Cass. Sez. III n. 39340 del 31 agosto 2018 (Ud 9 lug 2018)
Pres. Di Nicola Est. Ramacci Ric. Morciano
Urbanistica.Ristrutturazione e caratteristiche preesistente edificio crollato o demolito
L’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma primo, lettera d) del d.P.R. 380\01non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'Appello di Lecce, con sentenza del 21/6/2017 ha confermato la decisione con la quale, in data 18/2/2015, il Tribunale di quella città aveva affermato la responsabilità penale di Vito MORCIANO per il reato di cui all'art. 480 cod. pen., così modificata l'originaria imputazione, relativa all’art. 479 cod. pen.
All'imputato veniva contestato il concorso nell'illecito rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica, integrativa della domanda presentata dal progettista, nella quale si attestava falsamente che le opere previste nella proposta progettuale non comportavano variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti, fatti indicati nell’imputazione come smentiti dall'esame degli atti, trattandosi di intervento modificativo della sagoma e degli indici plano-volumetrici rispetto all'esistente, considerando l’altezza non rilevabile, in quanto il vecchio fabbricato rurale da ristrutturare risultava crollato, come documentato dalle fotografie a corredo della pratica edilizia. Sarebbero stati così costituiti gli indispensabili falsi presupposti che consentivano al MORCIANO, quale tecnico comunale, di rilasciare il provvedimento autorizzatorio.
I fatti venivano accertati in Patù, il 23 dicembre 2008.
2. Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, richiamando il contenuto dell'articolo 3, comma 1, lett. d) d.P.R. 380/2001come modificato dall'articolo 30 d.l. 69/2013, segnatamente per quanto concerne la ristrutturazione dei ruderi.
Osserva, a tale proposito, che trattandosi di edificio crollato, non potevano che prendersi in esame i parametri murari ancora esistenti per risalire, attraverso uno studio storico e rilevazioni inerenti edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura, per delineare l'originaria consistenza del manufatto da ristrutturare.
Rileva, inoltre, che i giudici del gravame sarebbero incorsi in una motivazione illogica nello specificare le ragioni per le quali una simile soluzione interpretativa della normativa richiamata non sarebbe stata condivisibile ed aggiunge che non sarebbe sufficiente a chiarire le ragioni del convincimento del giudice del gravame il fatto che lo stesso si limita ad indicare come irrimediabilmente persi i parametri di riferimento volumetrico sia in termini di perimetro che di altezza .
4. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto di falso, osservando che la sentenza impugnata avrebbe pedissequamente fatto riferimento all’illegittimità urbanistica per ricavare la conseguente incidenza della stessa sotto il profilo ambientale. Tale soluzione sarebbe incompatibile con la tipologia e le finalità dell'autorizzazione paesaggistica, che è atto distinto e diverso rispetto al permesso di costruire.
5. Con un terzo motivo di ricorso lamenta la mera apparenza della motivazione in punto di sussistenza dell'elemento soggettivo del reato o, comunque, la manifesta illogicità della stessa.
Aggiunge che proprio l'oggettiva esistenza di errori di valutazione da parte di plurimi soggetti, quali la commissione edilizia e la soprintendenza, fornirebbe un forte riscontro logico della sussistenza di un mero errore, al più colposo, tale da elidere la volontarietà della condotta.
6. Con un quarto motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed in punto di determinazione della pena.
Insiste pertanto per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che i fatti contestati risultano accertati in data antecedente alle modifiche del 2013 all’art. 3 del d.P.R. 380\01, quando, in considerazione della disciplina allora vigente, veniva esclusa la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/1/2007, Meli e altro, Rv. 236338;Sez. 3, n. 20776 del 13/1/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.), ritenendosi che la mancanza dei suddetti elementi strutturali, rendesse impossibile qualsiasi valutazione circa l’esistenza e la consistenza dell’edifico da consolidare.
Le decisioni dei giudici del merito sono successive alle modifiche e di esse ha evidentemente tenuto conto la decisione impugnata, la quale risulta conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione all’ambito di operatività della disciplina attualmente in vigore.
Come è noto, il d.l. 69\2013 (conosciuto anche come «decreto del fare»), intervenendo sull’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001, ha considerevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
L’articolo 3, comma primo, lettera d) del d.P.R. 380\01, nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del 3/6/2014, Quarta, Rv. 260551).
Si è anche ricordato che detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/1/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/6/2015, Petitto, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa, Rv. 266031).
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d) d.P.R. 380\01 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (Sez. 3, n. 45147 del 8/10/2015, Marzo e altri, Rv. 265444).
3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto del significativo dato fattuale della obiettiva impossibilità di individuare le originarie caratteristiche costruttive dell’immobile crollato, che definisce (pag. 5 della sentenza impugnata) come “un mero ammasso di pietre a secco con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e di piccola parte di un terzo muro”.
Una tale evenienza giustifica, di per sé, la possibilità di qualificare l’intervento come ristrutturazione ed evidenzia la correttezza delle conclusioni cui sono pervenuti i giudici dell’appello.
4. Il ricorrente pone tuttavia, a sostegno delle proprie ragioni, un ulteriore questione, che è quella della possibilità di risalire alla originaria consistenza dell’edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo “studio storico” o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato, possibilità che è stata correttamente esclusa dai giudici dell’appello.
Si tratta, invero, ad avviso del Collegio, di un assunto che non può essere assolutamente condiviso, non soltanto perché si pone in evidente contrasto con i principi dianzi richiamati, che, lo si ribadisce, impongono estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi, ma anche perché si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
La sentenza impugnata ha, dunque, giustamente escluso la correttezza della soluzione prospettata dalla difesa, proprio sulla base della impossibilità di “dare contezza specifica degli esatti limiti del preesistente” ed escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del mero richiamo dell’esistenza del manufatto nell’atto di compravendita del terreno per la genericità del richiamo e l’assenza di descrizione dello stesso.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
5. Va tuttavia ulteriormente affermato che l’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma primo, lettera d) del d.P.R. 380\01non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
6. Quanto al secondo e terzo motivo di ricorso, osserva il Collegio che gli stessi riguardano la sussistenza del falso in relazione al titolo abilitativo paesaggistico e sollevano questioni analoghe a quelle più volte affrontate da questa Corte con riferimento alla vicenda delle illecite cessioni di cubatura, che hanno visto coinvolto anche l’odierno ricorrente, sicché pare opportuno richiamare, anche in questa occasione, i precedenti arresti giurisprudenziali.
Nei diversi casi sottoposti all’attenzione di questa Corte la condotta attribuita agli imputati veniva originariamente qualificata come violazione dell’art. 479 cod. pen. e poi riqualificata ai sensi dell’art. 480 cod. pen.
In una recente decisione (Sez. 3, n. 28713 del 19/4/2017, Colella ed altri, non massimata) riguardante una vicenda relativa al comune di Morciano di Leuca, richiamate altre decisioni attinenti a procedimenti aventi ad oggetto fatti analoghi (Sez. 3, n. 42064 del 30/6/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/4/2016, Renna, Rv. 267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all’art. 479 cod. pen., in quell’occasione contestato, come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l’organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/7/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/6/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi (Sez. 3, n. 9881 del 8/2/2018, Costantini ed altri, cit.; Sez.3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri, cit.. V. anche Sez. 3, n. 57120 del 29/9/2017, Borrello ed altro, non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/5/2017, Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del 8/11/2017 (dep. 2018), Renna non ancora massimata).
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch’essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente, come nei casi esaminati, ai parametri normativi richiesti per l’emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti per l’integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all’atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli elaborati progettuali (Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017 (dep. 2018), Morciano ed altro, non massimata), sul difetto dell’elemento soggettivo (v. Sez. 5 n. 37915 del 26/4/2017, Baglivo, non massimata) ovvero sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n. 19384 del 12/2/2018, De Micheli ed altri, non massimata; Sez. 5, n. 7879 del 16/1/2018, Daversa e altri, Rv. 272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile qualificazione dei contenuti dell’atto che si assume falso, perché, come si è affermato in una recente pronuncia (Sez. 3, n. 8844 del 18/1/2018, Renna ed altro, non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/5/2017, Renna, cit. Negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del 18/1/2018, Dilonardo ed altri, non massimata), nell’autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell’intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
Quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo, nei casi esaminati si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita rientrasse in una “prassi” seguita dagli uffici comunali (Sez. 3, n. 35166 del 28/3/2017, Nespoli ed altri, citata), alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non compatibilità dell’intervento edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la Corte territoriale, ponendo in evidenza come l’atto del quale è stata riconosciuta la falsità “contiene qualificazioni decisive per la produzione degli effetti giuridici ad esso assegnato dall’ordinamento platealmente false laddove attesta la congruità dell’intervento con il preesistente, con supino recepimento delle indicazioni, parimenti false, contenute nella relazione in cui la proprietaria committente ed il tecnico progettista quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le stesse (...)” ed escludendo la possibilità di un mero errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione concernente la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa l’originaria consistenza del manufatto crollato era evidente per le modalità con le quali si assumeva verificata ed immediatamente percepibile dall’imputato in quanto soggetto tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo, quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale non riscontrabile in questa sede.
7. Per ciò che concerne, infine, il quarto motivo di ricorso, va evidenziato che lo stesso si sostanzia nella mera ripetizione di censure già prospettate alla Corte di appello ed alle quali è stata fornita risposta nella sentenza impugnata.
I giudici del gravame hanno infatti giustificato il diniego delle circostanze attenuanti generiche escludendo il rilievo degli elementi di valutazione prospettati dalla difesa, non condividendo l’affermazione circa la modesta idoneità offensiva della condotta ed evidenziando che il fatto che la costruzione non fosse ancora iniziata era del tutto indipendente dall’azione dell’imputato.
Invero, ai fini del riconoscimento delle attenuanti di cui all’art. 62-bis cod. pen., il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque, rilevanti ai fini del diniego (v. Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163 ; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244), con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419; Sez. 6, Sentenza n. 7707 del 4/12/2003 (dep. 2004), Anaclerio, Rv. 229768).
8. Quanto alla determinazione della pena, va ricordato che la graduazione della stessa, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (v., da ultimo, Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro e altro, Rv. 271243).
A tale principio risultano essersi adeguati i giudici del gravame riconoscendo la congruità della pena irrogata dal primo giudice.
Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila a favore della cassa delle ammende.
Così deciso in data 9/7/2018