OSSERVAZIONI
SULLO SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO
IN MATERIA DI DANNI ALL’AMBIENTE
Ugo Salanitro
Lo schema di decreto legislativo “Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente” è di complessa lettura, in quanto prevede tre diverse procedure, di carattere generale, attraverso le quali il Ministro dell’Ambiente può fare valere la responsabilità per i danni all’ambiente.
A) Nell’articolato del titolo II dello schema del decreto, si dispone che il Ministro dell’Ambiente, nell’esercizio della propria autorità amministrativa, possa in qualsiasi momento adottare direttamente, od ordinare di eseguire all’operatore, le misure di prevenzione e di riparazione necessarie; si prevede, inoltre, una serie di obblighi per l’operatore che ha causato il danno all’ambiente ed in particolare, si impone all’operatore di sostenere i costi assunti dallo Stato per le azioni di prevenzione, riparazione e ripristino.
Siffatta procedura viene configurata come attuativa della direttiva comunitaria 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale. Va però rilevato che - mentre la direttiva comunitaria si riferisce esclusivamente alla responsabilità per i danni ambientali alle acque, al terreno e alla biodiversità causati da operatori economici professionali, i quali rispondono a titolo di responsabilità oggettiva quando la loro attività, per la potenziale lesività alla salute e all’ambiente è regolata da altre direttive comunitarie - nello schema del decreto legislativo, invece, il modello di disciplina di derivazione comunitaria viene esteso a tutte le ipotesi di danno all’ambiente causato da operatori economici professionali, i quali rispondono sempre a titolo di responsabilità oggettiva.
A fronte di tali ampliamenti di tutela, di notevole rilevanza, rispetto alla direttiva comunitaria, va tuttavia segnalato che la procedura de qua, nella parte in cui non garantisce, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, non appare rispettosa dei criteri disposti in sede di legge delega , i quali dovrebbero valere per tutte le ipotesi di responsabilità ambientale e non solo per quelle conseguenti a fatti illeciti dolosi o colposi, e costituisce un arretramento rispetto alle attuali discipline settoriali, ad es., in materia di tutela delle acque.
In effetti, la disciplina attuativa, recependo l’allegato II della direttiva comunitaria (cfr. art. 8, comma 1, della bozza), sembra disporre la priorità, almeno in linea di principio, delle misure di riparazione primaria sulle misure di riparazione complementare e sulle misure compensative . Ma la stessa disciplina comunitaria, essendo stata recepita senza i necessari adattamenti funzionali al rispetto dei criteri della legge delega , consente di sostituire, a parità di risultato da un punto di vista ambientale, le misure di riparazione primaria (cioè quelle che hanno quale obiettivo il ripristino) con misure di riparazione complementari, anche ove le prime siano possibili, sulla base di una valutazione discrezionale che tenga conto della soluzione meno onerosa per il danneggiante (allegato II, 1.3.2); e consente addirittura di omettere tout court le misure di riparazione primaria o complementare, ogni qualvolta i costi siano sproporzionati ai vantaggi ambientali (allegato II, 1.3.3).
Va inoltre segnalato che vi sono taluni profili nei quali la direttiva comunitaria non appare adeguatamente recepita. Particolarmente grave (in violazione dell’art. 7 ultimo comma della direttiva) è l’omissione contenuta nell’art. 8 comma 4 della bozza, la quale non prevede l’obbligo di informare del contenuto delle misure di riparazione le persone di cui all’art. 12 della direttiva, ivi comprese le associazioni ambientaliste, quantomeno ogni qualvolta queste siano individuabili senza particolari oneri o abbiano partecipato al procedimento.
Ma non mancano altre omissioni (forse meri difetti di redazione) che si elencano nell’ordine dell’articolato: a) non si fa riferimento al danno indiretto nella definizione di danno ambientale ai sensi dell’art. 2 comma 1; b) non si prevede, quale danno agli habitat protetti dalla normativa nazionale (art. 2, comma 2, lettera a), il danno alle aree naturali protette di cui alla legge quadro 6 dicembre 1991 n. 394 e alla normativa attuativa; c) non si è inserita, nell’art. 4, tra le definizioni quella di “stato di conservazione degli habitat e delle specie”, né si sono individuate le ipotesi di “stato di conservazione favorevole per gli habitat”.
In altri casi vi sono delle vere e proprie ridondanze o incoerenze redazionali. Alcune possono essere spiegate con il tentativo di coordinare i criteri della legge delega con la disciplina comunitaria ; altre con incertezze di carattere sistematico .
Va infine osservato che la bozza del decreto, riprendendo la lettera della traduzione italiana della direttiva, a proposito dei poteri dell’autorità di intervenire nei confronti dell’operatore, o direttamente, per prevenire o riparare il danno, si esprime in termini di “facoltà”. La direttiva, in realtà, utilizza nella versione inglese il termine may; ma al di là dell’ambiguità lessicale, dall’esame sistematico della stessa direttiva appare evidente che qui non ci troviamo di fronte ad una facoltà in senso tecnico, ma all’esercizio di una potestà (potere-dovere) con discrezionalità tecnica. In tal senso depongono sia la previsione di un diritto di chiedere l’azione di responsabilità da parte di soggetti terzi, previsto dall’art. 12 s. della direttiva e dall’art. 11 s. della bozza, all’autorità competente la quale deve motivare la decisione di accogliere o di respingere la richiesta, sia la disposizione sul diritto di ricorrere contro siffatta decisione ad un organismo terzo. Nello stesso senso depone l’art. 7, comma 3, della direttiva –che, tra l’altro, non è stato riprodotto nella bozza (limitando quindi la discrezionalità del Ministero)- il quale consente all’autorità di decidere quale danno debba essere riparato prioritariamente nel caso in cui (e solo in quel caso) non sia in grado di assicurare l’adozione simultanea delle misure di riparazione a causa di una contingente pluralità di casi di danno ambientale.
B) La seconda e la terza procedura sono regolate dal titolo III della bozza di decreto e riguardano l’ipotesi in cui la responsabilità ambientale è fondata su un fatto illecito doloso o colposo. Si tratta di una fattispecie più ampia di quella oggetto della prima procedura in quanto concerne non solo i danni conseguenti alle attività degli operatore economici professionali, ma anche i danni causati da ogni altra attività antropica.
B1) La procedura prevista dall’art. 15 consente al Ministro dell’Ambiente, ove vi sia un illecito colposo o doloso, di emettere un’ordinanza immediatamente esecutiva che impone al responsabile il ripristino dello stato dei luoghi e il risarcimento del danno ambientale; la procedura stragiudiziale (o amministrativa), la quale sino ad oggi si è giustificata soprattutto in presenza di attività economiche potenzialmente lesive per l’ambiente o in ambiti settoriali regolati pervasivamente, viene generalizzata ogni qualvolta sia dimostrata nel corso dell’istruttoria (regolata dall’art. 14 della bozza) la sussistenza dei requisiti di imputazione soggettiva del dolo e della colpa. Il dubbio è che tale procedura possa essere utilizzata raramente nel caso di danni causati da operatori economici soggetti alla procedura di cui al titolo II (in quanto è più facile per la p.a. affermare la sussistenza della responsabilità oggettiva) e che si pongano gravi problemi di coordinamento, anche con la procedura giudiziale (si pensi ad esempio al problema del conflitto di valutazione sulla sussistenza dei requisiti di imputazione soggettiva) .
La procedura dell’art. 15 prevede il ripristino dello stato dei luoghi e il risarcimento del danno; ma anche in questo caso non mancano dubbi sulla conformità ai criteri della legge delega.
In primo luogo va osservato che l’art. 15 sottolinea che il ripristino dello stato dei luoghi è previsto a titolo di risarcimento dei danni in forma specifica: in tal modo si verrebbe implicitamente a richiamare anche il limite, posto in generale dall’art. 2058, 2 comma, c.c., il quale non consente di richiedere il risarcimento dei danni in forma specifica ogni qualvolta risulti eccessivamente oneroso per il debitore. Se l’inciso avesse tale valore, o venisse così interpretato, si tratterebbe di un arretramento di tutela, rispetto all'attuale disciplina che non prevede tale esclusione (art. 18, comma 8, l. 349/86) e si porrebbe conseguentemente in contrasto con la legge delega.
Va inoltre considerato che la legge delega impone di individuare i criteri per risolvere il problema, particolarmente avvertito sotto il vigore dell’art. 18, comma 6, l. 349/86, della quantificazione del danno. La disciplina prevista dall’art. 16 della bozza è da questo punto di vista particolarmente carente, in quanto ripropone sostanzialmente molti dei problemi della disciplina attualmente vigente, non indicando le poste del danno, ma soltanto gli indici per la valutazione equitativa. Ciò dipende innanzitutto dalla mancata considerazione che il ripristino non è altro che l’obiettivo delle misure di riparazione primaria, di cui all’allegato II della direttiva, e che il risarcimento del danno per equivalente, sulla base delle esperienze più avanzate (quelle statunitensi), non è altro che il costo delle misure di prevenzione e di riparazione (primaria, complementare e compensativa) stabilite nell’allegato II della direttiva comunitaria. La direttiva comunitaria infatti per questa parte ha integralmente recepito le esperienze statunitensi in materia di quantificazione del danno ambientale e di modalità del recupero ambientale, le quali appaiono generalizzabili anche quale criterio di quantificazione generale del risarcimento del danno (seppure con i correttivi necessari per rispettare i criteri della legge delega in materia di ripristino).
Va infine sottolineato che, in contrasto con la convenzione di Aarhus, non sono previste nella discipline dell’art. 14, 15 e 16, procedure di partecipazione, nè possibilità di ricorso giurisdizionale, da parte dei soggetti interessati, ivi comprese le associazioni ambientaliste.
B2) La procedura giudiziale è prevista dall'art. 13 della bozza, che sostituisce integralmente la disposizione dell’art. 18 della l. 349/86, ed è quella in cui si constata il più grave arretramento normativo, nonché una palese violazione delle legge delega. Il Ministro, stando alla lettera, se agisce di fronte al giudice ordinario, anche in sede penale, non può chiedere il ripristino ma solo il risarcimento del per equivalente patrimoniale; viene meno la legittimazione ad agire, quantomeno in via sostitutiva, da parte degli enti locali, azione che in tante occasioni ha consentito al giudice di ordinare quantomeno il ripristino dello stato dei luoghi; scompare il diritto speciale di intervenire nel processo (senza necessità di consenso, secondo la soluzione della migliore dottrina e di parte della giurisprudenza) per le associazioni ambientaliste riconosciute. Sulla decisione ministeriale di agire, o di non agire, in via giudiziale non è prevista alcuna procedura di partecipazione o di ricorso da parte delle associazioni ambientaliste, anche in questo caso in contrasto con la convenzione di Aarhus.
L’abrogazione dell’art. 18, dunque, indebolirebbe per molti versi la disciplina sul danno all’ambiente. Ma avrebbe altresì un effetto di rilevanza generale che appare essere l’aspetto più preoccupante della riforma: si abroga infatti la disposizione che con portata generale consente alle associazioni ambientaliste riconosciute di agire di fronte al giudice amministrativo per l’annullamento degli atti illegittimi. La regola, che ha consentito di prevenire diverse lesioni ambientali dovute alle attività illegittime della p.a., non si può infatti considerare espressione generale dei principi di giustizia amministrativa e costituisce una deroga, seppure di grande rilevanza sistematica, che richiede un’espressa previsione . L’abrogazione dell’art. 18 comma 5 l. 349/86, ove non venga sostituita da una normativa contestuale di rilevanza generale, sarebbe in contrasto con la convenzione di Aarhus e costituirebbe il più grave arretramento degli strumenti di tutela ambientale.