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Sez. 3, Sentenza n. 38748 del 11/06/2004 Ud. (dep. 05/10/2004 ) Rv. 229615
Presidente: Savignano G. Estensore: Onorato P. Relatore: Onorato P. Imputato: Mainiero ed altri. P.M. Passacantando G. (Parz. Diff.)
(Rigetta, Trib. Benevento, 26 Novembre 2003)
PARTE CIVILE (Cod. proc. pen. 1988) - ENTI A ASSOCIAZIONI RAPPRESENTATIVI - Associazioni ambientaliste - Azioni risarcitorie di competenza degli enti locali - Proponibilità - Fondamento.
CON MOTIVAZIONE

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Massima (Fonte CED Cassazione)
Le associazioni di protezione ambientale riconosciute ai sensi dell'art. 13 della legge 6 luglio 1986 n. 349 possono costituirsi parte civile proponendo le azioni risarcitorie conseguenti a danno ambientale che spettino agli enti locali territoriali, ai sensi dell'art. 4, comma terzo, della legge 3 agosto 1995 n. 265, come sostituito dall'art. 9, comma terzo, del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, atteso che ai sensi dell'art. 18 della citata legge n. 349 del 1986 qualunque fatto doloso o colposo che arrechi danno all'ambiente o ad uno dei suoi componenti essenziali fa sorgere il diritto al risarcimento nei confronti dello Stato e degli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo.



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Sez. 3, Sentenza n.38748 del2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. SAVIGNANO Giuseppe - Presidente - del 11/06/2004
Dott. ZUMBO Antonio - Consigliere - SENTENZA
Dott. ONORATO Pierluigi - est. Consigliere - N. 1288
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - N. 10097/2004
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) MAINIERO Giovanni, nato a Benevento il 12.6.1973;
2) DE GREGORIO Giuseppe, nato a Benevento il 18.2.1979;
3) MANSOLINO Rocco Giovanni, nato a Castelfranco in Miscano (BN) il 24.6.1956;
avverso la sentenza resa il 26.11.2003 dal tribunale monocratico di Benevento;
Vista la sentenza denunciata e il ricorso;
Udita la relazione svolta in udienza dal Consigliere Dr. Pierluigi Onorato;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Passacantando Guglielmo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso, previa correzione dell'errore materiale;
Udito il difensore della parte civile, avv. Domenico Battista, in sostituzione dell'avv. Alessio Petretti, che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata;
Udito il difensore dell'imputato, avv. Fabio Lanni, che ha insistito nel ricorso,
Osserva:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 - Con sentenza del 26.11.2003 il tribunale monocratico di Benevento ha dichiarato Giovanni Mainiero, Giuseppe de Gregorio e Rocco Giovanni Mansolino colpevoli del reato di cui agli artt. 21 lett. r) e 30 lett. h) legge 157/1992, per avere - in concorso tra loro - esercitato la caccia con un richiamo elettroacustico vietato, in Castelfranco in Miscano il 30.9.2001, e per l'effetto, concesse le attenuanti generiche, li ha condannati singolarmente alla pena di _ 7.000 di ammenda e solidalmente al risarcimento dei danni a favore della parte civile WWF Italia, equitativamente liquidati in E. 1.000. Ha anche ordinato la confisca e la distruzione dell'apparecchio elettroacustico in sequestro.
Dopo aver analiticamente richiamato le deposizioni dei testi e gli esami degli imputati, il giudice ha osservato che le dichiarazioni rese dagli agenti intervenuti Paoletti ed Esposito, dipendenti della polizia provinciale, delegata al servizio di controllo sul territorio, erano assolutamente univoche e attendibili. A seguito della segnalazione telefonica di un cittadino, i medesimi si erano recati sul posto dove avevano sentito in funzione un richiamo acustico per le quaglie e avevano constatato che i tre imputati stavano cacciando, esplodendo alcuni colpi di fucile. Avvicinatisi ai tre, li avevano visti ritornare alle loro autovetture, e avevano notato l'apparecchio elettroacustico ormai spento (cioè col timer disattivato) sistemato sul sedile posteriore di un'autovettura in uso al Mansolino. Avevano quindi fermato i tre mentre avevano ancora il fucile in spalla.
A fronte di queste dichiarazioni (avvalorate anche da quelle di Lorenzo Petruccelli) non era credibile la versione difensiva degli imputati, secondo cui essi non sapevano dell'esistenza dell'apparecchio elettroacustico collocato sul sedile posteriore dell'autovettura di proprietà della sorella del Mansolino (e usata da tutti), e inoltre non avevano ancora iniziato a cacciare, tanto che i fucili erano ancora dentro le custodie, salvo quello del De Gregorio, che l'aveva in spalla ma scarico.
2- Il difensore degli imputati ha proposto ricorso per cassazione, deducendo sette motivi a sostegno. In sintesi lamenta:
2.1 - violazione dell'art. 17 c.p.p., giacché il giudice doveva procedere alla riunione del presente processo con quello iniziato a carico degli agenti verbalizzanti in seguito alla denuncia sporta dagli stessi imputati per abuso d'ufficio e danneggiamento, connessi ai fatti di causa;
2.2 - violazione dell'art. 76 c.p.p., giacché il WWF Italia non doveva essere ammesso come parte civile, posto che nel comune di Castelfranco in Miscano non esiste alcuna Oasi di Protezione;
2.3 - violazione dell'art. 210 c.p.p. perché gli agenti Paoletti ed Esposito dovevano essere sentiti come imputati in processo connesso, con la conseguenza che la loro testimonianza, avvenuta senza il rispetto delle regole di cui allo stesso art. 210, era nulla e inutilizzabile;
2.4 - violazione degli artt. 12 e 13 legge 157/1992, nonché dell'art. 32, comma 1^, lett., f) L.R. campana n. 8/1996, posto che gli imputati, avendo i fucili in auto o scarichi, non erano in atteggiamento venatorio, e non avevano sparato, tanto è vero che gli agenti non trovarono alcun bossolo;
2.5 - inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, giacché non esiste alcuna norma che vieti la vendita degli apparecchi elettroacustici (nella specie un semplice mangianastri), essendo mezzo che può essere utilizzato a fini didattici e anche per allenamento;
2.6 - ancora inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto
nell'applicazione della legge penale, giacché gli agenti di polizia Paoletti ed Esposito hanno dichiarato il falso per giustificare le loro criminose azioni;
2.7 - in via subordinata inosservanza dell'art. 30 lett. h) legge 157/1992 e mancanza o manifesta illogicità di motivazione, laddove la sentenza impugnata ha applicato una pena superiore a quella edittale.
Chiede l'annullamento della sentenza impugnata, in via gradata limitatamente all'azione civile.
Chiede in via ancora gradata la sospensione della esecuzione della condanna civile ex art. 612 c.p.p., sul presupposto del danno grave e irreparabile subito dagli imputati per il grande risalto dato alla vicenda dagli organi di stampa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3 - Va anzitutto affermato che non v'è luogo a provvedere sulla sospensione dell'esecuzione della condanna civile, che per la sua stessa natura processuale non può essere richiesta come conclusione subordinata del ricorso per Cassazione.
Al riguardo questa corte ha precisato che: "in tema di sospensione dell'esecuzione della condanna civile da parte della Cassazione, per la relativa pronunzia da adottarsi con ordinanza in camera di consiglio, si esige una richiesta di carattere interlocutorio, da introdursi "medio tempore", in attesa della decisione del ricorso. Ne consegue che deve ritenersi non correttamente impostata secondo i termini voluti dalla legge una richiesta avanzata nella forma di conclusione terminativa da esaminarsi solo in sede di decisione del ricorso. (Cass. Sez. 5^, sent. n. 1471 del 12-02-1992, Benevento, rv 189083). Tutto ciò senza considerare che nel caso di specie manca con tutta evidenza anche il presupposto di merito della sospensione, e cioè il "grave e irreparabile danno", trattandosi di una condanna pecuniaria a carico solidale di tre imputati per una somma non rilevante.
4 - Passando all'esame delle eccezioni di rito, è manifestamente infondata quella relativa alla mancata riunione col procedimento iscritto a carico degli agenti verbalizzanti denunciati dagli stessi imputati (v. n. 2.1).
Da una parte infatti, come ha precisato la costante giurisprudenza di questa corte, la riunione è provvedimento meramente discrezionale, la cui omissione non è causa di nullità (Cass. 10.4.1996, Bascio, rv. 204668; Cass. 23.6.1998, Sbordoni; Cass. 23.1.1997, Marcone). Dall'altra, nel caso di specie, mancavano all'evidenza i due presupposti richiesti dall'art. 17 c.p.p. per far luogo alla riunione, cioè che i due processi pendessero nello stesso stato e grado davanti allo stesso giudice, e che la riunione non determinasse un ritardo nella definizione degli stessi.
4.1 - Ma va anche respinta l'eccezione per l'inosservanza dell'art. 210 c.p.p. (n. 2.3).
Il difensore dei ricorrenti sostiene che gli agenti verbalizzanti Paoletti ed Esposito, sentiti come testimoni, dovevano essere sentiti invece come imputati in processo connesso ai sensi dell'art. 210, e che la mancata osservanza di questa norma ha prodotto l'inutilizzabilità probatoria delle loro testimonianze. Una tesi siffatta, però, sconvolge profondamente la natura dell'istituto di cui trattasi, il quale tende a tutelare l'imputato o l'indagato nel procedimento connesso dal rischio che, deponendo nel processo principale come testimone obbligato a dire la verità, arrivi inconsapevolmente ad autoincriminarsi per il reato connesso o collegato e comunque a deporre contro se stesso.
Tanto è vero che l'ordinamento prevede che egli deve essere avvertito della facoltà di non rispondere e deve essere assistito da un difensore, il quale ha diritto di partecipare all'esame (art. 210, commi 3^ e 4^, nonché comma 6 in relazione all'art. 197 bis, comma 3^, c.p.p.).
Quando, pur esistendone i presupposti, non si procede all'applicazione dell'art. 210 c.p.p., la conseguenza della inosservanza non è la inutilizzabilità della deposizione testimoniale ex art. 191 c.p.p., ma piuttosto la nullità della medesima ex art. 178 lett. c) c.p.p., atteso che la legge non vieta l'esame dell'imputato in processo connesso o collegato, ma semplicemente prescrive che esso sia assunto secondo determinate formalità. Al riguardo infatti la giurisprudenza ha costantemente chiarito che l'inutilizzabilità di una prova ai sensi dell'art. 191, comma 1^, c.p.p. consegue soltanto nei casi in cui quella prova sia stata assunta "in violazione dei divieti stabiliti dalla legge", e non nei casi in cui l'assunzione della prova, pur consentita, sia stata assunta senza l'osservanza delle formalità prescritte: in questi ultimi casi, può trovare applicazione soltanto il diverso istituto delle nullità (Cass. 11.5.1992, Cannarozzo; Cass., 9.6.1994, Lo Cascio, rv. 198961; Cass. 21.2.1997, Mirino, rv. 207271;
Cass. 30.4.1999, Leone, rv. 214162).
Orbene, nel caso di specie, a quanto è dato comprendere dagli atti a disposizione di questa corte, esistevano i presupposti per l'applicazione dell'art. 210 c.p.p., perché gli agenti della polizia provinciale Giancarlo Esposito e Michele Paoletti erano già verosimilmente iscritti nel registro degli indagati di cui all'art. 335 c.p.p. per reati di abuso d'ufficio (art. 323 c.p.) e di danneggiamento (art. 635 c.p.) commessi quanto meno "in occasione" degli altri reati dai medesimi accertati a carico degli odierni imputati, e quindi per reati "collegati" ai sensi dell'art. 371, comma 2^, lett. b), richiamato dall'art. 210, comma 6^, c.p.p.. Ma la mancata applicazione dell'art. 210 non genera la inutilizzahilità delle deposizioni testimoniali dei predetti Esposito e Paoletti - come pretendono i ricorrenti - sibbene una semplice nullità a regime intermedio ai sensi dell'art. 180 c.p.p., che, per essersi verificata durante la istruzione dibattimentale, non può più essere rilevata dopo la deliberazione della sentenza di primo grado. In conclusione, non solo non ricorre un caso di inutilizzabilità, ma sussiste una mera nullità, che da una parte non può essere più rilevata da questo giudice, e dall'altra, a norma dell'art. 182, comma 1^, c.p.p., non può essere eccepita dagli imputati nel presente processo perché non hanno interesse all'osservanza della disposizione violata.
5 - Quanto alla valutazione di merito del materiale probatorio, la sentenza impugnata resiste alle censure dei ricorrenti. Come si evince dalla precedente narrativa, il primo giudice, con una motivazione logica e legittima, ha disatteso la versione difensiva degli imputati, mettendone in evidenza il carattere inverosimile (soprattutto laddove sosteneva che non si erano accorti dell'apparecchio elettroacustico collocato sul sedile posteriore dell'autovettura, sebbene fosse stato sentito in funzione dagli agenti provinciali a una distanza ben maggiore di quella degli stessi imputati) e meramente assertorio (laddove sosteneva che i fucili erano ancora nell'autovettura dentro le relative custodie). Nè sussistono ragioni specifiche per ritenere che gli agenti siano intervenuti senza aver verificato alcuna condotta contravvenzionale e quindi abbiano poi deposto il falso in dibattimento. Neppure si può sostenere che gli imputati non fossero in atteggiamento venatorio a norma dell'art. 12, comma 3^, della legge 11.2.1992 n. 157, atteso che risulta motivatamente accertato che essi si soffermavano con l'apparecchio elettroacustico in funzione per il richiamo delle quaglie in attitudine di ricerca o di attesa della fauna selvatica.
Infine, non ha senso giuridico sostenere che nessuna norma vieta la vendita di simili apparecchi, giacché quella che rileva è soltanto la norma, penalmente sanzionata, che vieta di usarli per cacciare la fauna selvatica (art. 21, lett. r) legge 157/1992). È quindi manifestamente infondato dedurre a tale riguardo l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto per l'applicazione della legge penale. Per queste ragioni vanno disattesi i motivi di ricorso di cui ai numeri 2.4, 2.5 e 2.6.
6 - È inoltre inammissibile il motivo di ricorso con cui si contesta l'ammissione della parte civile e la conseguente violazione dell'art. 76 c.p.p., o più esattamente la legittimatio ad causam del WWF (n. 2.2).
Giova premettere che l'Associazione italiana per il World Wide Fund (WWF ITALIA) si è costituita parte civile entro il termine previsto dall'art. 79 c.p.p. in sostituzione della provincia di Benevento, quale associazione di protezione ambientale riconosciuta ex art. 13 legge 8.7.1986 n. 349 con decreto 26.5.1987 del Ministro dell'Ambiente. Tali associazioni infatti a norma dell'art. 4, comma 3^, legge 3.8.1995 n. 265, ora sostituito dall'art. 9, comma 3^, D.Lgs. 18.8.2000 n. 267, possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. Com'è noto, ai sensi dell'art. 18 della citata legge 349/1986, qualsiasi fatto doloso o colposo in violazione di legge che arrechi danno all'ambiente o a uno dei suoi componenti essenziali (flora, fauna, suolo, acque etc.) obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato nonché degli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo (commi 1^ e 3^). Comunque, ai sensi dell'art. 491 c.p.p. la questione concernente la costituzione di parte civile resta preclusa se - come nel caso di specie - non è proposta subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento delle costituzioni delle parti.
7 - È invece fondata per quanto di ragione la censura attinente alla misura della pena (n. 2.7). Invero, la pena edittale prevista per il contestato reato di cui agli artt. 21 lett. r) e 30 lett. h) della legge 157/1992 è quella dell'ammenda sino a lire 3.000.000, pari ad euro 1.549,37. Il dispositivo della sentenza depositata reca invece la condanna all'ammenda di euro 7.000. Ma si tratta evidentemente di errore materiale, perché la motivazione della stessa sentenza espressamente considera equa la pena di 700 euro di ammenda, che non supera il limite edittale. Trattandosi di errore che non determina nullità del provvedimento deve essere corretto a norma dell'art. 130 c.p.p..
Per il resto il ricorso deve essere rigettato, senza condanna alle spese processuali giacché è stato accolto, sia pure per un profilo diverso da quello prospettato, il motivo relativo alla pena. Essendo stata invece confermata la condanna al risarcimento consegue ex art. 541 c.p.p. la condanna degli imputati al pagamento delle spese a favore della parte civile, liquidate come in dispositivo. P.Q.M.
La Corte di Cassazione dispone correggersi l'errore materiale di cui al dispositivo della sentenza impugnata nel senso che dove è scritto "7.000 euro di ammenda" deve leggersi "700 euro di ammenda"; rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle sole spese di parte civile, che liquida in complessive E. 2.300, di cui E. 2.000 per onorari, oltre I.V.A. e C.A..
Così deciso in Roma, il 11 giugno 2004.
Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2004