Cass. Sez. III n. 50138 del 7 novembre 2018 (Ud 13 set. 2018)
Pres. Savani Est. Reynaud Ric. Di costanzo ed altro
Beni ambientali.Realizzazione, modifica o allargamento di una strada
In tema di tutela delle aree sottoposte a vincoli, non soltanto (a fortiori) la realizzazione di un nuovo tracciato - come nella specie avvenuto - ma anche la modificazione o l'allargamento di una preesistente strada deve essere preceduta dal rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) e dalla autorizzazione dell'autorità proposta alla tutela del vincolo, atteso che trattasi di modificazione ambientale di carattere stabile, in assenza delle quali si configurano i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 e 181 del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell’11 novembre 2016, la Corte d’appello di Napoli ha parzialmente confermato la condanna inflitta agli odierni ricorrenti per i reati di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 181, comma 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (riqualificando in contravvenzione, alla luce della sent. Corte cost. n. 56 del 2016, il delitto di cui al comma 1-bis della citata disposizione, oggetto di iniziale contestazione e riconosciuto in primo grado), per avere realizzato, senza permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica, un tratto di strada con sbancamento del costone in Barano d’Ischia, area dichiarata di notevole interesse pubblico.
2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dei suddetti imputati, deducendo i tre motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3. Con il primo motivo del ricorso si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata per aver ritenuto l’opera realizzata assoggettata a permesso di costruire (anziché a denuncia d’inizio attività) e ad autorizzazione paesaggistica, benché l’intervento non fosse neppure astrattamente idoneo a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale ed in imputazione mancasse addirittura il necessario riferimento al provvedimento dichiarativo del notevole interesse pubblico dell’area.
4. Con ulteriore motivo si deduce ancora vizio di motivazione in ordine alla conferma della condanna della ricorrente Luisa Buono, ritenuta corresponsabile quale mera comproprietaria nonostante l’assenza di prova di un qualsivoglia suo contributo concorsuale materiale o morale all’attività illecita esclusivamente posta in essere dal marito – e comproprietario – Francesco Paolo Di Costanzo.
5. Con l’ultimo motivo si lamenta vizio di motivazione per non essere state concesse a quest’ultimo le circostanze attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena, essendo il medesimo gravato da precedenti penali risalenti nel tempo senza condanne intermedie a pena detentiva per delitto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo, comune ai due ricorrenti, è manifestamente infondato.
La realizzazione ex novo di una strada – nella specie avvenuta mediante sbancamento del costone, con lavori peraltro ancora corso al momento dell’accertamento, come attestato nella sentenza di primo grado – è opera che certamente richiede il rilascio del permesso di costruire, trattandosi di intervento di urbanizzazione realizzato da soggetto diverso dal comune, espressamente considerato quale intervento di nuova costruzione dall’art. 3, comma 1, lett. e.2), d.p.R. 380 del 2001, e che, se ricadente in zona vincolata, richiede altresì l’autorizzazione paesaggistica, in quanto potenzialmente idoneo a modificare stabilmente il paesaggio. Giustamente, pertanto, la sentenza impugnata – pur affermando che l’opera non ha inciso sul carico urbanistico – ha riconosciuto che essa determinava una «modificazione radicale e stabile del territorio, ancor più se vincolato, alterandone in via definitiva l’assetto», ciò che costituisce elemento caratteristico della nuova costruzione, definita dall’art. 3, comma 1, lett. e), del citato decreto ed assoggettata al previo rilascio del permesso di costruire a norma del successivo art. 10, comma 1, lett. a), d.p.R. 380/2001. Proprio l’idoneità dell’intervento ad alterare il paesaggio ha peraltro giustamente indotto il giudice di merito a ritenere che lo stesso fosse subordinato anche al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
La decisione, peraltro, si allinea ad un orientamento interpretativo risalente ed assolutamente consolidato, posto che in tema di tutela delle aree sottoposte a vincoli, non soltanto (a fortiori) la realizzazione di un nuovo tracciato - come nella specie avvenuto - ma anche la modificazione o l'allargamento di una preesistente strada deve essere preceduta dal rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) e dalla autorizzazione dell'autorità proposta alla tutela del vincolo, atteso che trattasi di modificazione ambientale di carattere stabile, in assenza delle quali si configurano i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 e 181 del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Sez. 3, n. 33186 del 03/06/2004, Spano, Rv. 229130; Sez. 3, n. 1442 del 06/11/2012, dep. 2013, Pallone, Rv. 254264).
1.1. Quanto alla mancata indicazione del provvedimento impositivo del vincolo, la decisione di legittimità richiamata in ricorso quale precedente a sostegno della doglianza afferma che in materia di reati ambientali, la fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis, lett. a) del D.Lgs. 42 del 2004 - che punisce gli interventi abusivi che ricadono nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico - è correttamente contestata quando, pur in assenza di esplicita menzione dello specifico provvedimento impositivo del regime vincolistico, sulla base delle altre indicazioni sia comunque possibile risalire al vincolo gravante sull'area (Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca, Rv. 261163). La Corte territoriale dà atto che non è contestato che l’area in questione (zona Maronti di Ischia, pacificamente ricadente in comune di Barano d’Ischia) sia zona vincolata e dichiarata di notevole interesse pubblico. La circostanza è peraltro attestata da un risalente e noto provvedimento normativo al quale il giudice può fare riferimento in base al principio iura novit curia (cfr., per analoga affermazione concernente l'individuazione dei comuni e delle aree sottoposte alla legislazione antisismica definiti da norme poste da fonti secondarie di diritto oggettivo contenute in decreti ministeriali: Sez. 3, n. 5455 del 28/11/2013, dep. 2014, Nincheri e a., Rv. 258301; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, PUleo e a., Rv. 237376) e la cui conoscenza certamente non può incolpevolmente sfuggire al cittadino, tantomeno se, com’è il caso di entrambi ricorrenti, sia nativo di Barano d’Ischia. Ed invero, l’intero territorio di tale comune è stato dichiarato di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 1, lett. d), legge n. 1497 del 1939, con d.m. 19 giugno 1958, pubblicato in G.U. n. 209 del 30 settembre 1958.
2. E’ invece fondato il secondo motivo, riferito alla sola ricorrente Buono.
E’ noto, come questa Corte abbia da tempo composto un contrasto di giurisprudenza che aveva al proposito visto contrapporsi due diversi orientamenti.
Secondo una prima tesi, il proprietario che, essendo consapevole che sul suo terreno viene eseguita da un terzo un’opera abusiva e potendo intervenire, deliberatamente se ne astiene, realizzerebbe una condotta omissiva che renderebbe possibile la commissione dell’abuso, il quale, quindi, sarebbe conseguenza diretta anche della sua omissione, sicché l’ipotesi si inquadrerebbe nella previsione del primo e non del secondo comma dell’art. 40 cod. pen., senza che per l’esistenza del rapporto di causa-effetto occorra un ulteriore obbligo giuridico di impedire l’evento (Sez. 3, 12/07/1999, Cuccì; Sez 3, 14/07/1999 Mareddu e a.; Sez. 3, 14/10/1999, Di Salvo). In ogni caso – aggiungeva la citata giurisprudenza – la posizione di garanzia sarebbe ricavabile dall’art. 42, secondo comma, Cost., nella parte in cui pone limiti al diritto di proprietà ai fini di assicurarne la funzione sociale, sicché la responsabilità deriverebbe comunque dalla generale previsione di cui all’art. 40 cpv. cod. pen. Da ultimo si poneva in luce che in tali situazioni sarebbe comunque ravvisabile un concorso morale, poiché «grazie alla tolleranza del proprietario, l’autore dell’illecito è lasciato nella disponibilità del terreno che gli consente di costruire l’opera senza concessione: il che è assai più che dar luogo ad un rafforzamento della volontà dell’autore» (Sez. 3, 12/07/1999, Cuccì; Sez 3, 14/07/1999 Mareddu e a.; Sez. 3, 14/10/1999, Di Salvo. La conclusione è stata successivamente condivisa da Sez. 3, 12/02/2000, Isaia e Sez. 3, 12/11/2002, Bombaci).
Secondo un opposto orientamento, invece, il proprietario di un’area su cui viene realizzata una costruzione abusiva, il quale sia rimasto estraneo alla relativa attività edificatoria anche in veste di semplice committente dei lavori, non ha – perché non impostogli da alcuna norma di legge – l’obbligo giuridico di impedire o di denunciare l’attività illecita di costruzione abusiva da altri su detta area posta in essere (Sez. 3, 16/05/2000, Molinaro e a.). Anzi, si osservava richiamandosi la previsione oggi contenuta nell’art. 29 d.P.R. 380 del 2001, la legge, «pur indicando alcuni soggetti (il titolare della concessione edilizia, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori) che sono tenuti a garantire la conformità dell’opera alla concessione edilizia e pertanto sono da ritenere responsabili dell’eventuale costruzione in assenza di concessione, tra essi non include il proprietario del terreno. Or se non v’è alcuna norma di legge che impone a carico del proprietario dell’area l’obbligo di impedire la costruzione abusiva, è da escludere che un tale soggetto possa rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto inerte dinanzi all’illecito commesso da altri» (Sez. 3, 04/04/1997, Celi; Sez. 3, 09/01/2003, Costa; nello stesso senso, più di recente, Sez. 3, n. 47083 del 22/11/2007, Tartaglia, Rv. 238471; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625).
Reputa il Collegio che quest’ultima impostazione – divenuta largamente maggioritaria nella giurisprudenza di legittimità – sia senza dubbio condivisibile, poiché l’inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 29 d.P.R. 380 del 2001 non ha rilievo penale. La vera natura di tale ultima disposizione, di fatti, non è quella – assegnatale dalla giurisprudenza tradizionale – di individuare i soggetti attivi di un presunto reato proprio che, salvo specifiche ipotesi, tale invece non è (v., di recente, Sez. 3, Sentenza n. 45146 del 08/10/2015, Fiacchino e a., Rv. 265443), bensì quella di estendere la responsabilità penale delle figure indicate nel caso di omesso, costante, controllo, anche sulla condotta altrui, circa la conformità delle opere in corso d’esecuzione ai parametri di legalità sostanziale contenuti nel titolo, negli strumenti urbanistici, nelle disposizioni di legge. Tale forma di responsabilità non può dunque essere ascritta a soggetti diversi da quelli indicati nell’art. 29 d.P.R. 380/2001, e quindi non può riguardare il (com)proprietario dell’immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi che resti del tutto inerte rispetto all’altrui condotta illecita (nello stesso senso, Sez. 3, n. 33387 del 08/06/2018, Nigro e aa.).
2.1. La conclusione, evidentemente, non esclude la possibile responsabilità penale del proprietario che – pur non essendo committente, costruttore o titolare del permesso di costruire (né, ovviamente, direttore dei lavori) – ponga in essere qualche contributo, materiale o anche soltanto morale, all’attività di illecita trasformazione del territorio posta in essere direttamente da terzi. Laddove, come nella specie con riguardo alla ricorrente Buono, vi sia un vincolo di (parentela o) coniugio con il comproprietario autore dell’abuso – ciò che peraltro spesso accade nella pratica – un consolidato orientamento di questa Corte che va qui ribadito ammette la possibilità di utilizzare elementi di prova indiziaria desunti dalla fattispecie concreta per dimostrare la sussistenza della responsabilità concorsuale.
Si è dunque affermato che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a., Rv. 261522; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253065). Pena la sostanziale applicazione del ripudiato principio della responsabilità formale per il mero possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto quali quelli più sopra indicati (Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanato, Rv. 268014).
2.2. Nel caso di specie, per la signora Buono, la Corte territoriale ha esclusivamente valorizzato il fatto che ella fosse coniugata in regime di comunione legale dei beni con l’autore materiale dell’abuso Di Costanzo – unico rinvenuto sui luoghi - e fosse dunque comproprietaria dei terreni dove la piccola strada fu da questi realizzata. Osservando non era stata offerta alcuna «prova concreta da parte della difesa atta dimostrare la estraneità dell’imputata», si è concluso che, “ragionevolmente”, ella fosse «naturalmente partecipe delle scelte decisionali della famiglia riguardanti beni che erano anche di sua proprietà».
Reputa il Collegio che la motivazione riportata – pur facendo riferimento ad una presunta regola di esperienza – si fondi invece su una mera congettura che incorre nel vizio di manifesta illogicità, vale a dire un’ipotesi fondata su mere possibilità, non verificate in base all' "id quod plerumque accidit" ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica (Sez. 6, n. 36430 del 28/05/2014, Schembri, Rv. 260813; Sez. 6, n. 1686 del 27/11/2013, dep. 2014, Keller, Rv. 258135; Sez. 6, n. 6582 del 13/11/2012, dep. 2013, Cerrito, Rv. 254572). In ogni caso, la motivazione non soddisfa i requisiti richiesti dalla giurisprudenza sopra citata e, in spregio ai principi che si sono qui ribaditi, ricava sostanzialmente la prova del concorso dal titolo di (com)proprietà della ricorrente, né più pregnanti elementi si rinvengono nella conforme sentenza di primo grado (dove la responsabilità viene affermata in base al titolo di comproproprietà ed al fatto che la donna viveva con il marito nel fondo interessato dai lavori abusivi, circostanza, quest’ultima, specificamente contestata nell’atto di appello, dove si sottolinea come la residenza si trovasse nel medesimo comune, ma ad altro indirizzo).
La sentenza deve dunque essere annullata limitatamente alla posizione della ricorrente Luisa Buono e, trattandosi di reati contravvenzionali accertati il 20 dicembre 2012 e prescritti alla data del 20 dicembre 2017 (non risultano, invero, cause di sospensione del corso della prescrizione), non ricorrendo l’evidenza di una causa di proscioglimento più favorevole ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., l’annullamento in parte qua va pronunciato senza rinvio per essere i reati estinti.
3. Il terzo motivo di ricorso è generico e manifestamente infondato.
3.1. Quanto alla doglianza relativa all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, la stessa è incomprensibile, essendo dette circostanze state riconosciute al Costanzo, sin dal giudizio di primo grado, in termini di equivalenza sulla contestata recidiva, profilo che non forma oggetto di specifica contestazione.
3.2. Quanto alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, la sentenza impugnata rileva che l’imputato non può più fruire del beneficio, avendone già goduto due volte. In ricorso – che, sul punto, è dunque generico – non si contesta la circostanza (che trova peraltro conferma nel certificato penale in atti) e ci si limita a richiamare il principio di cui all’art. 164, ultimo comma, cod. pen. e la relativa giurisprudenza, dimenticando che il medesimo non può trovare applicazione laddove la sospensione condizionale sia stata concessa già per due volte, ciò che determinerebbe addirittura l’obbligo di revocare il terzo beneficio illegittimamente concesso ai sensi dell’art. 168, ultimo comma, cod. pen. (cfr., di recente, Sez. 1, n. 12817 del 31/01/2017, Oliveri, Rv. 269516).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto nell’interesse di Francesco Paolo Di Costanzo, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue a carico del medesimo, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla posizione di Buono Luisa per essere i reati estinti per prescrizione.
Dichiara inammissibile il ricorso di Di Costanzo Francesco Paolo, che condanna al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 13 settembre 2018.