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Lo spettro del nucleare
di Stefano Ciafani

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Era l’8 novembre 1987 quando gli italiani furono chiamati a votare il referendum sul nucleare. L’esito dello scrutinio non lasciò dubbi: l’80,6% dei votanti si espresse per concludere la stagione ”radioattiva” nel nostro Paese. Fu quella una delle più importanti vittorie del mondo ambientalista italiano, che pose l’Italia all’avanguardia tra tutti i Paesi industrializzati. Si rinunciava una volta per tutte al più pericoloso tra i metodi per produrre energia elettrica, così come aveva dimostrato solo un anno prima il terribile incidente di Chernobyl.

A 16 anni di distanza da quel referendum, tra la scelta della localizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi e il “presunto” deficit di produzione di energia che ha provocato i numerosi black-out degli ultimi mesi (sia quelli programmati durante l’estate che quello paradossale di fine settembre che ha lasciato la buio tutta Italia), lo spettro del nucleare è tornato improvvisamente di attualità.

La querelle sulla discarica nucleare è esplosa negli ultimi mesi ma tutto ha inizio alla metà degli anni ’90 quando vengono istituite due commissioni, quella “Grandi rischi” presso il dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei ministri e la task force dell’Enea. Il loro obiettivo era quello di definire tecnicamente come e dove sistemare in maniera definitiva i rifiuti, soprattutto quelli a media e alta radioattività, e il combustibile nucleare irraggiato[1]. In effetti la sistemazione di quanto lasciato in eredità dall’attività nucleare risultava già allora assolutamente inadeguata e pericolosa: i rifiuti erano stoccati all’interno delle centrali che li avevano prodotti, mentre molte barre di combustibile erano ancora nelle piscine dei reattori in attesa di essere inviate all’estero per il reprocessing o riprocessamento[2].

Mentre il gruppo di lavoro della Protezione civile scelse la soluzione superficiale per la discarica, quello dell’Enea, una volta definiti i criteri di esclusione e di preferenza, cominciò a stilare la lista dei siti disponibili ad ospitare i rifiuti. Dagli oltre 8mila siti censiti all’inizio si è passati a circa 200 per arrivare a qualche decina, molti dei quali sembravano ricadere tra le regioni Puglia e Basilicata. La risposta di cittadini, associazioni e amministrazioni locali non si è fatta aspettare, anche alla luce della non ancora definita istituzione del parco nazionale dell’Alta Murgia.

La decisione viene momentaneamente rimandata, nonostante la palese urgenza di trovare una sistemazione definitiva all’“eredità radioattiva”. La stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, allora presieduta dal deputato verde Massimo Scalia, nel documento approvato su questo tema il 29 aprile 1999 ammoniva che: “con il passare del tempo (…) si determina il graduale deterioramento delle strutture e della componentistica nucleare. Pertanto tale deterioramento, in un prossimo futuro, potrebbe richiedere interventi sempre più onerosi e complessi, dai risultati non sempre affidabili, dal punto di vista del livello di sicurezza”. 

Negli ultimi mesi, con la nomina del generale Carlo Jean, Presidente della Sogin, la società nata per gestire lo smantellamento delle centrali, a “Commissario straordinario per la messa in sicurezza dei materiali nucleari”, la scelta della localizzazione del deposito nazionale subisce un’improvvisa accelerata. L’operato del nuovo Commissario si fa notare subito per la segretezza “militare” delle sue decisioni: vengono pubblicate sulla Gazzetta ufficiale diverse ordinanze sul tema con numerosi e inquietanti omissis; anche l’audizione del 24 giugno scorso davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti viene secretata; top secret anche il contenuto del dossier elaborato per la localizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, bocciato tra l’altro dalla conferenza Stato - Regioni. 

Solo poche indiscrezioni trapelano. Quelle sui criteri di esclusione per individuare il sito scatenano un vespaio di polemiche. I gruppi di lavoro di Protezione civile ed Enea avevano, infatti,  escluso la possibilità di collocare il deposito nazionale nelle aree demaniali, nelle zone a meno di 50 km dalle frontiere e nelle isole. Nei nuovi criteri si perde traccia di questi divieti: “L’esclusione delle isole - secondo il generale Jean - era dovuta a valutazioni del momento che non trovano riscontri in criteri adottati da altri Paesi”. Si comincia quindi a ipotizzare che la scelta finale possa ricadere sulla Sardegna, dove si scatena la sollevazione popolare: sit-in, manifestazioni e addirittura nuove forme “elettroniche” di protesta su internet. Non tardano ad arrivare le rassicurazioni di ministri e politici nazionali, anche sardi, sul fatto che ancora nulla è deciso. Nel frattempo le scorie radioattive e le barre di combustibile continuano pericolosamente il loro “soggiorno” all’interno delle centrali.

L’unica informazione certa fornita dal Commissario Jean è quella sui quantitativi in gioco: occorre trovare la sistemazione a circa 58-60mila m3 di rifiuti, di cui circa 35mila derivanti dallo smantellamento delle quattro centrali nucleari (Caorso, Garigliano, Latina e Trino). Ma i conti non tornano. Se infatti la stima del Commissario sui circa 25mila m3 di rifiuti radioattivi derivanti dall’attività delle centrali fino al 1987 è confermata dai dati ufficiali noti finora (le ultime stime dell’Apat, l’Agenzia protezione ambiente e servizi tecnici, quantificavano i rifiuti in 26.405 m3 a fine dicembre 2001), non si può dire la stessa cosa sulla “montagna” radioattiva che risulterà quando verranno smantellate le centrali. Lo studio dell’Enea, infatti, aveva calcolato che i rifiuti della dismissione delle centrali sarebbero stati pari a poco più di 90mila m3, mentre la Commissione d’inchiesta  Scalia li aveva stimati in oltre 100mila m3, cifre di gran lunga superiori a quella stimata dal generale Jean. E’ un problema di stime o si è già provveduto a “piazzare” da qualche parte questi scomodi rifiuti?

Tra un mistero e l’altro la discussione sulla scelta del sito continua: si fa un sito unico o se ne costruiscono diversi? La proposta meno felice in merito è stata sicuramente quella di Carlo Giovanardi, Ministro per i rapporti con il Parlamento, durante un convegno che si è tenuto ad Erice a fine agosto: “Visto che nessuno vuole ospitare il sito unico, se ne potrebbero fare venti, uno per regione”. La risposta trasversale, ma unanime da parte del Commissario Jean, di diversi esponenti dei due schieramenti politici e delle associazioni ambientaliste è stata perentoria: non se ne parla nemmeno. Per ovvi motivi di costi e di sicurezza, visto che vigilare un solo sito da eventuali attacchi terroristici è ovviamente più semplice, ma anche perché è già complicato individuare un’area per il deposito, figuriamoci trovarne venti.

Ma allora che ne facciamo dei rifiuti radioattivi, li spediamo tutti all’estero? Detta così, questa proposta sembra inaccettabile. E così è sembrata infatti a Domitilla Senni, direttore scientifico di Greenpeace, secondo cui: “I rifiuti devono essere gestiti dal Paese che li produce”. Concetto assolutamente corretto in linea di principio, ma è necessario fare un distinguo riguardo alla provenienza dei rifiuti radioattivi da trattare e naturalmente è necessario porre precise  condizioni. Innanzitutto vanno distinti i rifiuti a bassa radioattività, prodotti ancora oggi in Italia dalle attività industriali, mediche e della ricerca scientifica, da quelli a media e alta attività. Per i primi, la cui radioattività decade al massimo in qualche anno, è necessario trovare un deposito entro i confini nazionali. Per i secondi, se non è possibile trovare una collocazione in Italia, potrebbe non essere troppo peregrina l’ipotesi di sondare la disponibilità ad ospitarli da parte di un Paese straniero che ancora produce energia elettrica dall’atomo e che sicuramente è già dotato di un sito ad hoc, di sistemi di sicurezza e di controllo che in Italia dovrebbero essere creati ex novo. Potrebbe anche essere una nazione europea ma non è da escludersi anche la Russia. A patto che vengano rispettate almeno due condizioni. La prima è che i rifiuti italiani vengano stoccati a secco: il riprocessamento delle barre di combustibile irraggiato infatti permette di recuperare il plutonio, elemento che non esiste in natura e il cui recupero è uno dei principali obiettivi del trattamento delle scorie, anche e soprattutto alla luce del suo possibile utilizzo a fini bellici e militari. La seconda è che il compenso economico che ne trarrebbe la Russia venga destinato solo ed esclusivamente a rendere più sicure le tante centrali nucleari ancora attive in quel Paese, molto  più simili a bombe a orologeria che a impianti per la produzione di energia elettrica.

Ma il vero  spettro del nucleare che torna a minacciare il nostro Paese è la proposta che da più parti si ripresenta di tornare a produrre energia da fonti nucleari. I nostalgici dell’energia dall’atomo infatti,  approfittando dei numerosi black-out verificatisi nei mesi scorsi e della presunta mancata copertura al fabbisogno energetico nazionale, sono tornati alla carica. Discutibili come sempre le loro argomentazioni: il nucleare è pulito, sicuro ed economico.

Definire pulito il nucleare, come qualcuno vorrebbe far credere, solo perché non produce gas serra è a dir poco ridicolo, viste le quantità di rifiuti radioattivi che vengono lasciate in eredità per migliaia di anni alle future generazioni.

Sulla sicurezza nessun esperto si è mai sbilanciato più di tanto visto che a tutt’oggi non esiste nessuna procedura o meccanismo che eviti la dispersione di radioattività nell’ambiente esterno nel caso di un incidente (oggi quanto mai all’ordine del giorno anche alla luce dei ripetuti allarmi su eventuali attacchi terroristici lanciati dai potenti del mondo dopo l’11 settembre). Senza considerare che ancora milioni di persone - comprese le nuove generazioni -  pagano con la propria salute e con pessime condizioni di vita l’incidente di Cernobyl del 1986!

Sulla sua economicità vale la pena ricordare che quando si fanno i conti per fare il confronto di quanto si spende per produrre energia dai combustibili fossili, dalle fonti rinnovabili e dal nucleare, per quest’ultimo non si tiene mai conto della costosa gestione dei rifiuti prodotti né di quanto occorrerebbe spendere per far fronte ai danni causati in caso di incidente. Come non si tiene alcun conto delle sovvenzioni statali, a carico della collettività, che vengono elargite a chi costruisce centrali di questo tipo. E’ anche e soprattutto per questi motivi che l’energia elettrica prodotta dal nucleare in Francia è apparentemente più economica di quella prodotta da altre fonti in Italia. 

Un ritorno al nucleare sarebbe infine uno schiaffo a quei 30 milioni di italiani che solo 16 anni fa hanno detto un secco no alla minaccia di una centrale nucleare in esercizio a due passi da casa. In realtà una violazione della volontà popolare è stata già compiuta dalla maggioranza e dal ministro Marzano in Parlamento, visto che nel famoso decreto sull’energia che porta il suo nome, ormai in via di approvazione, è prevista per le aziende italiane la possibilità di costruire centrali nucleari all’estero, vietata dopo il referendum del 1987. Una cosa è certa: i colpi di mano e le decisioni prese dall’alto senza la necessaria trasparenza delle informazioni e condivisione delle scelte con i cittadini non portano da nessuna parte. Lo dimostrano le sollevazioni popolari contro la localizzazione del deposito nazionale di rifiuti radioattivi. E’ facile immaginare cosa potrebbe succedere se qualcuno decidesse di dare un nuovo via libera alla costruzioni di centrali nucleari sul territorio italiano.



[1] Ossia esaurito perché già impiegato nelle centrali nucleari.

[2] Tecnica di trattamento del combustibile irraggiato che consiste nella separazione dei suoi elementi costituenti: i prodotti della fissione dell’uranio, cioè i rifiuti veri e propri, l’uranio fissile residuo, che può essere riutilizzato in un’altra centrale, e il plutonio.