Annullamento dei titoli abilitativi ed abuso di ufficio, alias “I ristrettissimi margini dell’art. 21-nonies L. 241/1990 e s.m.i.”.
(Commento a Cons. Stato, n. 5346/2014 nonché a TAR Toscana, n. 1595/2014)

di Massimo GRISANTI

Le due sentenze in commento offrono lo spunto per tornare sull’argomento dell’annullamento dei titoli abilitativi edilizi (giudiziale o in via di autotutela) già trattato su Lexambiente, e sul collegato reato di abuso d’ufficio.

Il Consiglio di Stato si sofferma diffusamente sulla questione della illegittimità della pretesa di risarcimento danni avanzata dall’intestatario di un titolo abilitativo annullato per violazione sostanziale del complesso della disciplina urbanistico-edilizia nei confronti del Comune.

Di contro, i Giudici del TAR per la Toscana – con una mirabile interpretatio abrogans dell’art. 38 del D.P.R. 380/2001 evidentemente finalizzata ad adeguarne le disposizioni ai principi fondamentali contenuti nell’art. 138 della L.R.T. 1/2005 e così non sollevare la questione di legittimità costituzionale, innanzi al Granduca di Toscana, della norma statale per contrasto con quella sovraordinata regionale1 – riconoscono, seppur formulando una excusatio non petita ed in frontale contrasto con il Consiglio di Stato, l’esistenza nell’ordinamento giuridico del colpevole2 legittimo affidamento su cui il Comune può fondatamente3 – con disposizione di favor per il destinatario, provvidenziale per le esangui casse erariali – pretendere il pagamento di una sanzione pecuniaria ripristinatoria dell’interesse pubblico in luogo di quella demolitoria esclusivamente prescritta dalla legge.

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Ma veniamo alla sentenza n. 5346 depositata il 29/10/2014 dal Collegio giudicante (Pres. Maruotti, Est. Franconiero, Cons. Caringella, Tarantino, Prosperi) della Sez. V del Consiglio di Stato.

L’intestatario di concessioni edilizie per la costruzione di quindici villette residenziali, annullate in sede giurisdizionale su ricorso dei vicini, si rivolge al TAR per sentir condannare il Comune a risarcirle i conseguenti danni patrimoniali.

Il Giudice di prime cure statuì che l’errore dell’amministrazione nel rilascio dei titoli edilizi fosse scusabile in ragione della non agevole interpretazione ed applicazione delle norme tecniche di attuazione di cui fu accertata la violazione nel giudizio impugnatorio.

Ha fatto appello il ricorrente ed il Consiglio di Stato pur confermando la sentenza di primo grado l’ha riformata con una diversa motivazione che, a parere di chi scrive, inaugurerà un orientamento giurisprudenziale granitico sia in tema di richiesta di risarcimento danni per aver ottenuto un provvedimento favorevole, sia in tema di applicabilità dell’art. 21-nonies L. 241/1990 e s.m.i.

Ma vediamo cosa hanno detto i Giudici di Palazzo Spada:

“… 11. Come accennato sopra, la domanda risarcitoria riproposta in questasede è invece infondata.

Il Collegio ritiene che per il suo rigetto non rileva l’errore scusabile riscontrato dal T.A.R., ma rileva l’insussistenza di un affidamento meritevole di tutela risarcitoria.

Le concessioni edilizie a suo tempo sono state rilasciate all’odierna appellante a seguito della presentazione, da parte sua, dei progetti da essa elaborati: la società non può ora dolersi a fini risarcitori del loro annullamento giurisdizionale, perché gli atti di assenso dell’amministrazione sono risultati illegittimi, in quanto i suoi progetti erano contrari alle norme tecniche di attuazione.

Applicando allora il principio generale dell’ordinamento giuridico secondo cui l’ignoranza della legge non scusa, estensibile anche agli atti normativi di carattere regolamentare, deve ritenersi che la Co.ge.a. fosse consapevole o comunque abbia quanto meno colpevolmente ignorato che la propria iniziativa era contra legem.

Conseguentemente, o si deve escludere qualsiasi affidamento sulla legittimità dei titoli ad edificare ciò nondimeno ottenuti o si deve negare che questo affidamento sia meritevole di tutela risarcitoria.

12. Va allora evidenziato sul punto che – sia pure nel ritenere sussistente la giurisdizione del giudice civile per le controversie relative a domande di risarcimento danni azionate dai privati destinatari di provvedimenti favorevoli e poi annullati – con le ordinanze nn. 6594-6596 del 23 marzo 2011 le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno individuato l’essenza di questa fattispecie di illecito, sul piano sostanziale, proprio nell’<<incolpevole convincimento>> dei destinatari sulla legittimità degli atti, invece frustrato in conseguenza del loro annullamento.

Nell’ordinanza n. 6594, relativa ad un caso analogo a quello oggetto del presente giudizio, di danni lamentati dal proprietario di suoli per i quali era stato rilasciato un permesso di costruire, la Suprema Corte ha affermato che quest’ultimo ha <<il diritto di fare affidamento sulla legittimità dell'atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell'azione amministrativa>>.

13. La Sezione ritiene tuttavia che un simile affidamento è tutelabile in quanto esso non sia a sua volta inficiato da colpa.

Nell’ordinamento giuridico, vi è un principio generale, secondo cui non può fondatamente chiedere il risarcimento dei danni chi abbia con la sua colpa cagionato la sua verificazione.

Nel diritto privato ciò si desume dall’art. 1338 cod. civ., relativo alle ipotesi di responsabilità precontrattuale in capo alla parte che abbia taciuto una causa di invalidità del contratto nei confronti dell’altra parte, che ottiene la tutela risarcitoria solo se abbia confidato, <<senza sua colpa>>, nella validità del contratto: l’affidamento sul buon esito delle trattative non è quindi riconosciuto meritevole di tutela se la parte si sia rappresentata o si sarebbe potuta rappresentare l’esistenza di una patologia del contratto poi concluso.

Nel diritto amministrativo, è applicabile un corrispondente principio, per il quale chi chiede il rilascio di un provvedimento amministrativo, in assenza dei relativi presupposti e dunque chiedendo ciò che non ha titolo ad ottenere, non si può dolere del fatto che – in applicazione doverosa del principio di legalità4 – il provvedimento medesimo sia annullato o in sede giurisdizionale (su ricorso di chi vi abbia interesse), o in sede di autotutela (da parte dell’autorità emanante), ovvero quando vi siano ragioni di tutela dell’unità dell’ordinamento [da parte del Governo, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera p) della legge n. 400 del 1988].

In tal caso, o in sede giurisdizionale o in sede amministrativa è rimosso il provvedimento che ha inevitabilmente leso l’interesse pubblico rilevante nel settore (e nelle materie dell’edilizia e del paesaggio, l’integrità del territorio e dell’ambiente, la cui lesione comporta l’irrogazione delle relative sanzioni e non la spettanza di un risarcimento che altrimenti premierebbe un comportamento contra ius).

Nel caso di proposizione di una domanda non accoglibile, il “bene della vita” non spetta ab origine e il successivo annullamento del titolo abilitativo illegittimamente formatosi non consente di chiedere un risarcimento del danno per la perdita di un quid sostanzialmente non spettante.

Del resto, nel caso di annullamento in sede giurisdizionale di un titolo abilitativo, in accoglimento del ricorso proposto da parte di chi vi abbia interesse, è solo costui che può chiedere il risarcimento del danno nei confronti del soggetto che ha chiesto ed ottenuto il titolo non spettante, ovvero – se del caso – anche nei confronti dell’amministrazione che avrebbe dovuto respingere la domanda e non abbia adeguatamente valutato la fattispecie, così concausando il danno verificatosi (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15 ottobre 2012, n. 5279).

Non può invece dolersi del danno chi – per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. – abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno.

In altri termini, la domanda della Co.ge.a. va respinta perché ha causato l’emanazione delle concessioni edilizie, per avere appunto presentato un progetto non conforme alle norme urbanistiche rilevanti nella presente fattispecie: essa, a ben vedere, in linea di principio va considerata autrice di un illecito, e non già danneggiata, poiché gli unici soggetti astrattamente danneggiati dall’emanazione dei titoli ad edificare (poi annullati in sede giurisdizionale) sono la stessa Amministrazione (del quale è stato violato il territorio, salve le questioni riguardanti le domande di condono), nonché i confinanti che hanno vittoriosamente esperito l’azione impugnatoria contro i provvedimenti in questione.

Solo nei confronti di costoro, la società immobiliare odierna appellante ed il Comune di Taranto hanno invece colpevolmente concorso all’illegittimità provvedimentale, mediante condotte autonome, ma causalmente convergenti nella realizzazione dell’illecito, secondo un principio generale dell’ordinamento cui si ispira anche l’art. 2055, primo comma, cod. civ.: la prima per avere presentato un progetto costruttivo in violazione dei limiti di edificabilità applicabili nella zona, la seconda per averne consentito la realizzazione mediante i necessari assensi.

Ne consegue che un medesimo fatto non può, per la contraddizione che non lo consente, ad un tempo costituire un illecito fonte di responsabilità civile, ma anche di pregiudizi tutelabili allo stesso titolo per il suo autore.

Difetta in questo caso il necessario presupposto dell’antigiuridicità, che nell’illecito civile si sostanzia nell’ingiustizia del danno ex art. 2043 cod. civ. (contra ius e non iure), e che consiste – come ampiamente noto – nella lesione di una situazione soggettiva riconosciuta meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico, e che rileva anche quando si tratti di controversie di diritto pubblico, per verificare quando sia configurabile un illecito.

Lo stesso ordinamento giuridico non può ad un tempo riprovare un fatto e allo stesso offrirgli protezione, sotto forma di risarcimento per equivalente.

E la conferma di quanto ora affermato si trae dal fatto che, come visto sopra, non è ammessa la tutela dell’affidamento colpevole in ordine ad un comportamento altrui.

Pertanto, la Co.ge.a. non può pretendere dal Comune di Taranto alcunché a titolo di risarcimento di danni per il rilascio in suo favore delle concessioni edilizie poi annullate, atteso che, lungi dall’avere per effetto di ciò subito una lesione ad un bene giuridicamente protetto, in realtà l’appellante – nel presentare un progetto ab origine inaccoglibile – con il proprio determinante impulso ha concorso con l’amministrazione ad arrecare danni ingiusti a terzi.

14. Un ultimo rilievo va doverosamente svolto con riguardo a dubbi circa possibili punti di frizione tra quanto osservato finora ed i principi affermati dalle Sezioni unite della Cassazione nelle più volte citate ordinanze nn. 6594 – 6596 del 23 marzo 2011.

Dubbi della specie devono tuttavia essere fugati, perché, innanzitutto, la presente vicenda contenziosa è connotata da un decisivo contributo causale della pretesa danneggiata, che può in ipotesi non essere riscontrabile in altre ipotesi di attività amministrativa a fronte della quale si collocano interessi legittimi pretensivi, ed in secondo luogo perché le pronunce delle Sezioni unite in esame sono state emesse in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, trattandosi quindi di statuizioni limitate alla sola qualificazione delle domande azionate in quei giudizi, al fine di individuare il giudice munito di giurisdizione sulle stesse, senza alcun esame della relativa fondatezza.

18. Per tutto quanto sopra, l’appello deve essere respinto.”.

La questione portata all’esame dei Giudici dovrebbe far oltremodo riflettere ai liberi professionisti che è del tutto inutile che con sterili mezzucci si arrabattino a confezionare (invalidi) progetti per far rilasciare (invalidi) provvedimenti, giacché prima o poi essi, o i loro eredi, finiscono per pagarne gli errori, con gli interessi.

Ma dovrebbero pure riflettere quegli avvocati creativi che piegano le disposizioni dell’annullamento in autotutela ex art. 21-nonies L. 241/1990 e s.m.i. ad interpretazioni sofistiche pur di giustificare l’ingiustificabile ovverosia il rifiuto dei dirigenti comunali di esercitare il doveroso potere di annullamento dei titoli abilitativi sostanzialmente illegittimi (che in realtà sono nulli, tanto che il legislatore non ammette nemmeno il recupero a legalità a mezzo del permesso a sanatoria oppure mediante il pagamento di una sanzione ex art. 38 T.U.E. avente i medesimi effetti).

Un rifiuto che – specie se opposto a seguito di una circostanziata ed inconfutabile denuncia di Cittadini ex art. 27, c. 3, del D.P.R. 380/2001 – integra un macroscopico abuso d’ufficio, atteso che consente all’autore di un illecito di mantenere i proventi di un’attività contra ius (cfr. Cons. Stato, n. 5571/2013: “… l’omessa vigilanza del Comune sul rispetto delle norme urbanistiche in tema di fascia di rispetto, come l’omesso esercizio dello “ius penitendi” in caso di permessi rilasciati in loro violazione, finirebbero per tradursi a favore del privato nella monetizzazione di condotte edilizie assolutamente non conformi alla legge.”).

Un abuso d’ufficio che si appalesa in tutta la sua ovvietà in considerazione: del fatto che alcun spauracchio di danno, come abbiamo visto, può essere concretamente paventato dall’intestatario di un titolo abilitativo in contrasto con la sostanziale disciplina urbanistico edilizia; del fatto che alcun legittimo affidamento può essere riconosciuto a colui il quale non si è avvalso del cd. rooling previsto dall’art. 5, c. 2, lett. b) del T.U.E.; ed infine del fatto che anche l’acquirente di un bene frutto di attività illecita non può dirsi incolpevole per non essersi appropinquato all’acquisto con la dovuta diligenza (cfr. ex multis: Cass. Penale, Sez. III, n. 51710/2013: “… i soggetti che acquistano devono essere cauti e diligenti nell’acquisire conoscenza delle previsioni urbanistiche e pianificatorie di zona: “il compratore che omette di acquisire ogni prudente informazione circa la legittimità dell’acquisto si pone colposamente in una situazione di inconsapevolezza che fornisce, comunque, un determinante contributo causale all’attività illecita del venditore” così, testualmente, Cass., Sez. 3, 2.10.2008, n. 37472, Belloi.”).

In conclusione, l’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies L. 241/1990 e s.m.i. può essere evitato unicamente allorquando, in ordine ai profili contestati o seriamente contestabili, l’intestatario del titolo abilitativo abbia svolto il cd. rooling. Mentre la demolizione dell’opera abusiva può essere evitata solamente se funzionale a preminenti scopi pubblici e previo suo recupero a mezzo di variazione degli strumenti urbanistici.

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La sentenza n. 1595 depositata il 16/10/2014 dal Collegio giudicante (Pres. Nicolosi, Est. Giani, Cons. Di Santo) della Sez. III del TAR per la Toscana è incredibile per il suo manifesto contrasto non solo con i superiori pacifici approdi giurisprudenziali, ma finanche anche con il precedente della stessa III^ Sezione, sentenza n. 1479 depositata il 27/8/2012 (Pres. Nicolosi, Est. Graziano, Cons. Di Santo).

Essa tratta dell’applicazione dell’art. 38 “Interventi eseguiti in base a permesso annullato” del D.P.R. 380/2001, trasfuso dalla Regione Toscana nell’art. 138 della L.R.T. 1/2005.

Questa è la posizione del Consiglio di Stato:

  1. Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1079 dep. 10/3/2014:

“… Nel caso di annullamento in sede giurisdizionale di una concessione edilizia, considerata illegittima per vizio sostanziale, la p.a. non può ricorrere all’art. 38, d.P.R. n. 380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali o procedurali, poiché la regola posta dal richiamato art. 38, comma 1, si estrinseca nell'operatività della sanzione reale che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall'annullamento del permesso di costruire, non impone alla p.a. un particolare onere di motivazione, ma trae la sua giustificazione dalla legalità violata, onde la sanzione alternativa pecuniaria deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi annullati per vizi formali. (…)”.

  1. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5115 dep. 21/10/2013:

“… L’art. 38 del DPR 6 giugno 2001 n.3890 (Testo unico dell’edilizia) disciplina il regime sanzionatorio applicabile nelle ipotesi in cui l’intervento edilizio sia stato realizzato sulla base di un titolo poi annullato, con la espressa previsione dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria … “ove non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino …” .

La norma è finalizzata ad introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie realizzate conformemente ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, con il chiaro intento di tutelare un certo affidamento del privato, regime che consente la conservazione del bene (Cons. Stato Sez. IV 10/8/2011 n.4770).

Ora nella specie non si può escludere in capo agli interessati una situazione di buona fede, ma il fatto è che nel caso de quo siamo al di fuori del campo operativo della norma sopra illustrata, recante sostanzialmente una forma di sanatoria a formazione progressiva (con la sanzione pecuniaria in luogo della rimozione).

Invero, anche tenuto conto della stessa formulazione letterale della disposizione (“qualora non sia possibile .. la rimozione dei vizi delle procedure amministrative …”), l’effetto, per così dire, sanante della stessa è circoscritto alle sole ipotesi in cui il titolo ad aedificandum sia stato annullato per vizi di carattere formale e procedurale, non essendoci, così, spazio per l’applicazione della sanzione pecuniaria, allorché sia stata acclarata la sussistenza di un vizio di natura sostanziale (Cons. Stato Sez. V 12 maggio 2006 n.2960).

Nella specie, è stata accertata la non conformità della costruzione alle prescrizioni di carattere vincolante recate in materia di normativa antisismica dal D.M. 16/1/1996, laddove per il fabbricato de quo è prevista, in relazione alla larghezza della strada su cui si affaccia (via Vico Vitetta), l’altezza massima consentita di 11 metri, mentre risulta essere stato assentito per 18 metri, con violazione dunque delle disposizioni in questione.

All’uopo appare utile osservare come la prescrizione relativa all’altezza de qua non è uno standard “normale”, nel senso che non riguarda, come per il requisito dell’altezza previsto dall’art. 8 del D.M. n.1444 del 1968, un aspetto squisitamente edilizio della gestione dell’assetto del territorio: qui l’altezza degli edifici viene regolamentata ai fini antisismici, in cui l’elemento in questione ha una sua palese e specifica rilevanza, andando in particolare ad incidere sulla velocità di inclinazione delle strutture del fabbricato e quindi sugli aspetti di sicurezza e di incolumità pubblica sottesi alla normativa dettata dal D.M. del 1996. Questi hanno un pregnanza essenziale in relazione agli interessi che si vanno a proteggere e sono, dunque, assolutamente vincolanti e non suscettibili di qualsiasi deroga.

Stante la natura tecnica del rilievo, il vizio accertato non può non attenere alla costruzione nella sua unitarietà, non essendo scindibile quanto realizzato in conformità all’altezza prescritta ( 11 metri ) e quanto in più eseguito. E siccome “l’alterazione” investe l’edificio nella sua integralità, la costruzione non può comunque essere conservata oltre l’altezza massima consentita con riferimento alla strada su cui si affaccia.

Quanto testè osservato circa la natura e gli effetti del vizio sostanziale rilevato a carico della costruzione rende inammissibile il vizio di difetto di motivazione, pure dedotto nei confronti dell’Amministrazione, per non avere la medesima motivato “circa la possibilità di adottare soluzioni alternative alla ingiunta demolizione”. Non è configurabile per il Comune (e quindi non sussiste onere motivazionale ad ho ) l’esercizio di un potere tecnico-discrezionale sussumibile sotto la figura di una propensione per l’una o l’altra scelta (demolizione o sanzione pecuniaria), perché la stessa è impedita dalla portata assolutamente vincolante dell’anomalia riscontrata, la quale non ammette “sanatoria” sia pure sotto forma di sanzione pecuniaria e neppure una demolizione parziale.

L’Amministrazione dunque, in esecuzione del giudicato in precedenza emesso sul punto da questo Consiglio di Stato, non poteva non adottare le misure “ consequenziali” di ripristino dello stato dei luoghi, senza che potessero residuare spazi di applicazione della norma di favore recata dal citato art. 38 del DPR n.380/2001.”.

Questa era la posizione del TAR per la Toscana, prima che della sentenza in commento:

  1. TAR Toscana, sez. III, n. 1479 dep. 27/8/2012:

“… 2.2. Ad avviso del Collegio la censura è fondata, stante, da un lato, l’interpretazione che dell’art. 38 del T.U. sull’edilizia e della precedente norma di cui all’art. 11 della L. n. 47/1985 ha accreditato la giurisprudenza amministrativa e, dall’altro, l’impossibilità di interpretare l’art. 138 della L. Reg. Toscana n. 1/2005 applicato con il provvedimento impugnato, in frontale contrasto con l’art.38 del D.P.R. 6.12.2001, n. 380.

Orbene, dispone l’art. 38 del D.P.R. 6.12.2001, n. 380, nel disciplinare le conseguenze dell’annullamento del permesso a costruire, che “in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la riduzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione amministrativa pari al valore venale delle opere o di loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio (…) 2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36”. Per poter applicare la sanzione pecuniaria sanante, dunque, deve risultare impossibile la rimozione dei vizi delle procedure o (una volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili) la riduzione in pristino stato.

Analoga disposizione era contenuta nell’art. 11 della L. n. 47/1985, riproposta del T.U. sull’edilizia con la riportata norma dell’art. 38.

Sul punto rammenta il Collegio che la giurisprudenza, pacificamente, ha da sempre circoscritto i confini dell’applicazione della norma de qua alle sole ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata sussistenza di un vizio sostanziale (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.5.2006, n. 2960; ID, 26.5.2003, n. 2849).

Il Giudice d’appello ha al riguardo chiarito che “in caso di annullamento giurisdizionale di concessione edilizia illegittimamente rilasciata il Comune, sul quale incombe l’obbligo di ripristinare l’ordine violato, deve valutare se ingiungere la demolizione dell’edificio già realizzato o applicare una sanzione pecuniaria, a seconda che l’illegittimità della costruzione già eseguita sia conseguente a vizi di carattere sostanziale, per inosservanza di prescrizioni urbanistiche, ovvero a vizi formali dell’iter procedimentale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.7.2008, n. 3772)”.

Più di recente si è ribadito che “La regola immanente all’art. 38, comma 1 del D.P.R. n. 380 del 2001 è rappresentata dall’operatività della sanzione reale, che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (…) non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale (…) La sanzione alternativa pecuniaria, ex art. 38, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi annullati per vizi formali e non anche sostanziali”; ulteriormente precisandosi che “inoltre l’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è stata prevista dalla citata disposizione avendo riguardo all’ipotesi in cui soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua parte legittima del fabbricato” (T.A.R. Liguria, Sez. I, 5.2.2011, n. 235; T.A.R. Campania – Napoli, Sez. VIII, 10.9.2010, n. 17398).

2.3. A parere del Collegio suffraga la delineata limitazione dell’operatività dell’art. 38 del T.U. sull’edilizia alle sole ipotesi di annullamento di titoli abitativi edilizi disposto per ragioni procedurali e vizi formali, il tenore testuale della norma che contempla l’irrogazione della sanzione pecuniaria “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative”. Il riferimento esplicito all’accertamento dell’impossibilità di rimuovere i“vizi delle procedure amministrative” àncora infatti il meccanismo surrogatorio insito nell’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria reale alla previa valutazione comunale dell’impossibilità di rimuovere i vizi procedurali che hanno condotto al rilascio del permesso di costruire .

Non prevede la norma l’operatività della attitudine surrogatoria attribuito all’irrogazione della sanzione pecuniaria anche alla impossibilità di rimozione di vizi non afferenti alle procedure amministrative ma aventi invece natura sostanziale.

Condivide pertanto e fa propria la Sezione l’interpretazione giurisprudenziale sopra ricordata secondo la quale l’art. 38 del T.U. sull’edilizia e il conseguente meccanismo sostitutivo del permesso di costruire attribuito all’irrogazione e susseguente corresponsione della sanzione pecuniaria può trovare applicazione alle sole ipotesi in cu il titolo edilizio sia stato annullato per vizi procedurali e formali ma non anche a quelle in cui l’annullamento sia stato disposto per ragioni e vizi sostanziali.

A parere del Collegio non può essere seguita la tesi del Comune per cui “ai sensi della legge regionale la regola è data dall’applicazione della sanzione pecuniaria” e che dunque “l’ipotesi ordinaria in tutti i casi di annullamento del permesso di costruire è l’applicazione di una sanzione pecuniaria”, ragion per cui la riduzione in pristino sarebbe prevista solo in via residuale e segnatamente solo per l’ipotesi in cui l’opera, in base a motivata valutazione, risulti contrastare con rilevanti interessi pubblici e sussista anche la concreta possibilità di demolirla (pag. 7, memoria del 7.4.2012).

Una simile regola di generale e generalizzata applicazione della sanzione pecuniaria ad effetto sanante un titolo edilizio illegittimamente rilasciato vanificherebbe, infatti, la pronuncia annullatoria del Giudice e l’effettività, oltre che l’utilità, della tutela giurisdizionale conseguita dal privato attraverso l’accoglimento del ricorso e non è consentita dall’ordinamento.

2.3. Vero è che il disposto dell’art. 138 della L. Reg. Toscana n. 1/2005 diverge dalla norma di cui all’art. 38 del Testo Unico sull’edilizia poiché fissa la regola dell’applicazione della sanzione pecuniaria per il caso in cui “non sia possibile la rimozione dei vizi riscontrati”, genericamente, e non già dei “vizi delle procedure amministrative” prevedendo altresì che in tal caso la sanzione pecuniaria va senz’altro applicata e non quindi – accertato che non è possibile rimuovere i vizi procedurali - solo ove la restituzione in pristino non sia possibile, come invece stabilisce l’art. 38 del T.U.

In ossequio alla norma statale dunque, come precisato più sopra, il Dirigente, a seguito dell’annullamento di un permesso di costruire, dopo aver motivatamente valutato che non sia possibile rimuovere i vizi delle procedure amministrative deve anche contestualmente valutare se la riduzione in pristino sia tecnicamente possibile e potrà applicare la sanzione pecuniaria qualora non sia possibile o eliminare il vizio o ridurre in pristino l’immobile.

Il Collegio è dell’avviso che occorre fornire della norma regionale un’interpretazione conforme al dettato dell’art. 38 del T.U. sull’edilizia, poiché altrimenti la fonte regionale non rispetterebbe un principio fondamentale e generale del testo unico, debordando dai limiti entro i quali la potestà legislativa regionale in materia edilizia, ancorché concorrente, può dispiegarsi ai sensi dell’art.2 dello stesso, anche in combinato disposto con l’art. 1, ossia “nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico” (art. 2, comma 1 cit.).

E non v’è dubbio che la natura di principio fondamentale va riconosciuta alle disposizioni scolpite nell’art. 38 del Testo Unico, atteso che esse, disciplinando le conseguenze dell’annullamento del permesso di costruire, sono atte ad incidere sugli effetti della pronuncia del Giudice sull’attività amministrativa esecutiva e, in ultima analisi, sulla stessa effettività della tutela giurisdizionale.

Ma la delineata natura di norma di principio va conferita all’art. 38 in disamina anche considerando che la norma introduce, per il tramite della previsione della conservazione dell’immobile realizzato in base a permesso illegittimo e come tale annullato, un titolo edilizio in sanatoria a formazione progressiva, che si perfeziona con la corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata (art. 38, comma 2 cit.). Non si richiedono particolari sforzi interpretativi per affermare che il legislatore regionale non può disciplinare il permesso di costruire in sanatoria o addirittura coniarne uno disancorato dai rigorosi presupposti fissati dall’art. 38 del Testo unico, attraverso la dilatazione del meccanismo sanante recato da detta norma e che conseguirebbe all’applicazione indiscriminata dell’art. 138, L.Reg. Tosc. N. 1/2005 non corretta alla luce della norma statale e dunque con essa in linea con la norma statale.

L’art. 138 della L.Reg.Toscana va dunque interpretato in armonia ed integrato con l’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001. Là dove la prima norma fa riferimento ai “vizi riscontrati”, gli stessi devono essere intesi come limitati ai “vizi delle procedure amministrative” di cui è parola all’art. 38, comma 1 del Testo unico.

La sanzione pecuniaria sarà applicata quindi solo ove non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la riduzione in pristino, mentre di fronte a un annullamento del permesso di costruire determinato dall’accertamento di un vizio sostanziale, al Dirigente è preclusa qualunque valutazione, tranne quella se la riduzione in pristino sia possibile o meno.

In caso di annullamento del titolo pronunciato per vizi delle procedure amministrative, dunque – ma ciò non è nel caso all’esame - una volta accertato in base a motivata valutazione che non è possibile rimuovere gli stessi o procedere alla riduzione in pristino, il Dirigente applica la sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite.

2.4. Facendo applicazione dei tratteggiati principi al caso in disamina, rileva il Collegio che il Comune di Montecatini non poteva procedere ad applicare la sanzione pecuniaria irrogata con l’impugnato provvedimento, atteso che il permesso di costruire n. 0388/2003 rilasciato al controinteressato è stato dalla Sezione annullato, con sentenza poi confermata in appello, non solo per l’acclarata mancata acquisizione del consenso dei ricorrenti comproprietari dell’edificio interessato dai lavori, bensì anche, in accoglimento del secondo motivo dell’originario ricorso, perché si è negata la natura di volume tecnico alla parte di volume addossata sulla parte nord del fabbricato, a comune con i ricorrenti, che era stata assentita dal Comune in violazione della norma locale che nella zona (agricola) non ammetteva la realizzazione di nuovi volumi tranne quelli meramente tecnici.

Trattasi di un vizio sostanziale che non poteva consentire l’applicazione del regime surrogatorio alternativo fondato sulla sanzione pecuniaria conseguente all’annullamento del titolo edilizio. (…)”.

Una sentenza con cui cozza, oggi, il ripensamento del TAR per la Toscana con la sentenza n. 1595/2014:

“… Ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15 del 2005) “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati”. Ritiene il Collegio che nella specie sussistessero tutti i presupposti previsti dalla norma (ulteriori rispetto alla già accertata illegittimità dell’atto da annullare). Il profilo dell’interesse pubblico, idoneo a sorreggere l’adottato atto di annullamento d’ufficio, è sicuramente esistente e ben delineato dall’Amministrazione nel provvedimento impugnato che evidenzia la “necessità di impedire la compromissione del territorio considerato che il permesso di costruire in esame è analogo a tanti altri, affetti dai medesimi vizi, sì che la mole, la diffusività e la ripetitività degli interventi abusivi complessivamente considerati appare tale da sconvolgere l’assetto della zone agricole”. Si tratta senza dubbio di interesse pubblico rilevante e di forte consistenza, tale da risultare prevalente, nel bilanciamento imposto dalla norma sull’annullamento d’ufficio, sui contrapposti interessi privati alla conservazione dei titoli illegittimi, tanto più che poi l’Amministrazione ha comunque valorizzato tali ultimi interessi attraverso l’applicazione non già della sanzione demolitoria delle opere illegittime bensì soltanto la sanzione amministrativa. Né pare che sia violata la previsione legislativa sulla necessaria adozione dell’atto di annullamento d’ufficio entro un “termine ragionevole”, risultando che l’Amministrazione, una volta partita l’inchiesta penale con il sequestro preventivo del cantiere nel febbraio 2009, si è mossa sollecitamente adottando l’ordinanza di sospensione n. 78 in data 12.3.2009 e quindi l’atto di annullamento d’ufficio qui gravato il 7.12.2009. D’altra parte un tempo complessivamente inferiore ai due anni tra rilascio del titolo edilizio e suo annullamento, in presenza di fattispecie complesse come quella qui esaminata, non può dirsi irragionevole.

(…)

21 – Con il ricorso r.g. n. 2190 del 2010 la società ricorrente impugna il provvedimento del Comune di Montespertoli prot.n. 26793 del 22 settembre 2010, che ha infine determinato la sanzione pecuniaria dovuta dalla società medesima in € 929.491,00.

(…)

23 – Con il primo mezzo di cui al ricorso r.g. n. 2190 del 2010 parte ricorrente contesta il provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria sul rilievo che in difetto di dolo o colpa da parte della società ricorrente, pacifico nella misura in cui l’Amministrazione ha riconosciuto la sua buona fede, non poteva essere irrogata alcuna sanzione.

La censura è infondata.

Come la Sezione ha anche recentemente affermato (sentenza n. 1195 del 2013) le sanzioni edilizie, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, hanno carattere ripristinatorio e non punitivo, in quanto sono dirette ad eliminare la situazione obiettivamente antigiuridica conseguente alla realizzazione di opere in contrasto con la disciplina urbanistica o con il titolo edilizio; pertanto oggetto della potestà sanzionatoria è la situazione contra ius e la sanzione è finalizzata a ripristinare l’ordine urbanistico violato, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui essa è destinata (per il carattere speciale della disciplina degli abusi edilizi non rapportabile al sistema generale della legge n. 689 del 1981 cfr. Cons. Stato, sez. 5^, 15.4.2013, n. 2060). Contrariamente a quanto ritenuto da parte ricorrente, il carattere oggettivo, senza che assuma rilievo il profilo soggettivo del dolo e della colpa, vale anche con riferimento alle sanzioni edilizie di carattere pecuniario, tenuto conto della loro funzione compensativa, volta al ripristino dell’ordine giuridico violato, reso esplicito nella specie dalla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo e in alternativa alla sanzione reale di carattere demolitorio.”.

*

Ma il problema – a mio avviso – è che la sanzione pecuniaria non poteva essere irrogata, stante il principio fondamentale di legalità dell’azione amministrativa (e quindi della demolizione delle opere sostanzialmente abusive) ribadito nell’art. 38 D.P.R. 380/2001.

1 No, cari Lettori, non sono impazzito. Mi sto semplicemente calando nel pertugio del giardino di Alice per arrivare nel Paese delle Meraviglie, quello reale chiamato Italia, ove ciò che è non è, e viceversa. Un Paese dell’assurdo ove alle leggi regionali i giudici danno più forza di quelle statali. Dove il Granducato di Toscana vive ancora nei fatti, nonostante siano passati 155 anni dalla perdita dell’indipendenza.

 

2 V. Cons. Stato, n. 5346/2014 in commento.

3 A dire del TAR Toscana.

4 Evidenziazioni dello scrivente, anche in prosieguo.