Cass. Sez. III n. 45538 del 1 dicembre 2022 (UP 11 ott 2022)
Pres. Sarno Est. Cerroni Ric. Pollastro
Urbanistica.Usufruttuario immobile abusivo

In tema di reati edilizi, la mera qualifica d’usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato è insufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto è necessario un quid pluris che consenta l’attribuzione al medesimo della qualifica di committente, ovvero di compartecipe con quest’ultimo nella commissione del reato. Siffatto quid pluris, indicativo di tale concorso, deve ritenersi desumibile da elementi concreti, come la presentazione della domanda di condono edilizio, la piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, l’interesse specifico a edificare la nuova costruzione, i rapporti di parentela o di affinità con l’autore materiale delle opere, la riscontrata presenza in loco e lo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 28 settembre 2021 la Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del 9 aprile 2019 del Tribunale di Napoli Nord e ritenuta la continuazione tra i reati di detto procedimento e il reato residuo, ritenuto più grave, di cui alla sentenza del 17 ottobre 2019 del Tribunale di Napoli Nord nel procedimento infine riunito, ha rideterminato - col riconoscimento delle attenuanti generiche in equivalenza alla contestata aggravante - in mesi otto di reclusione ed euro quattrocento di multa la pena inflitta a Matteo Pollastro per il reato di cui agli artt. 81 capoverso e 349, comma 2, cod. pen., posto invero in continuazione con i reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. b d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 349, comma 2, cod. pen., con sospensione condizionale subordinata a rimessione in pristino e demolizione delle opere abusive e con interdizione temporanea dai pubblici uffici.
2. Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi di impugnazione.
2.1. Col primo motivo il ricorrente, deducendo erronea applicazione di legge e manifesta illogicità di motivazione, ha censurato la decisione laddove egli era stato ritenuto committente dei lavori eseguiti e quindi responsabile dell’abuso edilizio, mentre al contrario era solamente usufruttuario dell’immobile, ossia rivestiva una  qualifica di per sé insufficiente per considerarlo committente ovvero compartecipe nella commissione del reato. Né la presenza dell’imputato in casa, all’epoca dei sopralluoghi, provava che l’imputato fosse il committente, ed egualmente non rilevava che avesse accettato la nomina di custode giudiziario o che avesse richiesto sanatorie edilizie nel 2004 (allorché era ancora proprietario del bene) e nel 2018 (quando la pratica di condono era stata infine evasa a suo nome).
Le condizioni economiche erano altresì precarie, né il ricorrente aveva i mezzi per affrontare la ristrutturazione del sottotetto.
2.2. Col secondo motivo, deducendo sempre i medesimi vizi, il ricorrente ha negato che fosse stata raggiunta prova della violazione dei sigilli da parte sua, laddove la prova del dolo incombeva sulla pubblica accusa, e doveva ritenersi necessaria comunque una eventuale positiva collaborazione con coloro i quali avevano effettivamente provveduto alla immutatio loci.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.
4.1. In via del tutto preliminare osserva la Corte che i motivi di ricorso possono essere esaminati prendendo in considerazione sia la motivazione della sentenza impugnata sia quella della sentenza di primo grado, e ciò in quanto i giudici di merito hanno adottato decisioni e percorsi motivazionali comuni (fatta ovvia eccezione per gli oggettivi effetti derivanti dal decorso del tempo, in relazione ad una contestazione formulata nel giudizio riunito), che possono essere valutati congiuntamente ai fini di una efficace ricostruzione della vicenda processuale e di una migliore comprensione delle censure del ricorrente.
Allorché infatti le sentenze di primo e secondo grado concordino, come in specie, nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (ex plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; cfr. da ult. Sez. 5, n. 40005 del 07/03/2014, Lubrano Di Giunno, Rv. 260303), cui occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella d’appello (Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Scardaccione, Rv. 197250).
4.2. Ciò posto, ed in relazione al primo motivo di doglianza, va invero ricordato il principio, evocato tanto dal ricorrente quanto dalla sentenza del 9 aprile 2019 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, secondo il quale, in tema di reati edilizi, la mera qualifica d’usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato è insufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto è necessario un quid pluris che consenta l’attribuzione al medesimo della qualifica di committente, ovvero di compartecipe con quest’ultimo nella commissione del reato (Sez. 3, n. 45072 del 24/10/2008, Lavanco e altro, Rv. 241789, in cui era stato osservato che non era in tal senso sufficiente l’individuazione del soggetto che, come proprietario o appunto come usufruttuario, avesse interesse alla realizzazione dell’opera). Siffatto quid pluris, indicativo di tale concorso, deve ritenersi desumibile da elementi concreti, come la presentazione della domanda di condono edilizio, la piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, l’interesse specifico a edificare la nuova costruzione, i rapporti di parentela o di affinità con l’autore materiale delle opere, la riscontrata presenza in loco e lo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 25546 del 14/03/2019, Pinto, Rv. 275564). In definitiva, ai predetti fini i criteri che presiedono all’individuazione della corresponsabilità dell’usufruttuario non differiscono da quelli che sono stati enucleati con riguardo al comproprietario che non sia committente (così, in motivazione, Sez. 3, n. 25546 cit.).
4.2.1. Al riguardo, fermo restando che – come coerentemente osservato altresì dalla Corte territoriale - l’odierno ricorrente, pur professandosi innocente, mai ha inteso indicare ulteriori nominativi quali pretesi effettivi committenti dei lavori, sono stati complessivamente ricordati – e richiamati anche per relationem dalla sentenza impugnata - gli elementi emersi nel corso del giudizio. Al riguardo, infatti, i Giudici del merito hanno evidenziato la presenza in loco dell’imputato e l’accettazione da parte di costui della nomina a custode (in proposito è rimasta una mera ipotesi congetturale l’affermazione difensiva, secondo cui il ricorrente non si fosse reso conto di detta nomina). Oltre a ciò, sussisteva l’interesse concreto all’esecuzione dei lavori edili su manufatto - di cui l’odierno ricorrente sarebbe stato per definizione l’utilizzatore finale - distante solamente settecento metri dalla propria residenza; del pari andava sottolineata l’intestazione al Pollastro delle pratiche edilizie (non solo quella del 2004 allorché l’imputato era anche proprietario del bene, ma anche quella del 2018, in occasione dell’irrilevante presentazione di s.c.i.a. in sanatoria). Né, attesa la palese genericità del rilievo, appariva decisiva in senso contrario la, mai specificata, entità economica dell’intervento edilizio abusivo.
Alla luce di siffatti convergenti elementi, certamente con ragionamento non illogico la sentenza, in coerente seguito con i primi giudizi riuniti, ha attribuito all’odierno ricorrente la responsabilità dell’abuso edilizio.
4.3. In relazione al secondo motivo di impugnazione, è nozione comune che, in tema di violazione di sigilli, il custode è obbligato ad esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro, e sulla integrità dei relativi sigilli, una custodia continua ed attenta. Egli non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora non abbia avuto il tempo e la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza. Ne consegue che, qualora venga riscontrata la violazione di sigilli, senza che il custode abbia provveduto ad avvertire dell’accaduto l’autorità, è lecito ritenere che detta violazione sia opera dello stesso custode, da solo o in concorso con altri, tranne che lo stesso non dimostri di non essere stato in grado di avere conoscenza del fatto per caso fortuito o per forza maggiore; ciò non configura alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva, estranea alla fattispecie, ma un onere della prova che incombe sul custode (Sez. 6, n. 4815 del 26/02/1993, Pistillo, Rv. 194548).
In specie, al contrario, a dispetto dei ripetuti interventi dell’Autorità è stato dato atto della reiterata prosecuzione dei lavori abusivi nonostante l’apposizione del vincolo. Né, d’altro canto, mai l’odierno ricorrente ha inteso notiziare le pubbliche istituzioni circa le continue violazioni del comando di legge; ancor meno sono state allegate ragioni di esonero di responsabilità, mentre l’affermazione circa l’ipotetica inconsapevolezza personale del ricorrente non ha appunto avuto seguito alcuno (v. supra).
Anche in proposito va ricordato l’insegnamento consolidato, secondo cui il delitto si perfeziona non solo con la rottura ma anche quando si infranga il divieto che il sigillo simboleggia, mediante qualsiasi condotta idonea a frustrare l’assicurazione della cosa e ad eludere il vincolo di immodificabilità imposto su di essa per volontà pubblica (Sez. 6, n. 1534 del 26/03/1987, dep. 1988, D’Angiò, Rv. 177532).  
5. Alla stregua dei rilievi che precedono, non può quindi che concludersi nel senso della complessiva inammissibilità del ricorso, attesa la manifesta infondatezza dei motivi di impugnazione.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 11/10/2022