Consiglio di Stato Sez. VI n. 5400 del 19 luglio 2021
Urbanistica.Legittimazione dei soggetti terzi non direttamente destinatari del provvedimento

Nel settore edilizio, la legittimazione dei soggetti ‘terzi’, non direttamente destinatari del provvedimento (sia esso un titolo edilizio, ovvero l’ordine di demolizione dell’abuso commesso), è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della vicinitas, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino un’alterazione vietata del preesistente assetto urbanistico ed edilizio. Quanto al pregiudizio della situazione soggettiva protetta dei predetti soggetti ‘terzi’, il danno deve ritenersi sussistente in re ipsa per gli abusi edilizi, in quanto ogni edificazione abusiva incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi. In rapporto invece alle scelte di pianificazione urbanistica, si richiede che i titolari di aree limitrofe, non direttamente incise dalla nuova disciplina, diano riscontri probatori del danno riconducibile al godimento, o al valore di mercato, dell'area su cui insistano gli immobili dai medesimi posseduti, per effetto della nuova normativa

Pubblicato il 19/07/2021

N. 05400/2021REG.PROV.COLL.

N. 07226/2016 REG.RIC.

N. 07666/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7226 del 2016, proposto da
ADELINA MASCOLO, PASSARO NAZARIO, rappresentati e difesi dall’avvocato Elio Cuoco, con domicilio fisico eletto presso lo studio degli avvocati Abbamonte e Titomanlio in Roma, via Porpora, n. 12;

contro

PASSARO FRANCESCA, LANGELLOTTI VINCENZA, rappresentate e difese dagli avvocati Bartolomeo Farzati, Erminia Lembo, con domicilio fisico eletto presso lo studio Claudio Cerza in Roma, piazza Irnerio 57;
PIETRO LANGELLOTTI, rappresentato e difeso dall’avvocato Francesco Botti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avvocato Gianluca Trillò in Roma, via Augusto Bevignani, n. 9;

nei confronti

COMUNE DI CASTELLABATE, non costituito in giudizio;


sul ricorso numero di registro generale 7666 del 2020, proposto da
ADELINA MASCOLO, NAZARIO PASSARO, rappresentati e difesi dall’avvocato Elio Cuoco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

PIETRO LANGELLOTTI, rappresentato e difeso dall’avvocato Francesco Botti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avvocato Gianluca Trillò in Roma, via Augusto Bevignani, n. 9;
FRANCESCA PASSARO, COMUNE DI CASTELLABATE non costituiti in giudizio;

per la riforma

quanto al ricorso n. 7226 del 2016, della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione di Salerno, n. 465 del 2016;

quanto al ricorso n. 7666 del 2020, della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione di Salerno, n. 941 del 2020;


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori Passaro Francesca, Langellotti Vincenza e Pietro Langellotti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 giugno 2021 il Cons. Dario Simeoli e udito per le parti l’avvocato Francesco Botti in collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa 13 marzo 2020, n. 6305;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.‒ I fatti principali, utili ai fini del decidere, possono così riassumersi:

- con ordinanza n. 1969 dell’8 aprile 2014, il Comune di Castellabate ingiungeva a Passaro Francesca e Langellotti Vincenza di demolire alcune opere (site nella frazione Ogliastro Marina, distinte al catasto al foglio n. 33, particella n. 1088 sub 2 e sub 3, e particella n. 1091 sub 2 e 3) realizzate senza titolo edilizio;

- le proprietarie impugnavano la predetta ordinanza di demolizione e ogni altro atto presupposto o connesso (tra cui, in particolare, la precedente ordinanza di demolizione n. 614 del 1992, avente ad oggetto il manufatto di cui al foglio 33, particella n. 1088 sub 2);

- nel corso del giudizio di primo grado, venivano impugnati con motivi aggiunti, i seguenti ulteriori atti dell’Amministrazione comunale, riferiti ad una domanda di condono (prot. n. 1033 del 1986) relativa al medesimo compendio immobiliare, e segnatamente: i) la nota n. 17689 dell’11 luglio 2014, con la quale si comunicava l’impossibilità di completare positivamente l’istruttoria, per incompletezza della documentazione e stante l’asserita prosecuzione delle opere oggetto di sanatoria dopo la data dell’1 ottobre 1983; ii) la nota n. 21531 dell’1 settembre 2014, avente ad oggetto una richiesta di integrazione documentale; iii) la nota n. 11043 dell’11 maggio 2015, contenente motivi ostativi all’accoglimento della domanda di condono; iv) la nota n. 14529 del 15 giugno 2015, recante il rigetto della domanda di condono, motivata in ragione della mancanza di identità tra le opere oggetto di sanatoria e quelle indicate a corredo dell’istanza di condono, della continuazione delle opere da condonare dopo la data dell’1 ottobre 1983, nonché della non identificazione delle opere medesime;

- si costituivano in giudizio i signori Mascolo Adelina e Passaro Nazario, in qualità di proprietari di un’abitazione confinante con quelle delle ricorrenti;

- il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sezione di Salerno, con sentenza n. 465 del 2016, all’esito di una consulenza tecnica d’ufficio, si è così pronunciato: i) ha dichiarato l’irricevibilità del ricorso relativamente all’ordinanza di demolizione n. 614 dell’11 gennaio 1992; ii) ha dichiarato improcedibili i primi motivi aggiunti proposti avverso le note dell’11 luglio 2014 e dell’1 settembre 2014, in quanto prive di valenza provvedimentale; iii) ha dichiarato illegittimo il diniego di condono del 15 giugno 2015 impugnato con i secondi motivi aggiunti; iv) ha accertato alcuni vizi di illegittimità inficianti l’ordinanza di demolizione delle opere oggetto dell’istanza di condono edilizio e del manufatto posto al piano terra dell’edificio principale abitato dalle ricorrenti.

1.1.‒ Con l’atto di appello n. 7226 del 2016, i signori Mascolo e Passaro hanno chiesto la riforma del capo di sentenza riguardante l’annullamento dell’ordinanza di demolizione, nella parte in cui aveva ad oggetto l’immobile, posto al piano terra del fabbricato principale, destinato ad abitazione delle ricorrenti in primo grado.

A fondamento dell’appello sono stati articolati i seguenti tre motivi di gravame:

a) l’omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, in quanto indirizzato contro un ordine di demolizione riferibile ad opere già oggetto di un pregresso ordine di demolizione (n. 612 del 1992), rimasto inoppugnato;

b) la violazione degli articoli 63, 64 e 67, comma 3, lettera d), del c.p.a., oltre che dell’art. 2687 c.c., tenuto conto che il giudice di prime cure, relativamente alla datazione dell’edificazione dell’immobile posto al piano terra dell’edificio principale, avrebbe disposto una consulenza tecnica in violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio gravante sulle parti ricorrenti, ed inoltre il consulente tecnico d’ufficio avrebbe acquisito elementi documentali nel corso delle operazioni istruttorie, in violazione dell’art. 67, comma 4, lettera d), del c.p.a.;

c) le risultanze istruttorie valorizzate dal giudice di primo grado non sarebbero idonee a dimostrare la preesistenza rispetto al 1967 del manufatto de quo, e in particolare: lo stralcio della planimetria in scala 1:100.000 fondante la decisione di prime cure non consentirebbe di individuare la presenza nell’area di interesse di alcun manufatto; la legenda allegata alla planimetria in scala 1:25.000 non risulterebbe riferibile alla planimetria in scala 1:100.000; la foto di un evento familiare, risalirebbe al 1970 e, dunque, non consentirebbe di dimostrare la preesistenza del manufatto rispetto al 1967; sulla base della planimetria in scala 1:25:000 sarebbe dimostrabile che i puntini valorizzati dal giudice di prime cure ai fini della prova circa l’esistenza di un insediamento in loco si troverebbero a distanza di oltre duecento metri dal fabbricato per cui è controversia.

1.2.‒ I signori Francesca Passaro e Vincenza Langellotti, ricorrenti in primo grado, si sono costituiti in giudizio, eccependo l’irricevibilità dell’appello e argomentandone l’infondatezza anche nel merito. Propongono altresì appello incidentale avverso il capo di sentenza che ha escluso la violazione dell’affidamento maturato sulla legittimità dei manufatti, senza tenere adeguatamente conto dell’inerzia dell’Amministrazione protratta per lungo tempo, del pagamento dei tributi locali, nonché del rilascio della concessione edilizia n. 95 del 1991 (per la copertura del primo piano e la realizzazione di scale esterne con sottotetto).

1.3.‒ Con ordinanza 319 del 2020, è stata dichiarata l’interruzione del processo, per decesso della parte appellante e del co-difensore. La causa è stata quindi riassunta dall’appellante con atto depositato in data 10 marzo 2020.

2.‒ Nel frattempo, le signore Francesca Passaro e Vincenza Langellotti, con separato ricorso, hanno impugnato anche il provvedimento n. 31413 del 22 dicembre 2017, con cui il Comune di Castellabate ha denegato nuovamente l’istanza di condono edilizio (di cui alla medesima pratica n. 1033 del 1986, richiesta, ai sensi della legge n. 47 del 1985, dal de cuius signor Pasquale Langellotti) relativamente all’immobile di Ogliastro Marina, adducendo le seguenti due autonome motivazioni: i) la destinazione non residenziale dell’immobile, dichiarata nell’istanza di condono, sarebbe in contrasto con quella impressa nella variazione catastale effettuata nel 2009; ii) la particella oggetto di condono insisterebbe sull’originaria area di sedime di proprietà della controinteressata Adelina Mascolo, cosicché il signor Pasquale Langellotti non avrebbe avuto titolo per la presentazione dell’istanza di condono.

A supporto della domanda di annullamento gli interessati deducevano che:

i) il giudice non avrebbe tenuto conto di quanto statuito con la sentenza del T.a.r. Salerno n. 465 del 2016 (oggetto dell’appello n. 7226 del 2016), che ha già annullato il precedente diniego con statuizione passata in giudicato perché non oggetto di motivi di gravame;

ii) diversamente da quanto ritenuto dalla p.a., la destinazione d’uso del manufatto oggetto di condono sarebbe stata perfettamente coerente con quella dichiarata al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria;

iii) la famiglia Passaro-Langellotti sarebbe l’effettiva proprietaria dell’area in questione, avendone avuto da sempre il pieno possesso e la totale disponibilità;

iv) il nuovo diniego del condono edilizio avrebbe eluso la portata della sentenza n. 465 del 2016, nella parte in cui la stessa specificava che «in conclusione, deve solo aggiungersi che non hanno rilievo decisivo, ai fini dell’esito della controversia, i profili di carattere proprietario, non essendo richiamati nei provvedimenti impugnati (né essendo dedotti dalla parte controinteressata, sotto forma di ricorso incidentale proposto avverso gli stessi provvedimenti impugnati, nella misura in cui non si fondano anche su quei profili)»;

v) le osservazioni endoprocedimentali prospettate dalle ricorrenti non sarebbero state affatto vagliate dalla p.a., la quale si sarebbe limitata a ritenerle inconferenti senza minimamente addurre la benché minima motivazione al riguardo.

Con successivi motivi aggiunti, è stata proposta impugnazione anche nei riguardi del provvedimento di cui all’ordinanza n. 2073 del 26 novembre 2018 ‒ con la quale il Comune di Castellabate aveva nel frattempo ingiunto la demolizione delle medesime opere abusive per le quali era stato denegato il condono edilizio ‒, deducendo: i) l’illegittimità in via derivata dell’ordinanza demolitoria, per le ragioni prospettate con il ricorso introduttivo avverso il diniego di condono; ii) il difetto di istruttoria ed eccesso di potere, atteso che l’Amministrazione procedente avrebbe dovuto adottare un provvedimento sanzionatorio diverso dalla demolizione di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.

2.1.‒ Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, con sentenza n. 941del 2020, ha disposto l’annullamento anche del secondo diniego del condono edilizio, nonché l’annullamento della conseguente ordinanza demolitoria.

2.2.‒ Avverso la predetta sentenza hanno proposto l’appello n. 7666 del 2020 i signori Mascolo Adelina e Passaro Nazario, riproponendo in sostanza i motivi già sollevati in primo grado, sia pure adattati all’impianto motivazionale della sentenza di primo grado.

3.‒ Con ordinanze 18 gennaio 2021, n. 529 (relativa all’appello n. 7226 del 2016) e 18 gennaio 2021, n. 530 (relativa all’appello n. 7666 del 2020), la Sezione ‒ rilevata la sussistenza di elementi di connessione tra i due giudizi e considerata la necessità di rinviare l’appello n. 7666 del 2020 per garantire il rispetto dei termini di cui agli articoli 46 e 71 del c.p.a. ‒ ha disposto il rinvio di entrambe le cause, per la loro trattazione congiunta, all’udienza del 10 giugno 2021.

Con le medesime ordinanze, la Sezione ha ritenuto opportuno sottoporre al contraddittorio delle parti, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., una questione rilevata d’ufficio, concernente l’inammissibilità dell’atto di appello per difetto di legittimazione attiva, e segnatamente: «Occorre verificare quale sia l’esatta posizione giuridica riconoscibile in capo al terzo, radicato nelle immediate vicinanze del sito in cui si trovino opere asseritamente abusive, oggetto di un ordine di demolizione impartito dall’Amministrazione comunale. Gli odierni appellanti, infatti, sono proprietari di un’area finitima a quella interessata dall’abuso sanzionato con il provvedimento di demolizione per cui è controversia, hanno denunciato l’asserito abuso edilizio, nonché sono nominativamente individuati nel provvedimento di demolizione impugnato in primo grado. In siffatte ipotesi, occorre che le parti prendano posizione sulla possibilità di qualificare gli odierni appellanti come controinteressati in relazione all’ordine di demolizione impugnato in primo grado e, quindi, come soggetti titolari di un interesse eguale e contrario a quello azionato dal ricorrente principale dinnanzi al Tar, fonte di una posizione qualificata autonoma meritevole di tutela conservativa, suscettibile di essere pregiudicata dall’eventuale emissione di una sentenza di accoglimento del ricorso di primo grado. La soluzione del quesito de quo potrebbe, infatti, influire sulla sussistenza della legittimazione ad appellare i capi di sentenza relativi alla legittimità dell’ordine di demolizione, che sembrerebbe riconoscibile soltanto in capo alle parti titolari di una posizione giuridica autonoma direttamente e immediatamente lesa o beneficiata dall’esercizio del pubblico potere».

4. All’odierna udienza del 10 giugno 2021 la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.‒ Il ‘principio della ragione più liquida’, corollario del principio di economia processuale, consente di derogare all’ordine logico di esame delle questioni ‒ e quindi di tralasciare ogni valutazione pregiudiziale sull’eccezione di irricevibilità dell’appello n. 7226 del 2016 e di inammissibilità della nuova documentazione prodotta ‒ e di risolvere la lite nel merito, salvo rimuovere preliminarmente ogni dubbio sulla legittimazione degli odierni appellanti.

1.1.‒ Nel settore edilizio, la legittimazione dei soggetti ‘terzi’, non direttamente destinatari del provvedimento (sia esso un titolo edilizio, ovvero l’ordine di demolizione dell’abuso commesso), è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della vicinitas, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino un’alterazione vietata del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.

Quanto al pregiudizio della situazione soggettiva protetta dei predetti soggetti ‘terzi’, il danno deve ritenersi sussistente in re ipsa per gli abusi edilizi, in quanto ogni edificazione abusiva incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi. In rapporto invece alle scelte di pianificazione urbanistica, si richiede che i titolari di aree limitrofe, non direttamente incise dalla nuova disciplina, diano riscontri probatori del danno riconducibile al godimento, o al valore di mercato, dell'area su cui insistano gli immobili dai medesimi posseduti, per effetto della nuova normativa (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione II, 30 settembre 2019, n.6519; sezione IV, sentenza 26 luglio 2018, n. 4583).

Nel caso in esame, è pacifico il collegamento materiale stabile fra l’immobile dei ‘terzi’ appellanti e quello interessato dalle opere abusive (la signora Mascolo è, infatti, proprietaria di abitazione confinante con quella degli odierni appellati), senza dunque che risulti necessario dimostrare un pregiudizio specifico e ulteriore. È inoltre dirimente rilevare che i ‘terzi’ denuncianti lamentano che le costruzioni degli appellati insisterebbero sulla particella n. 1088, derivata dalla soppressione della pregressa particella unica n. 181 di proprietà di Mascolo Adelina, la quale dunque, anche sotto questo profilo, ha piena legittimazione e interesse ad agire rispetto alla res controversa (lo stesso Comune, nel diniego di condono oggetto dell’appello n. 7666 del 2020 ha motivato che i manufatti degli appellati ricadrebbero sulla proprietà della signora Mascolo Adelina).

2.‒ Veniamo ora allo scrutinio dell’atto di appello n. 7226 del 2016.

2.1.‒ Va precisato che il compendio immobiliare per cui è causa si compone di un fabbricato urbano con annesse pertinenze, e di un’area cortilizia in parte sistemata a “piazzali impermeabili”, utilizzati come spazi di sosta degli automezzi, e in parte ad orto-giardino. È circoscritta, lungo tutto il perimetro, da muri in calcestruzzo cementizio, armato e non armato, sormontati alternativamente da recinzioni in ferro battuto, rete metallica a maglie larghe e, limitatamente all’area edificata (pertinenza delle abitazioni), da muratura del tipo “a secco” o legata con malta.

Nel dettaglio, i fabbricati incisi dall’ordinanza di demolizione n. 1969, dell’8 aprile 2014, come descritti nella consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado, sono i seguenti:

a) particella n. 1088 sub 4, ‘graffata’ alla particella n. 1091 sub 3, sulla quale insiste un appartamento al piano terra di 6,5 vani catastali, per circa mq. 128,33 lordi, utilizzato come abitazione intestata alla signora Langellotti Vincenza (e, secondo la relazione peritale, insistente in parte sul sedime dell’originaria proprietà della signora Mascolo Adelina);

b) particella 1091 sub 2 e particella 1088 sub 2, su cui insiste un appartamento al primo piano di 5 vani catastali, per complessivi (circa) mq. 121,11 lordi, oltre mq. 16,70 di balconi e ballatoi, ad uso residenziale (anch’essa, secondo la relazione peritale, insistente in parte sul sedime dell’originaria proprietà della signora Mascolo Adelina);

c) particella 1088 sub 3, locali di fortuna e di sgombero, ad unica elevazione a piano terra, di circa 147,10 metri quadri (di cui: una porzione di mq. 40,88 costruita in muratura di tufo, oggetto del condono edilizio n. 1033 del 1986; una porzione di mq. 23,43 in blocchi di lapillo legati con malta; mq. 20,13 in blocchi di lapillo del tipo “a secco”, incannucciata e legno da riuso; mq. 62,66 in tettoie metalliche, lignee), anch’essi insistenti sul sedime dell’originaria proprietà della signora Mascolo Adelina.

2.2.‒ Va pure rimarcato che il capo della sentenza appellata n. 465 del 2016, di annullamento del diniego di condono n. 14529 del 15 giugno 2015, è passato in cosa giudicata, in accoglimento della censura intesa a contestare la contraddittorietà dei presupposti sui quali si fondava il diniego impugnato (relativi, da un lato, alla impossibilità di identificare, sulla scorta della documentazione prodotta dalla parte ricorrente, le opere oggetto dell’originaria domanda di sanatoria, dall’altro lato, alla asserita continuazione delle stesse dopo il termine ultimo dell’1 ottobre 1983). Il giudicato ha inoltre rilevato che: «[…] come si evince dalla relazione di c.t.u., l’oggetto dell’istanza di condono è individuabile in termini sufficientemente precisi, sì che l’amministrazione comunale avrebbe avuto l’onere di verificare se, acclarata la realizzazione di ulteriori opere, quelle oggetto della domanda di condono siano distinguibili da quelle successivamente realizzate e suscettibili di essere sanate indipendentemente da queste ultime, ovvero concorrano a costituire con le stesse un unitario ed inscindibile organismo edilizio, planovolumetricamente diverso da quello oggetto di condono».

Non sono stati inoltre impugnati i capi della sentenza relativi all’annullamento dell’ordinanza di demolizione in relazione a manufatti diversi dal fabbricato principale.

2.3.‒ Il primo motivo di appello ‒ con cui gli istanti reiterano l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo in ragione della mancata impugnazione dell’ordinanza di demolizione n. 614 del 1992 ‒ non può essere accolto, stante l’evidente diversità dell’intervento edilizio oggetto dell’ordinanza di demolizione per cui è causa, rispetto a quello originariamente sanzionato.

L’ordinanza del 1992, come appurato dal consulente tecnico d’ufficio nel corso del giudizio di primo grado, riguardava soltanto la difformità del tetto di copertura del piano terra del fabbricato (di cui alle particelle 1088 sub 4, 1088 sub 2 e 1091 sub 2), con soffitta e scale esterne, rispetto a quanto assentito con la concessione edilizia n. 95 del 1991 (avente ad oggetto, per l’appunto, la realizzazione di copertura e scala esterna). Con la predetta ordinanza del 1992, in particolare, era stato rilevato l’aumento dell’altezza sui bordi ‒ di circa 0,60 su un lato e circa 0,70 mt su altro lato ‒, nonché la realizzazione nella parte centrale delle falde del tetto, di una copertura non inclinata, bensì piana.

L’abuso contestato nel 2014 riguardava invece l’intero corpo di fabbrica (e, con riguardo al primo piano, la intervenuta trasformazione della soffitta in volume residenziale).

2.4.‒ Anche il secondo motivo di appello è destituito di fondamento.

In termini generali, l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi di riscontro trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.

È pure noto che la consulenza tecnica non può essere diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato, poiché detto strumento istruttorio, ancorché disponibile d’ufficio, non è certo destinato ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute.

Sennonché, nel caso in esame, i ricorrenti in primo grado hanno pienamente assolto all’onere di fornire quantomeno un principio di prova in ordine alla preesistenza al 1967 del piano terra del fabbricato principale: rilevano in tal senso gli elementi documentati nella perizia di parte depositata in data 9 aprile 2015.

Neppure sussiste alcuna violazione del contraddittorio nella formazione della prova. La relazione peritale dà atto ed espressamente prende posizione sulle valutazioni dei consulenti tecnici di parte.

Peraltro, nel corso del giudizio di primo grado, la discussione di merito della causa, su congiunta istanza delle parti costituite, era stata rinviata al fine di consentire alle parti di dedurre. Sennonché, in vista dell’udienza del 9 febbraio 2016, la parte appellante non ha depositato alcuna documentazione a confutazione delle conclusioni cui il consulente.

2.5.‒ Il consulente tecnico d’ufficio, sulla scorta dei dati ricavati dalla documentazione depositata in giudizio e in occasione del sopralluogo effettuato, alla luce degli atti prodotti e delle osservazioni del consulenti tecnici di parte, ha concluso nel senso della «preesistenza (limitatamente al solo piano terra o di porzione dello stesso) del manufatto edilizio, anche se originariamente tipologicamente non definibile (“casa in muratura, baracca, capanna, ruderi”) per essere poi recuperato (evidenti sono i segni sulla Tavoletta IGM n. 209 serie 100L di “manufatti” insistenti in sito sin dall’anno 1956 attesa la specifica presenza dei segni convenzionali che ne identificano e caratterizzano il contenuto informativo), ed utilizzato, ancor prima dell’anno 1975, come risulta dalla documentazione fotografica prodotta dall’ing. Domenico Puglia nella sua qualità di CT delle signore Passaro-Langellotti (ricorrenza della Prima Comunione della sig.ra Langellotti Vincenza), ove risultano visibili almeno due elementi riscontrati anche durante i sopralluoghi del mese di luglio e settembre c.a.. Essi sono la “ringhiera” o balaustra installata a protezione delle cadute sulla rampetta di ingresso al piano terra del fabbricato [oggi, in catasto, alla p.lla 1088 sub 4 graffato alla 1091 sub 3 (fusione in data 25.5.2009 tra la 1091 sub 1 e la 1088 sub 1)] posizionata sul prospetto Sud, e la “tapparella” dell’infisso, stesso prospetto, omologo, per forma e tipologia, rispetto a quello oggi esistente».

Le conclusioni cui è pervenuto il CTU, secondo cui il manufatto, limitatamente al piano terra, era esistente quantomeno a far data dal 1956 ‒ in un’epoca in cui, come è noto, non era necessario munirsi di alcun titolo edilizio, ai fini della lecita realizzazione di opere edilizie ‒, appaiono esaustivamente argomentate ed esenti da vizi logici. Correttamente le stesse sono state poste dal giudice di primo grado a fondamento della decisione di annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 1969 del 2014 relativamente all’immobile di cui alla particella 1088 sub 4 (piano terra del fabbricato principale).

Il complesso degli elementi raccolti (mappe, segni convenzionali, punti fiduciari), unitariamente considerati, non è inficiato dai rilievi parziali di controparte sull’interpretazione dei segni convenzionali riportati sulle cartine: come osservato dagli appellanti i puntini evidenziati in mappa non sembrano rappresentare affatto un rudere, il quale (come da legenda) è raffigurato con un lato chiuso, mentre nel caso di specie sono raffigurati veri e propri manufatti. Per gli stessi motivi, appaiono pretestuose le considerazioni in merito alle scale di riferimento ed alle pretese dimensioni al millimetro dei manufatti.

2.6.‒ In ragione del rigetto dell’appello principale (e quindi del passaggio in giudicato della statuizione di annullamento dell’ordinanza di demolizione nella parte avente ad oggetto il fabbricato principale composto da piano terra e primo piano) può assorbirsi l’esame dell’appello incidentale (teso a dimostrare la sussistenza, in relazione al piano terra, di idonei indici giustificativi del legittimo affidamento maturato), proposto dagli appellanti «nella denegata ipotesi di ritenuta riforma della sentenza sul punto».

3.‒ Va ora esaminato il secondo appello n. 7666 del 2020.

3.1.‒ Va precisato che, mentre l’appello n. 7226 del 2016, appena scrutinato e respinto, riguardava l’ordinanza di demolizione emessa del 2014 relativa al manufatto principale, il giudizio d’appello n. 7666 del 2020 ha ad oggetto il diniego di condono adottato in data 22 dicembre 2017 dal Comune di Castellabate (in seguito all’annullamento del precedente diniego ad opera della sentenza del T.a.r. Salerno n. 465 del 2016), avente ad oggetto un distinto manufatto, ovvero un piccolo deposito pure insistente sul medesimo lotto.

La porzione immobiliare interessata dall’istanza di condono edilizio prot. n. 1033 era relativa alla “parte centrale” dell’esistente costruzione contrassegnata (porzione) dalla particella 1088 sub 3 del foglio n. 33 del Comune di Castellabate, cioè quella realizzata in muratura portante in tufo giallo napoletano e solaio laterocementizio.

Come si è già riferito nella premessa in fatto, il secondo diniego è stato motivato sulla scorta delle seguenti due cause ostative: a) la destinazione residenziale dell’immobile quale risultante a livello catastale, a seguito di una denuncia di variazione perfezionata nel 2009; b) la circostanza, rilevata anche dal consulente tecnico d’ufficio, secondo cui l’immobile è stato parzialmente edificato su area di sedime di proprietà della signora Adelina Mascolo.

3.2.‒ Il primo motivo di appello ‒ con il quale viene lamentata l’erroneità della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto illegittima la causa ostativa incentrata sulla pretesa incoerenza della destinazione d’uso residenziale del manufatto rispetto alla domanda di condono a suo tempo presentata ‒ non può essere accolta.

In primo luogo, gli argomenti spesi per dimostrare (ai sensi e per gli effetti degli articoli 32 e 35 della legge n. 47 del 1985) che vi sarebbero stati completamenti successivi all’istanza di condono, sono inammissibili, trattandosi di profili del tutto estranei alla motivazione del diniego in esame.

Ciò posto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, alle risultanze catastali non può essere riconosciuto un autonomo valore probatorio anche ai fini dell’individuazione dell'effettiva destinazione d’uso (Consiglio di Stato sez. VI, 9 ottobre 2020, n. 5992; sezione VI, n. 2769 del 2015).

Lo stato dei luoghi era stato accertato dal consulente tecnico d’ufficio, secondo cui la predetta porzione immobiliare risultava: «certamente coerente col “modello 47/85-D” (opere ad uso non residenziale) di presentazione della domanda di condono prot. n. 1033 progressivo n. 0043610709, e ancor più coerente con l’attuale stato dei luoghi (caratteristiche e componenti architettoniche: dimensioni planimetriche e destinazione d’uso) riscontrato dallo scrivente CT nel corso dei sopralluoghi, non diverso da quello originario individuato in “domanda”»; per gli stessi motivi tale porzione immobiliare era invece «assolutamente incoerente con la destinazione d’uso, stante i rilevati elementi fattuali, impressa nella denuncia di variazione catastale dell’anno 2009 a firma del dott. Petillo, –fra l’altro- ampiamente e puntualmente documentato anche dal CTP ing. Giuseppe Fasano».

Sullo stato dei luoghi, così accertato, non poteva certo prevalere la variazione di accatastamento perfezionatasi nel 2009, frutto dunque di una erronea valutazione.

Il giudice di primo grado ha poi correttamente aggiunto che la domanda di condono era coerente anche con la destinazione urbanistica prevista dal PRG (classificazione in zona omogenea E), la cui vocazione era prettamente agricola, e quindi (tendenzialmente) non residenziale.

3.3.‒ Anche gli ulteriori mezzi di gravame (secondo e terzo) ‒ incentrati sulla violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 31 della legge n. 47 del 1985, e sulla erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha erroneamente ritenuto incidentalmente maturata l’usucapione della piccola porzione di terreno su cui insiste l’abuso ‒ non possono essere accolti.

Come si è detto, il secondo motivo ostativo del diniego di condono è costituito dal fatto che, l’istante non avrebbe avuto titolo a richiedere la sanatoria in quanto insistente su porzione di terreno catastalmente appartenente all’originaria proprietà della signora Mascolo Adelina.

Tale assunto, così come formulato, non è conforme a legge.

Il novero dei soggetti legittimati alla richiesta del titolo in sanatoria risulta più ampio rispetto a quello concernente i soggetti legittimati alla richiesta dell’ordinario titolo abilitativo edilizio.

In quest’ultima ipotesi ‒ riferendosi l’art. 11 del d.P.R. n. 380 del 2011 «al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo» ‒ occorre la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale, quale condizione del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene, nonché della relativa potestà edificatoria.

Per contro, l’art. 36 dello stesso testo unico dell’edilizia ‒ secondo cui possono ottenere il permesso in sanatoria «il responsabile dell'abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile» ‒, e l’art. 31, comma 3, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ‒ secondo cui alla richiesta di sanatoria possono provvedere anche «ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima» ‒ sono chiari nel prevedere che anche per l’autore dell’abuso, e non solo per il proprietario del bene, una legittimazione disgiunta ed autonoma a presentare la domanda di sanatoria (è invece inconferente l’art. 32, comma 5, della legge n. 47 del 1985, il quale disciplina la diversa ipotesi di abuso commesso su area appartenente ad enti pubblici territoriali).

Una simile soluzione interpretativa, oltre che conforme al significato proprio delle parole usate dal legislatore, è l’unica in grado di salvaguardare l’interesse qualificato dei responsabili dell’abuso (destinatari, insieme con il proprietario, dell’ordinanza di demolizione) ad eliminare l’antigiuridicità dei fatti compiuti, nonché a ripristinare, a proprie spese ed oneri, una situazione di legalità e ad estinguere il reato commesso per non incorrere nelle più gravose sanzioni penali (cfr., in tal senso, la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, 23 novembre 2006, n. 6906, la quale rileva che la sanatoria «[…] si correla, normalmente, anche all'ordine di demolizione delle opere ed è naturale che l'amministrazione la richieda anche a colui che, versando in un rapporto privilegiato di proprietà, possesso o detenzione del bene realizzato in assenza o difformità del titolo e in quanto, comunque, responsabile della loro realizzazione, è in grado di procedere alla rimozione delle stesse; e questo medesimo soggetto logicamente è stato individuato dal legislatore anche come colui che, per sottrarsi a tale determinazione ed agli effetti sanzionatori della propria condotta, può richiedere la sanatoria»).

È evidente, peraltro, che la regolarizzazione non intacca in alcun modo il diritto del proprietario ‒ azionabile davanti al giudice civile ‒ alla rimozione delle opere realizzate ‘invito domino’.

Il permesso di costruire (anche quello in sanatoria) è sempre rilasciato facendo salvi i diritti dei terzi, nel senso che rende semplicemente legittima l’attività edilizia nell’ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell’attività, si pone in essere tra l’autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all’attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune.

Il T.a.r., dunque, ha correttamente rilevato che il dante causa delle ricorrenti era legittimato a presentare la sanatoria, in quanto responsabile dell’abuso.

Peraltro, anche ove si ritenga che una tale più ampia legittimazione a chiedere l’istanza di condono non possa però avere una forza tale da imporsi sulla contraria volontà dell’eventuale proprietario dissenziente (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745), il diniego del Comune sarebbe comunque affetto da difetto di istruttoria e motivazione. Come emerso anche nella relazione peritale, la porzione di terreno nella disponibilità della famiglia degli odierni appellati era da sempre stata perimetrata da muri di calcestruzzo cementizio sormontati da recinzione in ferro battuto. Detti confini non sono mai stati oggetto di contestazione in sede civile. Se in generale deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell’immobile, a fronte di serie risultanze sul possesso ‘uti dominus’ del richiedente, il Comune avrebbe dovuto compiere le indagini necessarie e denegare il rilascio del titolo soltanto se l’interessato non fosse stato in grado di fornire elementi seri a fondamento del suo diritto.

3.4.‒ Il quarto ed ultimo motivo di gravame ‒ con i quali si prospetta l’erroneità della sentenza anche nella parte in cui ha ritenuto fondato il difetto di motivazione, per non avere l’Amministrazione esternato il mancato accoglimento delle osservazioni procedimentali presentate in data 21 novembre 2017 ‒ possono assorbirsi, essendo sufficienti le illegittimità sopra accertate al fine di confermare la statuizione di annullamento dell’ordine di demolizione.

3.5.‒ Per gli stessi motivi, può assorbirsi l’esame dei motivi riproposti dagli appellati, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., rimasti assorbiti dal giudice di primo grado.

4.‒ Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite del secondo grado di giudizio, in considerazione della particolarità della vicenda e del suo carattere risalente.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti, come in epigrafe proposti, li respinge entrambi. Compensa integralmente tra le parti le spese del secondo grado di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 giugno 2021 con l’intervento dei magistrati:

Sergio De Felice, Presidente

Hadrian Simonetti, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere, Estensore