Cons. Stato Sez. VI sent. 2001 dell' 11 APRILE 2006
Acque. Acque destinate al consumo umano
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.2001/2006
Reg.Dec.
N. 1138 e 1139
Reg.Ric.
ANNO 2005
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la
seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 1138/2005 proposto da CEMENTIR -CEMENTERIE DEL
TIRRENTO S.P.A. rappresentata e difesa dagli Avv.ti Claudio Manzia, Giuseppe
Lavitola, Massimo Annesi e Valentino Capece Minutolo con domicilio eletto in
Roma via Costabella n. 23, presso lo studio dell’Avv. Giuseppe Lavitola;
contro
COMUNE DI CARROSIO rappresentato e difeso dagli Avv.ti Andrea Ferrari e Corrado
De Martini con domicilio eletto in Roma via F. Siacci 2/B, presso lo studio del
secondo;
LEGAMBIENTE-ASSOCIAZIONE AMBIENTALISTA NAZIONALE rappresentata e difesa dagli
Avv.ti Corrado Carrubba e Francesco Sicher con domicilio eletto in Roma via Q.
Sella n. 41, presso lo studio del primo;
LEGAMBIENTE PIEMONTE non costituita;
e nei confronti
della PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI e del MINISTERO DELL’AMBIENTE E
DELLA TUTELA DEL TERRITORIO, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale
dello Stato con domicilio in Roma via dei Portoghesi n. 12;
della PROVINCIA DI ALESSANDRIA,
della REGIONE PIEMONTE, entrambe non costituite;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte – Torino Sez.
I n. 2522/2004;
e sul ricorso in appello n. 1139/2005 proposto da CEMENTIR -CEMENTERIE DEL
TIRRENTO S.P.A. rappresentata e difesa dagli Avv.ti Claudio Manzia, Giuseppe
Lavitola, Massimo Annesi e Valentino Capece Minutolo con domicilio eletto in
Roma via Costabella n. 23, presso lo studio dell’Avv. Giuseppe Lavitola;
contro
COMUNE DI GAVI rappresentato e difeso dagli Avv.ti Claudio Dal Piaz e Mario
Contaldi con domicilio eletto in Roma via Pierluigi da Palestrina n. 63, presso
lo studio del secondo;
e nei confronti
della PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, del MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA
TUTELA DEL TERRITORIO e della REGIONE PIEMONTE, rappresentate e difese
dall’Avvocatura Generale dello Stato con domicilio in Roma via dei Portoghesi n.
12;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte – Torino Sez.
I n. 2523/2004;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti appellate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2006 relatore il Consigliere Roberto
Chieppa. Uditi altresì, per le parti gli avv.ti Lavitola, Capece Minutolo,
Manzia, Ferrari, Contaldi, Carrubba e l’avv.to dello Stato Bacosi.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
1. Con decreto del 4.8.1999, il Presidente del Consiglio dei Ministri definiva
in senso favorevole alla società Cementir la procedura di rinnovo della
concessione mineraria per l’estrazione della marna, denominata Monte Bruzeta.
Tale decreto era stato adottato in sede di definizione della conferenza di
servizi indetta in considerazione del dissenso opposto dai Comuni di Gavi e
Carrosio; dissenso motivato in ragione dell’esigenza di preservare l’integrità
delle risorse idriche site in località Monte Bruzeta, fonte di
approvvigionamento per gli acquedotti dei due comuni.
Con la sentenza n. 2085/2003 questa Sezione accoglieva i ricorsi proposti dai
Comuni di Gavi e Carrosio ed annullava il menzionato decreto.
Con tale decisone la Sezione rilevava che:
- l’esigenza di preservazione dell’integrità del patrimonio idrico costituisce
un valore primario, fissato da norma di carattere precettivo e non meramente
programmatico, in considerazione della natura scarsa della risorsa e della
necessità della sua preservazione in funzione prospettica della tutela delle
esigenze delle generazioni future a fronte di un rischio di ulteriore
rarefazione del bene primario;
- l’acqua è una componente essenziale dell’ecosistema, da proteggere in una
logica di salvaguardia a lungo termine delle risorse idriche, con particolare
riferimento a quelle caratterizzate dall’attitudine al soddisfacimento delle
esigenze del consumo umano;
- il decreto del 4-8-99, nella misura in cui subordinava la realizzazione della
miniera alla costruzione di un acquedotto alternativo che prelevi acque di
superficie per le popolazioni prima servite dalle fonti a rischio di
distruzione, comparava l’interesse generale alla coltivazione della miniera con
il solo interesse alla preservazione dell’approvvigionamento idrico dei Comuni
in esame, senza prendere in considerazione l’interesse alla preservazione delle
acque come risorsa idrica da salvaguardare, alla stregua di componente
dell’equilibrio ambientale e nella veste di risorsa scarsa utile in una dinamica
attenta alle esigenze future collegate alla scarsezza crescente della risorsa di
che trattasi;
- il provvedimento non teneva nella debita considerazione, in sede
motivazionale, la circostanza che la legislazione vigente, pur se non può essere
letta in una chiave rigida di intangibilità radicale ed astratta delle acque
avulsa da qualsiasi prospettiva di comparazione con interessi pubblici e con
diritti anch’essi di dimensione costituzionale, impone un’adeguata valutazione
in concreto della rilevanza e della necessità del sacrificio di una risorsa
primaria ex se considerata in relazione alla cogenza degli interessi, pubblici e
privati, antagonisti.
- il provvedimento doveva essere quindi annullato per una insufficienza
motivazionale nella parte in cui:
a) conduce la comparazione tra l’interesse alla coltivazione della miniera e
l’interesse a servire di acqua una determinata utenza collettiva, senza valutare
in sé l’importanza ambientale ed idrica delle fonti sottoposte a rischio di
eliminazione;
b) non valuta in modo adeguato la concretezza del rischio di distruzione nonché
l’importanza e la rilevanza della risorsa idrica in parola;
c) non considera se siano praticabili soluzioni alternative capaci di consentire
il soddisfacimento dell’interesse pubblico alla coltivazione della miniera e la
preservazione, ovvero la riduzione dei fattori di rischio di distruzione, delle
fonti di che trattasi.
Con la statuizione di annullamento veniva fatto salvo il potere della Presidenza
del Consiglio dei Ministri di adottare gli ulteriori provvedimenti
amministrativi finalizzati alla definizione della procedura sulla base della
rivalutazione degli interessi in rilievo nella prospettiva delineata.
Con la stessa sentenza venivano invece respinti gli ulteriori motivi di ricorso
e, in particolare, veniva statuito che:
- le problematiche relative alla costruzione dell’acquedotto alternativo ed
all’idoneità quantitativa e qualitativa delle acque da esso fornite non
toccavano il provvedimento impugnato, ma la diversa procedura amministrativa
relativa all’approvazione di detto progetto ed alla relativa esecuzione,
procedura oggetto di separata impugnativa giurisdizionale;
- dovevano essere dichiarati irricevibili i motivi aggiunti proposti dal Comune
di Carrosio, in relazione all’omesso esperimento della procedura di VIA, essendo
evidente che la notizia del possibile avvio di una procedura comunitaria di
infrazione non toglie che la conoscenza del dato normativo della necessità della
VIA per determinate opere era nella disponibilità dei comuni, che hanno
partecipato alla procedura, sin dal momento dell’adozione del provvedimento
gravato.
Dopo la pubblicazione di tale decisione, avvenuta il 18 aprile 2003, veniva
rinnovato il procedimento, che si concludeva con una nuova determinazione
favorevole alla richiesta di concessione mineraria della Cementir, assunta con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 maggio 2003.
In seguito all’impugnazione di tale decreto da parte dei Comuni di Gavi e
Carrosio, il Tar Piemonte accoglieva la domanda cautelare da questi proposta e
sospendeva l’atto impugnato con ordinanza n. 875/03, confermata da questa
Sezione con ordinanza n. 4953/03.
Con le impugnate sentenze il Tar accoglieva i ricorsi proposti dai due comuni ed
annullava il nuovo decreto di autorizzazione della concessione mineraria chiesta
dalla Cementir.
Il giudice di primo grado riteneva fondato il vizio di difetto di istruttoria e
di motivazione dell’impugnato provvedimento.
La Cementir impugnava entrambe le sentenze per i motivi di seguito esaminati.
I Comuni di Gavi e Carrosio e Legambiente si costituivano in giudizio chiedendo
la reiezione dei ricorsi in appello, mentre la Presidenza del Consiglio dei
Ministri e il Ministero dell’ambiente si costituivano, chiedendo invece
l’accoglimento dei ricorsi.
Questa Sezione respingeva le domande di sospensione delle decisioni di primo
grado e con ordinanze del 14 luglio 2005 disponeva in via istruttoria una
verificazione ai sensi dell’art. 44 del R.D. n. 1054/1924 (T.U. Cons. Stato),
incaricando l’Autorità di bacino del fiume Po al fine di accertare:
a) le caratteristiche, la natura e la portata delle sorgenti di acqua
interessate dalla concessione, anche con riguardo a quanto indicato
nell’impugnato provvedimento (verosimile alimentazione di tipo locale delle
sorgenti);
b) il valore delle risorse idriche in questione, tenendo presente quanto
affermato dalla Sezione con la sentenza n. 2085/2003;
c) la sorte delle attuali sorgenti al momento di cessazione dell’attività
estrattiva, tenendo presente che la previsione di ulteriore disponibilità,
contenuta della nota del 27 luglio 1987 del Corpo delle Miniere richiamata
nell’atto impugnato si pone in contrasto con la nota del 10-3-99, prodotta dai
comuni interessati, con cui lo stesso Distretto minerario di Torino afferma che
“non si può assicurare il recupero a scopo di uso potabile delle captazioni
messe in discussione al termine dei lavori di coltivazione”;
d) l’idoneità e lo stato di esecuzione dell’acquedotto alternativo, anche con
riferimento alla qualità e alla portata delle acque confrontata sulla base dei
vigenti standards con quella derivante dalle fonti interessate dall’attività
estrattiva;
e) l’eventuale praticabilità di soluzioni alternative capaci di consentire il
soddisfacimento dell’interesse pubblico alla coltivazione della miniera e la
preservazione, ovvero la riduzione dei fattori di rischio di distruzione, delle
fonti in questione.
Con la stessa ordinanza veniva inoltre chiesto alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri di comunicare lo stato della procedura relativa al parere motivato
della Commissione europea del 7 luglio 2004 e la posizione assunta dallo Stato
italiano in relazione a detto parere.
Espletata l’istruttoria, all’odierna udienza la causa è stata trattenuta in
decisione.
2. Preliminarmente si dispone la riunione dei due ricorsi indicati in epigrafe,
in quanto proposti per analoghi motivi avverso due sentenze del Tar, aventi ad
oggetto la medesima questione (la legittimità del dPCM 16-5-2003).
3. Con il primo motivo del ricorso l’appellante sostiene che l’annullamento
dell’atto impugnato da parte del Tar per difetto di istruttoria si porrebbe in
contrasto con il giudicato di cui alla sentenza di questa Sezione n. 2085/2003,
con cui erano stati respinte tutte le censure in precedenza proposte, tranne
quella relativa al difetto di motivazione, ritenuta invece fondata.
Di conseguenza, dovevano ritenersi inammissibili perché coperti dal giudicato
tutti i motivi attinenti all’attività istruttoria e il giudice di primo grado si
sarebbe dovuto limitare a verificare se il dPCM 16-5-2003 fosse coerente con le
indicazioni contenute nella sentenza del Consiglio di Stato.
Viene infine aggiunto che il Tar si è contraddetto, quando dapprima ha limitato
l’oggetto del giudizio alla sola nuova valutazione del materiale istruttorio già
esistente, e poi ha annullato l’atto per difetto di istruttoria.
Il motivo è infondato.
Il precedente decreto dd. 4-8-99 è stato annullato da questa Sezione con la
sentenza n. 2085/2003, passata in giudicato.
Con tale decisione la Sezione ha ritenuto “fondato il motivo con il quale si
deduce(va) la violazione delle disposizioni dettate dagli articoli 1 e 2 della
legge 5 gennaio 1994 n. 36, e dagli articoli 1 e 4 della Legge regionale del
Piemonte 12 aprile 1994, n. 4” ed ha collegato tale vizio ad una “deficienza
motivazionale” relativa ad alcuni aspetti già indicati in precedenza.
Per tali aspetti in alcun modo è stata accertata l’adeguatezza dell’istruttoria
allora svolta ed anzi per alcuni è stato espressamente rilevato che le tesi
sostenute dalle parti resistenti non trovavano “alcun conforto istruttorio”
(come per l’affermazione svolta dalla provincia di Alessandria secondo cui
l’intercettazione delle acque non determinerebbe un’erosione delle acque
sotterranee, ma l’assunzione da parte delle stesse di un diverso percorso di
emersione; v. pag. 8 della sentenza n. 2085/03).
La mancata comparazione degli interessi coinvolti (e fra questi di quello “alla
preservazione delle acque come risorsa idrica da salvaguardare”) è stata
ritenuta rilevante, sotto il profilo motivazionale, per non aver
l’amministrazione valutato l’importanza delle fonti idriche in questione, il
concreto rischio di eliminazione, la praticabilità di soluzioni alternative.
Tali valutazioni potevano essere effettuate sulla base dell’istruttoria già
svolta, solo nel caso in cui da tale istruttoria fossero emersi elementi chiari
e inequivoci, su cui fondare una corretta comparazione degli interessi in gioco.
Altrimenti, qualora i precedenti elementi istruttori non fossero stati
sufficienti, l’amministrazione avrebbe dovuto acquisire nuovi elementi
istruttori, necessari per la rivalutazione degli interessi nel senso indicato
dal Consiglio di Stato.
Del resto, nel dPCM del 4-8-99 l’amministrazione si era limitata a richiamare
gli atti istruttori e a condizionare il rilascio del rinnovo della concessione
all’obbligo di realizzare l’acquedotto alternativo, senza effettuare alcuna
comparazione degli interessi e senza quindi esplicitare le ragioni, in base alle
quali gli elementi istruttori erano stati ritenuti sufficienti.
L’annullamento di tale decreto per l’evidente deficit motivazionale non può in
alcun modo pregiudicare la valutazione, in sede di riesercizio del potere,
dell’adeguatezza dei precedenti elementi istruttori e la successiva
contestazione giurisdizionale delle nuove valutazioni anche nella parte relativa
all’idoneità dell’istruttoria.
Del resto, nello stesso dPCM 16-5-03 è affermato che “negli atti del
procedimento acquisiti in sede di conferenza di servizi, sono presenti tutti gli
elementi idonei a soddisfare le esigenze di motivazione del provvedimento,
indicate dal Consiglio di Stato”.
Ciò significa che, contrariamente a quanto dedotto in giudizio dalla stessa
Presidenza (che ha sostenuto che l’adeguatezza dell’istruttoria fosse coperta
dal giudicato), in sede di riesercizio del potere l’amministrazione ha ritenuto
necessario verificare in via preliminare l’idoneità degli elementi istruttori
prima di procedere alle valutazioni richieste dal giudicato.
Tale giudizio sull’idoneità degli elementi istruttori e le nuove valutazioni
effettuate costituiscono appunto l’oggetto del presente giudizio e non sono
aspetti coperti dal giudicato.
E’ invece coperta dal giudicato la questione delle dedotta omissione della
procedura di VIA, in quanto con la sentenza n. 2085/2003 questa Sezione ha
dichiarato irricevibile la censura proposta con motivi aggiunti. Era stato
ritenuto che la conoscenza della notizia del possibile avvio di una procedura
comunitaria di infrazione non costituisse elemento idoneo a rimettere in termini
i ricorrenti per la deduzione di un vizio, di cui erano a conoscenza sin dal
momento dell’adozione del provvedimento gravato.
E’ evidente che il riesercizio del potere in esecuzione del giudicato non può
riaprire una questione, coperta dal giudicato e che in alcun modo veniva in
rilievo per l’effettuazione delle nuove valutazioni, descritte in precedenza e
imposte dalla sentenza del Consiglio di Stato.
Con le menzionate ordinanze istruttorie, la Sezione aveva anche chiesto alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri informazioni sullo stato della procedura
avviata dalla Commissione europea con parere motivato, relativo proprio
all’omessa VIA.
Va precisato che tale richiesta era stata effettuata al solo fine di verificare
se la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che - pur aderendo alle conclusioni
del ricorso in appello della Cementir - non aveva ritenuto di impugnare le
decisioni del Tar che annullavano il dPCM, avesse intrapreso iniziative, quali
l’esercizio di poteri di autotutela, che potessero avere rilevanza sotto il
profilo della permanenza dell’interesse al ricorso in appello.
La Presidenza del Consiglio ha, invece, fatto presente di non condividere le
contestazioni mosse dalla Commissione e di volersi difendere nelle competenti
sedi comunitarie e, di conseguenza, la questione dell’omissione della procedura
di VIA non può costituire oggetto del presente giudizio perché coperta dal
giudicato e resta devoluta alle valutazioni attribuite alla responsabilità della
Presidenza del Consiglio (anche in relazione agli obblighi comunitari) e alle
eventuali determinazioni assunte in sede comunitaria.
Il giudice di primo grado non ha comunque trattato tale questione e si è
limitato a ritenere fondato il vizio del difetto di istruttoria con una
statuizione, che, come ora evidenziato, non viola il giudicato di cui alla
sentenza n. 2085/03 di questa Sezione e non contiene elementi di
contraddittorietà, in quanto la delimitazione dell’oggetto del giudizio alle
“censure che attengono alla nuova valutazione fatta dalla pubblica autorità” non
si pone in contrasto con il rilevato difetto di istruttoria, atteso che tali
nuove valutazioni coinvolgevano anche l’istruttoria, come evidenziato in
precedenza.
4.1. Con il secondo motivo dei due ricorsi riuniti l’appellante Cementir
sostiene che le nuove valutazioni effettuate con il dPCM 16-5-03 rispondono alle
esigenze indicate dal Consiglio di Stato, si fondano su idonei elementi
istruttori e sono state ritenute erroneamente viziate per difetto di istruttoria
dal Tar, che ha esercitato un inammissibile sindacato di merito, fondato
peraltro su elementi inesatti.
In via preliminare, si osserva che con il dPCM impugnato l’amministrazione ha
fatto esercizio in parte di discrezionalità amministrativa (comparazione degli
interessi in gioco) e in parte di discrezionalità tecnica (verifica della
rilevanza delle fonti idriche e del rischio di distruzione o compromissione
delle stesse). Si tratta di una fattispecie, in cui dopo la valutazione tecnica,
l’amministrazione ha comunque dovuto effettuare la scelta della misura più
idonea ai fini del soddisfacimento del pubblico interesse (c.d. “discrezionalità
mista”).
Entrambe le valutazioni sono pienamente sindacabili dal giudice amministrativo,
sia sotto il profilo della ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità delle
comparazioni effettuate, sia sotto l’aspetto tecnico della correttezza dei dati
acquisiti e delle conseguenti valutazioni.
Infatti, tramontata l’equazione discrezionalità tecnica – merito insindacabile a
partire dalla sentenza n. 601/99 della IV Sezione del Consiglio di Stato, il
sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della p.a. può oggi
svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell'iter logico
seguito dall'autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta
dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro
correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo (potendo il
giudice utilizzare per tale controllo sia il tradizionale strumento della
verificazione, che la CTU).
Il giudice di primo grado ha quindi esercitato tale sindacato, senza estendere
la propria verifica al merito delle scelte amministrative, dovendosi intendere
per merito solo i profili di opportunità e di convenienza del provvedimento
amministrativo.
Inoltre, in sede di appello, questa Sezione ha deciso di procedere ad una
verificazione al fine del descritto sindacato sull’adeguatezza degli elementi
istruttori.
E’ stato ritenuto di privilegiare la verificazione, rispetto ad una CTU, per la
complessità degli accertamenti richiesti, aderendo a quella giurisprudenza che
non considera più necessario che la verificazione venga svolta dalla stessa
amministrazione che ha adottato il provvedimento impugnato e ritiene possibile
il conferimento dell’incarico ad una amministrazione terza, scelta, come
avvenuto nel caso di specie, per le particolari e specifiche competenze nella
materia oggetto della controversia (v., fra tutte, Cons. Stato, IV, n.
5944/2002; VI, n. 350/1991).
4.2. Deve poi essere effettuata una precisazione, che è collegata a quanto detto
in precedenza sulla portata del giudicato di cui alla sentenza n. 2085/03 di
questa Sezione.
Con tale decisione, nel respingere alcune censure, la Sezione aveva affermato
che le problematiche relative alla costruzione dell’acquedotto alternativo ed
all’idoneità quantitativa e qualitativa delle acque da esso fornite non
toccavano il provvedimento impugnato, ma la diversa procedura amministrativa
relativa all’approvazione di detto progetto ed alla relativa esecuzione;
procedura oggetto di separata impugnativa giurisdizionale.
Tale considerazione era esatta con riferimento al dPCM 4-8-99, in cui non vi era
alcun riferimento alla qualità delle acque fornite con il nuovo acquedotto, ma è
superata nel momento in cui tali elementi sono stati valutati e posti alla base
del nuovo decreto.
In esecuzione del giudicato, l’amministrazione ha correttamente esteso la
valutazione dell’importanza ambientale ed idrica delle fonti sottoposte a
rischio di eliminazione, anche al profilo del confronto tra la quantità e la
qualità delle acque rese inutilizzabili dalla concessione e quella delle acque
fornite con l’acquedotto alternativo.
Nel dPCM 16-5-03, oltre a considerazioni sulla portata dell’acquedotto
alternativo, viene valorizzato il fatto che la qualità delle acque del nuovo
acquedotto “risulta sostanzialmente equivalente” a quella delle fonti non più
utilizzabili, essendo le acque del rio Striate “classificate di qualità
pregiata”.
E’ evidente che nel decreto del 1999 la questione della qualità delle acque
sostitutive, non avendo formato oggetto di valutazione, non poteva costituire
oggetto delle censure proposte in sede giurisdizionale; ma è altrettanto
evidente che, una volta che l’amministrazione ha deciso di valutare tale
elemento e lo ha posto a fondamento del nuovo decreto, l’oggetto del giudizio di
impugnazione del nuovo atto non può che riguardare tale punto, senza alcun
limite derivante dal precedente giudicato, con cui non è stato accertata
l’adeguatezza delle acque sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ma si è
solamente rilevato che la questione non formava oggetto di quel giudizio.
4.3. Si può ora passare ad affrontare il tema principale della controversia:
l’idoneità dell’istruttoria svolta dall’amministrazione e la legittimità delle
conseguenti valutazioni con riferimento alla sussistenza di prevalenti interessi
che giustifichino il sacrificio, anche parziale, di una risorsa primaria, quale
una fonte idrica.
Il Collegio ritiene che gli elementi prodotti dalle parti e acquisiti all’esito
della disposta verificazione siano sufficienti ai fini del decidere.
Dalla relazione dell’Autorità di bacino del fiume Po emerge che la concessione
mineraria denominata “Monte Bruzeta” è finalizzata all’estrazione della c.d.
“marna da cemento” e comprende un’area corrispondente con la dorsale del Monte
Rollino, all’interno della quale vi sono alcune sorgenti idriche, utilizzate a
scopo idropotabile dai Comuni di Carrosio e Gavi.
Tali sorgenti hanno carattere locale e ciò non significa che le stesse abbiano
una minore importanza, ma che le sorgenti traggono origine da una particolare
conformazione geologica dei luoghi (in pratica, in altri luoghi con diversa
conformazione le acque sarebbero anche potute non emergere).
Le sorgenti, utilizzate da 50 anni senza estinzioni nei periodi di magra, sono
“sorgenti perenni” ed hanno un alto pregio per il fatto di essere acque
sotterranee, che, data la minore vulnerabilità, hanno di norma una qualità
superiore a quelle superficiali.
L’Autorità di bacino ha anche evidenziato che mancano elementi sufficienti per
pervenire al dimensionamento del volume delle rocce che costituiscono il
serbatoio di immagazzinamento dell’acquifero e dei quantitativi di risorsa
idrica immagazzinati in tale acquifero; ciò è dipeso, come riconosciuto dallo
Studio commissionato dalla Cementir, dall’acquisizione di elementi conoscitivi
troppo generici per poter calcolare un bilancio idrogeologico di dettaglio e
dalla effettuazioni di indagini dirette solo alla delimitazione delle aree di
possibile escavazione.
Sono quindi mancate indagini più approfondite sul dimensionamento del sistema
acquifero in questione.
E’ comunque certo che “l’attività estrattiva costituisce causa della distruzione
dei punti di emergenza idrica” e che quindi per tutti i 17 anni e mezzo
dell’attività oggetto della concessione le fonti saranno inutilizzabili.
Non vi è, invece, certezza sulla sorte delle attuali sorgenti al momento di
cessazione dell’attività estrattiva; il punto ha costituito l’oggetto di una
specifica richiesta istruttoria affidata all’Autorità di bacino del fiume Po.
La richiesta è dipesa anche dal fatto che nel dPCM impugnato veniva richiamata
la nota del 27 luglio 1987 del Corpo delle Miniere, in cui si prevedeva la
possibilità di utilizzare le sorgenti al momento di cessazione dell’attività
estrattiva e tale rilievo si poneva però in contrasto con la nota del 10-3-99,
con cui lo stesso Distretto minerario di Torino affermava che “non si può
assicurare il recupero a scopo di uso potabile delle captazioni messe in
discussione al termine dei lavori di coltivazione”.
Neanche in sede di verificazione è stato possibile giungere a certezze:
l’Autorità di bacino ha premesso che l’approssimazione nel calcolo del bilancio
idrico non permette di prefigurare scenari quantitativi circa la sorte futura
delle sorgenti, ipotizzando che possa rimanere intatta una parte della
potenzialità dell’acquifero, ma aggiungendo che ciò potrà trovare conferma solo
a seguito dell’attività di monitoraggio da effettuare in corso di coltivazione
(il progetto di coltivazione non prevede però sistemi di monitoraggio delle
sorgenti né in corso d’opera, né al termine dei lavori).
Deve quindi ritenersi che quello dell’Autorità di bacino è un giudizio di
probabilità; peraltro limitato ad una parte dell’acquifero, e che non vi è
certezza sulla sorte delle sorgenti al termine dell’attività estrattiva, come
già il Distretto minerario di Torino aveva evidenziato nella nota del 10-3-99.
Altro punto, oggetto dell’istruttoria è stato quello di un confronto tra la
qualità e la portata delle attuali fonti e quella delle acque fornite attraverso
l’acquedotto alternativo previsto dalla concessione.
L’Autorità di bacino ha formulato alcune osservazioni critiche circa
l’inadeguatezza dell’acquedotto alternativo, con riferimento al serbatoio di
compensazione sottodimensionato per i periodi di magra, all’inidoneità di talune
opere in relazione al regime dei deflussi del Rio Acque Striate, al cattivo
stato di manutenzione di quanto già realizzato.
Tuttavia, si ritiene che il punto centrale, rilevante ai fini del decidere, sia
non tanto quello dell’idoneità delle opere realizzate o della necessità di opere
di completamento dell’acquedotto, ma piuttosto il confronto tra la quantità e
soprattutto la qualità delle attuali acque con quelle fornite in via
sostitutiva.
Come già detto, con il dPCM 16-5-03, è stata valorizzata l’equivalenza tra la
qualità delle fonti non più utilizzabili e quella delle acque del nuovo
acquedotto, ritenute “di qualità pregiata”.
Al riguardo, l’Autorità di bacino non ha fornito una risposta chiara circa la
comparazione tra le acque, ma la relazione contiene comunque elementi
sufficienti per dare una risposta al quesito; si deve tenere conto che il fine
di una verificazione, o di una consulenza, non è quello di sostituirsi al
giudizio rimesso al giudice, ma di fornire a questo elementi utili, che il
giudice autonomamente deve valutare.
Una serie concordante di elementi conducono a ritenere che il giudizio di
equivalenza tra le acque rese inutilizzabili e quelle fornite in via
sostitutiva, espresso nel dPCM impugnato, sia errato, come è errata anche la
classificazione delle acque del Rio Striate di qualità pregiata.
Innanzitutto, è pacifico come le acque sotterranee (attuali fonti) siano da
considerare in generale maggiormente pregiate di quelle superficiali (acque
sostitutive), come chiaramente evidenziato anche nella relazione dell’Autorità
di bacino.
Nella relazione dell’Autorità è evidenziato che le acque delle attuali sorgenti
“subiscono un processo di filtrazione su carboni attivi e di disinfezione e
quindi non risultano potabili alla scaturigine”; dal fatto che sia le acque
provenienti dalle attuali fonti sia le acque sostitutive siano soggette o
necessitino di un trattamento prima della distribuzione viene fatto discendere
dall’Autorità di bacino, seppur in forma dubitativa, un giudizio di equivalenza
tra le due acque.
Il ragionamento non è corretto, né congruente con gli altri elementi forniti, in
quanto:
- non sono evidenziati elementi fisico-chimici che possano condurre ad un
giudizio di non potabilità delle acque attualmente captate o di presenza in esse
di elementi nocivi o indesiderati: anzi l’Autorità di bacino afferma che dette
acque “si configurano come acque bicarbonatiche – alcaline, con valori di
durezza compresi tra 22 e 27 ° F, poco aggressive e con concentrazione di
metalli pesanti trascurabili”.;
- in ogni caso il trattamento indicato è un trattamento semplice o normale,
tipico anche quale trattamento meramente preventivo, anche in caso di confluenza
nell’impianto di acque di diversa provenienza.
Ben diverso è, invece, il trattamento previsto per le acque dell’acquedotto
alternativo.
Le acque del Rio Striate, infatti, presentano una concentrazione di nichel
superiore ai limiti consentiti dal D. Lgs. n. 31/01 e possono essere utilizzate
ai fini potabili solo dopo un trattamento fisico e chimico complesso (la stessa
Autorità di bacino rileva che “per eliminare questi metalli in fase di
potabilizzazione occorre utilizzare strutture impiantistiche all’avanguardia
molto dispendiose e costose da gestire, non attuabili in tutti gli acquedotti
italiani”).
Per ovviare a tale problema l’Autorità suggerisce, prima di procedere alla messa
in funzione di un tale impianto, di verificare che il livello massimo di
concentrazione del nichel venga superato costantemente, “perché in caso
contrario, come le analisi farebbero presupporre, si potrebbe anche decidere di
procedere diversamente”.
Tale giudizio non è condivisibile.
In primo luogo, non si comprende quali analisi farebbero supporre il non
superamento costante del livello previsto per il nichel: nella tabella riportata
a pag. 21 e 22 della relazione dell’Autorità sono indicati una serie di
rilevazioni delle acque del Rio Striate, la maggior parte delle quali, risalenti
nel tempo non è indicativa, in quanto si limita a registrare un valore del
nichel inferiore a 50 g/l in un epoca in cui questo era il valore limite.
Tale valore è stato poi abbassato a 20 g/l a seguito dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 31/2001 e nelle ultime analisi in ben 3 casi su 5 totali è stato
riscontrato il superamento di tale valore; quindi, le analisi fanno supporre
proprio un superamento costante, o quanto meno frequente, dei valori limite.
Peraltro, anche in ipotesi di superamento non costante dei valori limite, non è
vero che sarebbe possibile un trattamento meno aggressivo, in quanto il
superamento del limite comporta l’assoluta inutilizzabilità delle acque ai fini
potabili, se non previo adeguato trattamento (la stessa Autorità evidenzia a
pag. 33 della relazione che “la concentrazione massima ammissibile non può
essere superata in alcun caso; infatti, essa rappresenta un livello di rischio a
cui l’organismo non può essere esposto, nemmeno per un breve periodo di tempo”).
Deve, quindi, ritenersi che le acque del Rio Striate, superando la
concentrazione massima di nichel, possono essere utilizzate a fini potabili solo
previo trattamento complesso, che la stessa Autorità definisce di difficile
gestione (il che comporta anche la necessità di adeguati e continui controlli
del funzionamento dell’impianto per evitare danni alla salute, derivanti da un
funzionamento non corretto).
Il trattamento richiesto conduce a ritenere non condivisibile la
classificazione, effettuata peraltro con formula dubitativa, di tali acque nella
categoria A1, e la valutazione di equivalenza qualitativa con le acque delle
attuali fonti.
L’Autorità di bacino giunge a ipotizzare tale classificazione sulla base dei
limiti di cui agli allegati del D.Lgs.152/99 e trattandosi di acque per le quali
sarebbe possibile la distribuzione a fini potabili previo trattamento fisico
semplice e disinfezione.
In realtà, il trattamento necessario è ben più complesso, come risulta da altri
passaggi – già richiamati - della stessa relazione e comporta la classificazione
nella categoria A3, in cui ricadono ai sensi dell’art. 7, comma 2, del d.lgs. n.
152/99 le acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile, che
richiedono un trattamento fisico e chimico spinto.
Infatti, pur non essendo il superamento del livello massimo del nichel
richiamato nell’allegato 2, sezione A del d.lgs. n. 152/99, l’introduzione del
limite di 20 g/l per il nichel, ad opera del D. Lgs. n.31/2001, ha comportato
la non utilizzabilità a fini potabili di acque che superano tale limite, se non
previo apposito trattamento, che nel caso di specie non può certe essere
ritenuto semplice o normale, ma spinto sulla base della complessità dello
stesso, che emerge dalla stessa relazione di verificazione (v. pagg. 33 e 34); e
ciò anche a prescindere della formale classificazione dell'acqua in base alle
tabelle allegate al D. Lgs. 152/99.
Alcun rilievo può assumere la circostanza della previsione di un termine,
scaduto il 25-12-2003, per la messa in conformità della qualità delle acque ai
sensi dell’art. 15 del d. lgs. n. 31/01, in quanto il nuovo limite introdotto
per il nichel da tale decreto era già vigente e, trattandosi di una sostituzione
di risorse idriche quanto meno per i prossimi 17 anni, lo stretto termine
previsto in via transitoria per l’adeguamento non poteva costituire elemento di
valutazione (e infatti non lo ha costituito).
4.4. Il complesso quadro degli elementi istruttori, acquisiti in corso di
giudizio (tenuto conto anche delle perizie di parte), consente ora di dare una
risposta alla questione principale oggetto della controversia.
La accertata impossibilità di soluzioni alternative, capaci di consentire il
soddisfacimento dell’interesse alla coltivazione della miniera e la
preservazione delle fonti idriche, imponeva all’amministrazione una attenta
comparazione degli interessi in gioco al fine di verificare il rapporto costi /
benefici dell’attività da autorizzare.
Tale valutazione è in parte mancata e in parte è stata effettuata sulla base di
una istruttoria non completa e su dati non esatti.
Da un lato, vi era la richiesta di una società privata, la Cementir, per
estrarre la “marna da cemento” da utilizzare nella propria attività
imprenditoriale con ricadute anche sul piano occupazionale; dall’altro lato, vi
sono alcune fonti idriche, utilizzate da due comuni, che l’attività estrattiva
renderebbe certamente inutilizzabili per oltre 17 anni con il rischio di una
eliminazione, parziale o totale, alla cessazione dell’attività (anche il
giudizio probabilistico di permanenza delle fonti dopo il completamento
dell’attività estrattiva è riferito dall’Autorità di bacino a solo una parte
della potenzialità dell’acquifero).
Con la sentenza n. 2085/03 questa Sezione aveva affermato che legislazione
vigente, pur se non può essere letta in una chiave rigida di intangibilità
radicale ed astratta delle acque avulsa da qualsiasi prospettiva di comparazione
con interessi pubblici e con diritti anch’essi di dimensione costituzionale,
impone un’adeguata valutazione in concreto della rilevanza e della necessità del
sacrificio di una risorsa primaria ex se considerata in relazione alla cogenza
degli interessi, pubblici e privati, antagonisti.
Questa era la principale comparazione richiesta in sede di riesercizio del
potere.
La Presidenza del Consiglio ha ritenuto di effettuare tale comparazione,
avvalendosi dei soli elementi istruttori già acquisiti in relazione al dPCM
4-8-99, poi annullato.
Ciò ha comportato un primo errore, in quanto quella istruttoria era stata svolta
quando vigeva una disciplina delle acque in parte diversa e, in particolare,
quando il limite della concentrazione del nichel era (50 g/l)) più del doppio
di quello attuale (20 g/l), fissato dal d. lgs. n. 31/2001.
Tale errore ha condotto a ritenere, in modo sempre errato, equivalenti le acque
delle attuali fonti con quelle fornite dall’acquedotto alternativo, addirittura
classificate, nello stesso dPCM impugnato, come di qualità pregiata, nonostante
la presenza di nichel in misura superiore al limite massimo; il che, come detto,
comporta un livello di rischio a cui l’organismo non può essere esposto, nemmeno
per un breve periodo di tempo e implica che le acque che contengono tale
sostanza nociva e richiedono quindi un complesso trattamento non possano essere
qualificate come pregiate.
Il motivo risiede probabilmente nel fatto che al momento dello svolgimento
dell’istruttoria (1998) non vi era il superamento del limite (solo perché il
limite era più alto) e, successivamente all’abbassamento del limite, non si è
proceduto a riconsiderare tale elemento.
Nella relazione istruttoria, svolta nel 1998 per la Conferenza dei servizi,
emerge chiaramente come la classificazione nella categoria A1 delle acque
superficiali del Rio Striate sia dipesa dal mancato superamento dei limiti
allora vigenti e dalla conseguente sottoposizione ad un semplice trattamento di
filtrazione e disinfezione, uguale a quello delle attuali fonti (pag. 11 e 12);
ma oggi il trattamento richiesto è ben più complesso e spinto, proprio per la
necessità di abbattimento del metallo pesante in relazione ai nuovi limiti
fissati in sede comunitaria e nazionale.
Né si può sostenere che l’appellante verrebbe irragionevolmente penalizzata a
causa dell’entrata in vigore di un limite più restrittivo, in quanto si tratta
di un limite fissato a difesa della salute in applicazione dei principi di
prevenzione e precauzione; peraltro, anche prescindendo dalla formale
classificazione, una istruttoria più completa avrebbe condotto anche nel 1998 a
ritenere non equivalenti le due acque, una sotterranea e l’altra superficiale;
si doveva comunque tenere conto che il nuovo limite di 20 g/l era già stato
previsto per il nichel dalla direttiva 3-11-1998 n. 98/83/CE, alla quale gli
Stati membri erano obbligati ad adeguarsi.
Inoltre, come evidenziato dall’Autorità di bacino, tuttora mancano precisi
elementi sul dimensionamento delle risorse idriche interessate dall’attività
estrattiva, in quanto le indagini sono state effettuate in funzione del
materiale da estrarre e non anche per valutare la risorsa che si andava a
perdere, in parte o quanto meno per un rilevante periodo di tempo.
A tali argomentazioni è stato obiettato dall’appellante che le fonti idriche
riguardano comunque due piccoli comuni e non costituiscono l’unica fonte di
approvvigionamento dell’acqua potabile dei due comuni, che tali risorse
costituiscono una percentuale non rilevante all’interno dell’A.T.O. (Ambito
Territoriale Ottimale), che la captazione dell’acque dal Rio Striate era già
prevista in sede di pianificazione e che comunque l’utilizzo di acque
superficiali, anche non particolarmente pregiate, avviene ormai anche per grandi
centri urbani, quali Firenze.
Tali considerazioni non risultano decisive per superare una istruttoria, in
parte carente e in parte errata.
E’ vero che le risorse in questione non sono le uniche dei due comuni, ma è
anche vero che sono certamente le più pregiate, trattandosi di acque sotterranee
e che contribuiscono in misura rilevante al soddisfacimento dei bisogni idrici
dei due comuni con una portata che si è sempre rivelata sufficiente.
L’utilizzo di acque superficiali non pregiate, sottoposte a trattamenti, in
grandi comuni, tra cui Firenze, non costituisce certo motivo per abbassare il
livello di qualità delle acque destinate al consumo umano, ma è invece un
campanello di allarme circa la scarsità sempre maggiore di acque pregiate.
La captazione del Rio Striate in sede di piano regionale era stata prevista in
via aggiuntiva alle attuali risorse, considerate quindi non del tutto
sufficienti nel lungo periodo, mentre è cosa diversa prevederne l’utilizzo in
via sostitutiva di fonti pregiate.
Inoltre, proprio il fatto che le risorse da sopprimere costituivano una parte
non rilevante di quelle disponibili nell’A.T.O. poteva indurre a soluzioni
diverse in tale ambito, tali da non determinare un abbassamento del livello di
qualità delle acque; probabilmente, altre soluzioni non sono state prese in
considerazione nel momento in cui la Cementir aveva già realizzato, o comunque
progettato, l’acquedotto alternativo sul Rio Striate.
I comuni di Gavi e Carrosio hanno rispettivamente 5000 e 500 abitanti (che
aumentano sensibilmente per il primo durante il periodo turistico), ma tale dato
non è sufficiente per ritenere che un interesse di tipo imprenditoriale privato,
benché collegato ad esigenze occupazionali, possa senz’altro prevalere
sull’interesse pubblico rappresentato dai due comuni.
Peraltro, come già evidenziato dalla Sezione nella sentenza n. 2085/03, la
maggiore qualità delle acque sotterranee fa sì che tali acque costituiscano una
risorsa idrica da salvaguardare, alla stregua di componente dell’equilibrio
ambientale e nella veste di risorsa scarsa, utile in una dinamica attenta alle
esigenze future.
Tale esigenza di salvaguardia delle risorse idriche travalica il dato della
popolazione servita da tali risorse e va valutata all’interno di un complessivo
quadro, che vede aumentare i rischi che in futuro tale risorsa si riveli scarsa.
Ragionando diversamente ogni piccola fonte idrica risulterebbe sacrificabile in
presenza di altri interessi e il sacrificio di diverse piccole risorse
aumenterebbe in modo rilevante i menzionati rischi.
Proprio per tali ragioni, la disciplina sull’utilizzo delle acque è stata resa
sempre più rigorosa a livello sia nazionale che comunitario.
Dalla Carta europea dell'acqua, approvata il 16 maggio 1968 dal Consiglio
d'Europa, passando dalle direttive n. 98/83 sulla qualità delle acque destinate
al consumo umano e n. 60/2000, intesa a creare un quadro di azione comune in
materia di acque ed arrivando al recepimento avvenuto a livello nazionale con il
decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 31, da coordinare con il precedente d.
lgs. n. 152/99, è stata rafforzata la protezione delle acque nella
consapevolezza della limitata disponibilità di una risorsa da salvaguardare.
L'aumento dei fabbisogni derivanti dai nuovi insediamenti abitativi e dalle
crescenti utilizzazioni residenziali, accompagnato da un incremento degli usi
agricoli produttivi e di altri usi, ha indotto il legislatore nazionale con la
legge 5 gennaio 1994, n. 36, ad adottare una serie di misure di tutela e di
priorità dell'uso delle acque.
Con tale legge è stato, in particolare, sancito che “qualsiasi uso delle acque è
effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a
fruire di un integro patrimonio ambientale” (art. 1) e che “l'uso dell'acqua per
il consumo umano è prioritario rispetto agli altri usi del medesimo corpo idrico
superficiale o sotterraneo. Gli altri usi sono ammessi quando la risorsa è
sufficiente e a condizione che non ledano la qualità dell'acqua per il consumo
umano.” (art. 2).
Anche con riferimento al caso di specie, l’applicazione di tali principi
comporta che in sede amministrativa deve tenersi conto di un giudizio di
prevalenza, già effettuato dal legislatore, tra l’uso dell’acqua per il consumo
umano (attuale utilizzo delle fonti idriche in questione) e ogni altro uso (tra
cui rientra ovviamente anche l’impossibilità di utilizzo delle acque, derivante
dall’esercizio dell’attività estrattiva).
E’ vero che ciò non deve essere inteso “in una chiave rigida di intangibilità
radicale ed astratta delle acque avulsa da qualsiasi prospettiva di comparazione
con interessi pubblici e con diritti anch’essi di dimensione costituzionale”,
come già affermato dalla Sezione; ma è anche vero che tale comparazione deve
avvenire sulla base di una attenta analisi di tutti i costi e i benefici di una
attività che presuppone il sacrificio della risorsa idrica. Analisi che è stata
compiuta in modo non esauriente nel corso dell’istruttoria che ha condotto
all’impugnato decreto.
Del resto, anche la Corte Costituzionale, pronunciandosi sulla legittimità
costituzionale della legge n. 36/1994, ha chiarito che l’acqua costituisce un
bene primario della vita dell’uomo e quale risorsa, a disponibilità limitata, va
salvaguardata in un quadro complessivo caratterizzato dalla necessità di
mantenere integro il patrimonio ambientale (Corte Cost., n. 259/1996).
Tali principi conducono a ritenere non corretta l’affermazione, contenuta nella
relazione dell’Autorità di bacino, secondo cui le sorgenti in questione hanno
oggi solo un valore potenziale in quanto sono completamente derivate (nel senso
che vengono interamente captate) e non possono concorrere all’equilibrio
ambientale.
Infatti, anche le acque interamente utilizzate per il consumo umano, e
l’acquifero da cui scaturiscono, concorrono comunque a costituire il patrimonio
ambientale, anche senza considerare l’assenza di dati sulle dimensioni del
sistema acquifero in questione.
Deve, quindi, concludersi che l’impugnato decreto sia stato adottato sulla base
di una istruttoria non adeguata sia con riferimento al bene, reso inutilizzabile
e almeno in parte soppresso, sia con riguardo alla comparazione con la qualità
delle acque fornite dall’acquedotto alternativo.
Avendo la Presidenza fondato la sua valutazione su una supposta equivalenza tra
le attuali sorgenti e le acque sostitutive, è logico ritenere che il differente
dato del carattere chiaramente più pregiato delle acque attuali avrebbe condotto
a determinazioni diverse, o quanto meno a prendere in considerazioni solo
soluzioni idonee a garantire al consumo umano acque di pregio equivalente a
quelle rese inutilizzabili.
Nella comparazione degli interessi in gioco sarebbe stata necessaria in primo
luogo una maggiore conoscenza delle risorse, che si rendevano inutilizzabili e
poi una più attenta valutazione della qualità di tali risorse all’interno
dell’ambito territoriale di riferimento (la prevista utilizzazione di acque
sicuramente meno pregiate è indice del particolare valore delle risorse in
questione, non solo per i due Comuni che le utilizzano, ma anche in una
prospettiva di salvaguardia di un bene primario a disponibilità limitata).
5. In conclusione, i ricorsi in appello riuniti devono essere respinti.
Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del
giudizio.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, previa riunione
dei ricorsi in appello indicati in epigrafe, li respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 13-1-2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
- Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Giorgio Giovannini Presidente
Sabino Luce Consigliere
Giuseppe Romeo Consigliere
Lanfranco Balucani Consigliere
Roberto Chieppa Consigliere Est.