Cass. Sez. III n. 45946 del 6 ottobre 2017 (Ud 5 mag 2017)
Presidente: Savani Estensore: Renoldi Imputato: Papa ed altro
Urbanistica.D.i.a. illegittima e responsabilità
La responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 11/05/2015, la Corte d'appello di Roma confermò la pronuncia in data 9/04/2014 con la quale il Tribunale di Roma aveva condannato Carmine Papa e Nawel Soheir Sekkal alla pena di due mesi di reclusione e di 200 euro di multa in relazione ai reati, unificati dal vincolo della continuazione, previsti dagli artt. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo a), 64-65 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo c) e 181, comma 1 del d.lgs. n. 42 del 2004 (capo d); fatti accertati in Roma tra il 5/10/2010 e il 9/03/2011. In precedenza, nei confronti dei due imputati, era stata stralciata l'imputazione relativa a una serie di ipotesi di violazione di sigilli, riscontrate tra il 12/01/2011 e il 9/03/2011 e contestate al capo b) della rubrica, la quale era stata definita, ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., con sentenza di applicazione della pena pronunciata dal tribunale capitolino in data 14/06/2012, irrevocabile per entrambi il 20/07/2012.
2. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i due imputati, a mezzo del difensore fiduciario, deducendo due distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione in relazione al motivo di appello concernente la legittimità dell'attività edificatoria realizzata dai due imputati in forza dell'istanza di condono edilizio presentata dal precedente proprietario il 31/03/2004, con conseguente applicabilità dell'art. 35 della legge n. 47 del 1985.
2.2. Con il secondo motivo, Papa e Sekkal censurano, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la carenza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta illegittimità dell'attività edificatoria eseguita in forza delle D.I.A. del 7/11/2006 e del 29/04/2010 per supposta violazione dell'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, che richiede il rilascio del permesso di costruire.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Con il primo motivo di doglianza, i ricorrenti lamentano l'omessa valutazione, da parte del giudice di appello, della deduzione difensiva secondo cui l'intervento edificatorio sarebbe stato eseguito dai due imputati su un manufatto legittimamente realizzato in forza del perfezionamento della procedura di condono edilizio di cui all'art. 35 della legge n. 47 del 1985, avviata con la richiesta presentata il 31/03/2004 dal precedente proprietario. Tale prospettazione è, però, del tutto infondata. Infatti, la contestazione mossa ai due imputati non concerne affatto la realizzazione dell'originaria costruzione, che la D.I.A. esibita da Papa al teste Colagrossi e il fascicolo amministrativo consultato dal teste Vignoli descrivevano come delle dimensioni di 27 metri quadrati, quanto piuttosto la successiva attività edificatoria, consistita nella demolizione dell'originario manufatto e nella ricostruzione realizzata con volumetrie decisamente maggiori, pari addirittura a tre volte quella originaria (essendo il manufatto costituito da due livelli, entrambi della superficie di 100 metri quadri e per un altezza totale di sei metri, con un portico esterno in cemento armato di 90 metri quadri, poi diventato, in occasione del secondo sopralluogo, un locale con destinazione residenziale).
Intervento che, secondo quanto si rileverà più approfonditamente (v. infra § 3.1), è stato correttamente ritenuto assoggettato all'obbligo del preventivo rilascio del 2 permesso di costruire, secondo quanto stabilito dall'art. 10, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che la predetta deduzione è stata chiaramente ritenuta inconferente dalla Corte territoriale, la quale ha sviluppato un percorso ricostruttivo del tutto incompatibile, già sul piano logico, con quello indicato dagli odierni ricorrenti, senza espressamente soffermarsi sul dedotto profilo di censura e tuttavia sottolineando la necessità che per il tipo di intervento edilizio realizzato fosse necessario conseguire preventivamente il permesso di costruire.
Del resto, quand'anche pure si ammettesse che i giudici di appello avessero totalmente omesso ogni valutazione circa la relativa deduzione, nessun vizio della motivazione sarebbe comunque configurabile, considerato l'orientamento interpretativo accolto da questa Corte e qui integralmente condiviso, secondo cui "il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l'annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l'omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all'omissione può porre rimedio, ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimità" (così Sez. 3, n. 21029 del 3/02/2015, dep. 21/05/2015, Dell'Utri, Rv. 263980. V., altresì, Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012, dep. 20/06/2013, Tannoia e altro, Rv. 256314, secondo cui nel giudizio di cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato).
3. Venendo, poi, al secondo motivo di ricorso, i due imputati deducono un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta illegittimità del ricorso alla D.I.A., da parte sia del precedente proprietario, sia degli stessi Papa e Sekkal.
Secondo la tesi difensiva, infatti, gli interventi edilizi realizzati, rientranti nella previsione dell'art. 10, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, avrebbero potuto essere eseguiti, in alternativa al permesso di costruire, con una semplice D.I.A.. Né avrebbe potuto essere di ostacolo all'esperimento della procedura semplificata la circostanza che l'area fosse vincolata dal punto di vista paesaggistico-ambientale, atteso che ai sensi dell'art. 22, comma 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 la presenza di una siffatta tutela avrebbe richiesto unicamente il rilascio del parere o dell'autorizzazione da parte della competente autorità amministrativa.
In proposito, i ricorrenti argomentano, innanzitutto, che i vincoli del Piano Territoriale Paesaggistico della Regione Lazio fossero successivi alla presentazione della D.I.A. in quanto il Piano in questione non sarebbe stato efficace, essendo stato adottato dalla Giunta regionale ma non ancora approvato dal Consiglio regionale ai sensi dell'art. 21 della Legge regionale del Lazio n. 24 del 1998. E in secondo luogo che, salva la possibilità per gli interessati di ricorrere alla D.I.A., il parere o l'autorizzazione paesaggistici avrebbero dovuto essere chiesti dalla stessa amministrazione procedente, che ai sensi dell'art. 23, comma 4 del d.P.R. n. 380 del 2001 avrebbe dovuto convocare una conferenza di servizi tra le varie amministrazioni coinvolte. Né, infine, secondo la tesi difensiva, avrebbe potuto sostenersi che il ricorso alla D.I.A. fosse, come sostenuto dalle sentenze di merito, "contrario alla normativa urbanistica vigente". Anche a prescindere dalla mancata indicazione della normativa asseritamente violata, l'eventuale inosservanza avrebbe riguardato soltanto l'ampliamento dell'edificio preesistente ed essa sarebbe stata rilevante unicamente con riferimento al profilo della concessione in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3.1. Tanto premesso, osserva il Collegio che in tema di violazioni urbanistico edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 266291). E che la D.I.A. presentata dai ricorrenti in data 29/04/2010 fosse illegittima è stato correttamente riscontrato dai giudici di merito sulla base di una serie di concreti elementi, che le argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso introduttivo non sono riuscite a confutare. In proposito giova premettere che secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso. E secondo l'art. 3, comma 1, lett. d) del medesimo d.P.R. d) sono "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
Il successivo art. 22, nel testo ratione temporis vigente, prevedeva, sotto la rubrica "interventi subordinati a denuncia di inizio attività", la possibilità di realizzare mediante tale denuncia gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10 e all'art. 6 (quest'ultimo concernente la cd. attività edilizia libera), che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Quindi, al successivo comma 3 veniva stabilito che "in alternativa al permesso di costruire", potessero essere realizzati mediante denuncia di inizio attività, tra gli altri, proprio i già menzionati "interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c)" (così il comma 1, lett. a).
3.2. Già sotto un primo profilo può escludersi che, nel caso di specie, i ricorrenti potessero fare a meno del permesso di costruire attraverso il ricorso alla cd. D.I.A. sostitutiva o Super D.I.A.. Tale procedura alternativa, infatti, presuppone, ovviamente, che l'intervento edilizio potesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia"; qualificazione che, in questo caso, doveva però essere risolutamente esclusa. Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, all'intervento demolitorio del manufatto originariamente esistente non aveva fatto seguito la ricostruzione di un organismo edilizio avente le medesime caratteristiche volumetriche e prospettiche, quanto piuttosto la realizzazione di un fabbricato con volumetrie addirittura triplicate, con una parte interrata e con due piani fuori terra, oltre che con un'altra porzione delle dimensioni di circa 90 metri quadri.
Un intervento, questo, pacificamente riconducibile alla nozione di "nuova costruzione", secondo quanto ricavabile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1, lettere d) ed e) del citato d.P.R. (Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010, dep. 27/04/2010, Cavallo, Rv. 246757, secondo cui in tema di reati edilizi, mentre la ristrutturazione edilizia che non comporti la previa demolizione dell'edificio preesistente facoltizza alla realizzazione di limitati incrementi di superficie e volume, la ristrutturazione attuata attraverso demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente impone il mantenimento delle medesime volumetria e sagoma, diversamente dandosi luogo a "nuova costruzione" assentibile unicamente con permesso a costruire e non anche con denuncia di inizio attività).
3.3. Nel caso di specie, peraltro, diversamente da quanto opinato dalla difesa, era configurabile, sull'area interessata dall'intervento edilizio, un vincolo di natura paesaggistica, ai sensi degli artt. 35 e 41 del Piano territoriale paesaggistico regionale del Lazio, ricadendo il lotto interessato dalle opere contestate nelle cd. fasce di rispetto previste in relazione, rispettivamente, ai corsi delle acque pubbliche e ai beni di interesse archeologico. Sul punto, la tesi svolta dai ricorrenti è nel senso che le disposizioni vincolistiche del P.T.P.R. non fossero efficaci, atteso che il Piano, adottato dalla Giunta regionale con delibere nn. 556 e 1025 del 2007, non era stato ancora approvato dal Consiglio regionale; approvazione che aveva avuto luogo addirittura con delibera del 10/03/2016, ovvero in epoca di molto successiva a quella in cui erano state eseguite le opere in contestazione. Nondimeno, tale ricostruzione non tiene conto della previsione dell'art. 23-bis della legge regionale del Lazio n. 32 del 1998, a mente del quale "dalla data di pubblicazione del PTPR ai sensi dell'articolo 23, comma 2" ovvero dalla pubblicazione nel BUR della delibera della Giunta regionale di adozione del Piano, "non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all'art. 134 del d.lgs. 42/2004 e successive modifiche, interventi che siano in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel PTPR adottato"; né di quella dell'art. 7, comma 3 delle Norme tecniche di attuazione del P.T.P.R., secondo cui "ai sensi dell'art. 23 bis della LR 24/98, dalla data di pubblicazione dell'adozione del PTPR fino alla data di pubblicazione della sua approvazione e comunque non oltre cinque anni dalla data di pubblicazione di cui all'articolo 23, comma 2 della LR 24/98 per i beni paesaggistici, ai fini delle autorizzazioni di cui agli articoli 146 e 159 del Codice, si applicano in salvaguardia le disposizioni del PTPR adottato".
Ne consegue che le previsioni di tutela del Piano paesaggistico erano, all'epoca della realizzazione dell'intervento edilizio, pienamente in vigore. Per tale motivo, quand'anche detto intervento fosse stato qualificato, in tesi, in termini di "ristrutturazione edilizia", soggetto alla cd. Super D.I.A. prevista dall'art. 22, comma 3, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, l'attività edificatoria avrebbe dovuto essere preceduta dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, secondo quanto stabilito dal comma 6 del medesimo articolo, secondo cui "la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative" (cfr. Sez. 3, n. 8739 del 21/01/2010, Perna, Rv. 246218; conf. Sez. 3, n. 14239 del 8/03/2006, dep. 21/04/2006, Prioriello, Rv. 233933; v. anche, più recentemente, Sez. 3, n. 24410 del 9/02/2016, dep. 13/06/2016, Pezzuto e altro, Rv. 267190).
Fermo restando che la condizione del rispetto, oltre che della volumetria, anche della medesima sagoma dell'edificio preesistente - imposta dalla seconda parte dell'art. 3 del citato d.P.R. per qualificare, in deroga al regime ordinario, gli interventi di demolizione e ricostruzione come "ristrutturazione edilizia" - opera anche quando il vincolo paesaggistico riguarda una zona e non un singolo immobile (Sez. 3, n. 33043 del 8/03/2016, dep. 28/07/2016, Alimonda e altri, Rv. 267454).
Secondo la tesi svolta in ricorso, peraltro, la mancata allegazione alla Super D.I.A. della necessaria autorizzazione paesaggistica avrebbe dovuto determinare, secondo la previsione dell'art. 23, comma 4 del d.P.R. n. 380 del 2001, che l'amministrazione comunale convocasse una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 7 agosto 1990, n. 241. E non avendovi la stessa amministrazione provveduto, nessun rimprovero avrebbe potuto essere mosso ai due odierni ricorrenti. Osserva, nondimeno, il Collegio che, anche sotto tale profilo, la ricostruzione difensiva è manifestamente infondata, dal momento che l'eventuale inerzia da parte dell'amministrazione comunale non costituisce affatto una circostanza legittimante l'avvio dell'intervento edilizio, che secondo il chiaro tenore dell'art. 23, comma 4, secondo periodo del citato d.P.R. non può iniziare fino a quando non sia stata rilasciata la prescritta autorizzazione paesaggistica. Secondo la citata disposizione, infatti, il termine dei trenta giorni precedenti l'inizio dei lavori, previsto per il deposito della D.I.A. e della relativa documentazione dal comma 1 dell'art. 23, decorre, in tal caso, dall'esito favorevole della conferenza di servizi, in assenza della quale i lavori, pacificamente, non possono essere iniziati. Pertanto, avendo i ricorrenti iniziato le opere senza che fosse stata in precedenza rilasciata l'autorizzazione paesaggistica, anche sotto tale subordinato profilo non vi è alcun dubbio in ordine all'avvenuta integrazione delle fattispecie contestate. Anche il secondo motivo di doglianza è, dunque, manifestamente infondato.
4. Alla stregua delle considerazioni che precedono i ricorsi devono essere, pertanto, dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro ciascuno.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 5/05/2017