Cass. Sez. III n. 9876 del 5 marzo 2018 (Ud 9 gen 2018)
Presidente: Ramacci Estensore: Mengoni Imputato: Pischiutta
Urbanistica. Titolo abilitativo "provvisorio"
Sussiste il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire, pur quanto gli stessi siano stati assentiti da un titolo abilitativo provvisorio, o “in precario”, atteso che lo stesso risulta non soltanto extra legem, in quanto non previsto dalla normativa vigente, ma anche illegittimo (contra legem), poiché giova a tollerare una situazione di evidente abuso edilizio
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell’8/5/2017, la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della pronuncia emessa il 26/4/2016 dal Tribunale di Udine, concedeva a Marinella Pischiutta il beneficio della non menzione della condanna, confermata nel resto alla pena di quattro mesi di arresto e 6.000,00 euro di ammenda; alla stessa era contestata la contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per aver installato una serra da adibire a deposito del fieno, omettendo poi di rimuoverla alla scadenza dell’autorizzazione – con validità di un anno – ottenuta dal Comune di S. Daniele del Friuli il 23/11/2001.
2. Propone ricorso per cassazione la Pischiutta, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- violazione di legge. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna dell’imputata pur a fronte dell’intervenuta prescrizione del reato; ed invero, atteso che l’autorizzazione ottenuta aveva durata annuale, il dies a quo del termine di cui all’art. 157 cod. pen. sarebbe da individuare nel 23/11/2002. Termine ampiamente spirato, dunque, già alla data della sentenza di primo grado;
- violazione di legge e vizio motivazionale con riguardo all’art. 131-bis cod. pen.. La sentenza avrebbe negato la causa di esclusione della punibilità richiamando un dato - l’abitualità del comportamento – invero non ravvisabile; la condotta, inoltre, si sarebbe caratterizzata per la modesta portata, come peraltro confermato dal successivo rilascio di un nuovo titolo autorizzatorio;
- carenza di motivazione con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche, invero dovute alla luce dell’incensuratezza della ricorrente.
Si chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riferimento alla prima doglianza, e pacifici i tratti oggettivi e psicologici della condotta contestata, premette la Corte che la Pischiutta è stata condannata per aver mantenuto in essere la serra de qua ben oltre il termine annuale di cui al provvedimento autorizzatorio del 23/11/2001, ossia per altri 11 anni; ciò premesso, risulta allora evidente – come implicitamente riconosciuto dalla sentenza impugnata – che il reato di cui alla rubrica si presenta, in questo caso, come a carattere permanente, perdurando la condotta illecita fino a quando la rimozione del manufatto – espressamente imposta nel titolo abilitativo alla scadenza del termine indicato – non venga eseguita, così investendo l’opera di un evidente e perdurante carattere illecito. Al riguardo, pertanto, si deve ribadire l’indirizzo a mente del quale vi è piena equivalenza – ai fini della contestazione dei reati previsti dall’art. 44 in esame – tra la condotta di colui che edifica un manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui che, realizzando un’opera di tipo precario (o così rappresentata), non la rimuove in spregio alle indicazioni dell’autorità amministrativa (per tutte, Sez. 3, n. 50620 del 18/6/2014, Urso, Rb. 261955).
Esattamente come nel caso in esame.
4. E fermo restando, peraltro, che – per giurisprudenza di questa Corte costante, e qui da ribadire – sussiste il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire, pur quanto gli stessi siano stati assentiti da un titolo abilitativo provvisorio, o “in precario”, atteso che lo stesso risulta non soltanto extra legem, in quanto non previsto dalla normativa vigente, ma anche illegittimo (contra legem), poiché giova a tollerare una situazione di evidente abuso edilizio (Sez. 3, n. 15921 del 12/2/2009, Palombo, Rv. 243475, relativa all’installazione di una stazione radio base mobile, con traliccio di 34 metri, gruppo elettrogeno con supporto in calcestruzzo armato e relativa cisterna, autorizzata soltanto per un semestre). Conclusione – questa appena richiamata – che deriva dal fatto che la legge non richiede alcun titolo abilitativo per le opere oggettivamente contraddistinte da caratteri di precarietà, dovendo la stessa essere desunta non dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (tra le molte, Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 22054 del 25/2/2009, Frank, Rv. 243710; Sez. 3, n. 20189 del 21/3/2006, Cavallini, Rv. 234325). Ove tali caratteri manchino, e si sia in presenza di opere stabili (come nel caso di specie), che comportino una modificazione urbanistico-edilizia apprezzabile nel tempo e non finalizzata a soddisfare esigenze improvvise e transeunti, la legge prevede un solo tipo di provvedimento che legittima l’edificazione (il permesso di costruire). “I casi, in sostanza, sono due: o non ricorrono i presupposti che impongono il rilascio del provvedimento che abilita a costruire, e allora l’opera conforme alle prescrizioni di piano è esente dal controllo pubblico; oppure essi ricorrono, e allora il permesso di costruire tipico è indefettibilmente necessario e non surrogabile da un atipico provvedimento di carattere provvisorio” (Sez. 3, n. 37578 del 16/4/2008, Rao, Rv. 241070. Nei medesimi termini, tra le altre, Sez. 3, n. 111 del 13/1/2000, La Ganga Ciciritto, Rv. 216000).
5. Dal che, anche la conclusione per cui il termine prescrizionale ex artt. 157-161 cod. pen. (pari a cinque anni) – decorrente nel caso in esame dall’accertamento dell’illecito (19/12/2013) - non era affatto decorso alla data di pronuncia delle sentenze di merito, così come non lo è alla data della presente sentenza.
6. Infondata, di seguito, risulta anche la seconda doglianza, concernente l’art. 131-bis cod. pen. Osserva la Corte, infatti, che la sentenza impugnata – pronunciandosi sulla medesima questione – ha steso una motivazione del tutto congrua, fondata sui corretti parametri normativi (in particolare, l’art. 133, comma 1, cod. pen.) e non manifestamente illogica; come tale, dunque, non censurabile. In particolare, la causa di esclusione della punibilità è stata negata alla luce dell’entità “per nulla trascurabile” dell’illecito, sia sotto il profilo oggettivo (valutate, cioè, le considerevoli dimensioni dell’opera, poggiata su una estesa piattaforma in calcestruzzo di quasi 300 metri quadrati, con evidente impatto paesaggistico) che sotto quello oggettivo (considerato il carattere doloso dell’abuso, protratto per oltre dieci anni ed inteso a rendere definitiva la situazione autorizzata in precario per solo un anno).
Con argomento adeguato, quindi, qui non censurabile.
7. Da ultimo, in punto di circostanze attenuanti generiche, si deve preliminarmente richiamare il costante e condiviso indirizzo a mente del quale, nel motivarne il diniego, non è necessario che il Giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (per tutte, Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899); ciò premesso, osserva la Corte che la sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali principi, negando le circostanze in ragione dell’assenza di adeguati elementi – diversi dalla mera incensuratezza, ex se insufficienti – che le potessero giustificare. Elementi, invero, neppure rappresentati in questa sede, laddove si ribadisce soltanto l’assenza di precedenti penali in capo alla ricorrente.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2018