Cass. Sez. III n. 16056 del 4 aprile 2019 (Pu 14 feb 2019)
Pres. Di Nicola Est. Reynaud Ric. PM in proc. Anichini
Urbanistica.Modifica destinazione d’uso e titolo abilitativo

La realizzazione di un insieme sistematico di opere rivolte a modificare la destinazione d’uso di un preesistente organismo edilizio in modo tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o di una unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle previste nell’art. 23 ter, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 è intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia e non compatibile con la categoria del restauro o risanamento conservativo, che ammette soltanto modifiche della destinazione d’uso nell’ambito della stessa categoria funzionale; se l’immobile è compreso nelle zone omogenee A del piano regolatore comunale (centro storico), per ciò solo il descritto intervento è subordinato al previo rilascio del permesso di costruire od alla s.c.i.a. ad esso alternativa ed in mancanza del necessario titolo sussiste il reato di lavori in assenza di permesso di cui all’art. 44, comma 1, d.P.R. 380 del 2001.



RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 6 giugno 2018, il Tribunale di Firenze ha assolto Giuseppe Anichini (e gli altri due coimputati, già deceduti al momento della pronuncia) dai reati di abuso edilizio e falso ideologico nelle attestazioni allegate a diverse pratiche di d.i.a. e s.c.i.a., contestati ai capi a) e b), e ha dichiarato non doversi procedere (per prescrizione quanto ad Anichini, per morte del reo quanto ai due coimputati) in relazione ad un’ulteriore contravvenzione urbanistica contestata al capo c).
 
2. Avverso la sentenza di primo grado, limitatamente alla posizione dell’imputato Anichini, ha proposto ricorso immediato per cassazione, ai sensi dell’art. 569 cod. proc. pen.,  il Procuratore della Repubblica, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

3. Con i primi due motivi si deduce violazione dell’art. 44, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (d’ora in avanti, T.U.E.), contestato al capo a), in relazione alla violazione dell’art. 3, comma 1, lett. c) e d) dello stesso testo unico, con riguardo all’errata interpretazione ed applicazione dei concetti giuridici di restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia. Lamenta il ricorrente l’illegittima parcellizzazione in 14 pratiche edilizie – formalizzate con d.i.a. e s.c.i.a. presentate tra il 2009 e il 2013 – di un unico intervento edilizio che ha coinvolto, rendendoli tra loro comunicanti, cinque edifici del centro storico fiorentino ricadenti in zona paesaggisticamente vincolata (di cui due, Palazzo Spini Feroni e Palazzo Salutati, vincolati ai sensi della l. 1089 del 1939 e ricadenti in classe 0 dello strumento urbanistico, ed altri due, Casa delle Monache del Portico e casa degli Altoviti, ricadenti in classe 1). Si rileva che le opere, proseguite sino al 2016, hanno integrato una ristrutturazione edilizia c.d. pesante, assoggettata al previo rilascio del permesso di costruire (nella specie mai richiesto) e comunque non consentita dallo strumento urbanistico, che in classe 0 e in classe 1 ammette esclusivamente opere di restauro o risanamento conservativo.
Erroneamente il Tribunale ha invece classificato gli interventi nella categoria del restauro – ritenendo pertanto legittimo il ricorso allo strumento della d.i.a. e della s.c.i.a. – trascurando gli elementi impeditivi a tale qualificazione (tra cui l’apertura di plurimi passaggi tra tutti gli immobili al fine di collegarli fra loro; il cambio di destinazione d’uso da residenziale a direzionale dei piani 1°, 2°, 3° e 4° della Casa delle Monache, con realizzazione di 20 nuovi uffici adibiti allo svolgimento dell’attività di società diverse da quella della Salvatore Ferragamo S.p.a., titolare del noto marchio di moda per il consolidamento della cui presenza nel centro storico fiorentino il Consiglio Comunale, ravvisando un interesse pubblico, aveva consentito il cambio di destinazione d’uso; l’apertura di sei abbaini in Palazzo Spini Feroni; l’aumento di superficie utile lorda e di volumetrie in Palazzo Salutati, ove era pure stato realizzato un ascensore in cristallo per collegare i piani ed erano state rifatte porzioni di solaio con l’inserimento di strutture in acciaio; l’alterazione dell’aspetto delle corti interne di Palazzo Salutati e della Casa delle Monache, anche mediante l’adozione di serramenti metallici ed eliminazione di dispositivi di oscuramento). Sminuendo la portata delle opere realizzate e abdicando alla doverosa verifica della finalità delle stesse, il Tribunale avrebbe illegittimamente avallato, anche con apodittiche affermazioni circa il valore artistico e architettonico degli interventi, la qualificazione degli stessi in termini di restauro e risanamento conservativo senza riconoscere invece che – come dichiarato dai proprietari in una delle relazioni allegate ad una pratica di d.i.a. - si trattava di una trasformazione degli organismi edilizi per ristrutturarli al fine di recuperare nuovi spazi operativi da destinare allo svolgimento delle attività del gruppo proprietario degli immobili.
In contrasto con la nozione normativa di restauro e risanamento conservativo di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E., le opere in questione avevano anche comportato la modificazione della distribuzione interna delle superfici e dei volumi e comportato l’inserimento di nuovi elementi estranei.
In ogni caso, erano nella specie applicabili l’art. 29 d.lgs. 42 del 2004 e le norme tecniche di attuazione allo strumento urbanistico del Comune di Firenze (art. 6.1 e 6.1.1) che per gli edifici e le aree vincolate ai sensi della l. 1089 del 1939 ammettono, più limitatamente, soltanto interventi di conservazione.
Quand’anche si ritenesse poi applicabile la nozione di restauro di cui all’art. 6.2 delle citate n.t.a., si rileva che la sentenza impugnata non ha in alcun modo accertato la sussistenza nel caso di specie delle rigorose condizioni previste da tale disciplina.
Con particolare riguardo, poi, al mutamento della destinazione d’uso, da residenziale a direzionale, di larga parte della Casa delle Monache, operato con la realizzazione di 20 nuovi uffici, si richiama la giurisprudenza secondo cui tale intervento costituisce ristrutturazione edilizia soggetta al previo rilascio del permesso di costruire, censurandosi la sentenza impugnata laddove rileva che, nel caso di specie, essendo gli uffici destinati ai soli dipendenti, non vi sarebbe concreto aumento del carico urbanistico.

4. Con il terzo motivo – con riguardo all’assoluzione intervenuta per i capi a) e b)  - si deduce violazione dell’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E., anche nella versione risultante dalle modifiche operate con l’art. 65 bis l. 21 giugno 2017, n. 96, osservandosi come, pur a seguito della citata “novella”, la norma consenta, come già prima, di ricondurre alla categoria legale del restauro o risanamento conservativo soltanto modifiche della destinazione d’uso che siano compatibili con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio e con le finalità di recupero proprie del particolare intervento.

5. Con il quarto motivo – censurandosi ancora l’assoluzione in ordine al reato di cui al capo a) della rubrica – si deduce ulteriore violazione dell’art. 44, lett. b), T.U.E., con riguardo al concetto giuridico di ristrutturazione edilizia di cui al precedente art. 3 del testo unico, osservandosi come nel caso di specie, essendosi realizzato un vero  e proprio aliud pro alio anche sotto il profilo economico-sociale, considerando il complessivo organismo edilizio interessato dalle opere, ci si troverebbe di fronte neppure ad una ristrutturazione, ma ad una vera e propria nuova costruzione.

6. Con il quinto motivo, in relazione all’assoluzione per il reato di cui al capo b), si deduce violazione degli artt. 481 e 483 cod. pen., 19 e 21 l. 241 del 1990 e 192 cod. proc. pen. con riguardo all’errata valutazione delle prove. Richiamandosi le doglianze svolte nei precedenti motivi, si rileva come la fondatezza delle stesse debba condurre a ritenere errata la qualificazione degli interventi come di restauro e risanamento conservativo e, conseguentemente, il mancato riconoscimento della contestata falsità ideologica.

7. Con il sesto motivo, si deduce ulteriore violazione dell’art. 44, lett. b), T.U.E. in relazione alla pronuncia d’improcedibilità per prescrizione del reato urbanistico contestato al capo c), relativo alla realizzazione di un soppalco, in struttura metallica e vetro, all’interno di Palazzo Salutati – destinato ad ufficio e anche con funzioni di collegamento con Palazzo delle Monache – in assenza di qualsiasi titolo abilitativo.
Rileva il ricorrente che, trattandosi di uno degli interventi facenti parte delle opere abusive di “ristrutturazione” eseguite sino al febbraio 2016, tale addebito si sarebbe dovuto ritenere ricompreso – ed assorbito - nel reato contestato al capo a), sicché non sarebbe stato prescritto.

8. Con memoria depositata in cancelleria in data 29 gennaio u.s., la difesa di Giuseppe Anichini ha argomentato l’infondatezza del ricorso, rilevando la correttezza della decisione impugnata per aver qualificato le opere come di restauro conservativo perché dirette alla conservazione – e non alla trasformazione – dell’organismo edilizio preesistente. Si osserva che tale categoria di intervento – in forza delle modificazioni apportate alla legislazione nazionale e regionale dall’art. 65 bis l. 96 del 2017 e dell’art. 12, comma 12, l. reg. Toscana n. 50/2017 – consente modifiche alle destinazioni d’uso dell’immobile che siano compatibili con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo. A nulla rileva, dunque, la parziale modifica della destinazione d’uso di una parte della Casa delle Monache - peraltro debitamente autorizzata con delibera della Giunta Comunale, funzionale alla permanenza in loco del gruppo societario Ferragamo - e conforme alle previsioni di cui all’art. 6.2 n.t.a. del PRG, applicabile all’edificio in questione per essere lo stesso ricadente in “Classe 1”. Si aggiunge che, diversamente da quanto genericamente ipotizzato in ricorso, gli interventi non hanno comportato un aumento di carico urbanistico, non essendo fondato il rilievo secondo cui vi sarebbe stata la realizzazione di 20 nuovi uffici. Da ultimo, con particolare riguardo al sesto motivo di ricorso, si contesta l’allegazione secondo cui le opere sarebbero state ultimate nel febbraio 2016 – riportando la sentenza che alla data del maggio 2014 i lavori erano ultimati, come accertato dall’architetto Elmi su delega della Procura della Repubblica – osservandosi come tale notazione non rientri tra i motivi di doglianza consentiti dall’art. 569 cod. proc. pen. nel ricorso immediato per cassazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I primi tre motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché obiettivamente connessi – sono fondati, avendo errato il giudice di merito nel ritenere che gli interventi descritti in imputazione fossero riconducibili alla categoria del risanamento conservativo, e fossero quindi sufficienti le d.i.a. e s.c.i.a. nella specie presentate, piuttosto che alla categoria della ristrutturazione edilizia c.d. pesante di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E. e necessitassero quindi del permesso di costruire.
1.1. Va premesso che, nel valutare quale sia il titolo abilitativo necessario per l’esecuzione di determinate opere ai fini del giudizio sull’integrazione del reato di lavori sine titulo punito dall’art. 44, comma 1, lett. b), T.U.E. – o lett. c), qualora trattisi di beni vincolati - il giudice penale non può essere in alcun modo condizionato dall’opinione espressa (e, magari, dal diverso titolo rilasciato) dall’autorità amministrativa e tantomeno dall’iter amministrativo seguito dal privato.
In passato - quando la legge prevedeva due titoli abilitativi espressi, concessione edilizia e autorizzazione - la possibilità di una diversa valutazione tra p.a. e giudice penale circa il regime amministrativo dell’intervento era tutt’altro che eccezionale, ma il principio di diritto sempre affermato fu quello per cui non si verte in materia di sindacato di legittimità dell’attività amministrativa qualora il giudice qualifichi diversamente un intervento edilizio, ritenendolo assentibile con concessione in luogo di autorizzazione (Sez.  3, n. 1898 del 15/06/1998, Manfredini e a., Rv. 211558). In tali casi, di fatti, il giudice penale esercita i suoi poteri, limitandosi a qualificare l’intervento edilizio ed a prendere atto dell’esercizio dell’attività edificatoria fuori delle ipotesi di liceità.
La correttezza della conclusione  è ancor più indiscutibile dopo che il titolo abilitativo per la realizzazione degli interventi di minor impatto urbanistico è stato trasformato in un mero atto privato, qual era la d.i.a. ed è oggi la s.c.i.a., la cui presentazione non impedisce quindi al giudice penale di qualificare diversamente l’intervento e di ritenerlo assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire. Del resto, laddove al proposito sussista un dubbio sull’individuazione del titolo necessario, il privato può porsi al riparo da conseguenze sul piano penale, richiedendo prudentemente il permesso di costruire a norma dell’art. 22, comma 7, T.U.E., senza che ciò comporti – laddove l’intervento sia effettivamente riconducibile ad una delle categorie per cui sarebbe sufficiente la s.c.i.a. - l’obbligo del pagamento del contributo di concessione o l’applicazione delle sanzioni penali nel caso di eventuali trasgressioni, quali, ad es., la costruzione in difformità.
1.2. Occorre inoltre preliminarmente richiamare il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di reati edilizi, la valutazione dell'opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli componenti (Sez.  3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473; Sez.  3, n. 5618 del 17/11/2011, dep. 2012, Forte, Rv. 2521259). Come si legge nella motivazione di una decisione cautelare resa con riferimento ad una vicenda giudiziaria che presenta profili di affinità con quella qui sub iudice e che è stata evocata nei principali atti di questo procedimento, dalla sentenza impugnata, al ricorso, alla memoria difensiva predisposta dalla difesa degli imputati – si allude alle opere effettuate, con 17 d.i.a. aventi ad oggetto lavori di restauro e risanamento conservativo, sul Palazzo Tornabuoni di Firenze - «la realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti, attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti», salvo che ci si sia «lecitamente determinati, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio» (Sez.  3, n. 8945 del 20/10/2011, dep. 2012, Mazzei, Rv. 252242, che richiama altri precedenti conformi; il principio è stato ribadito nella motivazione della sentenza resa da questa Corte nello stesso procedimento, a seguito del ricorso per saltum proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado: Sez.  3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e aa., Rv. 269152).

2. La sentenza impugnata dichiara espressamente di aderire a tale impostazione e vi si legge (spec. pagg. 5-7, 26-27) che la Palazzo Feroni Finanziaria Spa – del cui C.d.A. era membro l’imputato Anichini, il quale aveva delega per seguire la parte immobiliare e si occupò, nella veste di committente, dei lavori in questione – acquistò nel 2009 il palazzo denominato Casa delle Monache del Portico ed avviò una serie di opere che, con 14 d.i.a. o s.c.i.a. presentate tra il 2009 ed il 2013, interessarono in particolare detto edificio e Palazzo Salutati e soltanto marginalmente gli altri tre stabili. Le opere furono funzionali a recuperare nuovi spazi da adibire ad ufficio – trasformando anche la destinazione d’uso da residenziale a direzionale dei piani 1°, 2° , 3° e 4° di Casa delle Monache – ai fine di mantenere e collocare nei cinque edifici, resi tra loro comunicanti, il museo e la fondazione Ferragamo, nonché le strutture amministrative di diverse società del gruppo, operanti anche in settori assai diversi da quello della moda (oltre alla menzionata Palazzo Feroni Finanziaria Spa, la Salvatore Ferragamo Spa, la Lungarno Alberghi Srl, la Lungarno Spa, la Nautor Srl, la Le Rose Srl).
Pur considerando globalmente i lavori oggetto delle 14 pratiche in questione – e, a quanto pare, anche di altre presentate negli anni precedenti il 2009 – la sentenza impugnata reputa che gli stessi configurino un restauro conservativo e non già una ristrutturazione edilizia. Nel fare questa affermazione il giudice di merito esclude rilevanza al fatto  che l’intervento abbia determinato la modifica della destinazione d’uso di gran parte della Casa delle Monache, ritenendo che tale conseguenza non si ponga in contrasto con la categoria d’intervento del restauro e risanamento conservativo. Al proposito, la sentenza, da un lato, si discosta consapevolmente dai principi di diritto affermati da questa Corte nella già richiamata decisione 6873/2016 resa con riguardo alla vicenda di Palazzo Tornabuoni e in numerose altre decisioni e, d’altro lato, richiama, a conforto della conclusione ritenuta,  la modifica dell’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E. operata dal già citato art. 65 bis l. 96 del 2017.
Reputa, invece, il Collegio che, al di là del giudizio circa l’applicazione degli altri parametri espressamente richiamati nell’art. 3, comma 1, lett. c) e d), T.U.E. per distinguere gli interventi di restauro o risanamento conservativo (che mirano a “conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità”) da quelli di ristrutturazione edilizia (che sono invece volti a “trasformare gli organismi edilizi” e che possono portare ad un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), la conclusione della sentenza impugnata non possa condividersi proprio per la ragione – assorbente, rispetto ad altre critiche pure rivolte dal ricorrente – che, secondo la stessa ricostruzione operata in sentenza, l’intervento qui sub iudice ha modificato la destinazione d’uso della Casa della Monache per quattro piani (a quanto pare, su cinque, escluso il solo piano terreno) ed era pertanto da qualificarsi come ristrutturazione edilizia, peraltro certamente assoggettata al previo rilascio del permesso di costruire perché intervenuta nel centro storico.

3. Al proposito, va qui innanzitutto richiamato il tradizionale orientamento secondo cui, in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (Sez.  3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243101; Sez.  3, n. 2877 del 11/12/2008, dep. 2009, Zaccari, Rv. 242165).
La conclusione trova conferma nel fatto che le definizioni degli altri interventi edilizi su edifici preesistenti presentano, quale tratto comune, quello di non poter portare ad un mutamento d’uso del fabbricato urbanisticamente rilevante ai sensi dell’art. 23 ter, comma 1, T.U.E.
Ciò  vale certamente per gli interventi di manutenzione, posto che anche per quelli di manutenzione straordinaria, pur dopo le modifiche apportate all’art. 3, comma 1, lett. b, T.U.E.) dal d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., in l. 11 novembre 2014, n. 164, si prevede che gli stessi «non comportino modifiche delle destinazioni di uso» e la giurisprudenza di questa Corte lo ha più volte riconosciuto pur dopo la citata “novella” (Sez.  3, n. 31618 del 14/01/2015, Cecchini e aa., Rv. 264496; Sez.  3, n. 3953 del 16/10/2014, dep. 2015, Statuto, Rv. 26201; Sez.  3, n. 12104 del 19/01/2012, Tedesco, Rv. 252341).
Lo stesso vale per gli interventi di restauro o risanamento conservativo e, anche in questo caso, la modifica dell’originario testo dell’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E., intervenuta con l’art. 65 bis d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (recante disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), conv. in l. 96 del 2017 non ha mutato la conclusione. L’originario testo della disposizione statuiva che nell’ambito di detti interventi, come detto volti a conservare l’organismo edilizio, potevano essere eseguite opere che, «nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili». L’art. 65 bis – introdotto nel testo del decreto-legge in sede di conversione -  ha disposto che in tale disposizione «le parole: "ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili"  sono sostituite dalle seguenti: "ne consentano anche  il  mutamento  delle destinazioni d'uso purché con  tali  elementi  compatibili,  nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi"».
La sentenza impugnata (pag. 29) argomenta come la “novella” non abbia una reale portata innovativa, limitandosi a chiarire ciò che già la previgente normativa prevedeva. Anche alla luce del silenzio sul punto serbato nei lavori parlamentari, dai quali non è dato evincere quale fosse l’intenzione dei proponenti, il Collegio condivide tale giudizio, ma non anche il significato che il giudice di merito assegna alla vecchia ed alla nuova formulazione della norma, in difformità dal consolidato orientamento interpretativo e senza confrontarsi con le indicazioni di carattere sistematico ricavabili dal tessuto normativo.
3.1. Che, prima della citata modifica, la categoria del restauro e risanamento conservativo non consentisse il mutamento della destinazione d’uso dell’edificio tra categorie funzionali non omogenee (per la argomentata conclusione v., in particolare, la motivazione della sent. Sez.  3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243101) lo si ricavava innanzitutto dal testo della norma, dovendo il requisito della “compatibilità”, previsto dall’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E., essere inteso come un utilizzo dell’immobile restaurato e risanato che, seppur non esattamente identico rispetto a quello precedente i lavori, non lo snaturasse rispetto, tra l’altro, alla sua “tipologia” intesa in senso urbanistico. Certo, la formulazione era obiettivamente equivoca e si sarebbe anche potuta prestare a fraintendimenti e proprio per questo, deve ritenersi – tenendo anche conto dell’introduzione nel corpo del testo unico dell’art. 23 ter, operato con l’art. 17, lett. n), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., in l. 11 novembre 2014, n. 164 – il legislatore del 2017 ha inteso precisare che gli interventi di restauro e risanamento conservativo possono bensì portare a modifiche della precedente destinazione d’uso, purché le stesse (oltre ad essere ovviamente conformi agli strumenti urbanistici, e tale requisito è del tutto privo di significato, trattandosi di connotato imprescindibile di qualsiasi tipo di intervento eseguito con s.c.i.a.: cfr. art. 22, comma 1, T.U.E.) siano “compatibili” con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio. A questa compatibilità – già prevista dalla formulazione originaria e mantenuta dalla novella – può attribuirsi un unico significato: quello della conservazione dell’edificio nell’ambito della categoria funzionale ad esso propria, che, appunto, vale a qualificarne la “tipologia” nell’ambito di quelle, eterogenee, altrimenti possibili sul piano urbanistico. L’implicito rinvio, dunque, è alla disposizione di cui all’art. 23 ter T.U.E. che individua le tipologie di edifici rilevanti sul piano urbanistico quando, al primo comma, proprio con riguardo al tema della modificazione della destinazione d’uso, si riferisce alla «assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale».
La modifica dell’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E., dunque, vale a coordinare la tradizionale definizione normativa del restauro e risanamento conservativo (che era rimasta immutata sin dalla sua introduzione nell’ordinamento con l’art. 31, primo comma, lett. c, l. 5 agosto 1978, n. 457) con la nuova disposizione sul mutamento d’uso urbanisticamente rilevante, secondo cui, laddove sia trasformata la categoria funzionale urbanistica del manufatto da una ad un’altra delle citate categorie eterogenee, si modifica la sua “tipologia”, secondo il diverso lessico utilizzato dalla disposizione sopra richiamata. Del resto, questo risultato, di indiscutibile impatto urbanistico, non è compatibile con la definizione di “conservazione dell’organismo edilizio”,  che è propria degli interventi di restauro e risanamento conservativo, e determina invece quella “trasformazione dell’organismo edilizio” che lo rende “in tutto o in parte diverso dal precedente” e che connota invece gli interventi di ristrutturazione edilizia. Compatibile con l’intervento di minor impatto – ciò che la modifica dell’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E. ha volto chiarire a scanso di equivoci – è, dunque, quel «mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale», peraltro sempre consentito a norma dell’art. 23 ter, comma 3, T.U.E.
3.2. Del resto, che la modificazione della destinazione d’uso tra categorie edilizie eterogenee porti di per sé ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente nel senso richiesto dall’art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E.  è conclusione assolutamente convincente laddove si abbia a mente la rilevanza che l’appartenenza a tali differenti categorie ha sul piano della gestione urbanistica del territorio. Val la pena, al proposito, di richiamare le lucide argomentazioni spese in una sentenza già più volte citata, che a sua volta richiama altri, conformi, precedenti: «la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.  Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (vedi Cass., Sez. 3: 7.3.2008, Desumine e 12.7.2002, Cinquegrani). Lo strumento urbanistico rappresenta l'atto di destinazione generica ed esso trova attuazione nelle prescrizioni imposte dal titolo che abilita a costruire, quale atto di destinazione specifica che vincola il titolare ed i suoi aventi causa. Possono conseguentemente distinguersi:
 - una destinazione d'uso urbanistico, riferita alle categorie specificate dalla legge e dal D.M. n. 1444 del 1968;
 - una destinazione d'uso edilizio, che attiene al singolo edificio ed alle sue capacità funzionali.
 Duplice è, dunque, l'esigenza correlata al controllo della destinazione d'uso degli immobili: da un lato quella di assicurare tutela alla zonizzazione funzionale, dall'altro quella di consentire l'applicazione della normativa sugli standards, regolatrice della differenziazione infrastrutturale del territorio» (Sez.  3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243101, in motivazione).
3.3. Le argomentazioni appena riportate basterebbero ad evidenziare l’errore in cui è incorsa la sentenza impugnata nel ritenere che, nonostante la modificazione della destinazione d’uso tra categorie non omogenee di larga parte di Casa delle Monache – vale a dire, da residenziale a direzionale, rispettivamente previste alle lett. a) e b) dell’art. 23 ter, comma 1, T.U.E. - l’intervento potesse essere qualificato come restauro o risanamento conservativo. Si trattava, invece, di una ristrutturazione edilizia, come tale preclusa nel caso di specie, secondo quanto risultante dalla sentenza impugnata, trattandosi di immobili ricadenti in classe 0 e in classe 1 (v. pagg. 7 e 24 sentenza).
Occorre, inoltre, aggiungere che detto intervento era certamente assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire  - ovvero al titolo alternativo della c.d. “super-dia” o “super-scia” di cui all’art. 23 T.U.E. - e non poteva invece essere eseguito con le semplici d.i.a. o s.c.i.a. ai sensi dell’art. 22 T.U.E. che nella specie risultano essere state rilasciate (sulla netta distinzione tra tali tipologie di titolo abilitativo, non sovrapponibili quanto alla loro efficacia giuridica, v. Sez.  3, n. 46480 del 13/07/2017, Omedè e aa., Rv. 270909; il rilievo è contenuto anche nella  motivazione della sentenza Sez.  3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e aa., Rv. 269152). Ed invero, indipendentemente dall’interpretazione che si voglia dare dell’art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E. nella parte in cui lo stesso assoggetta al previo rilascio del permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione che, «limitatamente alle zone omogenee A, comportino mutamento della destinazione d’uso», il caso di specie rientra certamente nell’ambito di applicazione della norma, non essendo controverso che tutti i cinque immobili fatti oggetto di intervento (e quindi anche la Casa delle Monache) rientrino nella zona A del P.R.G. del Comune di Firenze, come espressamente contestato nel capo a) d’imputazione e accertato in sentenza (pag. 5).
Poiché, come si è detto, il mutamento di destinazione d’uso è nella specie avvenuto tra categorie non omogenee, non occorre domandarsi se, pur dopo l’introduzione nel testo unico della previsione di cui all’art. 23 ter, che, come si è visto, considera, di regola, giuridicamente rilevanti soltanto i mutamenti d’uso intervenuti tra le diverse categorie indicate, reputando invece consentite, salvo diversa previsione delle leggi regionali o degli strumenti urbanistici, le modifiche intervenute nella stessa categoria, l’art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E. richieda il permesso di costruire anche se l’intervento eseguito nei centri storici abbia sortito questo, più limitato, effetto (ciò che la giurisprudenza di questa Corte ha peraltro sempre riconosciuto, a partire dalla sent. Sez. 3, n. 35177 del 12/07/2001, Cinquegrani, Rv. 222740, i cui principi sono stati ribaditi in tutte le successive decisioni di legittimità che hanno affrontato il tema, tanto da divenire ius receptum e da condurre talvolta ad estenderli anche al caso di modifica della destinazione d’uso senza opere: v. Sez. 3, n. 13122 del 12/02/2003, Guaetta e a., Rv. 224361; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, dep. 2014, Tortora, Rv. 258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e a., Rv. 269152). Quest’ultima decisione – resa con riguardo al giudizio di merito relativo alla vicenda del Palazzo Tornabuoni - ha infatti ribadito che gli interventi di restauro e di risanamento conservativo richiedono sempre il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti nel centro storico, dei quali venga mutata la destinazione d'uso (Sez. 3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e aa., Rv. 269152), specificando proprio, in conformità al principio affermato nella precedente decisione cautelare, come tale modificazione non sia compatibile con la “tipologia”  dell’edificio, che ricomprende «quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie».
Vi è da rilevare, piuttosto, come il semplice fatto che l’intervento determini la modifica di destinazione d’uso di immobili ricadenti nei centri storici imponga il ricorso al permesso di costruire (o alla c.d. super-scia – già super-dia – ad esso alternativa) indipendentemente dal fatto che ricorrano gli altri elementi necessari a far qualificare come “pesante” ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E. l’intervento di ristrutturazione edilizia, ciò che vale, in particolare, per le «modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti». Ed invero, la formulazione della norma, con l’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “ovvero”, è chiara nell’escludere che l’ipotesi qui considerata debba altresì essere connotata da tali ulteriori requisiti.
3.4. Va ancora aggiunto, per completezza, come non rilevi nel caso di specie l’argomento - parimenti speso in sentenza - che l’art. 6.2.3. n.t.a. P.R.G. di Firenze reputi compatibile con la definizione di restauro il mutamento della destinazione d’uso, né che l’art. 171, comma 2, reg. ed. consentisse, all’epoca dei fatti, il mutamento della destinazione d’uso degli edifici ubicati nel centro storico, da residenziale a direzionale, se di pubblico interesse, ciò che con riguardo alla Casa delle Monache è stato sancito con Delibera della Giunta Comunale n. 2011/G/00004 dell’11 gennaio 2011, che ha valorizzato l’opportunità di mantenere e consolidare nel centro storico cittadino la sede della storica società Salvatore Ferragamo.
Quanto al primo dei menzionati profili, deve osservarsi che le norme comunali non possono modificare la definizione delle categorie degli interventi edilizi delineate dalla legislazione statale ed a cui questa ricollega il regime dei titoli abilitati e delle relative sanzioni, anche penali, e, laddove le definizioni non siano coincidenti, a norma dell’art. 3, comma 2, T.U.E., quelle in esso contenute «prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi». Del resto, proprio per il rispetto della riserva di legge statale in materia penale quale prevista dall’art. 25, secondo comma, Cost., neppure la legislazione regionale può al proposito dettare disposizioni derogatorie (cfr. Corte cost., sent. 21-23/11/2011, n. 309). Ne deriva, pertanto, che  all’art. 6.2.3. n. att. P.R.G., come pure all’art. 135, comma 2, lett. c), l. reg. Toscana 10 novembre 2014, n. 65, come modificato dall’art. 12, comma 2, l. reg. Toscana 8 settembre 2017, n. 50, che definisce in ambito regionale la categoria del restauro e risanamento conservativo in termini identici a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, lett. c), T.U.E. nella versione novellata, deve attribuirsi lo stesso significato di quest’ultima anche in relazione alle modifiche di destinazione d’uso compatibili. Tali disposizioni, dunque, vanno interpretate nel senso che il restauro o risanamento conservativo può comportare mutamenti della destinazione d’uso compatibili con gli elementi tipologici dell’edificio e, dunque, limitati alla medesima categoria funzionale.
Quanto al secondo profilo, il fatto che il regolamento edilizio consenta anche nei centri storici il mutamento di destinazione d’uso tra categorie eterogenee e, in particolare, da residenziale a direzionale (all’epoca dei fatti solo previo riconoscimento del pubblico interesse, successivamente senza questa condizione, stando alla sentenza impugnata), è questione irrilevante ai fini dell’individuazione del titolo abilitativo necessario, che, giusta la previsione di cui all’art. 10, comma 1, lett.  c), è il permesso di costruire. Ai fini della decisione sulla sussistenza del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), T.U.E., non rileva se quel mutamento di destinazione d’uso fosse o meno consentito – tema, questo, che rientra invece a pieno titolo nella sfera di competenza dell’ente locale – ma solo quale fosse il titolo abilitativo necessario per eseguire l’intervento.
3.5. In forza delle argomentazioni di cui sopra, la sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con riferimento al reato urbanistico di cui capo a) d’imputazione con rinvio – ex art. 569, comma 4, cod. proc. pen. – alla Corte d’appello di Firenze.
Il giudice del rinvio, nel valutare complessivamente le opere nella specie effettuate ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, secondo le indicazioni più sopra richiamate, riguardando il risultato dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, farà in particolare applicazione del seguente principio di diritto: la realizzazione di un insieme sistematico di opere rivolte a modificare la destinazione d’uso di un preesistente organismo edilizio in modo tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o di una unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle previste nell’art. 23 ter, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 è intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia e non compatibile con la categoria del restauro o risanamento conservativo, che ammette soltanto modifiche della destinazione d’uso nell’ambito della stessa categoria funzionale; se l’immobile è compreso nelle zone omogenee A del piano regolatore comunale (centro storico), per ciò solo il descritto intervento è subordinato al previo rilascio del permesso di costruire od alla s.c.i.a. ad esso alternativa ed in mancanza del necessario titolo sussiste il reato di lavori in assenza di permesso di cui all’art. 44, comma 1, d.P.R. 380 del 2001.
Occorre aggiungere che, nel fare applicazione del suddetto principio, il giudice del rinvio dovrà valutare se la modifica della destinazione d’uso che nella specie risulta intervenuta quanto all’immobile denominato Casa delle Monache –con riguardo ai piani primo, secondo, terzo e quarto - abbia o meno riguardato la prevalente estensione, in termini di superficie, dell’intero fabbricato e/o di alcuna delle unità immobiliari di cui il medesimo era eventualmente in precedenza composto, poiché soltanto in tale caso, ai sensi dell’art. 23 ter, comma 2, T.U.E. potrà dirsi integrata la fattispecie ivi disciplinata e, conseguentemente, il reato contravvenzionale in ipotesi ravvisabile. Occorrerà peraltro valutare se – ed eventualmente in quale misura – spazi allocati in altra parte del fabbricato (ad es. al piano terreno o al piano interrato) siano qualificabili come accessori alla parte di edificio destinata ad uso direzionale, dovendo in tal caso computarsi ai fini dell’indagine in parola.

4. Restando assorbito nella conclusione sopra formulata l’esame del quarto motivo di ricorso, osserva il Collegio come i principi affermati portino all’accoglimento anche del sesto motivo di ricorso.
Ed invero, posto che il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), T.U.E. contestato al capo c) è relativo – secondo la ricostruzione in fatto operata in sentenza - alla realizzazione di un soppalco in struttura metallica all’interno di Palazzo Salutati, destinato ad ufficio e anche con funzioni di collegamento con Palazzo delle Monache, sì da essere intimamente connesso alle opere volte al nuovo utilizzo direzionale di quest’ultimo edificio, ai fini del giudizio sul rilascio del titolo abilitativo, quei lavori (per i quali non risulta peraltro essere stato formato alcun titolo abilitativo) devono essere ricompresi nell’intervento di ristrutturazione urbanistica ravvisabile con riguardo a queste ultime. Trattandosi, dunque, di unico reato, la consumazione si protrae sino alla conclusione di tutte le opere, sicché l’abuso contestato al capo c) non poteva essere isolatamente considerato per farne cessare la permanenza alla data del 2011. Ed invero,  si è al proposito affermato che se la valutazione di un'opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i singoli componenti, ne deriva che, in virtù del concetto unitario di costruzione, la stessa può dirsi completata solo ove siano terminati i lavori relativi a tutte le parti dell'edificio, con la conseguenza che la permanenza del reato di costruzione in difetto del permesso di costruire cessa con la realizzazione totale dell'opera in ogni sua parte (Sez.  3, n. 15442 del 26/11/2014, dep. 2015, Prevosto e aa., Rv. 263339; Sez.  3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo, Rv. 270256). Quand’anche non fosse corretta la data di commissione del fatto quale indicata nel capo a) d’imputazione, in forza della modifica della contestazione avvenuta nel corso del dibattimento (secondo cui le opere abusive sarebbero terminate nel febbraio 2016) - la sentenza impugnata attesta infatti (pag. 16) che i lavori risultavano conclusi all’epoca del sopralluogo dell’isp. Elmi (26 maggio 2014) – il reato non risulta prescritto all’epoca della sentenza, né lo è oggi (tenendo anche conto delle sospensioni del corso della prescrizione verificatesi in dibattimento a seguito dei rinvii concessi su richiesta della difesa per l’adesione all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria). La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio anche con riguardo al reato di cui al capo c), essendo al proposito applicabili i principi già più sopra affermati.

5. E’ invece inammissibile - per due, distinte, ragioni - il quarto motivo di ricorso.
5.1. In primo luogo, il pubblico ministero ricorrente, pur avendo formalmente dedotto la violazione di legge, nella sostanza censura “una errata valutazione delle prove da parte del giudice in ordine al capo b)”. Si tratta, dunque, di un profilo di doglianza riconducibile al vizio di motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., che, ai sensi dell’art. 569, comma 3, cod. proc. pen., non è deducibile con il ricorso immediato per cassazione.
5.2. In secondo luogo – ed il rilievo è comunque assorbente – il ricorso è sul punto generico e rivela una mancanza di concreto interesse posto che il ricorrente si duole di una soltanto delle due, indipendenti, rationes decidendi che sorreggono la sentenza impugnata nella parte in cui si motiva l’assoluzione dell’imputato dal reato di falso contestato al capo b).
    Ed invero, la stessa è intervenuta non soltanto perché il giudice ha ritenuto corretta la valutazione tecnica dell’intervento come restauro o risanamento conservativo effettuata nelle pratiche edilizie di d.i.a. e s.c.i.a. presentate – ed è questo l’unico profilo di doglianza dedotto in ricorso dal pubblico ministero – ma anche in base all’ulteriore rilievo che si tratta di mere valutazioni che esulano dall’ambito dell’ipotizzato delitto di falso. In particolare, richiamando la già citata sent. Sez.  3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e aa., Rv. 269152 - che, con riguardo alla vicenda relativa al Palazzo Tornabuoni, ha respinto il motivo di ricorso proposto dal pubblico ministero in ordine alla ritenuta insussistenza del delitto di falso, pure in quel procedimento contestato, per ragioni analoghe a quelle che qui vengono in rilievo – la sentenza impugnata osserva come la falsità ideologica sussista soltanto quando nelle pratiche edilizie si attesti l’inesatta rappresentazione e descrizione grafica dell’intervento (profilo nella specie pacificamente non sussistente) e non anche con riguardo alle mere qualificazioni dell’intervento e del suo regime edilizio, trattandosi di valutazioni non assistite dalla presunzione di veridicità e che in alcun modo condizionano il responsabile dell’ufficio tecnico comunale nell’esercizio della sua doverosa attività di vigilanza ex art. 27 T.U.E.
Non avendo il ricorrente impugnato questa, alternativa, ratio decidendi, deve dunque richiamarsi l’orientamento con cui questa Corte ha ripetutamente affermato il difetto di specificità, con violazione dell’art. 581 cod. proc. pen., del ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti (Sez.  3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448;  Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972; Sez. 3, n. 30013 del 14/07/2011, Melis e Bimonte, non massimata) e, sotto altro angolo visuale, negli stessi casi, il difetto di concreto interesse ad impugnare, in quanto l'eventuale apprezzamento favorevole della doglianza non condurrebbe comunque all’accoglimento del ricorso (Sez. 6, n. 7200 del 08/02/2013, Koci, Rv. 254506).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente ai capi a) e c) con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Firenze.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del pubblico ministero.
Così deciso il 14 febbraio 2019.