Consiglio di Stato sez. II n. 6666 del 23 luglio 2024
Urbanistica.Disciplina dei dehors soggetta alla legislazione nazionale e non derogabile da fonte regolamentare
Con riferimento alle strutture a servizio di attività commerciali comunemente denominate con espressione di derivazione francese dehors, è di tutta evidenza l'impossibilità per la fonte regolamentare di derogare ai principi generali in materia urbanistico-edilizia e ambientale, avallando installazioni sostanzialmente permanenti, sol perché rispondenti alle indicazioni tipologiche proposte, ovvero per lo più imposte. La dizione, pertanto, di temporaneità e di asservimento alle esigenze stagionali resta quella declinata dal legislatore nazionale nel ricordato art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, pur con i difetti di coordinamento tra T.u.e. dell'edilizia, nella versione più volte novellata, e d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, concernente, come già detto, sia i casi di esonero dall'autorizzazione paesaggistica che quelli per i quali la procedura semplificata è semplificata
Pubblicato il 23/07/2024
N. 06666/2024REG.PROV.COLL.
N. 06947/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6947 del 2020, proposto dal signor Guangxing Sun, rappresentato e difeso dall’avvocato Lucio Anelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via della Scrofa, n. 47;
contro
il Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Alessandro Rizzo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, (Sezione Seconda ter), 22 giugno 2020, n. 6876, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Viste le ordinanze della sez. V, 9 ottobre 2020, n. 5954 e 11 dicembre 2020, n. 7060;
Vista la richiesta di passaggio in decisione senza previa discussione orale presentata dall’appellante;
Visto l’art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;
Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 3 luglio 2024, alla quale nessuno è presente per il Comune di Roma Capitale, il Cons. Antonella Manzione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il signor Guangxing Sun, titolare di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande in Roma, alla via Via Filippo Turati, nn. 9-11, ha interposto appello nei confronti della sentenza n. 6876/2020, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. II ter, ha respinto il suo ricorso avverso il provvedimento del Comune di Roma Capitale del 22 febbraio 2019 di diniego di concessione di occupazione di suolo pubblico, nonché avverso gli atti ad esso presupposti, tra cui, in particolare, i pareri della Polizia locale, Gruppo I Centro, del 17 luglio 2018 e del 20 dicembre 2018 e il preavviso di diniego di cui alla nota del 3 settembre 2018, prot. CA/162360.
1.1. In punto di fatto occorre chiarire che il ricorrente aveva avanzato la relativa istanza in data 11 gennaio 2018 al fine di fruire di uno spazio all’esterno del proprio locale e a corredo dello stesso e che aveva apportato modifiche al progetto originario, eliminando la pedana in precedenza prevista, per assecondare la condizione in tal senso posta dalla Soprintendenza speciale Archeologia, belle arti e paesaggio di Roma (nota prot. n. 2202 del 22 marzo 2018), allegata alla comunicazione ex art. 10- bis della l. n. 241 del 1990, che la riteneva elemento improprio, incompatibile con la natura di strada vincolata quale quella di cui è causa, e soprattutto non rientrante nelle previsioni del c.d. “Catalogo dell’arredo urbano” approvato con delibera della Giunta capitolina n. 193/2015.
1.2 Per contro, l’atto impugnato, motivato per relationem rispetto al parere della Polizia locale del 20 dicembre 2018, confermativo del precedente, dopo aver ricordato che «Via Filippo Turati è strada a senso unico di marcia classificata (nel tratto in esame) viabilità locale dal regolamento viario allegato al vigente P.G.T.U.», ha considerato ostativa al rilascio proprio l’insistenza dell’occupazione «direttamente sulla sede stradale senza pedana, risultando in contrasto con quanto prescritto dall’art. 4-quater comma 4 lett-i) del vigente Regolamento COSAP», così da sottrarre «stalli riservati alla sosta tariffata comportando – qualora concessa – una variazione della Determinazione Dirigenziale di Traffico». Ha riferito altresì, sempre mutuando le argomentazioni della Polizia locale, che «l’elaborato grafico presentato con l’istanza di concessione non corrisponde allo stato di diritto relativamente alle dimensioni e legittimità delle altre O.S.P. presenti».
1.3. Con il ricorso in primo grado l’interessato aveva lamentato il difetto di motivazione sotto plurimi punti di vista, in particolare rivendicando la possibilità di concedere occupazioni di suolo pubblico anche su aree soggette a regolazione tariffata (v. Cons. Stato, sez. V, 11 febbraio 2014, n. 660; id., 18 giugno 2015, n. 3123; 23 giugno 2015, n. 3181; 24 marzo 2016, n. 1207; 13 luglio 2017, n. 3452), nonché invocando a proprio favore le statuizioni della delibera di Giunta del 18 giugno 2015, n. 193, che vieta l’installazione di pedane su strade rientranti nella c.d. area UNESCO, dal che si sarebbe dovuta inferire l’avvenuta abrogazione implicita in parte qua della divergente previsione di cui all’allegato “B” alla delibera di Consiglio comunale n. 119/2005, più volte modificata, contenente la regolazione della disciplina delle concessioni di suolo pubblico.
2. Il T.a.r. per il Lazio ha motivato il rigetto del ricorso concentrandosi sulla ragione giustificativa del diniego costituita dalla mancanza di pedana: essa sarebbe sufficiente a supportarne la motivazione, ponendosi la richiesta occupazione di suolo pubblico (OSP) in contrasto con il chiaro tenore letterale dell’art. 4-ter del regolamento di settore, che impone, a tutela della sicurezza dell’occupazione medesima, tale elemento costruttivo. Quanto alla delibera di Giunta comunale n.193/2015 - che approva il Catalogo dell’arredo urbano commerciale, come scaturito dal “Tavolo tecnico per il decoro” istituito dall’accordo di collaborazione ex art. 15 della legge n. 241/1990, sottoscritto in data 17 aprile 2014 e protocollato in data 9 maggio 2014 - esso non si soffermerebbe sugli elementi caratteristici e di arredo, che resterebbero riconducibili alla deliberazione consiliare n. 104/2003 (e con precisione al relativo allegato). D’altro canto, il regolamento sulla Cosap n.39/2014 ha recepito, ex art. 24, c.10, il documento denominato «Sistemi coordinati per l’arredo urbano delle aree di suolo pubblico concesse ad uso dei pubblici esercizi della città storica», già allegato a tale deliberazione del Consiglio Comunale n. 104/2003, che prevede gli elementi costruttivi e descrittivi della pedana. In altre parole, tale parte della delibera del Consiglio comunale n.104 del 2003 non sarebbe mai stata abrogata né modificata: più semplicemente i contenuti relativi alla pedana sarebbe stati integrati con quelli descritti nel Catalogo approvato dalla Giunta. Gli elementi descrittivi e le caratteristiche che deve possedere la pedana sono stati riportati anche nel regolamento Cosap di cui alla successiva delibera consiliare n.91 del 2019, allegato “B”, distinto da quello “D” relativo proprio al Catalogo dell’arredo urbano commerciale. In sintesi, in mancanza di tale strumento protettivo dei dipendenti, degli avventori e dei rimanenti utenti della strada, l’OSP che ricade al di fuori del marciapiede non può essere concessa, come correttamente indicato nel provvedimento gravato.
2.1. Gli indici di contraddittorietà intrinseca ravvisati nel richiamo ai pareri della Soprintendenza capitolina e di quella statale, sarebbero in realtà solo apparenti, dato che quest’ultima ha sancito l’incompatibilità con le esigenze di tutela del contesto di una pedana “inamovibile”, ma non ha escluso la diversa valutazione di un elaborato progettuale che ne preveda la rimozione a chiusura del locale, «[…]in modo tale che gli spazi, vincolati, ritornino ad essere di pubblico godimento».
3. Il signor Guangxing Sun ha avanzato un unico articolato motivo di gravame, così rubricato: «Violazione e falsa applicazione dell’art. 4-quater del Regolamento in materia di occupazione di suolo pubblico (O.S.P.) adottato con delibere di Consiglio comunale nn. 119/2005, 75/2010 e 82/2018. Contraddittorietà tra atti del medesimo procedimento e motivazione perplessa. Travisamento ed erronea valutazione dei presupposti di fatto e delle risultanze istruttorie. Falsa applicazione dei principi in tema di abrogazione di norme. Eccesso di potere per carenza dei presupposti e travisamento dei fatti». In sintesi, ha contestato le argomentazioni del giudice di primo grado sull’eccepito eccesso di potere per contraddittorietà tra atti dello stesso procedimento, stante che la pedana, prevista nella domanda originaria, è stata eliminata proprio a seguito di sollecitazione in tal senso degli organi comunali, che hanno riferito in merito il parere contrario delle Soprintendenze sia statale cha capitolina. Non a caso quest’ultima, con nota del 30 novembre 2018, prot. n. RI/32282, inspiegabilmente non menzionata negli atti impugnati, ha rappresentato che a seguito della disamina della documentazione integrativa prodotta dalla parte, «per quanto di competenza, conferma il parere favorevole già espresso in quanto il richiedente ha recepito le osservazioni degli uffici preposti». La delibera n. 193/2015, diversamente da quanto affermato dal T.a.r., avrebbe disciplinato ex novo le tipologie di arredi installabili su suolo pubblico e non si sarebbe limitata ad integrare le previsioni del Regolamento Cosap del 2014. Essa, quindi, nell’escludere la possibilità di utilizzo delle pedane in alcune zone cittadine, limitandone la collocazione nell’area perimetrata come suburbio, di fatto avrebbe abrogato l’allegato “B” alla delibera consiliare n. 119/2005, come successivamente modificata. L’esigenza di salvaguardare i valori architettonici e ambientali dei luoghi UNESCO starebbe alle base dei contenuti della delibera n. 193/2015 e del suo “innesto” nelle altre discipline di settore.
3.1. Ha quindi riproposto (pagg. 6 e seguenti dell’appello), «per mero tuziorismo», i motivi formulati in primo grado, sui quali il T.a.r. ha omesso di pronunciarsi espressamente:
-in ordine alla sottrazione di stalli riservati alla sosta tariffata, facendo richiamo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha pacificamente ammesso che tale regime non implica un divieto assoluto di occupazione di suolo pubblico (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 2017, n. 3452), tanto è vero che il Dipartimento “Mobilità e trasporti” del Comune di Roma Capitale, con nota in data 1° marzo 2018 (richiamata nella comunicazione dei motivi ostativi), aveva chiaramente detto che «il vigente PGTU non prevede nessuna prescrizione, regolamentazione e limitazione» alla richiesta avanzata;
- in ordine alla non corrispondenza allo stato di diritto delle dimensioni delle altre O.S.P. della zona, rappresentando di essersi limitato a graficizzare quanto percepibile in punto di fatto, non potendo certo essergli ascritto l’onere di conoscere i titoli di legittimazione rilasciati agli altri operatori commerciali.
4. Con atto depositato l’11 settembre 2020, si è costituito in giudizio il Comune di Roma Capitale, per resistere all’appello chiedendone il rigetto. Con memoria del 5 ottobre 2020 ha controdedotto alle argomentazioni di parte avversa, valorizzando il passaggio della sentenza che nel richiamare il parere negativo della Soprintendenza del Ministero per i beni culturali e il turismo, ne rimarca il riferimento alla inamovibilità della struttura, con ciò non escludendo che modalità progettuali diverse avrebbero potuto essere avallate.
5. Con ordinanza n. 5954/2020 della sez. V del Consiglio di Stato sono stati disposti incombenti istruttori, giusta la rilevata contraddittorietà tra i due «assunti della Polizia Municipale [e] della Sovrintendenza capitolina (in disparte la valutazione della Soprintendenza statale), nonché, circa la collocazione/non collocazione della pedana, in modo tale da assicurare al cittadino sicurezza giuridica riguardo alla posizione sul tema di Roma Capitale».
5.1. In data 10 novembre 2020 la difesa civica ha versato in atti la relazione del dirigente dell’unità organizzativa “Amministrativa e affari generali” del Municipio I, Roma centro, ove si evidenzia il differente ambito di tutela rimesso alla Polizia locale, da un lato, e alle Soprintendenze, dall’altro, che escluderebbe il lamentato contrasto. La Polizia locale, infatti, è chiamata a valutare la conformità dell’occupazione alle disposizioni del regolamento COSAP di cui alla deliberazione consiliare n. 39 del 2014 e successive modifiche e segnatamente all’art. 4-quater, comma 4, lett. i), nonché al Piano generale del traffico urbano (PGTU), laddove le Soprintendenze sono competenti in materia di tutela ambientale, del decoro urbano e del patrimonio storico-architettonico. Nel caso di specie, il concorso tra i due pareri consegue al fatto che trattasi di occupazione di suolo pubblico ricadente nel Centro storico dichiarato dall’UNESCO “Patrimonio dell’umanità”. Da qui la natura recessiva dell’interesse del privato rispetto a quello pubblico, «anche alla luce dell’elevato fabbisogno di sosta del quadrante territoriale interessato». Al fine di attualizzare la situazione in punto di fatto, ha riferito che il ricorrente in data 15 giugno 2020 ha presentato istanza di rilascio di una nuova concessione ai sensi della deliberazione n. 87/2020, che consente in via eccezionale e temporanea, correlata all’emergenza COVID-19, di dare avvio all’occupazione contestualmente alla domanda.
6. Alla luce di tale ultima circostanza, con l’ordinanza n. 6070/2020, segnata in epigrafe, la medesima sezione V del Consiglio di Stato, ha respinto la domanda di sospensione cautelare del provvedimento impugnato, ritenendo escluso medio tempore qualsivoglia pregiudizio grave e irreparabile, non senza sottolineare che «rientra nella discrezionalità e responsabilità di Roma Capitale determinarsi in modo sollecito e definitivo in ordine alla priorità degli interessi pubblici da tutelare in occasione delle concessioni di occupazione di suolo pubblico e delle connesse modalità di posizionamento, la cui “divergenza” risulta confermata (ed irrisolta) nella nota del Municipio di Roma Centro, Unità Organizzativa Amministrativa e Affari Generali, in data 30 ottobre 2020».
7. In data 21 novembre 2023, il ricorrente ha ribadito l’attualità del proprio interesse alla decisione del ricorso.
8. In data 16 maggio 2024 ha presentato ulteriore memoria, richiamando giurisprudenza sopravvenuta a conferma della riconosciuta possibilità di rilasciare concessioni di suolo pubblico anche su aree regolate a regime di sosta tariffata (Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2019, n. 3243). Quanto all’asserzione da ultimo contenuta nella relazione del Dirigente comunale del 30 ottobre 2020 circa la perdita di gettito, essa costituirebbe motivazione apparente, indice del vizio dello sviamento dell’azione amministrativa, stante la divergenza tra l’atto e la sua funzione istituzionale, in quanto il fine perseguito sarebbe in realtà quello di negare il rilascio di nuove occupazioni di suolo pubblico nel perimetro del Municipio I, mediante l’utilizzo delle più disparate e pretestuose argomentazioni, in totale spregio della normativa regolamentare vigente in materia.
8.1. La difesa civica a sua volta (memoria versata in atti il 17 maggio 2024) ha sintetizzato la ricostruzione delle fonti del diritto locale in materia di suolo pubblico, richiamando altresì la disciplina di cui al P.G.T.U. approvato con delibera di Consiglio comunale n. 84 del 1999, art. 4.2.2., che vieta nelle aree di sosta tariffate la concessione di occupazioni di suolo pubblico.
9. All’udienza pubblica del 3 luglio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
10. Il Collegio ritiene l’appello fondato.
11. In primo luogo, è necessario sgombrare il campo dai possibili profili di autosufficienza motivazionale, non esaminati dal primo giudice in applicazione del principio della ragione più liquida e pertanto riproposti in questa sede dall’appellante.
12. Come rilevato dal T.a.r., infatti, il diniego di concessione di suolo pubblico impugnato si presenta quale atto plurimotivato, che reca in sé tre distinte ragioni di rigetto, ovvero: i) la destinazione a sosta tariffata della strada; ii) la mancata rispondenza dell’elaborato grafico allo stato di diritto in termini dimensionali e di legittimità delle altre occupazioni di suolo pubblico insistenti in zona; iii) il contrasto con l’art. 4-quater, comma 4, lett. i), del regolamento sulla Cosap.
12.1. Il primo giudice, dopo avere dato atto delle distinte censure avanzate in relazione a ciascuno dei profili motivazionali evidenziati, ha anche ritenuto «meritevoli di considerazione» (id est, accoglibili) alcune di esse: il riferimento al piano generale del traffico urbano (P.G.T.U., cui il regolamento Cosap è in qualche modo sotto ordinato), non aveva alcuna ragion d’essere, stante che la versione vigente ratione temporis, contenuta nella delibera del 21 aprile 2015, non riproduce quella di cui alla delibera n. 84/1999 - che al contrario disponeva che «su tutti i tipi di strade non sono autorizzate le o.s.p. sulle aree di sosta tariffate»; il dirigente comunale preposto alla materia non era effettivamente competente, sulla base dell’art.4-quater del regolamento sulla COSAP, ad effettuare valutazioni fondate sul paventato decremento del gettito d’entrata riveniente dalla sottrazione al regime di sosta tariffata di porzioni di strada. Ciò in quanto «[…] aggiunge il Collegio), detta norma, allorquando viene in considerazione una richiesta di osp sulla viabilità locale, demanda, in primo luogo, agli Organi competenti la valutazione se sia possibile, o meno, “sottrarre porzioni di carreggiata non necessaria alla partita carrabile e pedonale senza che ciò comprometta la circolazione veicolare e pedonale” e dunque investe detti Organi di un giudizio tecnico, incentrato (non sulla potenziale minor redditività dell’osp, ma) sul pregiudizio che la concessione dell’osp verrebbe a recare alla circolazione veicolare (in termini di sicurezza; in termine di accrescimento dei disagi della circolazione veicolare, ecc.)».
12.2. Tale capo della sentenza, sostanzialmente favorevole al ricorrente, non è stato oggetto di appello incidentale da parte dell’Amministrazione capitolina, sicché sullo stesso deve ritenersi ormai consolidato il giudicato interno.
12.3. L’appellante, tuttavia, ne rafforza la cogenza mediante richiamo alla granitica giurisprudenza intervenuta sul punto, in relazione peraltro a fattispecie egualmente riferite al territorio del comune di Roma Capitale. È dunque principio consolidato quello in forza del quale nelle aree a sosta tariffata su viabilità locale non vige un divieto assoluto di concessione di occupazione di suolo pubblico, salvo che nei siti espressamente e tassativamente indicati dalla disciplina regolamentare (v. ex multis Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 2017, n. 3452; id., 26 giugno 2017, n. 3107 e 24 marzo 2016, n. 1207). Dopo l’abrogazione del secondo alinea del più volte ricordato art. 4-quater, comma 3, del regolamento istitutivo del canone per l’occupazione degli spazi e delle aree pubbliche comunali (di cui alla delibera n. 119 del 2005), che demandava alla Giunta di individuare «le aree sulla cui viabilità locale è possibile rilasciare le concessioni di occupazione di suolo pubblico eliminando la tariffazione della sosta» (abrogazione disposta con delibera consiliare n. 75 del 30 luglio 2010), è stato mantenuto fermo il solo comma 4, il quale contiene l’elencazione dei casi in cui non possono essere rilasciate nuove concessioni sulla viabilità locale (casi indicati sub lett. a-i). Ne discende dunque la possibilità di rilascio sulla stessa (che è interessata dall’istanza denegata, oggetto di controversia) di nuove concessioni di occupazione di suolo pubblico, salvo espressa e tassativa indicazione di senso opposto, come avviene per le isole spartitraffico, le isole di traffico, la prossimità di monumenti, etc. Ne discende altresì quale ulteriore, affermato corollario che il diniego di suolo pubblico non può ritenersi espressione di attività amministrativa vincolata. Né il divieto assoluto all’occupazione di suolo pubblico può inferirsi dal punto 4.2.2 del piano generale del traffico urbano di Roma, alle cui previsioni il sopracitato art. 4-quater del regolamento COSAP si conforma (melius, dà attuazione), atteso che tale disposizione fa espressamente salva la possibilità di introdurre con successivo regolamento le deroghe che si dovessero dimostrare necessarie.
12.4. Sotto tale profilo, dunque, l’atto non è correttamente motivato.
13. Privo di consistenza giuridica si palesa anche il riferimento alla presunta errata rappresentazione non di uno stato di fatto, ma di quello di diritto avuto riguardo ai titoli di legittimazione degli altri operatori economici che fruiscono di occupazioni di suolo pubblico nella zona di riferimento. È di tutta evidenza, infatti, che proprio in quanto trattasi di un dato di diritto, non suscettibile di percezione empirica da parte di chicchessia, non se ne può chiedere conto al privato, che al più potrà riferire della circostanza oggettiva della presenza di altre concessioni di suolo pubblico, ove non autorizzate, quanto meno tollerate. La loro legittimità ed estensione, invece, è elemento di cui il Comune di Roma capitale, ove ne necessiti a fini di istruttoria di altre pratiche, già dispone, sicché anche per tale ragione non può farne carico al singolo operatore economico, giusta le previsioni in tal senso degli artt. 18 della l. n. 241 del 1990 e 43 del d.P.R. n. 445 del 2000, espressioni nell’ordinamento del principio comunitario di divieto di gold plating. D’altro canto, quand’anche l’interessato si fosse premunito di acquisire il dato in questione (ri)fornendolo in chiave grafica al Comune richiedente, di certo non potrebbero essergli imputate divergenze rispetto alla realtà fattuale, suscettibile di mutamenti continui, non potendo egli farsi garante della sua staticità e rispondenza alla situazione legittimata in un determinato momento storico, ma dovendo casomai essere l’amministrazione a vigilare sul punto attraverso i propri organi di controllo.
13.1. Anche tale motivazione dunque si palesa illegittima, se non addirittura pretestuosa, come lamentato dall’appellante.
14. Ciò detto, punto centrale della vicenda resta l’individuazione dell’esatto regime giuridico applicabile avuto riguardo alla tipologia di elementi di arredo urbano utilizzati e utilizzabili nel centro storico di Roma Capitale in ragione dell’intersecarsi non coordinato di distinte regolazioni. Il primo giudice, infatti, ha ritenuto corretto il riferimento alla portata ostativa dell’art. 4-quater del regolamento Cosap, nel contempo escludendo che la delibera di Giunta n. 193 del 2015 ne abbia in qualche modo integrato o eroso il contenuto.
15. La ricostruzione non può essere condivisa.
15.1. Ritiene il Collegio che al fine di correttamente perimetrare la vicenda di cui è causa, si renda necessaria una ricostruzione sintetica del complesso quadro normativo sotteso alla disciplina delle concessioni di suolo pubblico. Solo individuando, infatti, l’intreccio di competenze e la stratificazione di ambiti di operatività che caratterizzano la materia è possibile mettere in luce l’innegabile contrasto intrinseco al procedimento seguito dal Comune di Roma Capitale e la conseguente (ulteriore) carenza motivazionale dell’atto impugnato.
16. Va dunque innanzi tutto ricordato che per “suolo pubblico” ai fini qui di interesse si intende quella porzione di territorio non coperta da edificazioni suscettibile di occupazione per varie finalità, per lo più economiche, previa concessione o autorizzazione da parte dell’Ente proprietario. Trattandosi in genere di strade o piazze, esso è riconducibile alla nozione di demanio stradale, cui si riferiscono gli artt. 822 e 824 c.c., a seconda che appartengano allo Stato, ovvero a Province e Comuni. La prima disciplina di riferimento è costituita pertanto dal d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, c.d. Nuovo Codice della strada (segnatamente, art. 20 e corrispondenti norme del regolamento di esecuzione) che in linea di massima consente l’occupazione solo in tipologie di strade “minori” – quelle cioè di categoria “E” ed “F”, secondo la catalogazione fornita dall’art. 2 – purché si garantisca un itinerario alternativo ovvero, ove si tratti di marciapiedi, si soddisfino condizioni predeterminate a garanzia del transito pedonale.
17. La sottrazione di tale porzione di territorio alla fruizione della collettività ha ovviamente carattere oneroso e per tale ragione un ulteriore ambito normativo a carattere generale è quello di matrice tributaria. L’art. 40 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, concernente le varie tipologie di tributi locali, già demandava ad apposito regolamento la disciplina (anche) dei criteri di rilascio e revoca di autorizzazioni e concessioni di suolo pubblico. Ciò ha trovato conferma nel successivo art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, che ha introdotto la facoltà di sostituire con un canone di occupazione (la cosiddetta COSAP, appunto), la preesistente tassa di occupazione (TOSAP). Entrambe le norme sono state abrogate dall’art. 1, comma 847, della l. 27 dicembre 2019, n. 160, a decorrere dal 1° gennaio 2020: pur essendo stato peraltro modificato radicalmente l’intero assetto della materia, mediante la sostituzione sia della tassa che del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche con un unico “canone”, comprensivo dell’imposta comunale sulla pubblicità, del diritto sulle pubbliche affissioni, del canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari e del canone di cui all’art. 27, commi 7 e 8 del Codice della Strada, è stata tuttavia mantenuta la potestà regolamentare dei Comuni al fine di individuare le «procedure per il rilascio delle concessioni per l’occupazione di suolo pubblico […]». A conferma della sostanziale finalità tributaria di tali regolamentazioni, del tutto allineate per contenuto a quelle del passato, seppure nella visione onnicomprensiva introdotta dalla novella, il sistema prevede oggi che esse vengano trasmesse al Ministero dell’economia e delle finanze (art. 52 del d.lgs. n. 446/1997, come modificato dal d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 28 giugno 2019, n. 58).
18. Accanto a tale matrice fiscale la tematica della concessione in uso del suolo pubblico ne richiama di ulteriori, presentando sfaccettature poliedriche che attingono vari e mutevoli ambiti giuridici. Per tale ragione, essa non dà luogo ad un diritto soggettivo pieno e perfetto alla fruizione della superficie concessa, essendo soggetta ad una permanente regolamentazione da parte della p.a. relativa non solo all’ an, ma anche al quomodo, sicché ne resta ferma anche la revocabilità per ragioni di interesse generale, tra le quali rientrano certamente l’esigenza di tutela del decoro dell’ambiente urbano circostante e la sicurezza pubblica, come meglio chiarito nel prosieguo. Il principio, immanente alla disciplina del rapporto tra p.a. proprietaria del bene e privato titolare dell’attività che su tale bene insiste, implica cioè che nel bilanciamento degli opposti interessi (quello pubblico alla fruizione collettiva ed indifferenziata, ma anche qualificata, del suolo e quello privato a trarre utilità economica-imprenditoriale da un uso in regime di esclusiva dello stesso), non può essere trascurato il rilievo e la pregnanza del valore storico o artistico o più in generale urbano del contesto ove il suolo si colloca, che giustifica un più elevato grado di comprimibilità dell’interesse legittimo degli operatori economici, specie poi laddove questi ultimi abbiano avuto accesso alle relative utilità senza il discrimine di una procedura di evidenza pubblica.
19. La cornice giuridica può inoltre essere diversa in ragione delle modalità di realizzazione dell’occupazione. Laddove la stessa avvenga ad esempio mediante strutture connotate da una certa consistenza e durata, essa può acquisire rilevanza sotto il profilo urbanistico-edilizio, ovvero paesaggistico; in relazione alla sua funzionalizzazione, entrerà invece in gioco la regolamentazione della specifica attività produttiva della quale costituisce ampliamento o luogo di esercizio esclusivo, ivi comprese le regole attinenti al profilo igienico-sanitario. In ogni caso, può assumere rilievo la sua configurazione estetica, che il Comune può pretendere in armonia col contesto, ovvero omogenea rispetto alle altre che insistono nella stessa zona, previamente individuata, in una logica di miglioramento dell’impatto visivo, ma anche di prevenzione/calmierazione di fenomeni di degrado, quali tipicamente la c.d. “movida molesta”. Ed è in ragione di tali variegate finalità che possono sovrapporsi le più disparate scelte generali di ciascun Comune in merito.
20. Emblematica in tal senso è la vicenda delle strutture a servizio di attività commerciali comunemente denominate con espressione di derivazione francese dehors (letteralmente, che sta fuori), in contrapposizione a dedans (che sta dentro): laddove la permanenza in loco si protragga oltre un certo lasso di tempo (180 giorni, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis del d.P.R. n. 380/2001), essi si trasformano in un vero e proprio abuso edilizio, se installati sine titulo. Il regime dell’autorizzazione paesaggistica, a sua volta, individua un tempo di “tolleranza” addirittura minore (v. d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata).
20.1. Come la Sezione ha già avuto modo di precisare, proprio la tipologia dei dehors incarna il paradigma tipico dell’installazione la cui disciplina, anche tipologica, può intersecare le fonti, nazionali e locali, più disparate. L’esigenza di una regolamentazione anche “di merito”, peraltro, spesso scaturisce proprio dalla valutazione che tali manufatti, che vanno ad ampliare le superfici di somministrazione di alimenti e bevande di bar, ristoranti e simili, spesso risultano tanto più gradevoli dal punto di vista estetico e funzionali dal punto di vista pratico (si pensi alla possibilità di installare al loro interno impianti mobili di riscaldamento) quanto maggiore ne è la stabilità e ancoraggio al suolo e conseguentemente l’impatto in termini urbanistico-edilizi, oltre che paesaggistici. Per tale ragione il termine è traslato dalla prassi per lo più nei regolamenti comunali (nonostante il principio generale di obbligatorio uso della lingua italiana negli atti pubblici, ricavabile dall’art. 122, primo comma, c.p.c.), che spesso ne fanno menzione finanche nell’oggetto, dedicato in esclusiva a tale tipologia di strutture. In una visione pianificatoria sempre più intersettoriale - a tutela della c.d. “sicurezza urbana”, nell’accezione più moderna e “illuminata” di miglioramento della vivibilità cittadina - superando l’originario approccio esclusivamente tributario, il controllo delle installazioni de quibus, ancorché minimali, finisce per innestare regole estetiche in ambiti di programmazione urbanistica più generale, allo scopo di indirizzare preventivamente le scelte del privato nella direzione individuata dall’Ente territoriale, che talvolta fornisce addirittura il modello di struttura cui uniformarsi per singole zone, se del caso previamente avallato dalla Soprintendenza in un’ottica di effettiva cogestione del vincolo lungimirante ed “economica”, giusta la intuibile ripercussione in termini di velocizzazione della successiva istruttoria delle singole pratiche. Che in una certa misura è quanto è emerso essere avvenuto con riferimento all’arredo urbano “commerciale” da parte del Comune di Roma Capitale.
21. È di tutta evidenza l’impossibilità per la fonte regolamentare di derogare ai principi generali in materia urbanistico-edilizia e ambientale, avallando installazioni sostanzialmente permanenti, sol perché rispondenti alle indicazioni tipologiche proposte, ovvero per lo più imposte. La dizione, pertanto, di temporaneità e di asservimento alle esigenze stagionali resta quella declinata dal legislatore nazionale nel ricordato art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, pur con i difetti di coordinamento tra T.u.e. dell’edilizia, nella versione più volte novellata, e d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, concernente, come già detto, sia i casi di esonero dall’autorizzazione paesaggistica che quelli per i quali la procedura semplificata è semplificata (v. al riguardo Cons. Stato, sez. II, 13 febbraio 2023, n. 1489).
22. L’occupazione di suolo pubblico a servizio di attività commerciali non necessita sempre di vere e proprie strutture (i dehors, di cui si è già detto), ben potendo concretizzarsi in elementi “di arredo” in uso ai clienti quali tavoli, sedie e ombrelloni o comunque parasole, o ad abbellimento delle stesse, come fioriere e simili. Per tali elementi si parla genericamente di “arredo urbano”, a significare strutture assimilabili a quelle che il Comune stesso utilizza per abbellire o rendere maggiormente fruibile una determinata zona (quali panchine e simili). Essi tuttavia si connotano per la loro facile amovibilità (tale per cui una pedana non vi rientra sicuramente, seppure non stabilmente infissa al suolo), e tuttavia per estensione capaci di impattare sull’estetica dell’urbe. L’omogeneizzazione tipologica di tali elementi di arredo può pertanto rispondere egualmente ad esigenze di salvaguardia del contesto, messo ancor più a repentaglio dalla possibilità di utilizzo in zone di pregio di materiali scadenti, sgradevoli, o finanche pericolosi per incuria manutentiva. Da qui le discipline degli stessi inserite nei regolamenti a tutela del decoro o di polizia urbana, o in regolamentazioni ad hoc, comunque riconducibili alle iniziative di governo del territorio volte a migliorarne la vivibilità.
23. A tale riguardo, con decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, infatti, valorizzando la potestà regolamentare dei comuni in materia di “sicurezza delle città” (comma 7-ter dell’art. 50 del d.lgs. n. 267 del 2000, Testo unico degli enti locali), si è ammesso che la stessa venga utilizzata per rimediare alle «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». Ai regolamenti comunali di polizia urbana è stato riconosciuto poi il potere di «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli ovvero adibite a verde pubblico», nell’ambito delle quali applicare a chi ponga in essere condotte che ne impediscono l’accessibilità e la fruizione, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, una determinata sanzione amministrativa pecuniaria e il contestuale ordine di allontanamento. L’art. 5, comma 1, lett. c), del d.l. n. 14/2017 rimette infine a “patti” per l’attuazione della sicurezza urbana la auspicata collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti, anche allo scopo di coadiuvare l’ente locale nell’individuazione delle aree urbane da sottoporre alla particolare tutela di cui alle norme sopra richiamate. A ciò consegue che regole relative alla fruizione del suolo pubblico – recte, al divieto di concessione dello stesso – trovino spazio anche all’interno dei regolamenti che si occupano di sicurezza urbana.
24. Nel complicato gioco di rimandi riveniente dalle numerose clausole di rinvio agli illeciti previsti dalle varie norme richiamate, l’art. 9, comma 3, del d.l. n. 14/2017 fa poi espressamente salva l’applicazione dell’art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) e dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, ovvero, rispettivamente, le disposizioni sulla revoca delle concessioni di aree pubbliche per ragioni di interesse generale e la sottrazione ai regimi autorizzatori semplificati delle attività che si svolgono in determinate zone tutelate.
25. L’intersecarsi di norme che, almeno in parte, disciplinano il medesimo potere degli enti territoriali, rischia di generare una certa confusione sul piano della scelta della procedura corretta da seguire. Lo stesso legislatore statale, infatti, nel riproporre disposizioni volte a legittimare forme di controllo qualitativo sulle attività commerciali e sull’uso del suolo pubblico, non sempre ha utilizzato la medesima formula, sicché il potere di iniziativa sembra talvolta attribuito ai Comuni in esclusiva (art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004); talaltra (anche) agli uffici periferici del Ministero, con coinvolgimento nell’intesa della Regione (art. 52, comma 1-ter del medesimo Codice dei beni culturali) ovvero delle associazioni di categoria (art. 1, comma 4, d.lgs. n. 222/2016).
26. L’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, recante «Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività –SCIA-, silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124», ha infatti a sua volta riservato al comune, d’intesa con la regione, sentito il competente soprintendente del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, l’adozione di deliberazioni volte a individuare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione, anziché a procedimento dichiarativo, l’esercizio di una o più attività in quanto non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Riemerge nuovamente l’esigenza di (ri)attribuire –recte, ribadire la compatibilità col quadro unionale delle precedenti attribuzioni- alle amministrazioni la possibilità di imporre forme di contingentamento qualitativo, a tutela di aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico ovvero più in generale, a tutela del loro decoro (limitatamente in questo caso ai complessi monumentali e agli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti nonché alle aree agli essi con termini). Inserire, infatti, un titolo espresso in luogo di una mera s.c.i.a. equivale a ricondurre nell’alveo delle condizioni predeterminate di tutela, appunto, le scelte dei governi locali, in accordo con il Ministero competente, di sviluppo del tessuto commerciale dei propri centri urbani.
26.1. Nel difficile sforzo di individuazione del corretto punto di equilibrio fra spinte contrapposte, in occasione di tale riforma, a garanzia del fatto che le scelte effettuate non si risolvano in una limitazione indiscriminata della concorrenza, vietata dalla direttiva “servizi” del 2006, si è previsto un costante monitoraggio da parte del Ministero medesimo dei provvedimenti adottati, seppure coinvolgenti i propri uffici periferici: è fatto infatti obbligo ai Comuni di trasmettere copia delle deliberazioni alla competente soprintendenza del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e al Ministero dello sviluppo economico, per il tramite della Regione. Tali Ministeri assicureranno a loro volta congiuntamente il monitoraggio sugli effetti applicativi delle disposizioni de quibus.
27. L’insistenza del legislatore sul potere di disciplina delle amministrazioni coinvolte, senza peraltro preoccuparsi troppo di ricondurre a sistema le variegate e talvolta ripetitive disposizioni sul punto, trova la sua ragion d’essere nei tentativi messi in campo a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali per porre dei limiti alle stesse onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti, sia incidendo sulla regolamentazione delle attività commerciali lato sensu intese (comprensive, ad esempio, anche di quelle artigianali) esercitate in locali privati, sia sui loro ampliamenti su suolo pubblico. In sintesi, a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali, si è cercato di porre dei limiti alla stessa onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti. Il che è avvenuto per lo più valorizzando il concetto di «motivi imperativi di interesse generale» che l’art. 12 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2016/123/CE relativa ai servizi del mercato interno (c.d. Bolkestein) ha indicato come legittimanti le restrizioni quantitative o territoriali all’accesso e all’esercizio di un’attività di servizio.
28. D’altro canto, con riferimento alle concessioni di suolo pubblico, anche la giurisprudenza si è fatta interprete da tempo dell’esigenza di mantenere all’organo di governo locale una certa discrezionalità nel valutare la compatibilità col contesto delle realizzazioni richieste. Si è pertanto affermato che alle stesse, ove insistano in aree vincolate, quali per lo più i nostri centri storici, non si attaglia la disciplina del silenzio assenso, non potendo la mera presentazione della domanda costituire titolo per l’occupazione di suolo pubblico (neppure provvisoriamente, nelle more cioè della definizione del relativo procedimento concessorio). «Il semplice decorso del tempo stabilito dal regolamento comunale non è idoneo al perfezionamento del c.d. silenzio - assenso, ex art. 20 della legge n. 241 del 1990, che non trova applicazione nel caso di specie trattandosi “...atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico [e] l’ambiente [...]» (C.G.A.R.S., 9 ottobre 2019, n. 887, che richiama Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 2016, n. 3857; id., 12 giugno 2017, n. 2800; v. anche Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2019, n. 895).
29. Per mera completezza espositiva, trattandosi di disposizioni sopravvenute ai fatti di causa e come tali inapplicabili ratione temporis, può ancora ricordarsi l’aggiornamento all’art. 27 della legge sulla concorrenza 2021 (l. 5 agosto 2022, n. 118) mediante l’inserimento, ad opera della l. 30 dicembre 2023, n. 214, della lettera l-bis), che prevede che le regioni e gli enti locali possono adottare misure per la salvaguardia del decoro urbano o delle caratteristiche commerciali specifiche o tradizionali dei centri storici o di delimitate aree, d’intesa con le associazioni degli operatori e senza discriminazioni tra essi, mediante limitazioni all’insediamento di determinate attività in talune aree o l’adozione di specifiche misure di tutela e valorizzazione di talune tipologie di esercizi di vicinato e di botteghe artigiane, tipizzati sotto il profilo storico-culturale o commerciale, anche tramite costituzione di specifici albi, nel rispetto delle disposizioni per la liberalizzazione del settore del commercio «fermo restando quanto previsto dall’articolo 52 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42».
30. Come si evince proprio dalla norma da ultimo citata, la stratificazione di norme che c’è stata non ha mai messo in discussione quella cardine del sistema, della quale si è caso mai ribadito la compatibilità con i principi eurounitari, ovvero l’art. 52, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali), che prevede che i Comuni, con le deliberazioni di cui alla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, «sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio».
30.1. Si è già detto della successiva introduzione nel medesimo art. 52 dei commi aggiuntivi (v. §§ 24 e 25). Va ora ricordato in maggior dettaglio come il comma 1-bis, poi rinominato 1-ter, inserito dal d.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 ottobre 2013, n. 112 e modificato dal d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito dalla l. 29 luglio 2014, n. 106, nel demandare ai competenti uffici del Ministero il compito di adottare, «d’intesa con la Regione e i Comuni» una disciplina al fine di vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, richiama espressamente anche «[…]l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico». Con riferimento alla prevista possibilità di revoca di ridette concessioni per motivi di interesse pubblico generale ne individua lo scopo nell’esigenza di «rafforzare le misure di tutela del decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti».
30.2. La disposizione dunque riconnette in maniera esplicita la disciplina di tutela dei beni aventi rilievo storico, artistico e culturale (che è qualificante il regime di protezione e fruizione di tali beni, costitutiva di un loro speciale status di conformazione delle attività di conservazione, manutenzione, destinazione e disposizione), con quella - di ordine commerciale - che presiede la regolazione delle attività di libera iniziativa economica, per quanto qui interessa, su area pubblica. Connessione necessariamente sottesa anche alle scelte effettuate in materia dai singoli comuni.
31. La riforma del settore commercio cui fa riferimento l’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004, va individuata ancora oggi, quantomeno a livello statale, nel d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, rubricato, appunto, «Riforma della disciplina relativa al settore commercio, a norma dell’art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59», che a livello pianificatorio demanda alle Regioni le indicazioni dei criteri di programmazione urbanistica per l’insediamento delle medie e grandi strutture di vendita, nonché quelli per l’individuazione delle aree da destinare a commercio su aree pubbliche, sulla base dei quali i Comuni adottano i propri atti di programmazione generale. Tra questi, assume rilievo quello di declinazione dell’ampiezza complessiva delle aree da destinare all’esercizio dell’attività, che deve contenere anche i criteri di rilascio delle concessioni. In tale deliberazione «vengono individuate altresì le aree aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale nelle quali l’esercizio del commercio di cui al presente articolo è vietato o sottoposto a condizioni particolari ai fini della salvaguardia delle aree predette» (art. 28, comma 16, primo periodo, del d.lgs. n. 114/1998).
32. La somministrazione di alimenti e bevande, pur rientrando anche nella generica dizione di “commercio”, è invece oggetto da sempre (anche) di una sua autonoma disciplina. Sempre a livello di principi generali, giusta l’attribuzione della competenza esclusiva in materia di commercio alle Regioni, la legge 25 agosto 1991, n. 287, che ha stralciato dal T.u.l.p.s. le autorizzazioni (ancora di polizia) dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, nella parte rimasta in vigore dopo le abrogazioni operate dal d.lgs. n. 59/2010, si limita a ricordare che «Le attività di somministrazione di alimenti e di bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l'irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate».
33. A ciò consegue che mentre per le attività di commercio su aree pubbliche la fonte “locale” ove inserire le limitazioni previste dall’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004 è tipica, e ravvisabile nella pianificazione di settore già prevista dal d.lgs. del 1998, indi ribadita nelle varie leggi regionali di settore, lo stesso non è a dire avuto riguardo all’ampliamento della superficie dei bar, ristoranti e simili (pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande), che invece tipicamente avviene mediante la collocazione di strutture, precarie o meno, o meri elementi di arredo urbano.
34. Le considerazioni fin qui svolte rendono di tutta evidenza come il regime giuridico delle o.s.p., specie nelle aree urbane, è un ambito di incidenza e di compresenza di una pluralità di interessi pubblici e, conseguentemente, di molte discipline amministrative, oltre a quella, specifica, di concessione onerosa dei suoli, che non sempre si palesano di immediata percepibilità e inquadramento da parte dei cittadini. Molte di esse, come visto, sono contenute in piani e programmi tipici, di natura urbanistico-edilizia, della circolazione stradale, paesaggistici, tributari; altre si rinvengono in strumenti atipici, che comunque sono accomunati agli altri dall’obiettivo di tutela dei beni culturali attraverso il controllo della tipologia degli insediamenti di qualunque genere su area normalmente in uso alla collettività. La diversità degli interessi in gioco, che, ancor più dopo la recente novella dell’art. 9 della Costituzione, individua il paesaggio come oggetto primario di tutela, quale contenitore ampio di connotati paesaggistici e antropologici-culturali sinonimo di bellezza, giustifica ad esempio il ricordato diverso livello di tolleranza delle vere e proprie strutture, nel senso che ciò che può stare sul suolo (seppur tutelato) per un certo lasso di tempo sotto il profilo edilizio, non necessariamente può restarvi per lo stesso identico tempo senza essere considerato esteticamente impattante e dunque da sottoporre al vaglio preventivo di qualità dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo. Giustifica altresì la differente collocazione della relativa disciplina, nella regolamentazione edilizia, ovvero in atti a carattere generale più genericamente mirati alla salvaguardia del territorio, ovvero in quelli di pianificazione commerciale pure previsti dalla normativa di settore, nazionale e/o regionale.
35. Va ora ricordato come per supportare i propri uffici periferici, il Ministro dei beni culturali e del turismo ha a suo tempo adottato apposita direttiva, 10 ottobre 2012, pubblicata sulla G.U. n. 262 del 9 novembre 2012, opportunamente evocata dall’appellante, dichiaratamente riferita «all’esercizio di attività commerciali ed artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale».
Pur essendo anche tale direttiva incentrata essenzialmente sulla tematica del commercio su aree pubbliche, talune indicazioni attengono più in generale alle misure di tutela del patrimonio culturale, la cui messa in pericolo può conseguire anche alla mera apposizione di elementi di arredo urbano. Non a caso, tra le premesse vengono richiamati, oltre all’art. 52, anche l’art. 20 («Interventi vietati») e 45 («Prescrizioni di tutela indiretta») del d.lgs. n. 42/2004, che vietano l’uso non compatibile con il carattere storico o artistico del bene, ovvero consentono di prescrivere misure dirette ad evitare, tra l’altro, che sia «danneggiata la prospettiva o la luce» del bene culturale, ovvero che «ne siano alterate le condizioni di ambiente e decoro».
35.1. Il § 3.1., nel declinare in maggior dettaglio le linee di intervento degli uffici periferici del Ministero, individua quale strumento idoneo a garantire l’esercizio congiunto con i Comuni del potere regolamentare l’accordo tra pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il riferimento in rubrica alla sola dizione “commercio su aree pubbliche”, peraltro, non può essere ritenuto ostativo dell’estensione della relativa disciplina a qualsivoglia modalità di esercizio dello stesso previa concessione in uso del suolo pubblico.
36. L’art. 15 della l. n. 241 del 1990 costituisce, come noto, la forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello. Le amministrazioni cioè possono farvi ricorso ogni qualvolta la competenza a trattare una certa questione sia distribuita fra più autorità, fra il centro e la periferia, fra lo Stato e gli enti locali. La necessità del coordinamento delle competenze dei soggetti pubblici con obiettivi evidenti di semplificazione procedimentale rappresenta dunque la fondamentale ragione genetica di siffatte figure di accordo, per ricompattare secondo logiche ed obiettivi di efficienza e di efficacia presso centri omogenei di governo e di amministrazione un ordine troppo frammentato di attribuzioni multilivello.
37. La ricostruzione effettuata consente di rimarcare come le regolamentazioni amministrative che attingono la materia del suolo pubblico possono essere ricondotte a varie fonti, esclusive o concorrenti, statali, regionali e comunali. È necessario, dunque, delineare - nei suoi termini essenziali-il “sistema regolatorio” della materia, sia in senso “orizzontale” (delle diverse discipline amministrative compresenti), sia in senso “verticale” (delle varie competenze normative concorrenti). In generale, va ricordato che per quanto già sopra detto, esso incontra il limite costituzionale della tutela della libertà d’impresa (e del lavoro da essa generato) in un mercato regolato, ma senza eccessi di restrizioni pubbliche della concorrenza.
38. In tale complessa cornice, si inseriscono poi le peculiarità di quelle zone cittadine denominate “UNESCO” (quale quella di cui è causa). Ad onor del vero la relativa qualifica deriva esclusivamente dall’avvenuta inclusione in un elenco elaborato in attuazione della Convenzione per il Patrimonio Mondiale ratificata nel novembre del 1972, che prevede, appunto, una «Lista del Patrimonio Mondiale o World Heritage List – WHL», ovvero l’individuazione di tutti i beni a cui l’apposito Comitato del patrimonio mondiale riconosce ufficialmente un valore eccezionale universale (Outstanding Universal Value – OUV). Il giudice delle leggi ha già avuto modo di chiarire (Corte cost., 13 gennaio 2016, n. 22) come essi non godano, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, di forme di protezione differenziate da quelle apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche. Pertanto, ove si tratti appunto di un bene paesaggistico, tenuto conto dell’obbligo di rispettare le convenzioni internazionali in materia di conservazione e valorizzazione del paesaggio (art. 132, rubricato «Convenzioni internazionali»), essi possono, a seconda dei casi, essere oggetto di apposizione di vincolo in sede provvedimentale, rientrare già nelle aree tutelate ex lege, ovvero essere salvaguardati con la pianificazione paesaggistica. Tale sembra essere l’indicazione residuale, ma propulsiva, riveniente dall’art. 135, comma 4, che stabilisce che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
39. L’evidenziato difetto di coordinamento fra norme statali conseguito alla rimarcata preoccupazione del legislatore di mantenere possibilità di intervento che evitino che la tutela indiscriminata della concorrenza si risolva in un generalizzato decadimento del tessuto urbano di pregio, ovvero della sua vivibilità (la “sicurezza” in accezione moderna), non giustifica un analogo difetto di coordinamento tra organi statali e regionali, nonché, a maggior ragione, tra distinti uffici della stessa amministrazione. La rete di rimedi che possono essere messi in campo, che spaziano dalle misure ministeriali di tutela indiretta (art. 45 del d.lgs. n. 42/2004), alle regole imposte nei più disparati atti di governo del territorio, attengano essi all’urbanistica-edilizia, ovvero al tessuto commerciale, ovvero alla polizia urbana lato sensu intesa, devono convergere nella stessa direzione, e non porsi in irrimediabile contrasto. È infatti impensabile rimettere al singolo la corretta esegesi del rapporto di gerarchia o di competenza funzionale fra norme distinte afferenti la medesima materia, a maggior ragione laddove la lettura proposta da un ufficio diverga totalmente da quella propugnata ed esplicita da un altro. Quale che sia lo o gli strumenti che il Comune sceglie di adottare, elementari esigenze di certezza del diritto, oltre che di correttezza e buona fede tra le parti, i relativi contenuti devono essere tra di loro armonici e comprensibili. Il che non è accaduto nel caso di specie, giusta l’obiettivo contrasto tra obbligo di apposizione delle pedane a corredo di un’occupazione di suolo pubblico su viabilità locale, propugnato a fini di tutela ambientale, e divieto di collocazione delle stesse per pretese esigenze di sicurezza viabilistica. Di tal che non è chiaro ancora oggi quale sia il regime giuridico delle stesse nell’area UNESCO del centro storico.
40. Il Comune di Roma Capitale, dunque, ha una sua dettagliata regolamentazione delle occupazioni di suolo pubblico nell’ambito della disciplina sulla COSAP, modificata nel tempo, e tuttavia ferma nell’affermare che nelle vie quali quella di cui è causa per potere ampliare su suolo pubblico la superficie di un locale commerciale, occorre tutelare avventori e personale dipendente utilizzando una pedana. Nel contempo, ha dettato disposizioni negli atti generali di regolazione della circolazione stradale, ma, come riconosciuto anche dal T.a.r. per il Lazio, da ultimo non introducendo esplicite prescrizioni tassativamente ostative al rilascio del titolo in zone a tariffazione della sosta.
40.1. Da altra angolazione, per gli aspetti di rilievo paesaggistico, ha dichiaratamente seguito le indicazioni contenute nella direttiva ministeriale del 2012, utilizzando lo strumento dell’accordo ex art. 15, della l. n. 241 del 1990. In particolare, con deliberazione di Giunta n. 96 del 9 aprile 2014, è stato approvato lo schema di accordo di collaborazione tra l’Ente Roma Capitale - Dipartimento Sviluppo economico, attività produttive e formazione lavoro ed il Ministero dei beni ed attività culturali e del turismo - Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Lazio, per «l’istituzione di un Tavolo Tecnico per il Decoro ai fini della: individuazione delle aree pubbliche aventi particolare valore architettonico, archeologico, storico-artistico e paesaggistico nelle quali, sulla base della vigente normativa, non può ritenersi assentibile l’esercizio del commercio, ovvero lo stesso sia da subordinare a specifiche condizioni; definizione di linee di indirizzo comuni a tutela del patrimonio culturale e del decoro della Città di Roma». Si è così creato un luogo giuridico condiviso preposto a individuare, congiuntamente con le articolazioni periferiche del Ministero per i beni culturali e il turismo, le aree pubbliche di particolare valore architettonico, archeologico, storico-artistico e paesaggistico nelle quali, sulla base della vigente normativa, l’esercizio del commercio su area pubblica, lato sensu inteso, è vietato o sottoposto a condizioni particolari, definendo altresì linee di indirizzo comuni a tutela del patrimonio culturale e del decoro della città. La circostanza che a ridetto tavolo tecnico sia stata demandata la redazione di una sorta di vademecum della tipologia di elementi di arredo urbano concretamente utilizzabili nelle singole zone (sostanzialmente tre, centro urbano, area UNESCO e suburbio) attesta della scelta di riferire la dizione di commercio a qualsivoglia attività produttiva svolta su area pubblica, anche in ampliamento di quella in locale privato, come tipicamente avviene per le occupazioni di suolo pubblico in ampliamento della superficie di somministrazione di alimenti e bevande, di bar, ristoranti, trattorie, pizzerie, gelaterie, ecc. In base all’art. 4 dell’accordo, le risultanze del lavoro del Tavolo Tecnico avrebbero dovuto costituire «da parte dell’Ente Roma Capitale, elemento essenziale dei Piani di riordino delle attività commerciali su area pubblica e di rilocalizzazione di quelle ritenute non compatibili con le esigenze di tutela del patrimonio culturale, nonché della successiva normativa regolamentare afferente gli specifici settori trattati». Sul punto, per il Collegio è dirimente la circostanza che, in concreto, l’esercizio di tale potere è stato svolto in accordo tra le amministrazioni interessate, che hanno posto in essere un procedimento condiviso, nelle forme ed agli effetti di cui all’art. 15 della L. n. 241 del 1990, all’interno del quale sono stati rappresentati gli interessi pubblici alla cui cura sono preposte le stesse Amministrazioni procedenti.
40.2. L’esito delle scelte effettuate è stato oggetto di successiva delibera n. 193 del 18 giugno 2015, che ha approvato il catalogo dell’arredo urbano e che per le aree rientranti nel sito UNESCO esso vieta in assoluto l’utilizzo di pedane, ritenute ex se inamovibili.
41. Vero è che a stretto rigore le scelte operate avrebbero dovuto traslare negli atti di pianificazione commerciale, tanto più che mentre l’obbligo di utilizzare le pedane trova declinazione in una fonte regolamentare, il divieto di collocare le stesse in certe zone cittadine è cristallizzato in un atto di Giunta. Ma né la questione delle competenze è stata sollevata dalle parti in termini generali, né è stata chiarita avuto riguardo allo specifico settore dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, sicché non vi è ragione di porsi in questa sede un problema di corretta individuazione delle fonti del diritto, venendo all’evidenza piuttosto un tema di certezza e chiarezza delle stesse, come più volte rimarcato. Sul punto peraltro la sentenza impugnata si è limitata a ritenere non abrogato in parte qua il regolamento Cosap dalla delibera n. 193 del 2015, senza tuttavia chiarire per quale ragione la materia trattata non sarebbe sovrapponibile, tanto più che, al contrario, ridetta sovrapposizione è stata operata dalle due Soprintendenze, che hanno preteso e successivamente avallato la rimozione della pedana.
41.1. Il contrasto –reale, non apparente, come tentano di sostenere gli uffici comunali – tra la posizione espressa dalle due Soprintendenze (quella “vera”, articolazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e quella che ne mutua la denominazione, e tuttavia si identifica nello specifico ufficio comunale), quand’anche riconducibile a una frammentazione di competenze, non può dunque risolversi nella ritenuta prevalenza finale della lettura del sistema data da un ufficio rispetto a quella propugnata da altri. La Soprintendenza statale ha posto come condizione l’eliminazione della pedana, originariamente prevista, allo scopo di adeguare l’occupazione di suolo pubblico alle regole condivise tra Comune e Ministero per conciliare l’esercizio del commercio su aree pubbliche con quelle di tutela dell’area. E ha avallato la progettualità sopravvenuta in adesione alle proprie prescrizioni. Ciò è avvenuto non nell’ambito di due distinti procedimenti nei quali ciascuna amministrazione agisce a tutela di diversi e propri interessi pubblici, ma nell’ambito dell’unico procedimento le cui regole a monte sono state condivise proprio per evitare contrasti di vedute a valle.
41.2. Costituisce principio di correttezza tra le parti e leale collaborazione, da ultimo consacrato anche nell’art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, quello che impone di rapportarsi alla istanza di un cittadino in maniera unitaria, non frammentandone le interlocuzioni in ragione di un anacronistico quanto illegittimo riparto di competenze addirittura all’interno della stessa amministrazione pubblica. Di tale principio è espressione il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, che individua un unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative che lo riguardano e che diverrebbe mero simulacro privo di sostanza ove non esprimesse anche l’esigenza di garantire che l’amministrazione si esprima con una voce unica, nonché la disciplina della conferenza dei servizi e del silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis della l. n. 241/1990).
41.3. Ogni amministrazione ha pertanto l’obbligo di mettere a sistema le proprie scelte regolatorie, sì da renderle intellegibili ai cittadini: ove ciò non avvenga, sicché ogni ufficio può dare alle stesse un significato diverso e diametralmente opposto, il provvedimento finale è inevitabilmente viziato da intrinseca contraddittorietà, siccome lamentato dall’appellante. Quale che dovesse essere infatti l’approdo finale delle risultanze del tavolo tecnico -ovvero ove non fosse sufficiente una mera delibera di Giunta di recepimento - spettava al Comune chiarirlo in termini generali a valere per tutto il tessuto cittadino. Al contrario, come del resto già evidenziato dalla sezione V di questo Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 5954/2020, l’amministrazione, richiesta sostanzialmente di chiarire le basi giuridiche delle diverse opzioni seguite dalla Polizia municipale – e conseguentemente dalla direzione preposta al rilascio delle concessioni di suolo pubblico – da un lato, e Sovrintendenza capitolina («in disparte la valutazione della Soprintendenza statale»), dall’altro, «in modo tale da assicurare al cittadino sicurezza giuridica riguardo alla posizione sul tema di Roma Capitale», non forniva alcuna delucidazione convincente. Da qui le considerazioni, che il Collegio condivide, esplicitate nella successiva ordinanza n. 7060/2020, che seppure sfavorevole al ricorrente per mancanza di periculum, ribadisce come la rilevata contraddizione è «confermata (ed irrisolta) nella nota del Municipio di Roma Centro, Unità Organizzativa Amministrativa e Affari Generali, in data 30 ottobre 2020».
42. Il delicato rapporto tra protezione dell’ambiente cittadino con caratteri di rilevanza storico, artistica, culturale ed ambientale e la disciplina della libertà di iniziativa economica, che ha portato da sempre a riconoscere uno specifico potere della p.a. di individuare su base territoriale ambiti e forme di protezione dell’ambiente urbano che si sostanzino in una interdizione - qualitativa o quantitativa - allo svolgimento di attività commerciali alle condizioni di legge (sul punto, v. Cons. Stato, sez. V, 17 luglio 2014, n. 3802) non può dunque risolversi, in assenza di una chiara indicazione regolatoria in tal senso, nella sostanziale neutralizzazione delle scelte effettuate in tema di arredo urbano commerciale. Le indicazioni del c.d. catalogo, dunque, in quanto frutto di apposito tavolo tecnico condiviso con l’amministrazione statale, non possono non innestarsi nelle pianificazioni commerciali, seppure ciò non sia avvenuto formalmente con il coinvolgimento dell’organo consiliare, ovvero trovare applicazione laddove neppure sia stata chiarita l’esatta cornice regolatoria di riferimento. Di ciò è perfettamente consapevole la difesa civica che pur rivendicando l’operatività della disposizione limitativa sulla COSAP, non afferma mai che quella di senso diametralmente opposto riveniente dalla delibera di Giunta del 2015 non trova applicazione, sì da dover essere considerata tamquam non esset e come tale disapplicata non limitatamente all’area UNESCO ma sull’ intero territorio comunale.
43. Per tutto quanto sopra detto l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per il Lazio n. 6876 del 2020, deve essere accolto il ricorso di primo grado.
44. La complessità e la parziale novità della materia trattata giustifica la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per il Lazio, sez. II ter, 22 giugno 2020, n. 6876, accoglie il ricorso di primo grado.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 luglio 2024 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Franconiero, Presidente FF
Giordano Lamberti, Consigliere
Giovanni Sabbato, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Carmelina Addesso, Consigliere