TAR Marche Sez. I n. 259 del 15 aprile 2016
Urbanistica.Differenza tra centro abitato e nucleo abitato

In mancanza di una definizione legislativa di "centro abitato", per esso può ragionevolmente intendersi una località caratterizzata dalla presenza di case contigue o vicine con interposte strade, piazze e simili o comunque brevi soluzioni di continuità, con servizi o esercizi pubblici costituenti la condizione per una forma autonoma di vita sociale, mentre "nucleo abitato" è una località caratterizzata dalla presenza di case contigue o vicine con almeno cinque famiglie e con interposte strade, sentieri, spiazzi, aie, piccoli orti, piccoli incolti e simili, purché l'intervallo tra casa e casa non superi i 30 metri e sia in ogni modo inferiore a quello intercorrente tra il nucleo stesso e la più vicina delle case sparse e purché priva del luogo di raccolta che caratterizza il centro abitato. Pertanto, non può considerarsi centro abitato, bensì semplicemente nucleo abitato e come tale non perimetrabile, un aggregato di case pur continuo e con interposte strade e piazze, che tuttavia non costituiscano luogo di raccolta per mancanza di servizi o esercizi pubblici

N. 00259/2016 REG.PROV.COLL.

N. 00777/2014 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 777 del 2014, proposto da:
Albanesi Giancarlo, Albanesi Angelo, Bernardi Mariano e Mariotti Mario, rappresentati e difesi dall'avv. Patrizia Niccolaini, con domicilio eletto presso il medesimo difensore in Ancona, Via Goito, 3;

contro

Comune di Apiro, rappresentato e difeso dagli avv.ti Ranieri Felici e Michele Casali, con domicilio eletto presso l’avv. Giovanni Carotti in Ancona, corso Mazzini, 160;
geom. Carlo Piersigilli, in qualità di responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia presso il Comune di Apiro, n.c.;

nei confronti di

Pacifico Massacesi, rappresentato e difeso dagli avv.ti Cesare Serrini e Morena Soverchia, con domicilio eletto presso la Segreteria T.A.R. Marche in Ancona, Via della Loggia, 24;

per l'annullamento

- del permesso di costruire n. 10/2014 rilasciato in data 20/05/2014 al signor Pacifico Massaccesi "relativo all'intervento di nuova costruzione, come definito dall'art. 3, comma 1, lett. e1) del D.P.R. n. 380/2001, consistente nell'esecuzione delle seguenti opere: capannone per allevamento avicolo, delle dimensioni lineari di mt. 40,00 x 14,00, già realizzato in base a concessione edilizia n. 64 del 15/12/1998, sito in C.da S. Isidoro, distinto al Catasto Fabbricati al Fg. 9, Particella n. 344 sub 7";

- della nota istruttoria dello Sportello Unico per l'Edilizia del Comune di Apiro in data 29/1/2014;

- del parere igienico sanitario rilasciato dall'Asur Marche - Area Vasta 2, prot. 46412/16/04/2014/ASURAV2/JSDPREV/P/2.250.40;

- del parere rilasciato dal Servizio Ambiente e Agricoltura della Regione Marche n. prot. 0327168/09/05/2014;

- di ogni altro atto o provvedimento presupposto, connesso e conseguente ai provvedimenti impugnati, anche non conosciuti dai ricorrenti;

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Apiro e di Pacifico Massaccesi;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2015 la dott.ssa Simona De Mattia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

FATTO e DIRITTO

I. La vicenda per cui è causa è già nota a questo Tribunale, che si è pronunciato, con sentenza n. 958/2001, sul ricorso proposto dagli odierni ricorrenti avverso il rilascio, al sig. Massaccesi Pacifico, della concessione edilizia n. 64 del 15.12.1998, per la realizzazione di un capannone avicolo con relativi accessori nella frazione San Isidoro del Comune di Apiro.

Il TAR ha accolto il ricorso e la suddetta sentenza è stata confermata in appello con una motivazione in parte diversa (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 4409/2013).

Questo Tribunale si è altresì pronunciato in sede di ottemperanza, dichiarando inammissibile il ricorso proposto dai ricorrenti per l’esecuzione di tali pronunce, ritenendo la competenza del Consiglio di Stato.

Nelle more, è intervenuto un nuovo permesso di costruire in favore del sig. Massaccesi (n. 10 del 20 maggio 2014), rilasciato sulla base di presupposti in parte diversi e tenuto conto dei rilievi sollevati nelle predette pronunce giurisdizionali con riguardo al primo titolo abilitativo. La costruzione oggi ricade in zona urbanistica E (destinata ad attività agro-silvo pastorali), disciplinata dall’art. 58 delle NTA del PRG vigente, adeguato al PPAR ed al PTC approvato nel 2013.

Avverso tale ultimo provvedimento i ricorrenti propongono la presente iniziativa giudiziaria, lamentandone l’illegittimità per le seguenti ragioni:

1) il Comune, nel rilasciare il nuovo permesso, ha considerato che l’unico motivo ostativo rinvenuto nelle precedenti pronunce fosse l’insufficienza della dotazione di fondi agricoli seminativi da parte del Massaccesi, tale da non garantire il rispetto del 25% del fabbisogno alimentare dell’allevamento, come prescritto dall’art. 13 della legge regionale n. 13/1990; pertanto, avendo il Massaccesi provveduto all’affitto di ulteriori terreni, ancorchè non contigui né collegati all’allevamento, l’Amministrazione ha ritenuto che tale ostacolo potesse dirsi superato e, sulla base di tale presupposto, ha rilasciato il nuovo titolo abilitativo.

Parte ricorrente sottolinea, tuttavia, che le pronunce giurisdizionali intervenute nella vicenda non hanno evidenziato solamente tale profilo ostativo, bensì anche irregolarità di tipo edilizio e igienico-sanitario, che non avrebbero comunque consentito la realizzazione dell’allevamento assentito.

Essi sostengono che le caratteristiche dell’allevamento sono di tipo industriale e che il parere reso dall’ASUR espressamente precisa di non prendere in considerazione le norme relative all’appartenenza dell’attività ad allevamenti di tipo industriale.

Il titolo abilitativo impugnato, pertanto, sarebbe elusivo del giudicato.

2) Il nuovo permesso è stato adottato rispetto all’opera già esistente, in applicazione dell’art. 38, comma 1, del DPR n. 380/2001, che consente di ottenere gli stessi effetti di un permesso in sanatoria al pagamento di una sanzione pecuniaria ove non sia più possibile il ripristino dello stato dei luoghi. I ricorrenti, tuttavia, contestano sia la ritenuta impossibilità di ripristino dello status quo ante, sia i presupposti su cui tale permesso si fonda, dal momento che, trattandosi di allevamento industriale, non sarebbe possibile la sua costruzione in zona agricola e neppure l’ampliamento. Posto, infatti, che trattasi di un’industria insalubre, la costruzione non rispetterebbe le altezze minime e le distanze dai centri abitati, né il limite di cubatura.

3) Non sarebbe stato predisposto un piano antinquinamento, necessario per l’allocazione di industrie nocive.

4) Il provvedimento sarebbe carente di motivazione.

Si è costituito in giudizio il Comune di Apiro, che ha preliminarmente eccepito la tardività del ricorso, ritenendo che il dies a quo dell’impugnazione decorra dal ricevimento della nota prot. 3849 del 4.6.2014, adottata in risposta alla diffida del legale dei ricorrenti, in cui si faceva espressa menzione degli estremi del nuovo permesso di costruire in favore del Massaccesi e delle motivazioni che avevano indotto il Comune al suo rilascio. Nel merito, l’Amministrazione eccepisce l’infondatezza del ricorso, richiamando le argomentazioni contenute nella sentenza del Consiglio di Stato n. 4409/2013, a cui il Comune si sarebbe attenuto per sostenere la compatibilità dell’intervento in zona agricola.

Anche il controinteressato Pacifico Massaccesi si è costituito in giudizio, deducendo, in rito, l’inammissibilità e l’improcedibilità del gravame, per essere stato proposto tardivamente e, nel merito, la sua infondatezza.

Nel corso del giudizio e in prossimità dell’udienza pubblica del 10 dicembre 2015, le parti hanno precisato le proprie ragioni depositando memorie difensive.

All’esito della discussione orale, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

II. Il Collegio reputa di poter prescindere dalle eccezioni di inammissibilità e di irricevibilità sollevate dalle parti resistenti, in ragione dell’infondatezza del ricorso nel merito.

1. Preliminarmente, occorre brevemente ripercorrere le considerazioni contenute nelle pronunce di questo TAR (sentenza n. 958/2001) e del Consiglio di Stato (sentenza della V sezione, n. 4409/2013), le cui statuizioni costituiscono le premesse da cui muovere ai fini della presente trattazione; in particolare e in sintesi, è stato affermato quanto segue:

- la mancata indicazione, nella disciplina di Piano, di una zona appositamente prevista per la collocazione di un’industria nociva non impedisce l’assentibilità dell’allevamento avicolo in questione in zona agricola, dal momento che il carattere nocivo di un’industria deve essere accertato in concreto, come postulato sia dal testo unico sulle leggi sanitarie, sia dal programma di fabbricazione del Comune di Apiro; peraltro, le distanze minime imposte dalla disciplina di legge o di piano regolatore, se viene accertata la non pericolosità dell’attività esercitata, possono in ipotesi essere derogate;

- ne consegue, che la realizzazione del manufatto in questione non integra alcuna violazione dello strumento urbanistico comunale;

- ciò posto, quanto alla compatibilità di esso con la disciplina di cui alla legge regionale n. 13/1990 in materia di attività edilizia in zone agricole, l’allevamento avicolo in contestazione non è qualificabile come industria nociva e quindi non ricade nella previsione di cui all’art. 3, comma 3, della legge regionale cit.;

- è indiscutibile che in zona agricola possono essere situati anche allevamenti industriali; tuttavia, essi ricadono nella previsione di cui all’art. 3, comma 3, della L.R. n. 13/1990, e quindi necessitano dell’individuazione di zone specifiche per la loro localizzazione, solo se non rispettano le caratteristiche tipologiche e dimensionali di cui agli artt. 9 e 13 della medesima legge regionale, atteso che il superamento di tali limiti determina, in via presuntiva, la qualificazione di industria nociva;

- entro i limiti tipologici e dimensionali suddetti, invece, vi è solamente un allevamento di tipo industriale, che condivide con quello industriale le tecniche di produzione, ma presenta caratteristiche dimensionali compatibili con la destinazione agricola della zona in cui è destinato a sorgere;

- pertanto, appurato che l’insediamento in questione non può essere considerato un ampliamento di quello preesistente di cui dispone il Massaccesi, sia perché gli ampliamenti consentiti in zona agricola devono essere riferiti a costruzioni o unità produttive agricole circoscrivibili in un ambito spaziale unitario (mentre la preesistente unità aziendale agricola di cui del Massaccesi si trova a distanza di qualche chilometro da quella assentita con il permesso in contestazione), sia perché gli ampliamenti ammessi dalla legge regionale n. 13/1990 sono solo quelli relativi all’attività agricola tradizionalmente intesa, con caratteristiche di non industrialità, per individuare gli allevamenti zootecnici di tipo industriale assentibili occorre far riferimento a due requisiti: in primo luogo, il rispetto del rapporto di 40 quintali di pollame per ettaro di terreno indicato all’art. 9, comma 4, della legge regionale n. 13/1990, che fa rinvio alla legge n. 319/1976, della quale fa, a sua volta, applicazione la delibera del Comitato interministeriale dell’8 maggio 1980; in secondo luogo, il collegamento dell’attività con il fondo, come prescritto dall’art. 13, comma 1, lett. d), della legge regionale n. 13/1990;

- sulla base di tali premesse, le pronunce giurisdizionali di primo e secondo grado hanno accertato, con riferimento all’allevamento in questione, l’insufficiente produttività del fondo agricolo di cui era titolare il Massaccesi rispetto al fabbisogno dei capi; stante la perizia agronomica di parte ricorrente, sul punto non contestata, l’indice comunemente impiegato per stabilire se vi sia una connessione tra fondo ed allevamento è la disponibilità, in azienda, di 538.000 unità foraggiere e di 17,47 ettari di terreno, necessario per coprire il 25% delle esigenze alimentari dell’allevamento.

2. Ciò posto e venendo all’esame del presente ricorso, si osserva quanto segue.

In giurisprudenza vige il principio in base al quale, nell'ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato in sede giurisdizionale a causa di vizi emendabili e, quindi, fuori dei casi di divieto assoluto di edificazione, l'effetto conformativo, che discende dal decisum di annullamento, non comporta per il Comune l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto è stato realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato, tanto evincendosi anche dall'art. 38 del DPR n. 380/2001, che disciplina proprio la sorte delle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire poi annullato (TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 4 aprile 2015, n. 203). La finalità dell'art. 38 cit. è quella di dettare una disciplina che tenga in adeguata considerazione, in ragione degli interessi implicati, la circostanza che l'intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo abilitativo che, solo successivamente, è stato dichiarato illegittimo (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2137).

E’ quanto fatto dall’Amministrazione comunale nel caso in esame, poiché, non sussistendo, nella zona dove è sorto il capannone avicolo in contestazione sulla base del permesso di costruire n. 64 del 15.12.1998, successivamente annullato in sede giurisdizionale, un divieto assoluto di edificazione (come chiarito dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 4409/2013, che pacificamente ha ammesso l’assentibilità dell’intervento in zona E ed ha escluso violazioni dello strumento urbanistico comunale), il nuovo titolo abilitativo è stato rilasciato tenendo conto delle sopravvenienze di fatto e di diritto che hanno consentito l’emendamento dei vizi che avevano connotato il precedente titolo abilitativo.

3. Nello specifico, il permesso oggetto della presente impugnazione è stato rilasciato tenuto conto delle seguenti circostanze:

- l’azienda del Massaccesi ha aumentato la propria disponibilità di fondi al fine di soddisfare la produzione delle unità foraggiere necessarie a coprire almeno il 25% delle esigenze alimentari dell’allevamento; in particolare, a seguito dell’affitto di terreni agricoli per Ha 3.04.00, l’azienda attualmente utilizza Ha 20,40 di terreni seminativi coltivati, producendo unità foraggiere che coprono il 27,3% del fabbisogno annuale degli animali allevati (cfr. dati contenuti nella relazione agronomica del 22.11.2013 a firma del dott. Monaldo Vignati).

Con riguardo a tale specifico aspetto, i ricorrenti lamentano la violazione del giudicato, dal momento che i giudici di secondo grado avrebbero chiaramente evidenziato (confermando le statuizioni rese in primo grado) che la dislocazione dei terreni (distanti tra loro qualche chilometro) non consentirebbe di considerarli come facenti parte di un’unica unità produttiva, essendo invece necessario che essa sia circoscritta in un ambito spaziale unitario.

Sul punto occorre un chiarimento.

Quanto affermato dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 4409/2013 è riferito alla possibilità di ritenere la costruzione in esame come un ampliamento di altra unità aziendale agricola insistente sul medesimo territorio comunale ma a distanza di qualche chilometro; tale evenienza è stata esclusa per le ragioni esposte dai ricorrenti (gli ampliamenti consentiti in zona agricola sono solo quelli riferiti a costruzioni o unità produttive agricole circoscrivibili in un ambito spaziale unitario e la legge regionale n. 13/1990 ammette solo quelli relativi all’attività agricola tradizionalmente intesa, con caratteristiche di non industrialità), ma ciò non preclude che, ai soli fini del calcolo delle unità foraggiere di cui l’azienda dispone producendole in proprio, possa essere utilmente considerata anche la disponibilità di terreni agricoli tra loro dislocati e non contigui.

- L’incremento dei fondi agricoli a disposizione dell’azienda del Massaccesi permette, altresì, l’osservanza dei parametri di cui alla legge n. 319/1976 (disponibilità di terreni agricoli in connessione con l’allevamento tali da soddisfare il rapporto di almeno un ettaro di terreno per ogni 40 quintali di peso vivo di bestiame), vigente al momento del rilascio del primo titolo abilitativo, ma anche l’osservanza dei nuovi parametri fissati dalla disciplina sopravvenuta. Risulta, infatti, rispettato il limite massimo di 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti in un anno per ogni ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo (art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 152/1999, poi sostituito dall’art. 101, comma 7, del d.lgs. n. 152/2006, quest’ultimo a sua volta modificato dall'art. 2, comma 8, del d.lgs. n. 4/2008). In particolare, sempre nella relazione agronomica del dott. Vignati, si legge che il carico di peso vivo medio giornaliero di polli presenti in azienda per ogni ettaro di terreno è di 10,54 q/ha e che il quantitativo di azoto al campo prodotto per ettaro all’anno è di 263,48 Kg/ha.

Occorre precisare che, nonostante l’avvenuta abrogazione delle suddette disposizioni normative, il riferimento, nella relazione agronomica, ai parametri in esse fissati è indicativo per escludere il carattere di industria nociva e per confermare la compatibilità dell’allevamento, in quanto di tipo industriale, con la destinazione agricola della zona.

I dati esposti possono ritenersi attendibili, non essendo stati smentiti da parte dei ricorrenti, se non attraverso una generica contestazione contenuta nella perizia di parte a firma dell’ing. Ermanno Frontaloni, in cui è stato evidenziato l’errore del calcolo operato dall’Amministrazione, che parte dal presupposto che il rapporto peso/superficie possa essere determinato considerando anche i fondi in affitto pervenuti in un secondo momento nella disponibilità del Massaccesi. Ma sul punto il Collegio si è già espresso nel ritenere possibile l’inclusione, per il computo delle unità foraggiere prodotte, di terreni agricoli tra loro dislocati e non contigui. Ai fini dell’assimilabilità delle acque reflue alle acque reflue domestiche, inoltre, lo stesso legislatore, all’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 152/1999 (ora abrogato), aveva valorizzato il dato della connessione funzionale rispetto a quello della contiguità, stabilendo il rapporto tra la disponibilità di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo, per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti in un anno.

Le conclusioni cui è giunto il dott. Vignati nella relazione agronomica versata in atti sono state condivise dalla Regione Marche - Servizio Ambiente e Agricoltura - con nota prot. 327168 del 9 maggio 2014, in cui si accerta che l’allevamento in questione soddisfa i requisiti di allevamento di tipo civile (agricolo) e non industriale, sia in quanto rispetta i parametri fissati dalla citata normativa a tutela delle acque dall’inquinamento, sia perché i fondi aziendali risultano potenzialmente sufficienti a produrre almeno il 25% del mangime necessario.

4. Restano da affrontare gli ulteriori profili di illegittimità sollevati dai ricorrenti e, in particolare, la dedotta violazione degli standard edilizi imposti dall’art. 9 della legge regionale n. 13/1990.

Sul punto si evidenzia che il Tribunale, con ordinanza istruttoria n. 446/2015, aveva richiesto al Comune chiarimenti e documenti - anche a supporto delle argomentazioni difensive in proposito contenute nella memoria depositata dall’Amministrazione in data 23 marzo 2015 - in ordine ai profili di illegittimità del titolo abilitativo n. 64/1998, già accertati con sentenza n. 958/2001 e consistenti nel mancato rispetto della normativa edilizia sulle distanze minime del capannone dalle abitazioni e dai nuclei abitati circostanti e sull’altezza massima consentita, anche attraverso la specificazione delle ragioni della deroga. Il Tribunale, in quella sede, evidenziava, altresì, che la suddetta sentenza, sul punto, non è stata riformata dal Consiglio di Stato ed ha assunto forza di giudicato.

In ottemperanza all’ordinanza istruttoria citata, il Comune di Apiro ha depositato una dettagliata relazione tecnica, completa di elaborati grafici e documenti.

Ciò posto, il Collegio osserva che:

- quanto al rispetto dei limiti di distanza dalle abitazioni, se da un lato la sentenza di questo TAR n. 958/2001 ha affermato che “la distanza tra il capannone ad il nucleo abitativo più consistente della frazione è di 200 metri, mentre l’art. 9, comma 2, lett. b) della legge regionale n. 13 del 1990 fissa la distanza minima dal perimetro dei centri abitati in 500 ml”, dall’altro la pronuncia del Consiglio di Stato n. 4409/2013 ha precisato che “la prescrizione normativa [si riferisce all’art. 216 del R.D. n. 1265/1934] non contiene alcuna fissazione di distanze minime, consentendo quindi che quelle imposte dalla disciplina di legge o di regolamento possano in ipotesi essere derogate, se venga dimostrato che l’esercizio dell’attività non reca pregiudizi alla salute del vicinato”.

La norma suddetta, infatti, addirittura con riferimento alle industrie insalubri della prima classe, vale a dire quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono compresi gli allevamenti di bestiame, prevede solamente che esse siano isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni, ma senza imporre distanze minime.

Pertanto, essendo implicitamente ammesso, in materia igienico-sanitaria, il potere di deroga alle distanze minime, salvi i casi in cui esso sia espressamente vietato, l’Amministrazione, in sede di rilascio del titolo edilizio, deve valutare che l’impatto dell’allevamento sull’ambiente circostante sia contenuto (T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 21 marzo 2015, n. 418).

Nel caso in esame, l’Amministrazione comunale ha acquisito, ai fini del rilascio del nuovo titolo abilitativo, i pareri del Servizio Ambiente e Agricoltura della Regione Marche (prot. n. 327168 del 9 maggio 2014) e del Dipartimento di Prevenzione del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica dell’ASUR Marche – Area Vasta 2 (prot. n. 46412 del 16 aprile 2014), entrambi positivi in merito alla rispondenza dell’allevamento ai requisiti ambientali e igienico-sanitari ed entrambi adottati tenendo conto delle medesime sopravvenienze di fatto e di diritto vagliate dall’Amministrazione ai fini del rilascio del nuovo permesso di costruire. Né a conclusioni diverse si giunge per il fatto che il parere igienico-sanitario dell’ASUR sopra citato “non prende in considerazione le norme derivanti dalla eventuale appartenenza dell’attività agli allevamenti di tipo industriale”, dal momento che detta precisazione nulla toglie al fatto che l’allevamento sia stato ritenuto rispondente ai requisiti igienico-sanitari prescritti. In ogni caso, l’esclusione del carattere nocivo dell’attività è stata valutata dalla Regione Marche nel parere del 9 maggio 2014.

Del resto, nel corso del giudizio non sono stati forniti validi elementi atti a dimostrare il contrario, ad esempio il superamento della soglia consentita di disturbo olfattivo o di esalazioni di gas e vapori; nè il rispetto della distanza minima può assicurare che non vi saranno interferenze odorigene da parte dell’allevamento.

La tutela igienico-sanitaria ammette, invece, forme equivalenti di protezione rispetto a quella data dalla distanza (quali, ad esempio, l’utilizzo di accorgimenti tecnologici e barriere naturali o artificiali), il che consente di garantire, ove possibile, il bilanciamento degli interessi contrapposti.

Per completezza, va ulteriormente precisato, con particolare riferimento al requisito della distanza degli allevamenti dai centri abitati prescritta dall’art. 9 della legge regionale n. 13/1990, che la frazione di San Isidoro, per le sue caratteristiche, non è qualificabile come centro abitato, ma piuttosto come nucleo abitato. La giurisprudenza più recente ha avuto modo di chiarire che, in mancanza di una definizione legislativa di "centro abitato", per esso può ragionevolmente intendersi una località caratterizzata dalla presenza di case contigue o vicine con interposte strade, piazze e simili o comunque brevi soluzioni di continuità, con servizi o esercizi pubblici costituenti la condizione per una forma autonoma di vita sociale, mentre "nucleo abitato" è una località caratterizzata dalla presenza di case contigue o vicine con almeno cinque famiglie e con interposte strade, sentieri, spiazzi, aie, piccoli orti, piccoli incolti e simili, purché l'intervallo tra casa e casa non superi i 30 metri e sia in ogni modo inferiore a quello intercorrente tra il nucleo stesso e la più vicina delle case sparse e purché priva del luogo di raccolta che caratterizza il centro abitato (T.A.R. Perugia (Umbria) sez. I, 15 gennaio 2009, n. 6). Pertanto, non può considerarsi centro abitato, bensì semplicemente nucleo abitato e come tale non perimetrabile, un aggregato di case pur continuo e con interposte strade e piazze, che tuttavia non costituiscano luogo di raccolta per mancanza di servizi o esercizi pubblici.

- Con riguardo ai limiti di altezza imposti dall’art. 9, comma 2, lett. c) della legge regionale n. 13/1990, è sufficiente osservare che la stessa disposizione ammette la possibilità di deroga per soddisfare particolari esigenze tecniche. Nella relazione del SUE datata 4 agosto 2015 sono state adeguatamente evidenziate le esigenze tecniche che hanno indotto l’Amministrazione ad assentire la maggiore altezza di 4,90 ml al colmo (necessità di consentire l’accesso dei mezzi meccanici per le operazioni di pulizia dei locali e di rimozione della pollina e necessità di avere una pendenza della falda del tetto del 28% - addirittura inferiore rispetto a quella ordinaria prevista per le costruzioni in zone collinari - per garantire lo scorrimento della neve).

- Risultano, altresì, rispettati i limiti di volume, calcolato tenendo conto della superficie aziendale contigua ai sensi dell’art. 2 della legge regionale n. 13/1990 e dell’indice di fabbricabilità fondiario di 0,50 mc/mq di cui all’art. 9, comma 2, lett. d) della medesima legge.

5. Le considerazioni che precedono valgono a destituire di fondamento anche gli ultimi due motivi di ricorso; ed invero:

- il carattere non nocivo dell’industria in questione esclude la necessità che venga predisposto un piano anti-inquinamento;

- il provvedimento impugnato risulta adeguatamente motivato, anche per relationem ai documenti che compongono la relativa pratica edilizia nonché alle argomentazioni contenute nella sentenza n. 4409/2013 del Consiglio di Stato.

III. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto.

III.1. Conseguentemente, del pari da respingere è la domanda risarcitoria, peraltro genericamente formulata.

IV. Le spese del giudizio possono essere compensate tra le parti avuto riguardo alla peculiarità della vicenda e alla complessità delle questioni.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Ancona nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2015 con l'intervento dei magistrati:

 

Franco Bianchi, Presidente

Giovanni Ruiu, Consigliere

Simona De Mattia, Primo Referendario, Estensore

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 15/04/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)