Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2078, del 14 ottobre 2014
Urbanistica.Edificazione disomogenea e Piano di recupero
Per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira a far sì che tutte le modifiche di una zona si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area. L’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese).
N. 05078/2014REG.PROV.COLL.
N. 11086/2003 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 11086 del 2003, proposto dai signori Maccarone Pietro Antonio e Silvestri Maria Teresa, rappresentati e difesi dall'avvocato Mario Rampini, con domicilio eletto presso l’avvocato Paolo Giuseppe Fiorilli in Roma, via Cola di Rienzo, n. 180;
contro
Il Comune di Ricadi, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Vecchio, con domicilio eletto presso l’avv. Bruno Galati in Roma, via dei Castani, 195;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CALABRIA - CATANZARO :SEZIONE II n. 327/2003, resa tra le parti, concernente un diniego di concessione edilizia per la costruzione di un manufatto.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 giugno 2014 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e uditi per le parti gli avvocati Rampini Mario e Vecchio Salvatore;
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, Catanzaro, Sez. II, con la sentenza 20 febbraio 2003, n. 327, ha respinto il ricorso n. 1816 del 2001 proposto dalla parte appellante per l’annullamento del diniego di concessione edilizia adottato con nota dirigenziale 20 settembre 2001, n. 6718, oltre al risarcimento dei danni patiti.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che l’assoggettamento del terreno alla disciplina delle zone omogenee “A.R.” è avvenuta su espressa richiesta degli istanti, contenuta nelle osservazioni mosse in data 18 dicembre 1998 al piano adottato e non ancora approvato; in precedenza, infatti, l’area era stata classificata come “ET4 agricola”, con una più ridotta potenzialità edificatoria.
Ha osservato il TAR che la zona “A.R.” comprende le “aree da organizzare urbanisticamente e da qualificare ambientalmente e paesisticamente, recuperando le superfici di dotazione minime prescritte dal D.M. 1444-68”; esse, pertanto, “sono da assoggettare a provvedimento di recupero”; nella elaborazione degli strumenti preventivi esecutivi di intervento “dovrà essere esercitata particolare attenzione al fine della riqualificazione formale e del riequilibrio ecologico ed estetico del paesaggio”.
Ciò significa, per il TAR, che i redattori del piano (e gli stessi istanti, nel formulare le proprie osservazioni) hanno tenuto presente una situazione di fatto tale da rendere indispensabile, prima di qualsiasi intervento costruttivo ex novo, la previa ridefinizione del tessuto urbanistico dell’area, da attuarsi mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, con la modificazione di lotti, isolati, vie di comunicazione od anche col solo potenziamento delle opere di urbanizzazione esistenti.
L’appellante contestava la sentenza del TAR, deducendo che:
- dalla concreta normativa urbanistica dettata dall’art. 92 delle NTA per la zona AR di cui trattasi emerge in tutta evidenza che le esigenze pubbliche di riqualificazione ambientale e paesistica sono riferite esclusivamente all’edificazione esistente;
- deve applicarsi l’indirizzo giurisprudenziale sulla insussistenza dell’obbligo della previa formazione dello strumento urbanistico attuativo, ancorché previsto dallo strumento generale, allorquando si tratti di edificare un lotto residuo ed intercluso da altri edifici ricadente in zona comunque dotata di viabilità e di tutti gli allacci (fognature, elettricità e telefono);
- con l’intervento diretto sull’area di cui trattasi verrebbero in ogni caso rispettate le finalità previste dall’art. 92 cit., dal momento che la ridotta volumetria consentita nel lotto in questione (comportante un limite di copertura di mq. 248,88) consentirebbe di rispettare integralmente gli standard previsti dal D.M. n.1444 del 1968 e quelli stabiliti dall’art. 92 stesso (verde e parcheggi);
- per di più, l’intervento diretto consentirebbe comunque al Comune, mediante l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 92, di assentire un progetto idoneo a determinare un armonico inserimento dei nuovi volumi (per tipologia, dimensioni, colore e quanto altro) dal punto di vista ambientale e paesistico.
Con l’appello in esame, si chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado.
Si costituiva il Comune chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza pubblica dell’11 giugno 2014, la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. I ricorrenti di primo grado, attuali appellanti, con istanza del 25 giugno 2001, avevano chiesto al Comune di Ricadi una concessione edilizia per la costruzione di un manufatto di civile abitazione su un lotto di terreno di mq. 566 sito in località Marchito, ricadente in area urbanisticamente classificata AR (art. 92 delle N.T.A. al P.R.G.) con indice di edificabilità pari a 0,5 metri cubi per ogni metro quadrato di superficie.
Il Comune di Ricadi aveva individuato, con l’art. 92 delle N.T.A. citato le c.d. Aree di Riequilibrio, per pervenire ad una riorganizzazione urbanistica e ad una riqualificazione ambientale mediante gli strumenti attuativi previsti dall’art. 29 della legge n. 47 del 1985 e dall’art. 27 della legge n. 457 del 1978.
Le zone “AR”, per definizione ex art. 92 N.T.A., comprendono “le aree da organizzare urbanisticamente e da qualificare ambientalmente e paesisticamente recuperando le superfici di dotazione minime prescritte dal D.M. n. 1444-1968”; sono “da assoggettare a provvedimento di recupero”; “nell’elaborazione degli strumenti preventivi esecutivi di intervento dovrà essere esercitata una particolare attenzione ai fini della riqualificazione formale e del riequilibrio ecologico ed estetico del paesaggio”.
2. Con l’atto di diniego impugnato, il Dirigente dell’U.T.C. motivava il provvedimento sostenendo che “Nell’area omogenea “AR”, nella quale è compreso il terreno, giusta osservazione al P.R.G. n. 13, accettata con delibera Commissario ad acta n. 5 del 10.11.1997, l’edificazione è possibile solo dopo l’approvazione del piano di recupero”.
Inoltre, nel predetto atto si specificava che “l’intervento diretto è ammesso esclusivamente in caso di manutenzione ordinaria, straordinaria e restauro; la possibilità di concessione edilizia singola, in caso di lotti prospicienti su area urbanizzata e interclusi, è ammessa nelle norme vigenti in questo Comune, esclusivamente per le aree “C”.
Nel caso di specie, risulta che le zone omogenee indicate come “AR”, attraverso le quali è possibile effettuare l’intervento di riequilibrio imposto dal vigente P.R.G. in via preventiva rispetto a qualsiasi altro intervento edilizio ad esclusione della manutenzione straordinaria e ordinaria e del restauro, sono interessate da numerosi interventi edilizi verificatisi negli anni passati, con evidente necessità dei piani di recupero, coinvolgenti lotti edificati e non edificati.
3. Proprio per l’indicata ragione, ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, l’art. 92 N.T.A., che disciplina le aree oggetto del giudizio, indica la superficie minima che non deve essere inferiore a mq. 8000, fissa gli indici, prevede che gli interventi devono essere articolati in “comparti” e che “nelle aree non comprese nei piani di comparto è vietato qualsiasi intervento edilizio compreso il cambio di destinazione d’uso ad esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e restauro”.
Appare quindi all’evidenza che il piano di recupero per le “aree di riequilibrio”, come specificato dalle N.T.A., debba avere ad oggetto il recupero urbanistico, quello edilizio ed anche la riqualificazione ambientale e paesistica e, infine, il recupero delle superfici minime individuate dal D.M. 2.4.1968, n. 1444, e che lo stesso si configuri quale piano attuativo a contenuto generale in cui tutte le previsioni, anche quelle non residenziali, debbono essere finalizzate al recupero urbano e, quindi abitativo, ma anche economico e sociale.
Pertanto, il piano attuativo è necessario non solo per i lotti interclusi insistenti in zone urbanizzate, ma anche per le aree, come quella in esame, già compromessa da fenomeni di urbanizzazione spontanea e incontrollata.
E’ proprio in considerazione del fatto che la zona in questione, in quanto già compromessa sotto l’aspetto urbanistico, ambientale e paesistico, abbia bisogno di necessari interventi di riqualificazione ambientale e paesistica, la norma tecnica di attuazione ha imposto una previa scelta di pianificazione urbanistica che condiziona e a cui sono subordinati gli interventi edificatori singoli.
Se, dunque, nella aree “AR”, il Comune, cui compete il governo del territorio, ha previsto interventi articolati in comparti e tali comunque, per quantità e qualità, da non aggravare i guasti urbanistico-edilizi già presenti, piuttosto che correggerli, non può ragionevolmente sostenersi che in aree, seppure “stabilizzate”, e, nel contempo, compromesse da fenomeni di urbanizzazione spontanea e incontrollata, il principio fondamentale della pianificazione urbanistica possa essere eluso e riguardi solo i manufatti esistenti.
Infatti, il “piano di recupero”, richiamato dall’art. 92 N.T.A., è lo strumento per attuare il riequilibrio nelle aree degradate e non è ipotizzabile che in tali aree, pur compromesse da fenomeni di urbanizzazione spontanea e incontrollata, il piano attuativo possa essere eluso con titoli edilizi singoli per costruire, pur attenendo questi ultimi a lotti prospicienti su aree urbanizzate e interclusi.
Il piano di recupero, nella previsione comunale per le aree “AR”, attiene non soltanto al recupero fisico degli edifici, ma anche e soprattutto rappresenta un’operazione complessa a scala urbanistica, che deve puntare alla rivitalizzazione di un comprensorio urbano.
4. Pertanto, il principio giurisprudenziale secondo cui è consentito derogare all’obbligo dello strumento attuativo nelle zone ‘completamente’ urbanizzate, non è applicabile nel caso di specie.
4.1. Più volte, sin dagli anni Novanta, questo Consiglio ha affermato che – quando uno strumento urbanistico subordina il rilascio di un titolo edilizio alla previa approvazione di uno strumento attuativo – né in sede amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla situazione dei luoghi per verificare se l’area sia urbanizzata.
Una tale regola – già desumibile dalla legge n. 1150 del 1942 – è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del giudice amministrativo la verifica della situazione dei luoghi, al fine di escludere la necessità del piano attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art. 9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato come presupposto legale per l’edifiicazione.
4.2. Neppure risulta fondata la tesi dell’appellante, secondo cui rileverebbe nella specie una ‘pressoché completa edificazione della zona’ addirittura incompatibile con un piano attuativo.
In primo luogo, per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2470).
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento attuativo soltanto nell'ipotesi – per lo più di scuola – in cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione, previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie, esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15 maggio 2002, n. 2592).
Nella specie, come rilevato, ci si trova in un’area degradata da organizzare urbanisticamente e qualificare ambientalmente e paesisticamente, recuperando le superfici minime previste dal D.M. n. 1144 del 1968, e che va assoggettata ad un piano di recupero, con obbligo di riqualificare l’intera superficie nei termini anzidetti.
In tali aree, infatti, il piano di recupero si pone a presidio dello sviluppo programmato di aree ancora edificabili nell’ambito di zone degradate e non assolve la sola funzione di recupero edilizio di compendi immobiliari fatiscenti.
In altri termini, fino alla approvazione del piano di recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di suolo.
5. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato.
Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 11086 del 2003 come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite in favore del Comune costituito, spese che liquida in euro 8000,00, oltre accessori di legge se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 giugno 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Francesco Caringella, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore
Doris Durante, Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/10/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)