Cass. Sez. III n. 14725 del 4 aprile 2019 (Pu 9 gen 2019)
Pres. Ramacci Est. Reynaud Ric. Caroti ed altri
Urbanistica.Ristrutturazione e successione di leggi
La modifica dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., nella l. 11 novembre 2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione sine titulo di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice del precetto.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30 gennaio 2018, la Corte d’appello di Firenze, respingendo i gravami proposti dagli odierni ricorrenti, ha confermato la sentenza di condanna alle pene di legge nei loro confronti pronunciata per il reato (rubricato al capo A) di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (per aver realizzato un intervento di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire, essendo stata presentata soltanto una s.c.i.a. per lavori di risanamento conservativo) e, quanto a Filippo Galoppi, anche per il reato (rubricato al capo D) di cui all’art. 19, comma 6, l. 7 agosto 1990, n. 241 in relazione alle false rappresentazioni e attestazioni commesse in qualità di tecnico nell’asseverazione allegata alla suddetta s.c.i.a.
2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dei quattro imputati, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3. Nel ricorso proposto nell’interesse di Massimo Caroti, con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 3, comma 1, lett. c), d.P.R. 380/2001 e dell’art. 6 n. att. P.R.G. del Comune di Firenze per aver la Corte territoriale erroneamente qualificato l’intervento come ristrutturazione edilizia soggetta al permesso di costruire, piuttosto che come risanamento conservativo soggetto a s.c.i.a.
3.1. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica dell’intervento nei suddetti termini sul mero rilievo, non valorizzato dal giudice di primo grado, che i lavori avevano comportato il frazionamento dell’unità immobiliare in quattro distinte ed autonome unità – ciò che l’art. 6 n. att. P.R.G. consente – senza invece valutare la doglianza rassegnata con il gravame circa la confutazione del diverso argomento utilizzato dal tribunale, secondo il quale l’intervento aveva comportato un aumento della superficie utile lorda.
3.2. Con il terzo motivo si lamenta il vizio di motivazione, sostanzialmente mancante, nell’aver in primo luogo confermato la responsabilità di Massimo Caroti senza rispondere alle doglianze difensive rassegnate nel gravame e benché fosse emerso che egli era soltanto il proprietario, promittente venditore, dell’immobile, che si era limitato a sottoscrivere le pratiche edilizie in forza di un impegno assunto nel contratto preliminare di compravendita e non aveva ricoperto il ruolo di committente delle opere, svolto invece dal promissario acquirente Paolo Bologna.
In secondo luogo si lamenta la mancata disamina della censura mossa alla sentenza di primo grado circa l’affermazione in capo al ricorrente di un profilo di colpa benché egli avesse fatto legittimo affidamento nei provvedimenti della p.a. che avevano qualificato i lavori come opere di risanamento conservativo.
3.3. Per le stesse ragioni, con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione dell’art. 43 cod. pen. per essere stato ravvisato l’elemento soggettivo colposo nonostante l’assenza di qualsiasi profilo di rimproverabilità della condotta.
4. Col ricorso proposto nell’interesse di Filippo Galoppi si deduce innanzitutto la violazione degli artt. 518, 521 e 522 cod. proc. pen. per non essere stata rilevata la nullità della sentenza di primo grado per difetto di correlazione tra accusa e sentenza, essendo stato contestato un reato edilizio “accertato in Firenze il 18 marzo 2013” – insussistente perché il sopralluogo comunale in tale data effettuato non aveva riscontrato alcuna violazione – ed essendo invece la condanna intervenuta per lavori di asserita ristrutturazione abusiva pacificamente realizzati in epoca successiva.
4.1. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 44 lett. b) d.P.R. 380/2001, in relazione al precedente art. 3, per essere stato l’intervento qualificato come ristrutturazione edilizia anziché come risanamento conservativo, svolgendosi argomentazioni analoghe a quelle contenute nel ricorso del coimputato Caroti ed aggiungendosi che – come anche rilevato nella sent. n. 49221, resa da questa Corte il 6 novembre 2014 nella fase cautelare del procedimento – il novellato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 non comprende più, tra gli interventi di ristrutturazione soggetti al permesso di costruire, quelli comportanti aumento di unità immobiliari.
Con riguardo al ribassamento (di circa 70-80 cm.) dei solai in due stanze – non ravvisato dall’ing. Galoppi per un mero equivoco – si precisa come lo stesso non osti alla considerazione globale dell’intervento nella categoria del restauro e risanamento conservativo.
4.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 19, comma 6, l. 241/1990 e la manifesta illogicità della motivazione circa la sussistenza del dolo di tale delitto. Per un verso si rileva che la descrizione dello stato di fatto dei luoghi nella tavola progettuale allegata alla s.c.i.a. – pur sottoscritta anche dal ricorrente – era attestazione da ricondursi al proprietario dell’immobile Caroti, che pure ebbe a sottoscriverla, e la sua eventuale falsità non poteva dunque essere addebitata al tecnico. Per altro verso si sottolinea invece come l’asseverazione circa la conformità delle opere alla disciplina urbanistica e normativa fatta da esso professionista non sia falsa, rientrando appunto l’opera nella categoria del restauro o risanamento conservativo. In ogni caso, si allega che manca ogni nesso tra la dichiarazione, in ipotesi erronea, delle altezze preesistenti dei solai delle due stanze e la qualificazione dell’intervento come restauro o risanamento conservativo.
4.3. Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 131 bis cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione per non essere stata riconosciuta la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, utilizzandosi un argomento – la successiva regolarizzazione amministrativa dell’intervento – incoerente rispetto al giudizio previsto dalla disposizione normativa e, semmai, da utilizzarsi a favore degli imputati, come riconosciuto da recente giurisprudenza di legittimità.
5. Nel ricorso proposto nell’interesse di Paolo Bologna, con il primo motivo si lamentano violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, nonostante l’obiettiva incertezza circa la qualificazione dell’intervento in termini di ristrutturazione edilizia piuttosto che di restauro o risanamento conservativo (conclusione, quest’ultima, affermata dal Comune e dal Tribunale del riesame che ebbe ad occuparsi della vicenda nella fase cautelare).
5.1. Con il secondo motivo si deducono – per ragioni analoghe a quelle esposte nel ricorso del coimputato Galoppi – violazione dell’art. 131 bis cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione per non essere stata riconosciuta la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.
6. Con il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Iulia Cristina Manciu, per ragioni analoghe a quelle esposte dal ricorrente Galoppi, si deducono nullità della sentenza per violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. e manifesta illogicità della motivazione per non essere stato riconosciuto il difetto di correlazione tra accusa e sentenza rispetto al fatto che la contestazione aveva ad oggetto un abuso accertato il 18 marzo 2013, quando, peraltro, la ditta della ricorrente non aveva neppure ancora assunto l’appalto dei lavori nel cantiere in questione.
6.1. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la carenza di motivazione sia quanto al riconoscimento della colpa in capo alla ricorrente (nonostante diverse Autorità avessero riconosciuto la correttezza dell’utilizzo della s.c.i.a. per i lavori in questione e nonostante la ditta dell’imputata fosse intervenuta dopo che i solai erano stati da altri demoliti) sia quanto al mancato riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto con specifico riferimento alla peculiare posizione della ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con riguardo ai dedotti profili di violazione di legge e/o illogicità della motivazione da tutti i ricorrenti dedotti in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo e/o dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata al capo a), i ricorsi sono fondati. Pur tenendo conto del rinvio disposto su richiesta di uno dei difensori nel giudizio di secondo grado dal 24 novembre 2017 al 30 gennaio 2018 – che ha determinato la sospensione del corso della prescrizione per 67 giorni – il reato, contestato come commesso il 18 marzo 2013, è tuttavia certamente prescritto per decorso del termine massimo quinquennale. In conformità alle conclusioni rassegnate dal procuratore generale, la sentenza impugnata deve pertanto essere sul punto annullata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione, con conseguente assorbimento di tutti restanti motivi proposti dai ricorrenti Caroti, Bologna e Manciu e di quelli proposti dal ricorrente Galoppi relativi al medesimo reato di cui al capo a).
1.1. Ed invero, la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente tale contravvenzione, che addebita agli imputati, nelle diverse qualità indicate, di aver eseguito in assenza di permesso di costruire lavori di ristrutturazione di un immobile «comportanti la suddivisione in quattro unità immobiliari, la demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla realizzazione di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, lavori non rientranti in un intervento di risanamento conservativo, in relazione al quale era stata presentata la S.C.I.A.». Senza considerare il profilo dell’esecuzione di nuovi volumi abitabili – ritenuto dal giudice di primo grado e contestato con specifici motivi d’appello da taluno degli imputati (in particolare da Massimo Caroti) - la sentenza impugnata si limita a rilevare come la s.c.i.a. presentata per l’esecuzione dei lavori non fosse sufficiente sul rilievo che la trasformazione del bene da una a quattro unità immobiliari non possa essere ricondotta alla riduttiva nozione del risanamento conservativo ma costituisca ristrutturazione edilizia, con conseguente necessità di richiedere il permesso di costruire.
La conclusione, rileva il Collegio, è certamente errata in diritto, poiché, pur potendosi convenire sulla qualificazione giuridica dell’intervento in termini di ristrutturazione edilizia piuttosto che di risanamento conservativo – tenendo conto che si è trattato di un insieme sistematico di opere che ha indubbiamente portato ad un organismo edilizio diverso dal precedente, sia per la trasformazione di un appartamento in quattro distinte unità abitative, sia per la modifica di elementi costitutivi (quali il ribassamento dei solai) e l’inserimento di nuovi impianti (funzionali al godimento delle plurime unità realizzate) – non per ciò solo sarebbe stato necessario il permesso di costruire. La Corte territoriale, di fatti, ha trascurato di considerare che non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti al previo rilascio del menzionato titolo, sì che l’esecuzione dei lavori in assenza del medesimo integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001.
Rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall’art. 3, comma 1, lett. d) di tale decreto, il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire – salve le ipotesi, che nella specie non ricorrono, della modifica della destinazione d’uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati - soltanto quegli interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti». Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria – per la cui realizzazione è sufficiente la s.c.i.a. in forza della residuale previsione di cui all’art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 - sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo. Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia “leggera” per cui è sufficiente la s.c.i.a., quand’anche non fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non integrerebbe gli estremi del reato contestato.
1.2. La Corte territoriale è probabilmente incorsa in errore per aver fatto applicazione dell’originario testo dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, che, tra l’altro, qualificava come ristrutturazioni edilizie pesanti anche gli interventi sopra descritti che comportino «aumento delle unità immobiliari», sicché la motivazione della sentenza impugnata si è limitata a tale rilievo per ritenere la sussistenza del reato senza ulteriormente valutare se vi fosse stato aumento di volumetria, come invece aveva fatto il giudice di primo grado, pur con giudizio fatto oggetto di specifiche censure che il giudice d’appello non ha esaminato. In quella parte, la disposizione è stata tuttavia modificata dall’art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (recante, Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), conv., con modiff., in l. 11 novembre 2014, n. 164, che, interpolando la norma definitoria della ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, ha eliminato il citato riferimento allo “aumento delle unità immobiliari” (oltre a quello, parimenti contenuto nell’originaria disposizione, “delle superfici utili”). Il solo aumento delle unità immobiliari – che, peraltro, di regola già rileva per far ritenere che l’organismo che subisca un tale intervento sia “in tutto o in parte diverso dal precedente” – non determina più, dunque, la necessità di munirsi del previo permesso di costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle richiamate ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti. Questo accertamento è tuttavia mancato da parte del giudice d’appello.
1.3. Occorre, ancora, rilevare, come la citata “novella” che ha modificato l’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 – pur intervenuta successivamente alla consumazione del reato – sia retroattivamente applicabile ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.
Nel sanzionare penalmente l’esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire, di fatti, la norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l’art. 10, comma 1, del testo unico (rubricato interventi subordinati a permesso di costruire), che vale dunque ad integrare il precetto penale nella sua essenziale struttura, individuando le opere che necessitano di tale titolo abilitativo. Va pertanto applicato il principio secondo cui, in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, Rv. 238197; Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, Guttà e a., Rv. 250119; Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335). Nel caso di specie, di fatti, non v’è dubbio che il citato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 integri il precetto penale di cui al successivo art. 44, comma 1, lett. b), incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi sulla fattispecie tipica, sì che il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., si applica anche in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici aventi tali caratteristiche (cfr. Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi e aa., Rv. 266474; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi e aa., Rv. 252194).
1.4. In conclusione, deve affermarsi il principio secondo cui, la modifica dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., nella l. 11 novembre 2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione sine titulo di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice del precetto.
2. Quanto al delitto di cui al capo d) di imputazione, contestato e ritenuto soltanto nei confronti del ricorrente Galoppi, deve innanzitutto escludersi la fondatezza del rilievo secondo cui non sarebbe al medesimo addebitabile la oggettiva falsità ideologica – in fatto non contestata - contenuta nella planimetria allegata alla s.c.i.a. e rappresentante in modo inesatto lo stato attuale dell’immobile con riguardo alle altezze del piano sottotetto e dei vani prospicienti alla Via Antonio Giacobini. Secondo la tesi del ricorrente, che pure riconosce di aver firmato la planimetria (e, evidentemente, di averla realizzata), trattandosi di attestazione relativa allo stato di fatto dell’immobile, essa sarebbe di competenza del solo proprietario (o altro avente titolo) che presenta la s.c.i.a.
Al proposito, l’art. 23, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 – che, pur espressamente riferito alla s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire, detta una disciplina generale applicabile a qualsiasi ipotesi di s.c.i.a. in materia edilizia – prescrive che il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo ad effettuare l’intervento «presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie». A tali documenti occorre pertanto fare riferimento per applicare alle ipotesi in parola la norma incriminatrice contenuta nell’art. 19, comma 6, l. 241 del 1990, la quale, in via generale, punisce, «ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1». I requisiti o presupposti, precisa poi la disposizione richiamata, sono quelli, richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, ai quali è subordinato lo svolgimento dell’attività per cui è presentata la segnalazione certificata e tra i documenti e gli atti richiamati sono espressamente menzionate le «attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati…corredati dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione» (art. 19, comma 1, l. 241 del 1990).
In materia edilizia, tali elaborati sono quelli espressamente richiamati dall’art. 23, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 che, allo scopo di consentire all’amministrazione di verificare la sussistenza dei presupposti perché l’intervento possa essere effettuato con s.c.i.a., debbono fedelmente rappresentare – secondo, peraltro, una prassi consolidata - lo stato dei luoghi attuale e quello in progetto. Essi – ovviamente redatti dai tecnici abilitati e da essi sottoscritti (ciò che nella specie il ricorrente Galoppi riconosce di aver fatto) – sono, dunque, atti che rientrano nella competenza, e nella responsabilità, dei professionisti incaricati. Sanzionando la citata norma incriminatrice la condotta di “chiunque” attesti il falso nella redazione degli atti e documenti presentati a corredo della s.c.i.a., non v’è dubbio, pertanto, che – a prescindere da un eventuale concorso anche del privato committente (nella specie tuttavia non contestato) – del fatto debba in via immediata rispondere l’autore del documento e dunque, nel caso di tavole progettuali, il tecnico redigente.
2.1. Ciò posto, reputa tuttavia il Collegio che sia censurabile, perché manifestamente illogica, l’affermazione secondo cui la falsa attestazione delle altezze del piano sottotetto contestata in imputazione – e che il ricorrente Galoppi ha dichiarato in giudizio essere stato il frutto di una mera svista – costituisca reato sul piano oggettivo e soggettivo perché diretta a supportare la descrizione di un’opera non soggetta a permesso di costruire e realizzabile invece con mera s.c.i.a. Laddove così fosse, in base alla riportata disciplina, non vi sarebbe dubbio circa l’integrazione del reato e la ritenuta sussistenza del dolo non sarebbe illogica, ma nel caso di specie la sentenza impugnata non spiega in alcun modo quale sia il nesso tra l’abbassamento dei solai (che, in tesi, il falso doloso mirava a celare) e la riconduzione dei lavori ad una categoria di intervento edilizio che necessitava del permesso di costruire. Anche in tale valutazione, peraltro, la Corte territoriale incorre nel medesimo errore interpretativo di cui più sopra si è dato conto, poiché muove dall’inesatto presupposto che se il ribassamento dei solai impedisce di poter qualificare l’intervento come restauro o risanamento conservativo, trattandosi invece di ristrutturazione edilizia, si sarebbe certamente dovuto richiedere il permesso di costruire. Esclusa la fondatezza di tale conclusione per quanto sopra osservato, nella prospettiva seguita dal giudice d’appello era dunque necessario spiegare adeguatamente perché l’abbassamento dei solai avrebbe imposto di seguire l’iter del permesso di costruire o, in alternativa – al fine di rispondere alle doglianze rassegnate dall’appellante circa l’assenza dell’elemento soggettivo - per quale altra ragione possa comunque configurarsi il dolo del tecnico Galoppi se la falsa attestazione contenuta nelle tavole progettuali aveva avuto l’unico effetto di impedire la riconduzione dell’intervento alla categoria della ristrutturazione edilizia “leggera” piuttosto che a quella, dichiarata e ritenuta, del restauro o risanamento conservativo, entrambe eseguibili con semplice s.c.i.a.
Trattandosi di delitto commesso il 9 aprile 2013 e dunque certamente non prescritto – dovendo peraltro aggiungersi ai sette anni e mezzo previsti dalla legge il menzionato periodo di sospensione del corso della prescrizione per 67 giorni – la sentenza impugnata deve pertanto essere annullata relativamente all’affermazione di penale responsabilità in ordine al reato di cui al capo d) con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze per nuovo giudizio e conseguente assorbimento dei restanti motivi di ricorso al proposito proposti dal ricorrente Galoppi.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al capo a) dell’imputazione perché il reato è estinto per prescrizione.
Annulla la sentenza impugnata relativamente al capo d) dell’imputazione e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Così deciso il 9 gennaio 2019.