutte, Sez. 3, n. 7459 del 31/05/1983, Zanotti, Rv. 160201), mentre altre decisioni affermavano che, per potersi ravvisare la penale responsabilità del costruttore, occorreva provare la consapevolezza della palese illegittimità del provvedimento oppure la collusione di costui con l’autorità comunale (per tutte, Sez. 3, n. 9054 del 15/06/1983 Dalli Cani, Rv. 160924).
Il secondo orientamento giurisprudenziale era invece assestato sul principio in base al quale il rilascio della concessione, ottenuta prima dell’inizio dei lavori, impediva, seppur illegittima, la configurabilità del reato di costruzione in assenza di concessione, dovendo il giudice controllare soltanto l’esistenza dell’atto sulla base dell’esteriorità formale e della sua provenienza dall’organo legittimato ad emetterlo, ulteriormente precisando che doveva ritenersi l’assenza dell’atto concessorio non solo quando il relativo provvedimento amministrativo fosse stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento fosse frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo aveva rilasciato o del soggetto privato che lo aveva conseguito e, quindi, quando esso non fosse riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale i pubblici poteri non possono essere esercitati (Sez. 3, n. 2168 del 10/01/1984, Tortorella, Rv. 163038).
Più chiaramente, in tal senso, si disse che l’istituto della disapplicazione degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario non riguarda quegli atti che rimuovono un ostacolo al libero esercizio dei diritti (nulla-osta, autorizzazione) ovvero costituiscono diritti soggettivi (concessioni), non avendo il giudice penale cognizione della legittimità della concessione edilizia neppure sotto il diverso profilo che la questione costituisca l’oggetto diretto del giudizio, perché tra i presupposti della disposizione incriminatrice non è previsto che la concessione edilizia debba essere stata “legalmente” data, con la conseguenza che la cognizione del giudice penale è limitata, nel caso considerato, al controllo dell'esistenza della concessione sulla base della esteriorità formale dell'atto e della sua provenienza dell’organo investito della correlativa potestà (Sez. 3, n. 576 del 13/03/1985, Meraviglia, Rv. 168424).
Le Sezioni Unite Giordano affermarono che, dalla lettura congiunta degli articoli 4 e 5 della legge del 1865, emergeva chiaramente che le norme in questione non avevano affatto introdotto un principio generalizzato di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario (sia esso civile o penale) per esigenze di diritto oggettivo, ma che, al contrario, il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo era stato rigorosamente limitato dal legislatore ai soli atti incidenti negativamente sui diritti soggettivi ed alla specifica condizione che si trattasse di accertamento incidentale, tale cioè che lasciasse persistere ab externo gli effetti che l’atto medesimo era capace di produrre.
Nel pervenire a tale conclusione, le Sezioni unite precisarono, in continuità con la sentenza Meraviglia, che le norme scrutinate (articoli 4 e 5 legge n. 2248 del 1865 allegato E) non potevano, di conseguenza, trovare applicazione per quegli atti amministrativi che, lungi dal comportare la lesione di un diritto soggettivo, rimuovevano invece un ostacolo al loro libero esercizio (nulla-osta, autorizzazioni) o addirittura li costituivano (concessioni), perché, opinando diversamente, si sarebbe estesa al diritto oggettivo una regola dettata unicamente a tutela dei diritti soggettivi ed inoltre ciò avrebbe comportato una violazione del principio della divisione dei poteri, attribuendo al giudice penale un potere di controllo e d’ingerenza esterna sull’attività amministrativa demandata dalla legge esclusivamente ad altro potere dello Stato.
Tuttavia, in determinati casi, il giudice penale, secondo il dictum delle Sezioni unite, poteva egualmente conoscere della illegittimità dell’atto amministrativo e tale possibilità, pur non riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli articoli 4 e 5 della legge del 1865, poteva e doveva trovare, invece, fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come nel caso della fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 650 del codice penale) ovvero, nell’ambito dell’interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo costituisse, essa stessa, un elemento essenziale della fattispecie criminosa.
Sulla base di tali considerazioni le Sezioni unite, risolvendo il contrasto, affermarono i seguenti principi di diritto, espressi nelle massime ufficiali redatte dall’Ufficio del massimario della Corte: “il giudice penale non ha, ai sensi degli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi che non comportano una lesione dei diritti soggettivi, ma rinnovano un ostacolo al loro libero esercizio (nulla osta, autorizzazioni) o addirittura li costituiscono, a meno che tale potere non trovi fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa, ovvero, nell’ambito dell’interpretazione della norma penale qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti essa stessa come elemento essenziale della fattispecie criminosa” (Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, Giordano, Rv. 176304), precisando che “il reato di costruzione in assenza della concessione di cui all'art. 17 lett. B della legge 28 gennaio 1977 n. 10 non è configurabile nel caso che la concessione rilasciata prima dello inizio dei lavori sia illegittima. Si verte invece in ipotesi di assenza dell'atto non solo quando l'atto in questione sia stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue e, quindi non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri” (Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, cit., Rv. 175115).
Tuttavia, va ricordato che le Sezioni unite Giordano aggiunsero che, in tanto poteva ritenersi valida la (effettuata) equiparazione tra “mancanza di concessione” e “concessione illegittimamente rilasciata”, in quanto fosse possibile affermare che la disposizione di cui all’articolo 17, lettera b), legge 29 gennaio 1977, n.10 (poi articolo 20, lettera b), legge 28 febbraio 1985, n. 47 e, ora, articolo 44, lettera b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) fosse funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività urbanistica ed esclusero un tale esito interpretativo sul rilievo che la consolidata giurisprudenza di legittimità e la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. sentenza n. 47 del 1979) erano nel senso di ritenere che l’interesse tutelato dalla norma ex articolo 17, lettera b), legge n. 10 del 1977 fosse quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della pubblica amministrazione, con conseguente imposizione a chi volesse edificare dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa; per cui il reato sussisteva anche se il privato - che non aveva chiesto o comunque non aveva ottenuto la detta autorizzazione - avesse costruito o iniziato a costruire nel pieno rispetto delle norme sostanziali disciplinanti l’attività edilizia.
2.3. Quest’ultimo aspetto, ossia l’individuazione del “bene giuridico” nei reati urbanistici, ha costituito, come sarà più chiaro in seguito, l’occasione per una rivisitazione delle conclusioni cui, su tale specifica questione, giunsero le Sezioni unite Giordano sulla base di affermazioni, inerenti l’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche, argomentate per relationem, in forza di una giurisprudenza di legittimità e costituzionale che si era prevalentemente formata sotto il vigore della legge n. 10 del 1977.
In altri termini, dagli inizi degli anni novanta, la giurisprudenza di legittimità, pur dando per scontato che il giudice penale non potesse disapplicare l’atto amministrativo, ancorché illegittimo, ha, con un indirizzo che si è andato progressivamente consolidando, ritenuto configurabile il reato di costruzione abusiva, tanto nel caso di edificazione eseguita senza permesso di costruire, quanto nel caso di realizzazione di opere edili con permesso di costruire illegittimo.
Un tale esito ermeneutico è stato reso possibile, senza fare più ricorso all’istituto della disapplicazione, attraverso una “messa a punto” del bene giuridico tutelato dalle norme penali urbanistiche, favorita anche dal contributo della dottrina che ha anch’essa progressivamente fornito, in chiave costituzionalistica, una lettura, agganciata alla valorizzazione del primato del principio di legalità, circa la configurazione dei rapporti tra funzione giurisdizionale – e ruolo, in particolare, del giudice penale – con gli altri poteri dello Stato, ed ulteriormente convalidata dalla struttura che il codice di procedura penale ha delineato quanto ai poteri cognitivi del giudice penale nella trattazione processuale delle questioni incidentali dalla cui risoluzione dipenda la decisione penale.
2.4. Va immediatamente sottolineato, sia pure nella necessità della sintesi, come ad una concezione statica-formale – che individuava il bene tutelato dalle norme penali urbanistiche nel rispetto formale e strumentale del controllo dell’attività edificatoria da parte della pubblica amministrazione, non identificandosi, secondo questa teoria che è prevalsa sino agli inizi degli anni novanta, l’oggetto della tutela penale nella conformità dell’opera all’assetto normativo, ma nel mero interesse al controllo preventivo da parte dell’autorità amministrativa (ex multis, Sez. 3, n. 195 del 17/11/1987, dep. 1988, Più, Rv. 177384) – si era contrapposta una diversa concezione, dinamica-funzionale, secondo la quale l’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche, anche alla luce della disciplina all’epoca in vigore (ex lege n. 10 del 1977), si incentrava sull’ordinato sviluppo del territorio, sul rilievo che il bene che la legislazione urbanistica e sulla edificabilità dei suoli tutela non era più riducibile al solo rispetto formale degli strumenti urbanistici, ma al “territorio”, nel significato convenzionale che tale termine assumeva; e tale significato era comprensivo di una molteplicità di interessi giuridicamente rilevanti, quali la diversificazione delle aree, le comunicazioni interne ed esterne, le direzioni di sviluppo urbano, la proporzionalità dei volumi, l’armonia delle caratteristiche architettoniche, la funzionalità tecnica, la sicurezza, l’igiene (tra le altre, cfr. Sez. 3, n. 9506 del 26/06/1981, Prati, Rv. 150720).
In definitiva, quanto all’oggetto della tutela penale in questa materia, persisteva nella giurisprudenza di legittimità un contrasto radicale che, risolto dalla sentenza Giordano sulla presa d’atto di quale fosse l’orientamento prevalente, condusse la Terza Sezione penale della Corte ad esprimere un netto dissenso dall’orientamento espresso dalla sentenza Giordano circa la tutela (formale) accordata dalle norme di diritto sostanziale che regolano l’attività urbanistica.
Sia pure erroneamente recuperando, per certi versi, l’istituto della disapplicazione dell’atto amministrativo, si affermò, nella più significativa pronuncia dell’epoca, che la questione doveva essere riesaminata alla stregua dei principi informatori della legge n. 47 del 1985, avendo tale legge profondamente trasformato l’oggetto stesso della tutela penale, incentrata non sul criterio formale ma su quello sostanziale della conformità delle opere alla normativa urbanistica (Sez. 3, n. 2766 del 09/01/1989, Bisceglia, in motiv.), precisandosi comunque che al giudice penale, in virtù dell’articolo 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 allegato E), era affidato un generale controllo di legalità su tutti gli atti amministrativi limitatamente al processo in corso, avendo egli quindi il potere-dovere di non applicare gli atti illegittimi per violazione di legge e non soltanto quelli illeciti, frutto cioè di collusione tra pubblico amministratore e privato, con la conseguenza che, al reato di costruzione senza concessione, doveva essere parificato quello di costruzione con provvedimento illegittimo e quindi da disapplicare e con la sottolineatura che, in tal caso, il principio di tassatività in materia penale non veniva violato, poiché esso trova primario fondamento in quello di legalità (Sez. 3, n. 2766 del 09/01/1989, cit., Rv. 182411).
In tal modo, si riaprì comunque la strada per fondare la legittimazione dell’intervento del giudice penale in materia non più facendo leva sul principio di disapplicazione ex articolo 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 allegato E), che pure la sentenza Bisceglie evocava, bensì sulla considerazione che l’illegittimità dell’atto amministrativo era divenuta essa stessa, in quanto produttiva della lesione all’interesse penalmente tutelato, un elemento essenziale della fattispecie criminosa.
Il salto di qualità, prodromico per una decisiva inversione di tendenza diretta ad assegnare al “territorio” il ruolo di referente privilegiato nella individuazione dell’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche, si ebbe, dunque, valorizzando gli elementi di indubbia novità che, nella disciplina urbanistica, erano stati introdotti, in continuità con i precedenti interventi legislativi, dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47.
Tra questi, va segnalato, per ora, l’articolo 22, comma 3, legge n. 47 del 1985 (ora articolo 45, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001) in forza del quale “il rilascio in sanatoria delle concessioni (ora, del permesso di costruire) estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
E’ evidente lo “scacco” portato dalla predetta disposizione alla concezione formale del bene giuridico nei reati urbanistici.
Quest’ultima affermava che l’interesse protetto dai reati urbanistici risiedesse nel rispetto formale del controllo preventivo dell’attività edificatoria da parte della pubblica amministrazione, valorizzando la circostanza che, ai fini dell’integrazione del reato, la disciplina penale non distingueva tra attività edificatoria, conforme alle norme di governo del territorio, compiuta comunque senza concessione (permesso), e attività edificatoria, difforme alle norme di governo del territorio, parimenti compiuta senza concessione (permesso).
La parificazione di entrambe le condotte, ai fini della realizzazione del fatto tipico, autorizzava a ritenere che l’oggetto della tutela penale fosse tutto ricompreso nell’interesse al controllo preventivo da parte dell’autorità amministrativa.
Questa tesi era stata, per altro, avallata dalla Corte costituzionale che aveva affermato non essere irragionevole l’equiparazione della situazione di chi aveva costruito senza licenza (o l’avesse ottenuta ex post in sanatoria), ma in conformità con le prescrizioni stabilite da strumenti urbanistici, con quella di chi aveva costruito senza licenza ed in contrasto con le prescrizioni medesime, rispondendo ad un fondamentale interesse pubblico sottoporre l’attività edilizia al controllo preventivo della pubblica amministrazione con l’imposizione, a chi volesse edificare, dell’obbligo di chiedere l’apposita autorizzazione amministrativa, con la conseguenza che sarebbe del tutto indifferente la circostanza che la costruzione corrisponda o meno alle norme che regolano l’attività edilizia (Corte cost., sent. n. 47 del 1979).
Tuttavia la Consulta ha fatto registrare in proposito significative prese di posizione scaturite proprio dalle novità introdotte nella disciplina penale urbanistica dalla legge n. 47 del 1985.
Al riguardo, vanno ricordate le pronunce (v. Corte cost., sent. n. 370 del 1988 e ord. n. 149 del 1999) con le quali il Giudice delle leggi ha sottolineato la particolare natura della causa di estinzione del reato ex combinato disposto articoli 13 e 22 della legge n. 47 del 1985 (ora, articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380 del 2001), evidenziando che la sanatoria è concessa a seguito dell’accertamento che mai si è prodotto un “danno urbanistico”, con la conseguenza che l’estinzione del reato è dovuta alla constatazione dell’inesistenza ex tunc “dell’antigiuridicità sostanziale” del fatto-reato, venendo in rilievo, nella causa estintiva in esame, “la mancanza d’un disvalore oggettivo” del fatto stesso.
Ma proprio perché il provvedimento amministrativo di sanatoria va ad incidere su un reato già commesso, è stato affermato che il giudice penale non può sottrarsi al compito di controllare, pleno iure, la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio della concessione (permesso) in sanatoria.
Nel ricordare, infatti, che il giudice penale, oltre all’accertamento sull’esistenza, in concreto, dell’intera fattispecie estintiva de qua, conserva tutti i poteri che l’ordinamento normalmente gli conferisce in ordine alla valutazione della legittimità dell’atto amministrativo, la Consulta ha affermato che <<il combinato disposto>> dei predetti articoli (13 e 22 L. n. 47 del 1985) <<è disposizione di regime, destinata ad operare anche nel futuro ed in via permanente allo scopo di regolarizzare sul piano esclusivamente urbanistico-edilizio situazioni di irregolarità meramente formale (di mancanza di titolo concessorio o autorizzatorio edilizio) di opere compiute ed eseguite in persistente piena conformità con gli strumenti urbanistici approvati o “in itinere”…>>.
Ne consegue come – avuto anche riguardo al tramite interpretativo fornito, come sarà più chiaro in seguito, dal procedimento di sanatoria introdotto dalla legge n. 47 del 1985, fondato sul principio della “doppia conformità” e sfociante, a condizioni esatte, nella declaratoria della causa estintiva del reato urbanistico – appaia di immediata evidenza il progressivo passaggio de iure da una concezione formale dell’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche ad una concezione sostanziale, che ha senso giuridico solo se si ammette una tutela del bene protetto concernente l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, costituente perciò il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, Borgia, in motiv.) e dove l’interesse al rispetto formale e strumentale del controllo dell’attività edificatoria da parte della pubblica amministrazione, inteso come bene-funzione, non definendo più interamente l’aspetto della tutela, finisce per essere assorbito dall’interesse sostanziale al rispetto dell’ordinato sviluppo del territorio in conformità allo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera eseguenda o eseguita.
2.5. Le oscillazioni giurisprudenziali originate, anche dopo l’arresto delle Sezioni unite Giordano, dalla disputa, in precedenza riassunta, sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche e la connessa questione circa l’ammissibilità ed i limiti del cosiddetto sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, hanno costituito occasione per un nuovo e decisivo intervento delle Sezioni unite della Corte.
Sebbene la questione rimessa all’esame delle Sezioni unite riguardasse la configurabilità dell’articolo 20, comma 1, lettera a), legge n. 47 del 1985 (ora, articolo 44, comma 1, lettera a), d.P.R. n. 380 del 2001) le affermazioni contenute nella decisione emanata dalla Corte di cassazione, nella sua più autorevole composizione, sono senza dubbio estensibili anche alle fattispecie di cui alle lettere b) e c) dell’articolo 20 della legge n. 47 del 1985 (Sez. 3, n. 21487 del 2006, Tantillo, in motiv., con la conseguenza che il medesimo principio vale ora per l’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001), posto che la quaestio iuris, attenendo alla valenza attribuita, nella relativa fattispecie, al rinvio alla “concessione edilizia” (ora, permesso di costruire), si risolveva nello stabilire l’apprezzabilità penale delle violazioni delle norme degli strumenti urbanistici e del regolamento edilizio, in caso di opere eseguite a seguito dell’atto di assenso comunale ad edificare, atteso che tale assenso postulerebbe il positivo esame di conformità urbanistica ed edilizia dell’opera.
Ne deriva che i principi di diritto affermati hanno rivestito, nell’ambito della successiva evoluzione giurisprudenziale, una importanza fondamentale ai fini della ricostruzione dei fatti-reato tipizzati nelle norme penali urbanistiche, definendo il ruolo assegnato, in questa materia, al giudice penale.
Le Sezioni unite Borgia, all’esito di un’analisi storica della normativa urbanistica, hanno precisato come l’oggetto della tutela penale – che originariamente si identificava nel “bene strumentale” del controllo e della disciplina degli usi del territori – fosse progressivamente mutato nel tempo a seguito dell’entrata in vigore della legge 6 agosto 1967 n. 765 introduttiva tra l’altro degli standard urbanistici e della salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio, dell’articolo 80 d.P.R. 24 luglio 1977 n.616 ed alla successiva normativa (fra le altre: legge 8 agosto 1985 n.431).
Già questo complesso normativo suggeriva che l’urbanistica non potesse farsi solo consistere nella disciplina dell’attività edilizia, dovendosi la relativa nozione estendere alla disciplina degli usi del territorio in senso sociale, economico e culturale, ivi compresa la valorizzazione delle risorse ambientali, nonché alle relazioni che si instaurano tra gli elementi del territorio e non soltanto dell’abitato, fino a giungere alla svolta costituita dalla legge del 1985 n. 47, che all’articolo 6 (ora, articolo 29 d.P.R. n. 380 del 2001), nell’identificare i responsabili delle opere di trasformazione del territorio subordinate quindi a rilascio della concessione edilizia (ora, permesso di costruire), definisce l’ambito della responsabilità per le violazioni con riferimento alla “conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché ... a quelle della concessione ad edificare e alle modalità esecutive stabilite dalla medesima” e che agli articoli 13 e 22 (ora, rispettivamente articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380 del 2001), come si è visto, riconnette all’esecuzione di opere edilizie, in conformità degli strumenti urbanistici vigenti, il rilascio della concessione edilizia (ora, permesso di costruire) in sanatoria, da parte del sindaco, come atto dovuto, disponendo che il predetto assenso postumo rispetto all’opera realizzata in assenza di concessione (ora, permesso) comporta l’estinzione del reato urbanistico, e, nelle more del perfezionamento della relativa procedura amministrativa, la sospensione del procedimento penale.
Da ciò, le Sezioni unite hanno tratto logico e solido argomento per sostenere che, se l'urbanistica disciplina l'attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso “territorio” costituisce il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, cit., in motiv.).
Quindi, dopo aver ricordato che il bene giuridico protetto dalle norme penali urbanistiche s’incentra nel territorio, le Sezioni unite hanno osservato che l’accertamento attribuito al giudice penale, nella materia in esame, consiste nel procedere ad esatta e concreta verifica tra opera in corso di esecuzione o realizzata (con riguardo anche alla sua funzione, oltre che alle caratteristiche fisiche, strutturali, planovolumetriche e tipologiche) e fattispecie legale, quale descrittivamente risulta dagli indicati elementi extrapenali, cioè di natura amministrativa. Sicché gli strumenti normativi urbanistici (ed in particolar modo le norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale) nonché il regolamento edilizio, la concessione edilizia (ora, permesso di costruire) costituiscono l’organico parametro per l’accertamento della liceità o meno dell’opera edilizia.
Logica conseguenza di ciò, secondo le Sezioni unite, è che la concessione edilizia (ora, permesso di costruire) - nei limiti del suo contenuto provvedimentale di esternazione formale dell’assenso comunale a costruire - integra, con le sue eventuali prescrizioni sempreché compatibili con il progetto approvato, la fattispecie penale, specificandone i connotati, in vista della salvaguardia dell’interesse tutelato: il tutto con riguardo ad attività comportanti trasformazione urbanistica del territorio.
Pertanto, al giudice penale non è affidato, in definitiva, alcun c.d. sindacato sull’atto amministrativo (concessione edilizia/permesso di costruire), ma – nell’esercizio della potestà penale – egli è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera eseguenda o eseguita) e fattispecie legale, in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo.
In conclusione, le Sezioni unite Borgia hanno ritenuto che il reato di cui all’articolo 20, lettera a), della legge n.47 del 1985 (ma, come si è detto, l’esito interpretativo è estensibile anche alle fattispecie di cui alle lettere b) e c) dell’articolo 20 della legge n. 47 del 1985; ora articolo 44, comma 1, lettere a), b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001) sia configurabile in caso di realizzazione di opere di trasformazione del territorio in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito dalle prescrizioni della concessione edilizia (ora, permesso di costruire), richiamata dalla norma penale ad integrazione descrittiva della fattispecie penale, nonché delle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti ed - in quanto applicabili - da quelle della stessa legge.
In considerazione dell’enunciato principio, le Sezioni unite, anche prendendo atto del precedente arresto formulato dalla sentenza Giordano, hanno significativamente affermato non potersi ritenere che, in presenza di una aporia dell’opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale debba ugualmente concludere per la mancanza di illiceità penale solo perché sia stata rilasciata la concessione edilizia (ora, permesso di costruire), la quale nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell’atto, non è idonea a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle stesse rappresentazioni grafiche del progetto, a seguito della cui approvazione, tale atto amministrativo viene emesso, precisando che il limite anzidetto al potere di accertamento penale del giudice non può essere posto evocando l’enunciato dell’articolo 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 allegato E), in quanto tale potere non è volto ad incidere sulla sfera dei poteri riservati alla pubblica amministrazione, e quindi ad esercitare un’indebita ingerenza, ma trova fondamento e giustificazione in una esplicita previsione normativa, la quale postula la potestà del giudice di procedere ad un’identificazione in concreto della fattispecie sanzionata (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, Borgia, in motiv.).
3. La successiva giurisprudenza di legittimità si è consolidata sulla base dei principi affermati dalla sentenza Borgia.
3.1. Riservando l’analisi delle pronunce a quelle segnalate dall’Ufficio del Massimario della Corte, l’orientamento, pressoché consolidato, si è assestato sul principio in forza del quale, in materia edilizia, allorché il giudice accerta l’esistenza di profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo non pone in essere la procedura di disapplicazione riconducibile all’articolo 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E), atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga, Rv. 273218; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi, Rv. 270644; Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, Faiola G., Rv. 265034; Sez. 3, n. 41620 del 02/10/2007, Emelino, Rv. 237995; Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo, Rv. 234469; Sez. 3, n. 4877 del 18/12/2002, dep. 2003, Tarini, Rv. 223533; Sez. 3, n. 1756 del 12/05/1995, Di Pasquale, Rv. 202077), cosicché non si pone un problema di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato, precisando che, in materia di violazione dell’articolo 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, la non conformità dell’atto amministrativo alla normativa che ne regola l’emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia e alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l’atto sia illecito, e cioè frutto di attività criminosa, ma anche nell’ipotesi in cui l’emanazione dell’atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l’esercizio del potere (Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Minosi, Rv. 271170; Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sorini, Rv. 256971; Sez. 3, n. 1894 del 14/12/2006, dep. 2007, Bruno, Rv. 235644; Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006, Consiglio, Rv. 237038).
3.2. In difformità con il predetto orientamento si pongono, invece, quelle pronunce che, richiamando i principi della sentenza Giordano, sostengono che le ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) dell’articolo 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono ritenersi realizzate in “assenza” di permesso di costruire quando le opere siano state eseguite sulla base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo, ma non illecito o viziato da illegittimità macroscopica tale da potersi ritenere sostanzialmente mancante (Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino, Rv. 263916; Sez. 4, n. 38824 del 17/09/2008, Raso, Rv. 241064; Sez. 3, n. 2906 del 28/11/1997, dep. 1998, Bortoluzzi, Rv. 210460; Sez. 6, n. 2378 del 27/06/1995, Barillaro, Rv. 202581; Sez. 3, n. 3459 del 23/12/1994, dep. 1995, De Nobili, Rv. 201225).
Recentemente, ai fini della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva, è stato affermato non essere sufficiente che l’atto concessorio sia meramente illegittimo per mancato rispetto delle norme che regolano l’esercizio del potere, essendo invece necessario che esso sia illecito, perché frutto dell’attività criminosa del soggetto che lo rilascia, o viziato da illegittimità macroscopica per contrarietà a norme imperative, tale da potersi ritenere sostanzialmente inesistente (Sez. 4, n. 38610 del 20/07/2017, Comune di Sperlonga, Rv. 270931).
4. Il Collegio ritiene di aderire al primo orientamento, che si è consolidato a seguito della sentenza Borgia, sulla base delle seguenti ed ulteriori considerazioni.
4.1. Non vi è dubbio che l’accertamento incidentale del giudice penale sulla legittimità dell’atto amministrativo è ammesso quando il potere cognitivo trovi fondamento in una esplicita previsione legislativa, ovvero qualora la legalità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa.
Gli esempi, che sono portati a tale proposito, riguardano la fattispecie di cui all’articolo 650 del codice penale, in quanto per la configurabilità della contravvenzione in parola è necessaria la presenza di un provvedimento legalmente dato, nonché il reato di lottizzazione abusiva, che è fattispecie a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un provvedimento di autorizzazione, sia quando quest'ultimo sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici (Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini, Rv. 220708).
Si ha infatti lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione (articolo 30 d.P.R. n. 380 del 2001).
Quindi, in tema di lottizzazione, il reato si configura, per espressa previsione legislativa, anche in presenza di una autorizzazione a lottizzare illegittima, che sia stata cioè rilasciata in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite da leggi statali o regionali, cosicché al giudice ordinario, a prescindere dall’atto autorizzatorio amministrativo e senza lo svolgimento di alcun controllo su tale atto, viene demandata la verifica diretta della trasformazione territoriale realizzata alla stregua delle prescrizioni di legge e di qualsiasi strumento urbanistico di carattere generale, anche soltanto adottato, ed una verifica siffatta, lungi dall’interferire in qualsiasi modo sull’attività della pubblica amministrazione, costituisce riscontro di elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa (Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini, in motiv.).
4.2. Da molto tempo, il ruolo svolto da un atto amministrativo nella tipizzazione di una fattispecie incriminatrice è stato inquadrato, da una parte della dottrina e della giurisprudenza, nella più ampia questione concernente la funzione che, nell’ambito della struttura del fatto tipico e, quindi, della puntuale descrizione del precetto penale così da rispettare il principio di tassatività, è assicurata dall’elemento normativo della fattispecie.
Per quanto qui interessa, non essendo possibile, in questa sede, procedere ad un maggiore approfondimento della questione, si parte dal presupposto che il legislatore, nel descrivere con precisione il fatto tipico in maniera che il comportamento attivo od omissivo penalmente rilevante sia estremamente chiaro per i destinatari della norma penale, ricorre all’uso di termini giuridici (quali dati normativi o, per la norma penale che deve essere posta mediante la formulazione del precetto, ricorre a pre-dati normativi della realtà).
In questi casi, la formulazione legislativa del precetto utilizza un linguaggio normativo attraverso il quale la fonte di produzione ricorre ad una tecnica di redazione della fattispecie (norma) penale che, in modo preciso ma al tempo stesso conciso, tipicizza il fatto di reato attraverso il riferimento a “fonti” esterne, le quali hanno già una loro consistenza e definizione, con la conseguenza che il legislatore, per mantenere sintetiche le norme penali altrimenti occorrendo una definizione per ogni espressione linguistica che compone il precetto, le richiama.
Per rimanere aderenti al tema che interessa, i titoli di reato che prevedono gli abusi edilizi (articolo 44, lettera a), b) e c), d.P.R. 380 del 2001), allorquando richiamano il permesso di costruire (ex concessione edilizia), si riferiscono ad un provvedimento amministrativo, che deve essere richiesto all’autorità comunale e che deve essere dalla stessa autorità rilasciato, con il quale si abilita l’interessato all’esecuzione di un intervento edilizio in conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica ed alla normativa edilizia complessivamente considerata.
Ciò si ricava dal fatto che l’articolo 12, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 stabilisce, tra l’altro, che “il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
A sua volta, l’articolo 13, comma 1, stessa legge dispone che “il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o dal responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici”.
Infine l’articolo 29, comma 1, stesso decreto precisa, per quanto qui interessa, che “il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quella del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo”.
Ne consegue che quando le norme penali in materia urbanistica richiamano il permesso di costruire presuppongono che, per escludere la configurazione del reato, il titolare del permesso sia in possesso di un titolo abilitativo legittimo, altrimenti non avrebbe senso imputargli, unitamente ad altri soggetti, una responsabilità per mancata conformità dell’intervento (autorizzato in base ad un titolo rilasciato dalla competente autorità comunale) alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché a quella del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo, permesso che si presuppone appunto rilasciato.
Perciò, nei casi come quelli in precedenza indicati, ossia quando l’atto rileva all’interno della fattispecie incriminatrice come suo elemento costitutivo (di natura normativa), non è più in gioco l’articolo 5 della legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo poiché il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, in quanto difforme dal modello legale richiesto pacificamente dalla normativa di settore, è, dal punto di vista penalistico, un quid totalmente diverso da quello che la figura di reato richiede quando definisce la tipicità dell’illecito, con la conseguenza che i limiti di rilevanza dell’atto devono essere individuati nel quadro della fattispecie incriminatrice integrata dal rinvio che essa opera in conformità alla ratio (interesse protetto) che la sostiene, al fine di verificare se la fattispecie storica sia o meno sussumibile in quella astratta prevista dalla legge per l’integrazione del reato, cosicché, in casi del genere, il controllo di legittimità sull’atto non è legato alla sua disapplicazione o meno ma alla circostanza che il permesso di costruire, il quale non solo non deve mancare ma deve essere anche legittimo in concreto, è un elemento normativo della fattispecie, avendo come parametro valutativo di riferimento, nella parte descrittiva del precetto penale, le norme amministrative che lo disciplinano ed alle quali il precetto stesso rinvia.
In conclusione, il giudice penale deve controllare, al fine di ritenere sussistente o insussistente il reato, tutto ciò che il legislatore, nel solco tracciato dal principio costituzionale di legalità nell’attività amministrativa (articolo 97 cost.), abbia indicato, esplicitamente o implicitamente, nella descrizione delle varie fattispecie penali come rilevante ai fini della tipizzazione del fatto punibile.
In quest’ottica non si pone, per le ragioni in precedenza esposte e per quelle ulteriori che tra breve si diranno, alcun contrasto tra attività cognitiva del giudice penale e principio di tassatività della norma penale perché, come è stato chiarito, il giudice non procede ad equiparare, sulla base di un’interpretazione analogica in malam partem, il permesso di costruire mancante con quello invece esistente, ancorché illegittimo, e neppure si pone un problema di collisione con il divieto di irretroattività occulta o mascherata della norma penale, nella misura in cui la predicata “disapplicazione” in malam partem dell’atto amministrativo renderebbe illecita una condotta che, quando fu realizzata, era da ritenersi lecita perché compiuta sulla base di un titolo abilitativo da presumersi legittimo e soltanto in via postuma disapplicato da parte del giudice penale, ossia solo dopo che l’agente, in possesso del titolo abilitativo ancorché illegittimo, abbia dato corso ai lavori, titolo sulla base del quale il privato interessato abbia peraltro fatto affidamento incolpevole.
Sotto quest’ultimo profilo che investe, invece, la questione della compatibilità della ricordata interpretazione delle norme penali urbanistiche con il principio costituzionale di colpevolezza, spetta, come già è stato precisato dalla giurisprudenza di legittimità, al giudice penale il delicato compito di verificare l’esistenza o meno dell’elemento soggettivo del reato, anche soltanto sotto il profilo della colpa, attraverso la individuazione, in concreto, di eventuali situazioni di buonafede e di affidamento incolpevole (Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, cit., in motiv.).
Sotto altro verso, una diversa interpretazione condurrebbe a conseguenze del tutto illogiche e, siccome incostituzionali indipendentemente dalla praticabilità o meno di un sindacato di costituzionalità in materia, contra tenorem rationis.
Mentre infatti integrerebbe la fattispecie incriminatrice, quantunque il reato sia suscettibile di estinzione (articolo 45, comma 3, d.P.R. 380 del 2001), chi esegua lavori senza richiedere il permesso di costruire ma in conformità agli strumenti urbanistici, se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità oppure mentre sarebbe punibile tout court, senza neppure la possibilità di ricorrere alla sanatoria, chi abbia eseguito, senza il permesso di costruire, lavori in contrasto con gli strumenti urbanistici ma li abbia successivamente eliminati, rendendo il fatto ex post inoffensivo per aver riportato il manufatto in una situazione di conformità alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù, Rv. 266034; Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422), sarebbe invece esonerato da qualsiasi responsabilità penale colui il quale, munito invece di un permesso di costruire illegittimo, abbia eseguito lavori nonostante l’intervento risulti in contrasto con la disciplina urbanistica, determinando un perdurante aggravio del carico urbanistico e comunque una permanente offesa al bene giuridico tutelato.
Va allora ribadito che, nell’ipotesi in cui si edifichi con permesso di costruire illegittimo, non rileva più la disapplicazione di un atto amministrativo, ma la questione riguarda piuttosto il potere di accertamento del giudice penale dinanzi ad un provvedimento, che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato.
In tale ambito, come è stato puntualmente chiarito, l’individuazione dell’interesse tutelato dalle norme penali urbanistiche non serve per attribuire tipicità ad un fatto di reato che sia privo di tale indefettibile connotato, la qual cosa sarebbe, come ovvio, giuridicamente impraticabile, ma svolge piuttosto la funzione di attribuire l’esatto significato all’elemento normativo delineato nella fattispecie incriminatrice di riferimento e che, in quanto tale, è ricompreso toto iure nella tipicità del fatto, dovendo ritenersi compreso nel tipo e, dunque, nel controllo, tutto ciò che, al di là della lettera della legge, sia imposto dalla immancabile funzione interpretativa, anche estensiva, della disposizione penale che va condotta alla luce del bene giuridico tutelato, della ratio della norma e di ogni altro elemento ricavabile dal sistema per ricostruire l’intenzione del legislatore, sicché il giudice penale deve verificare, al fine di ritenere sussistente o meno il reato, tutto ciò che nella descrizione delle varie fattispecie penali, sia stato indicato, esplicitamente o implicitamente, come rilevante.
Perciò, in questi casi, non si tratta né di applicabilità, né di inapplicabilità dell’atto amministrativo, ma semplicemente di verifica dei requisiti che il provvedimento deve presentare ai fini dell’integrazione del fatto penalmente rilevante.
Ne consegue che – quando la mancanza o l’illegittimità di un atto amministrativo (perché non rilasciato o perché, quantunque emesso, sia difforme dal tipo legale e, quindi, illegittimo) costituisce un elemento normativo della fattispecie incriminatrice – non viene in rilievo il potere dell’autorità giudiziaria di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento giurisdizionale, inteso quale diretta espressione del principio di legalità come declinato dall’articolo 101, comma 2, Cost., potere che compete pleno iure al giudice penale – il quale “risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito” (articolo 2, comma 1, del codice di procedura penale) – e dunque detto potere deve essere esercitato anche in ordine ad un provvedimento (amministrativo) quando l’atto costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato o, comunque, incide su di esso (Sez. 3, n. 38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider, non mass.); cosicché l’esame del giudice penale non tende alla disapplicazione o meno dell’atto e non riguarda l’esistenza “ontologica” del provvedimento amministrativo, ma l’integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale (nel caso di specie articoli 12, 13 e 29 d.P.R. n. 380 del 2001) convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva (Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, cit., in motiv.).
4.3. Va anche sottolineata, per l’importanza che il tema riveste in ordine al più generale problema del controllo di legalità, la straordinaria portata delle norme costituzionali circa i rapporti tra giudice ordinario e gli atti della pubblica amministrazione.
E’ stato affermato che il tema del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi trova fondamento nel principio del primato della legge, rispetto alla quale, tutti (tanto i cittadini quanto, a maggior ragione, i pubblici poteri) sono subordinati, principio declinato dall’articolo 101, comma 2, Cost., in forza del quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Il rilievo che la disposizione costituzionale non si limiti a statuire che i giudici sono soggetti alla legge ma significativamente enunci che essi sono soggetti “soltanto” alla legge, implica che tra le varie forme attraverso le quali tale soggezione si articola (e cioè che ogni provvedimento giurisdizionale debba trovare esclusivo fondamento sulla legge, alla quale soltanto il giudice deve dare applicazione non essendo autorizzato a creare regole generali ed astratte, per essere l’efficacia della sua decisione limitata alle parti in giudizio, c.d. efficacia inter partes; che il giudice abbia l’obbligo di conoscere la legge, in quanto la conoscenza di essa costituisce pre-condizione per la sua applicazione; che il giudice non sia in alcun modo autorizzato a rifiutare l’applicazione della legge, salvo che si tratti di leggi abrogate o di leggi annullate dalla Corte costituzionale ai sensi dell’articolo 134 Cost.) vi è quella per la quale la soggezione “soltanto” alla legge implica che il giudice non è incondizionatamente obbligato a dare applicazione agli atti della pubblica amministrazione, ivi inclusi gli atti a contenuto normativo, ossia i regolamenti, quando essi siano contrari alla legge, alla quale solo il giudice è appunto assoggettato.
Da ciò è stato tratto argomento per sostenere che gli atti amministrativi sono vincolanti per il giudice all’imprescindibile condizione che essi risultino formalmente fondati sulla legge e, quindi, materialmente conformi ad essa, con la conseguenza che, come l’obbligo di applicare la legge implica l’obbligo di applicare anche gli atti cui la legge faccia rinvio, allo stesso modo l’obbligo di applicare “solo” la legge implica l’obbligo di negare applicazione ad ogni atto, diverso dalla legge, cui la legge non faccia rinvio.
Su queste basi, in controluce, si ricava allora il principio secondo il quale l’obbligo di applicare “soltanto” la legge implica l’obbligo di negare applicazione ad ogni atto che, sebbene formalmente fondato sulla legge, sia tuttavia materialmente incompatibile con la legge o sia difforme da essa.
Sotto tali aspetti, l’articolo 101 Cost. ha dunque l’attitudine a rifondare il rapporto tra giudice ordinario e pubblica amministrazione nel senso che, fermi i principi stabiliti dalla legge 20 marzo 1865 n. 2248 allegato E) e l’ambito di operatività che è stato loro assegnato quale esclusivo presidio per la violazione dei diritti soggettivi (Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, Giordano, cit.), gli atti della pubblica amministrazione soggiacciono al principio di legalità (articolo 97 Cost.) e, rispetto ad essi, il controllo di legalità (articolo 101, comma 2, Cost.) non è precluso quando gli atti amministrativi siano difformi dal parametro legale richiesto per la loro legittimità.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, tutte le norme penali, siano esse preesistenti che successive alla Costituzione stessa, che facciano riferimento, implicito o esplicito, ad un atto della pubblica amministrazione come elemento normativo della fattispecie non possono che riferirsi, per ritenere o per escludere il reato a seconda che si presentino come presupposto positivo o negativo della condotta, ad un’attività amministrativa che presupponga l’emanazione di un atto legittimo di esercizio del potere, non essendo necessario, in presenza peraltro di una presunzione di legittimità di tali atti, contemplare, per fondare il controllo di legalità affidato al giudice penale allorquando debba risolvere una questione decisiva per la decisione, anche l’ipotesi di illegittimità dell’atto amministrativo.
4.4. Tale approdo è stato convalidato dai principi affermati dal codice di procedura penale, unico complesso normativo redatto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.
Come si è visto, siccome il giudice è obbligato a valutare la conformità dell’atto amministrativo alle indicazioni formali e sostanziali indicate dalla legge, è evidente come siffatto controllo debba esplicarsi tanto sulla base di indicazioni normative di rango legislativo (articoli 2, 4 e 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248 allegato E), quanto sulle nome costituzionali (articoli, 97, 101, comma 2, 113 Cost.).
E’ sufficiente ricordare che, secondo il codice di rito previgente (articolo 20 cod. proc. pen. 1930), il giudice penale, a condizioni esatte, poteva investire la giurisdizione civile o amministrativa per la soluzione di questioni incidentali non di facile risoluzione e, qualora la decisione avesse acquisito autorità di cosa giudicata, detta decisione, intervenuta sulla questione pregiudiziale civile o amministrativa invocata, lo vincolava (articolo 21 cod. proc. pen. 1930).
I precedenti principi sono stati capovolti dalla nuova procedura perché, in forza dell’articolo 2, comma 1, del codice di procedura penale, il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito, ed inoltre la decisione del giudice penale che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia vincolante in alcun altro processo (articolo 2, comma 2, del codice di procedura penale).
Da ciò si deduce che, incidenter tantum e, quindi, con effetti limitati al processo in corso, il giudice penale non solo è legittimato ad esercitare il controllo sulla legalità amministrativa ma deve, di regola, risolvere autonomamente ogni questione utilizzando all’uopo tutti gli strumenti conoscitivi posti a sua disposizione dall’ordinamento penale, senza sospendere il processo il corso.
Come è stato sottolineato, l’articolo 2 del codice di procedura penale appare la perfetta conseguenza sul piano applicativo dell’articolo 101, comma 2, Cost.
Il compito del giudice penale è infatti quello di applicare la legge penale, cosicché egli deve autonomamente decidere, salvo che sia diversamente stabilito, su un determinato fatto storico, anche prescindendo da valutazioni di questioni riguardanti la legittimità dell’atto amministrativo, parallelamente compiute da altri giudici.
Il principio di uniformità della giurisdizione è dunque recessivo rispetto al principio di soggezione del giudice soltanto alla legge.
Ogni giurisdizione ha infatti proprie specificità, regole e saperi ed il giudice, per risolvere tutte le questioni decisive per la decisione, utilizza conoscenze, generate dal diritto probatorio penale, notevolmente diverse da quelle proprie delle altre giurisdizioni, con la conseguenza che possibili contrasti tra giudicati rientrano nella natura delle cose, soprattutto quando detti contrasti siano originati dal fatto che, di norma, il materiale conoscitivo sul quale fonda la decisione penale non è pienamente sovrapponibile, essendo di natura e consistenza diversa, rispetto a quello acquisito da altre giurisdizioni.
4.5. Sulla base delle precedenti considerazioni, deve ritenersi pertanto ineccepibile l’orientamento pronosticato dal Tribunale nella sentenza impugnata e infondato il motivo di ricorso.
5. La non manifesta infondatezza del secondo motivo del ricorso Buono, estensibile al Bruno, già determinerebbe di per sé la prescrizione del reato.
In ogni caso, deve ritenersi fondato il motivo aggiunto con il quale Francesco Saverio Bruno ha dedotto il travisamento della prova, in relazione alla individuazione della data di ultimazione dei lavori conseguenti al permesso numero 6 del 2012, come risultante dal testo del provvedimento impugnato.
Effettivamente, nella sentenza impugnata, si afferma che i lavori “furono ultimati e collaudati come da comunicazione in data 03-12-2012 protocollo 42817”, mentre in altra parte della decisione si afferma che la comunicazione di ultimazione dei lavori da parte del direttore dei lavori protocollo 42817 fosse del 3 dicembre 2013, richiamando, all’uopo, la nota dell’area tecnica del comune di Pozzuoli n. 568 del 15 luglio 2013; tuttavia, dalla predetta nota dell’area tecnica, acquisita agli atti del procedimento ed allegata in copia al motivo aggiunto, si evince che la comunicazione di ultimazione dei lavori protocollo n. 42817 è del 3 dicembre 2012, con la conseguenza che, anche calcolando in termini di sospensione della prescrizione, la causa estintiva è definitivamente maturata in data 4 febbraio 2018.
Trattandosi di motivo comune ad entrambi i ricorrenti (peraltro il ricorrente Buono ha comunque eccepito, sia pure per altri motivi, la prescrizione del reato con la quarta censura), la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione, con conseguente assorbimento del primo (di natura processuale), del secondo e del terzo (riguardanti questioni relative all’applicazione di circostanze attenuanti) motivo del ricorso Bruno nonché assorbimento del primo (di natura processuale) del terzo (non essendo di immediata evidenza la reclamata esclusione dell’elemento soggettivo del reato) e del quarto (con il quale è stata eccepita per altre ragioni la prescrizione del reato) motivo del ricorso Buono.
6. Va esaminato, invece, il quarto motivo del ricorso Bruno con il quale il ricorrente si duole del fatto che il Tribunale, pur avendo per una parte dei fatti contestati emesso sentenza di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non avrebbe disposto la restituzione delle opere sequestrate in violazione del disposto dell’articolo 323, comma 1, del codice di procedura penale, essendo il sequestro preventivo divenuto inefficace in ragione della certa appartenenza della sentenza di prescrizione al genus delle sentenze di proscioglimento.
Il motivo non è ammissibile.
Effettivamente l’articolo 323, comma 1, del codice di procedura penale impone al giudice che abbia adottato una decisione di merito liberatoria nel procedimento principale, cui acceda un sequestro preventivo, di ordinare il dissequestro e la restituzione dei beni sottoposti a vincolo preventivo pur nel caso in cui la decisione non sia passata in giudicato (“sentenza di proscioglimento ... ancorché soggetta a impugnazione”).
Tuttavia la competenza funzionale (determinata dall’avere il giudice adottato la decisione di proscioglimento), allorquando il giudice non abbia alcunché disposto sui beni in sequestro preventivo contestualmente alla pronuncia della sentenza di proscioglimento di primo grado, spetta (su istanza delle parti interessate aventi diritto alla restituzione dei beni) allo stesso giudice che ha definito il procedimento, il quale deve emettere la declaratoria di “inefficacia” del sequestro preventivo, sussistendone i presupposti di legge (sentenza di proscioglimento, esecuzione di un sequestro preventivo su beni collegati alle imputazioni per le quali il proscioglimento è intervenuto, interesse e legittimazione degli istanti o dei prosciolti ad ottenere la restituzione dei beni), con statuizione che assume i caratteri di atto giudiziario dovuto (“con la sentenza di proscioglimento ... il giudice ordina che le cose sequestrate siano restituite a chi ne abbia diritto”) o può negare la restituzione con motivate ragioni e la decisione del giudice di mancata declaratoria di inefficacia del decreto di sequestro preventivo è poi soggetta al rimedio di carattere generale esperibile per tutti i provvedimenti cautelari, diversi da quello impositivo della misura, e cioè all’appello ex articolo 322-bis del codice di procedura penale, sicché non è esperibile direttamente il ricorso per cassazione, se non a seguito della decisione del tribunale del riesame.
7. Parimenti infondato è il quinto motivo dei rispettivi ricorsi.
I ricorrenti assumono che il tribunale avrebbe ritenuto che gli articoli 870 e 871 del codice civile si riferiscono ad un danno comprensivo di quello previsto dall’articolo 872 stesso codice, con conseguenze rilevanti in tema di distribuzione dell’onere probatorio.
Avrebbe dunque errato il Tribunale laddove ha ritenuto sussistente un danno in re ipsa sul presupposto della violazione degli articoli 869, 870, 871, 872 del codice civile; mentre alla luce di una corretta interpretazione, il Tribunale avrebbe dovuto valutare la mancanza di asservimento di fatto del fondo, escludendo il danno in re ipsa quale scaturente dalle norme in materia edilizia; conseguentemente, in considerazione della necessità della prova sia in ordine all’an che al quantum, il Tribunale avrebbe dovuto valutare la mancata violazione delle disposizioni sulle distanze e sulla normativa a tutela della proprietà per il mancato assolvimento dell’onere probatorio ovvero per l’inesistenza del danno.
Sul punto, il Tribunale – con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di essere sottoposto al sindacato di legittimità – ha affermato che, quanto alla sussistenza del danno, la persona danneggiata dal reato era confinante del Bruno ed era dunque rimasta certamente lesa dalla indebita attività edificatoria di quest'ultimo e ciò anche sulla base del combinato disposto di cui agli articoli 869-870 e 871 del codice civile.
Sul punto, il Tribunale ha ritenuto che le norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli strumenti urbanistici o nei regolamenti di igiene contengono discipline sulle distanze e svolgono una funzione integrativa dell’articolo 872 del codice civile, con la conseguenza che la loro violazione è fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno oggettivo o “in re ipsa” e chiarendo che tale danno non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che sarebbero superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche nella indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale e che la realizzazione di un edificio di altezza e volumetria superiori a quelle consentite, in violazione di norme in tema di urbanistica, può comportare per il vicino una diminuzione di luce ed aria (ed una connessa diminuzione del valore del proprio edificio) superiori a quelle altrimenti legittime; dando così luogo alla configurabilità di una responsabilità per danni, la cui liquidazione è stata demandata alla competente sede civile atteso che la parte civile non aveva offerto alcuna specifica prova dell’entità di esso.
In disparte la considerazione che i ricorrenti non si confrontano, su più punti, con la ratio decidendi della sentenza impugnata, osserva il Collegio come il Tribunale, nel pervenire alla censurata decisione, si sia correttamente attenuto ai principi di diritto che la Corte regolatrice ha più volte espresso in questa materia, secondo i quali, in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria (Cass. civ., Sez. 2, n. 25475 del 16/12/2010, Altomare contro Palopoli, Rv. 615881 – 01; Cass. civ., Sez. 2, n. 11196 del 07/05/2010, Imm. Regina Srl contro Di Stefano, Rv. 612967 - 01).
Sulla base di ciò, le doglianze devono pertanto ritenersi infondate.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione e conferma le statuizioni civili.
Così deciso il 07/06/2018.