Presidente: Teresi A. Estensore: Lombardi AM. Imputato: Ranzuglia.
(Rigetta, App. Ancona, 24 Novembre 2005)
ACQUE - Testo unico delle leggi sulle opere idrauliche R.D. 523 del 1904 - Divieti di cui all'art. 96 Comma primo lett. f) - Reato di pericolo - Ragioni.
Il reato di cui all'artt. 96 sub f) del R.D. 25 luglio 1904 n. 523 che vieta le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località ed, in mancanza di esse, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi, ha natura di reato di pericolo sicchè, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. TERESI Alfredo - Presidente - del 21/09/2006
Dott. MIRANDA Vincenzo - Consigliere - SENTENZA
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - N. 1436
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere - N. 5080/2006
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Avv. LEONARDI Alberto, difensore di fiducia di RANZUGLIA Remo, n. a
Treia il 29.4.1948;
avverso la sentenza in data 24.11.2005 della Corte di Appello di
Ancona, con la quale a conferma di quella del Tribunale di Camerino
in data 24.2.2004, venne condannato alla pena di giorni dodici di
arresto ed Euro 50,00 di ammenda, pena sospesa, quale colpevole del
reato di cui al R.D. 25 luglio 1904, n. 523, artt. 93 e 96, alla L.
20 marzo 1865, n. 2248, art. 374, all. F, in relazione al R.D. 28
maggio 1931, n. 601, art. 1;
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in Pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. LOMBARDI
Alfredo Maria;
Udito il P.M., in persona del Sost. Procuratore Generale Dott.
CONSOLO Santi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Ancona ha confermato
la pronuncia di colpevolezza di Ranzuglia Remo in ordine al reato di
cui al R.D. 25 luglio 1904, n 523, artt. 93 e 96, alla L. 20 marzo
1865, n. 2248, art. 374, all. F, in relazione al R.D. 28 maggio 1931,
n. 601, art. 1, ascrittagli, perché, quale legale rappresentante
della ditta Sicit S.P.A., effettuava lavori di movimento terra per
una lunghezza di mt. 47, nonché il prolungamento di muri di sostegno
in cemento armato ad una distanza inferiore ai mt. 10 dalla sponda
destra del corso d'acqua denominato Fosso S. Andrea, trattandosi di
opere non eseguibili in modo assoluto.
La Corte territoriale ha rigettato i motivi di gravame con i quali
l'appellante aveva dedotto di essere in possesso di un'autorizzazione
in sanatoria per l'esecuzione di difese spondiali lungo il Fosso S.
Andrea, nonché l'esistenza di una servitù di passaggio su una
striscia di terreno latistante il corso d'acqua, per il cui recupero
erano stati eseguiti i lavori, ed, infine, che gli interventi avevano
determinato un miglioramento delle difese spondiali, chiedendone la
verificazione mediante un accertamento peritale.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell'imputato,
che la denuncia con due motivi di gravame.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente denuncia la
violazione ed errata applicazione del R.D. 25 luglio 1904, n. 523,
art. 57 e art. 58, comma 2.
Si osserva che le disposizioni citate "mentre assoggettano al
controllo della P.A. i progetti per la modificazione degli argini e
per costruzioni e modificazioni di altre opere, di qualsiasi genere,
che possano direttamente o indirettamente influire sul regime dei
corsi d'acqua ecc..., consentono un'eccezione per le opere eseguite
dai privati per semplice difesa aderente alle sponde dei loro beni,
che non alterano in alcun modo il regime dell'alveo".
Si deduce, quindi, che tali principi di diritto sono stati
puntualmente applicati da questa Suprema Corte nella pronuncia del
12.5.1994 n. 5633, con la quale si è affermata la non punibilità di
una condotta carente di idoneità a recare pregiudizio all'interesse
protetto dalla norma, mentre nel caso in esame i giudici di merito
non hanno tenuto conto del fatto che i lavori eseguiti costituivano
opera migliorativa della difesa spondiale.
Con il secondo mezzo di annullamento si denuncia, ai sensi dell'art.
606 c.p.p., comma 1, lett. d), la mancata ammissione, senza adeguata
motivazione, di un accertamento peritale tendente a comprovare la
natura di opere migliorative e di difesa spondiale da ravvisarsi
nell'intervento posto in essere dall'imputato sull'argine del Fosso
S. Andrea.
Il ricorso non è fondato.
Rileva preliminarmente la Corte che con ordinanza emessa in udienza
è stata disposta la trattazione del processo, malgrado la
dichiarazione del difensore, trasmessa a mezzo fax, di adesione alla
astensione dalle udienze essendo imminente la prescrizione del reato,
destinata a verificarsi entro il termine indicato nell'art. 4 n. 1
lett. a) del Codice di autoregolamentazione adottato dalla
Commissione di Garanzia in data 4.7.2002, con la conseguenza che nel
caso in esame non è consentita l'astensione.
Osserva la Corte in ordine al primo motivo di gravame che la sentenza
citata dal ricorrente si riferisce alla fattispecie di cui al R.D. 25
luglio 1904, n. 523, art. 96, comma 1, lett. g), ai sensi del cui
disposto è sanzionata l'esecuzione di "qualunque opera o fatto che
possa alterare lo stato la forma, le dimensioni, la resistenza e la
convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori
come sopra, e manufatti attinenti".
Si tratta con tutta evidenza di un'ipotesi di reato di danno, sicché
la giurisprudenza citata dal ricorrente non ha fatto altro che
evidenziare la necessità di un concreto accertamento del danno
arrecato agli argini e loro accessori, dovendosi escludere la
sussistenza del reato ogniqualvolta l'esecuzione delle opere non
abbia alterato in alcun modo il regime del corso d'acqua.
La sentenza impugnata ha, invece, affermato la colpevolezza
dell'imputato per la diversa fattispecie contravvenzionale di cui al
R.D. 25 luglio 1904, n. 523, art. 96, comma 1, lett. f), ai sensi del
cui disposto sono vietate in modo assoluto "le piantagioni di alberi
e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a
distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore
di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località,
ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro
per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le
fabbriche e per gli scavi.
Si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, essendo puniti
comportamenti ritenuti dal legislatore potenzialmente lesivi
dell'assetto idrogeologico del territorio e, quindi, del
corrispondente interesse pubblico, sicché la fattispecie
contravvenzionale viene integrata dalla mera commissione dei fatti
vietati dalla norma.
Orbene, la esecuzione delle opere di cui alla contestazione nella
specie ha costituito oggetto di puntuale accertamento nella sede di
merito, mentre non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita
abbia altresì recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle
sue sponde, risultando peraltro evidente per l'entità di tali opere
la loro potenziale offensività.
Il rigetto del primo motivo di gravame si palesa assorbente delle
censure formulate con il secondo, risultando alla luce di quanto
esposto la irrilevanza dell'accertamento peritale richiesto al fine
di escludere la colpevolezza dell'imputato.
A proposito di tale motivo di gravame, peraltro, si deve anche
osservare che la perizia non costituisce mezzo di prova nella
disponibilità delle parti, sicché la mancata ammissione della
stessa non è, in ogni caso, censurabile ai sensi dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. d).
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al rigetto dell'impugnazione segue la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 21 settembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2006