Cass. Sez. III ord.1414 del 16 gennaio 2006 (udienza 14 dicembre 2005)
Pres. De Maio Est. Onorato Imp. Rubino
Rifiuti – Nozione – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non
manifesta infondatezza
L’articolo 14 del D.L. 138-2002 non è direttamente disapplicabile dal giudice
nazionale, pur essendo incontestabile, perché riconosciuto da giurisprudenza e
dottrina pressoché unanimi, che la norma modifica in senso restrittivo la
nozione di rifiuto di cui all’articolo 6 D.Lv. 22-1997 ed è incompatibile con la
nozione di rifiuto stabilita dalla normativa comunitaria.
La sentenza “Niselli” della Corte di Giustizia offre al giudice italiano
elementi ermeneutici precisi per ritenere la norma indiscutibilmente
incompatibile con il diritto comunitario
Lo strumento giuridico per rimediare all’innegabile vulnus arrecato dal citato
art. 14 al diritto comunitario è il ricorso alla Corte Costituzionale
risultando, nella fattispecie, l’evidente contrasto con gli artt. 11,117
Svolgimento del processo
1 - Con sentenza del 10 dicembre 2004 il tribunale monocratico di S. Maria Capua
Vetere, sezione distaccata di Carinola, dichiarava i fratelli Umberto e Vito
Rubino colpevoli del reato continuato di cui all'art. 51, comma 1, D.Lgs.
22/1997, perché, il primo quale legale rappresentante del caseificio "Cirigliana
Eredi Rubino Luigi", e il secondo quale titolare dell'omonima azienda
zootecnica, avevano smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non
pericolosi senza la prescritta autorizzazione: in Riardo sino al 14 novembre
2000.
Per l’effetto il tribunale condannava gli imputati alla pena di 5.000 euro di
ammenda ciascuno, col beneficio della sospensione condizionale.
In linea di fatto il giudice accertava che il suddetto caseificio aveva venduto
più volte il siero di latte derivante dalla propria attività produttiva
all'azienda zootecnica di Vito Rubino, il quale lo destinava ad alimento per le
bufale.
In linea di diritto osservava in sostanza:
- che il siero di latte in questione era qualificabile come rifiuto, in quanto
residuo del processo di lavorazione dei prodotti caseari;
- che la norma interpretativa di cui all'art. 14 della legge 178/2002, laddove
restringe la nozione comunitaria di rifiuto, recepita nell'art. 6 del D.Lgs.
22/1997, espungendone i residui di produzione riutilizzabili, senza pregiudicare
l'ambiente, nello stesso o in diverso ciclo produttivo senza trattamento
preventive o con trattamento preventive non recuperatorio, doveva essere
disapplicata, appunto perché contraria al diritto comunitario, come interpretato
dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (in particolare con la
sentenza Niselli dell'11 novembre 2004);
- che pertanto la condotta contestata agli imputati era penalmente rilevante in
base alla normativa di cui al D.Lgs. 22/197 anche dopo l’entrata in vigore del
predetto art. 14, che doveva considerarsi tamquam non esset dopo l’emanazione
della suddetta sentenza 11 novembre 2004 della Corte di Giustizia.
2 - Avverso la condanna ha proposto ricorso per cassazione il difensore di
entrambi gli imputati, deducendo due motivi a sostegno.
2.1 - Col primo lamenta in sostanza erronea applicazione dell'art. 51 D.Lgs.
22/1997 nonché mancanza o manifesta illogicità di motivazione sul punto, giacché
i c.d. scarti alimentari - come il siero di latte - devono considerarsi materie
prime destinate all'alimentazione animale e non rifiuti. Chiede comunque la
declaratoria di prescrizione del reato.
2.2 - Col secondo motivo denuncia difetto di motivazione in ordine alla
quantificazione della pena.
Motivi della decisione
3 - Va anzitutto precisato che la fattispecie de qua non é sussumibile nella
disciplina di cui al D.Lgs. 14 dicembre 1992 n. 508 (che ha attuato la direttiva
90/667/CEE in materia di norme sanitarie per la eliminazione, la trasformazione
e l’immissione sul mercato di rifiuti di origine animale) e al Reg. CE 3 ottobre
2002 n. 1774 (recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine
animale non destinati al consumo umano), che ha espressamente abrogate la
predetta direttiva CEE 90/667.
Infatti la condotta contestata agli imputati consisteva nel trasporto e nello
smaltimento del siero di latte derivante dal processo produttivo di un
caseificio, mentre entrambe le normative succitate prevedono norme di polizia
sanitaria e veterinaria per il trasporto, la trasformazione, l'uso o
l’eliminazione di rifiuti (art. 1 D.Lgs. 508/1992) o sottoprodotti di origine
animale non destinati al consumo umano (art. 1 Reg. CE 1774/2002). E' chiaro che
il latte cessa di essere un sottoprodotto di origine animale quando viene
impiegato come materia prima nella produzione casearia, e che il siero di latte
che residua da questa produzione va qualificato come rifiuto speciale ex art. 7
del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 senza che possa (più) definirsi di origine
animale.
Manca quindi qualsiasi presupposto ex art. 8 D.Lgs. 22/1997 per escludere dal
regime generale dei rifiuti il siero di latte derivante dalla produzione
casearia, non soltanto perché la polizia sanitaria e veterinaria, oggetto del
D.Lgs. 508/1992 e del Reg. CE 1774/2002, é eterogenea, e non speciale, rispetto
alla disciplina ambientale della gestione dei rifiuti (come ritiene Cass. Sez.
III, n. 8520 del 4 marzo 2002, Leuci), quanto piuttosto perché l'oggetto della
disciplina (il citato siero di latte) non rientra in nessuna delle categorie che
il predetto art. 8 esclude dalla disciplina generate dei rifiuti (e in
particolare non rientra nella categoria delle carogne o dei rifiuti di origine
animale).
Va pertanto disatteso il primo motive di ricorso (n. 2.1).
4 - Va anche respinta la richiesta di dichiararsi estinto il reato per
prescrizione.
Infatti, al periodo prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p., va
aggiunto il periodo in cui il processo é rimasto sospeso per impedimento
dell'imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa
non sia dettata da esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n.
1021 dell'11 gennaio 2002, Cremonese, rv. 220509).
Nel caso di specie, al periodo di quattro anni e mezzo (che scadeva il 14 maggio
2005) va aggiunto il periodo di sette mesi e nove giorni per la sospensione del
processo (dal 25 settembre 2003 al 28 aprile 2004 e dal 3 dicembre 2004 al 10
dicembre 2004), sicché la prescrizione maturerà solo il 23 dicembre 2005.
Nella materia é recentemente intervenuta la legge 5 dicembre 2005 n. 251
(entrata in vigore l'8 dicembre 2005), la quale, con l’art. 6:
a) modificando l'art, 157 c.p., ha aumentato a quattro anni il tempo di
prescrizione ordinaria per tutte le contravvenzioni;
b) modificando l'art. 159 c.p., ha codificato il principio stabilito dalla
suddetta sentenza Cremonese in tema di sospensione processuale per impedimento
delle parti o dei difensori, stabilendo però che la sospensione non può durare
più di sessanta giorni oltre la cessazione dell' impedimento;
c) modificando gli artt. 160 e 161 c.p., ha stabilito che in caso di
interruzione della prescrizione, i termini prescrizionali non possono essere
prolungati oltre il quarto per gli imputati che non siano recidivi specifici o
infraquinquennali, delinquenti abituali o professionali.
Alla stregua della novella, nel caso di specie, il periodo prescrizionale
ordinario sarebbe scaduto il 14 novembre 2005 ma si sarebbe dovuto prolungare di
almeno 67 giorni per le succitate sospensioni processuali intervenute, arrivando
così al 20 gennaio 2006.
Tuttavia, per effetto della norma transitoria di cui all’art. 10, comma 2, la
disciplina del predetto art. 6 non si applica ai processi in corso, trattandosi
di un reato e di una vicenda processuale per cui i termini di prescrizione
risultano più lunghi di quelli previgenti.
5.1 - In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, la sentenza impugnata
ha colto nel segno laddove ha ritenuto che il siero di latte residuato dal
processo produttivo del caseificio di Umberto Rubino rientrava nella categoria
dei rifiuti speciali, di cui all'art. 6 e 7 D.Lgs. 22/1997, e che la cessione e
il trasporto del siero, senza alcuna autorizzazione, dal predetto caseificio
all’azienda zootecnica di Vito Rubino, integrava il reato di cui all'art. 51
dello stesso decreto legislativo (in senso conforme v. Cass. sez. III, n. 33295
del 2 agosto 2004, Cioffi, rv. 229011).
La sentenza é incorsa invece in errore giuridico laddove ha ritenuto che la
norma interpretativa di cui all'art. 14 del d.l. 8 luglio 2002 n. 138,
convertito in legge 8 agosto 2002 n. 178, in quanto restringe indebitamente la
nozione comunitaria di rifiuto, debba essere direttamente disapplicata (rectius
non applicata) dal giudice nazionale.
5.2 - Che la norma dell'art. 14, pur autoqualificandosi come interpretativa,
modifichi in senso restrittivo la nozione di rifiuto precisata dall'art. 6
D.Lgs. 22/1997, e quindi sia incompatibile con la nozione di rifiuto stabilita
dalla direttiva comunitaria 75/442/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE,
di cui la disposizione nazionale e sostanzialmente la riproduzione, é indubbio,
ed é riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza pressoché unanimi.
Invero, per l’art. 6 D.Lgs 22/1997 e per l’art. I della direttiva 75/442/CEE
costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra in una delle
sedici categorie elencate in allegato di cui il detentore "si disfi" o abbia
deciso o abbia l’obbligo di "disfarsi". L'elenco delle categorie, di cui
all'allegato A, é un elenco "aperto", perché la prima categoria (Ql) comprende
tutti i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati, e la
sedicesima (Q16) qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle
altre categorie.
L'art. 14 legge 178/2002, invece, nel suo primo comma, identifica il concetto di
"disfarsi" con quello di smaltimento o di recupero, stabilendo che le parole "si
disfi" devono essere interpretate come qualsiasi comportamento attraverso il
quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono
avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli
allegati B e C del D.Lgs. 22/1997.
Attraverso questa identificazione, però, la norma sedicente interpretativa
restringe la nozione comunitaria di rifiuto, escludendone ogni sostanza o
materiale di cui il detentore "si disfi" mediante semplice "abbandono", posto
che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. 22/1997 l’abbandono é nettamente
distinto dallo smaltimento e a maggior ragione dal recupero (per il diritto
nazionale v. art. 14 D.Lgs. 22/1997, su cui Cass. Sez. III, sent. n. 21024 del 5
aprile 2004, Eoli, rv. 229225-6; per il diritto comunitario v. art. 4, comma 2,
direttiva 75/442/CEE, su cui C. Giustizia, Sez. II, dell'11 novembre 2004, causa
C-457/02, Niselli, par. 38, 39 e 40).
In sostanza, secondo il diritto comunitario e il legislatore nazionale del 1997,
ci si può disfare di un rifiuto, con l'obbligo di sottostare alla relativa
disciplina, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma anche
semplicemente abbandonandolo; secondo il legislatore nazionale del 2002, invece,
chi abbandona una sostanza rientrante nelle anzidette categorie di rifiuti é
esente dalla disciplina imposta in materia per assicurare la tutela della salute
pubblica e della qualità ambientale.
Ma dove la norma dell'art. 14 assume una portata ancor più socialmente
innovativa é nel secondo comma, in forza del quale non ricorrono le fattispecie
della decisione di "disfarsi" e dell’obbligo di "disfarsi" ove si tratti di
sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo che "possono essere e
sono effettivamente e oggettivamente utilizzati nel medesimo o in analogo ciclo
produttivo di consumo”: a) “senza subire alcun intervento preventive di
trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente"; ovvero b) “dopo aver
subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione
di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n.
22".
Invero, secondo la definizione comunitaria di rifiuto, letteralmente trasfusa
nell'art. 6 D.Lgs. 22/1997, un residuo di produzione o di consumo di cui il
detentore abbia deciso o abbia l'obbligo di "disfarsi" costituisce sempre
rifiuto. Per l’art. 14, invece, questo residuo perde la qualità di rifiuto se é
o può essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo
di produzione o di consumo, o più esattamente se é riutilizzato senza
trattamenti preventivi e senza pregiudizio per l’ambiente ovvero con trattamenti
preventivi che non comportino operazioni di recupero (per esempio attraverso
atti di prelievo, cernita, separazione, compattamento, frantumazione, vagliatura
o macinatura, che non implicano una trasformazione merceologica o chimica dei
materiali).
E' quindi innegabile che anche sotto questo profilo l’art. 14 restringe la
nozione comunitaria di rifiuto, giacché per il diritto comunitario la volontà o
l’obbligo di "disfarsi" di un residuo di produzione o di consumo costituisce
quest'ultimo come rifiuto, mentre per la norma nazionale sedicente
interpretativa quel residuo diventa semplice materia prima ove ricorra la
condizione della sua attuale o potenziale riutilizzazione.
Concludendo, l’art. 14 ha introdotto una doppia deroga alla definizione
comunitaria di rifiuto, sia laddove ha identificato l’attività di "disfarsi"
della sostanza con quella di smaltimento o di recupero della medesima
(escludendo così l’attività di abbandono), sia laddove ha escluso la volontà o
l’obbligo di "disfarsi" di residui di produzione o di consumo quando questi sono
o possono essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza
pregiudizio per l’ambiente. In tal modo ha esonerato dal controllo
amministrativo e dalla disciplina sui rifiuti attività con cui il detentore si
disfa di residui di produzione o di consumo, creando pericolo per l’ambiente.
Con ciò il legislatore italiano é venuto meno ai suoi obblighi di leale
cooperazione di cui all'art. 10 (ex 5) del Trattato CE, pregiudicando gli
obiettivi comunitari di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità
dell'ambiente e di protezione della salute umana di cui all’art. 174 (ex 130 R)
dello stesso Trattato.
6.1 - Tale è del resto la convinzione della Commissione della Comunità europea,
la quale ha avviato contro lo Stato italiano una procedura di infrazione ai
sensi dell'art. 226 (ex 169) del Trattato in seguito all’approvazione dell'art.
14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138.
Ma tale é, soprattutto, la decisione della Corte di Giustizia europea, che
investita in via pregiudiziale dal tribunale di Terni della questione della
compatibilità comunitaria dell'art. 14, con la sentenza della Sezione II dell'11
novembre 2004, Causa C-457/02, Niselli, sviluppando il filone giurisprudenziale
consacrato nelle precedenti sentenze Zanetti del 10 maggio 1995, C-422/92,
Tombesi del 25 giugno 1997, C-304/94, e Palin Granit Oy del 18 aprile 2002,
C-9/00, ha così statuito:
a) la nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo "disfarsi", il quale
"deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che,
ai sensi del suo terzo
Una sostanza o un materiale non soggetto a obbligo di smaltimento o di recupero
e di cui il detentore "si disfi" mediante semplice abbandono é considerate
rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 (par. 38). E poiché l'abbandono non può
essere considerate una modalità di smaltimento del rifiuto, ma é ben distinto
dallo smaltimento (par. 39), la definizione comunitaria di rifiuto non può
essere interpretata nel senso di ricomprendere soltanto le sostanze e i
materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero
(par. 40).
b) per l'art. 14 del decreto legge italiano n. 138/2002 "affinché un residuo di
produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica di rifiuto sarebbe
sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di
produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza
arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra
tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva
75/442" (par. 50). Ma "un’interpretazione del genere si risolve manifestamente
nel sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di consumo che
invece corrispondono alla definizione sancita dall'art. I lett. a), primo comma,
della direttiva 75/442" (par. 51).
Pertanto, la nozione comunitaria di rifiuto non può essere interpretata nel
senso di escludere l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono
essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo senza
trattamento preventivo o con trattamento non recuperatorio (par. 53).
Tuttavia - secondo la sentenza Niselli, che riprende sul punto la precedente
sentenza Palin Granit Oy del 18 aprile 2002 - può esulare dalla nozione
comunitaria di rifiuto un materiale derivante da un processo di fabbricazione o
di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo, che il produttore
riutilizza, senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo
produttivo: in tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un
"sottoprodotto", che non ha la qualifica di rifiuto proprio perché il produttore
non intende "disfarsene", ma vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo
produttivo (parr. 44-52).
Per distinguere il "sottoprodotto" dal rifiuto é comunque necessario che il
riutilizzo sia certo, che avvenga nel medesimo processo produttivo e senza
trasformazioni preliminari, cioè senza modificazioni del carattere chimico o
merceologico della sostanza (par. 47).
Che il ciclo produttivo debba essere il medesimo risulta chiaramente dal par. 52
della sentenza. Del resto, se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo
produttivo vorrebbe dire che il produttore ha inteso "disfarsi" del residuo per
commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.
6.2 - La sentenza Niselli è stata emessa ai sensi dell'art. 234 (ex 177) del
Trattato CE e quindi si é limitata a interpretare la norma del diritto
comunitario che definisce la nozione di rifiuto; mentre solo procedendo ex art.
226 (ex 169), in esito alla procedura di infrazione attivata dalla Commissione,
avrebbe potuto direttamente interpretare la norma nazionale denunciata come
lesiva degli obblighi comunitari.
I diversi poteri della Corte di Giustizia nell'ambito delle diverse procedure
sono chiaramente enunciati dalla stessa Corte, che ha avuto modo di chiarire il
principio secondo cui essa "non può, ai sensi dell'art. 177 [ora 234] del
Trattato, statuire sulla validità di una norma di diritto interno con riguardo
al diritto comunitario, come le sarebbe consentito fare nell'ambito di un
ricorso ex art 169 [ora 226] del Trattato CE"; peraltro "essa è tuttavia
competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione,
che rientrano nel diritto comunitario, atti a consentirgli di pronunciarsi su
tale compatibilità" (sentenza Tombesi citata del 25 giugno 1997, par. 36).
Si può quindi concludere che la sentenza Niselli, pur non interpretando
direttamente l'art. 14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138, offre al giudice italiano
elementi ermeneutici precisi per ritenere tale norma indiscutibilmente
incompatibile col diritto comunitario.
7.1 - Resta ora da esaminare quale strumento giuridico sia esperibile per
rimediare a questo innegabile vulnus che l’art. 14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138
ha recato al diritto comunitario.
Al riguardo, la sentenza impugnata e alcune pronunce di questa Corte hanno
sostenuto la necessità della disapplicazione (rectius non applicazione) della
norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilità del diritto
comunitario (Sez. III, n. 2125 del 17 gennaio 2003, Ferretti, rv. 223291; Sez.
III, n. 14762 del 9 aprile 2002, Amadori, rv, 221573; Sez. III, n. 17656 del 15
aprile 2003, Gonzales e altro, rv. 224716).
Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l’art. 14 e
vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti
non é autoapplicativa (self-executing) in quanto necessita di atto di
recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. III, n. 4052 del 29 gennaio
2003, Passerotti, rv. 223532; Sez. III, n. 4051 del 29 gennaio 2003, Ronco, rv.
223604; Sez. III, 9057 del 26 febbraio 2003, Costa, rv. 224172; Sez. III, n.
13114 del 24 marzo 2003, Mortellaro, rv. 224721; Sez. III, n. 32235 del 31
luglio 2003, Agogliati e altri, rv. 226156; Sez. III, n. 38567 del 19 ottobre
2003, De Fronzo, rv. 226574).
7.2 - Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso
relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla
direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell'ordinamento nazionale, ma
sostengono ugualmente la diretta applicabilità della nozione comunitaria di
rifiuti, in base al fatto che essa é stata richiamata dal regolamento
comunitario n. 259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.
Ma tale singolare argomento, benché condiviso da qualche autore, non può
accettarsi.
Invero, il Reg. CEE del 1 febbraio 1993 n. 259/93, "relative alla sorveglianza e
al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea,
nonché in entrata e in uscita dal suo territorio", all'art 2 lett. a) stabilisce
che "ai sensi del presente regolamento" si intendono per rifiuti "i rifiuti
quali definiti nell'art. 1 lettera a) della direttiva 75/442/CEE".
Orbene, é sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale é
direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, recepisca la nozione di
rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della specifica
materia disciplinata dal regolamento, ovverosia limitatamente alle spedizioni di
rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e
munite di un documento di accompagnamento.
Questa nozione "regolamentare" quindi non é direttamente applicabile né per
l'attività di abbandono né per tutte le attività di gestione dei rifiuti
elencate nell'art. 6 lett. g) D.Lgs. 22/1997, che sono ben diverse dall'attività
di spedizione: e cioè raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.
Anche una risalente sentenza della Corte di Giustizia ha avuto modo di stabilire
che la nozione "regolamentare" di rifiuti, "che é stata istituita al fine di
garantire che i sistemi nazionali di sorveglianza e controllo delle spedizioni
di rifiuti rispettino criteri minimi, si applichi direttamente anche alle
spedizioni di rifiuti all'interno di qualsiasi Stato membro"; ma non ha affatto
esteso la diretta applicabilità della nozione alle altre tradizionali attività
di gestione o all'attività di abbandono, comunque diverse dalla spedizione
(C.G.,VI Sez., sent. del 25 giugno 1997, Tombesi e altri, v. mass, e parr. 44.
45 e 46).
Non si può quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del
diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.
Inoltre, come é stato opportunamente sottolineato in dottrina, l'argomento da
una parte non è stato mai considerato dalla stessa Corte lussemburghese, che,
chiamata più volte a interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di
rifiuto, ha sempre focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come
modificata dalla direttiva 91/156; dall'altra non è stato utilizzato neppure
dalla Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo
Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo che il tentativo di
restringere la nozione di rifiuto era del tutto velleitario, attesa la immediata
applicabilità nell'ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.
In conclusione, si tratta di argomento che appare ormai abbandonato sia dalla
dottrina che dalla giurisprudenza, le quali non mettono più in discussione la
inapplicabilità diretta della nozione comunitaria di rifiuto (al di fuori della
materia delle spedizioni disciplinata dal menzionato regolamento).
7.3 - L'orientamento giurisprudenziale minoritario, "pur dando per scontato il
carattere non autoapplicativo della direttiva 75/444/CEE, modificata dalla
direttiva 91/156/CEE, giunge ugualmente a non applicare l’art. 14 del D.L.
138/2002, in base all'argomento che, in ossequio al principio della prevalenza
del diritto comunitario, sia originario, sia derivato, il giudice nazionale deve
comunque dare applicazione alle sentenze della Corte di Giustizia europea, che a
più riprese hanno offerto una interpretazione della nozione comunitaria di
rifiuto contrastante con quella risultante dall'art. 14: in particolare devono
dare attuazione alla citata sentenza Niselli, che espressamente ha statuito la
incompatibilità comunitaria di quest'ultima norma.
Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non è accoglibile.
A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il
significato di una norma comunitaria ha la stessa efficacia di quest'ultima,
sicché la pronuncia é direttamente ed immediatamente efficace nell'ordinamento
nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata.
In tal senso é l'insegnamento costante della Corte costituzionale. Basti
ricordare la sentenza 11 luglio 1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del
principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci
nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio
viene riferito ad una norma comunitaria avente
Invero, nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato
di una norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del
diritto nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve
più applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo
esame (senza poter sollevare questione di costituzionalità: v. Corte cost. n.
94/1995).
Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma
comunitaria priva di efficacia diretta in modo tale che una norma interna
risulti incompatibile con la prima, il giudice italiano non ha altra scelta che
applicare la norma interna o sollevare sulla stessa l’eccezione di illegittimità
costituzionale per violazione degli obblighi dello Stato italiano di conformarsi
al diritto comunitario, consacrati negli artt. 11 e 117 Cost, (e implicitamente
in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte cost.).
7.4 - Più di recente, un'altra pronuncia di legittimità, seguendo il principio
indicato dalla Corte costituzionale con sent. 190/2000, ha correttamente
sostenuto la necessità per il giudice italiano di interpretare la normativa
nazionale in termini tali che essa non risulti in contrasto con la normativa
comunitaria (Cass. Sez. III, n. 746 del 1 giugno 2005, Colli).
A questa stregua, ha ritenuto, sulla scia della citata sentenza Niselli, che
l’art. 14 in questione non contrasta con la nozione comunitaria di rifiuto solo
laddove esclude dall'ambito della relativa disciplina i c.d. sottoprodotti, cioè
quei residui di produzione (esclusi i residui di consumo) dei quali il
produttore non abbia intenzione di disfarsi e che siano riutilizzati in modo
certo, senza previa trasformazione, nell’ambito dello stesso processo
produttivo. I "sottoprodotti", infatti, in quanto riutilizzati nello stesso
ciclo produttivo come materie prime, non presentano rischi per l’ambiente,
sicché per essi non ha ragion d'essere applicare la disciplina dei rifiuti.
La fattispecie dedotta nel presente processo, però, esula da ogni possibile
interpretazione adeguatrice, giacché il siero di latte residuato dalla
produzione casearia veniva trasportato e ceduto a un'altra azienda, esercente
attività zootecnica, che lo destinava ad alimento per gli animali. Alla luce del
diritto comunitario, come autoritativamente interpretato dalla Corte di
Giustizia europea, non poteva quindi classificarsi come “sottoprodotto”, ma era
invece un vero e proprio rifiuto di cui il produttore si disfaceva perché fosse
riutilizzato tal quale in altro processo produttivo.
Per la norma nazionale di cui si discute, invece, il siero di latte prodotto nel
caseificio e riutilizzato in diversa azienda zootecnica resta indiscutibilmente
escluso dalla nozione di rifiuto, e non vi può rientrare in forza di una
interpretazione adeguatrice. Esso resta perciò sottratto alla disciplina sui
rifiuti, in palese contrasto col diritto comunitario.
8 - L'unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge
nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile é,
quindi, il ricorso al giudice delle leggi.
Invero, la norma in questione, escludendo dalla categoria dei rifiuti i residui
di produzione o di consumo che siano semplicemente abbandonati dal produttore o
dal detentore, ovvero che siano riutilizzati in qualsiasi ciclo produttivo o di
consumo senza trattamento recuperatorio, si pone in insanabile contrasto con la
nozione di rifiuto stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CE, modificata
dalla direttiva 91/156/CE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE.
Nel caso di specie, quindi, va sollevata d'ufficio questione di legittimità
costituzionale dell'art. 14 D.L. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8
agosto 2002 n. 178, perchè in contrasto:
a) con l’art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve
osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a
ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea;
b) nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel
suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
L'ipotizzato vulnus comunitario e costituzionale appare tanto più grave in
quanto, dopo che la Commissione di Bruxelles aveva aperto la menzionata
procedura di infrazione, e poco dopo che la Corte di Giustizia europea aveva
emanate la citata sentenza Niselli, il legislatore nazionale, con la legge 15
dicembre 2004 n. 308 (delega al Governo per il riordino, il coordinamento e
l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta
applicazione), ha ribadito la sua volontà normativa al riguardo, stabilendo al
comma 26 dell'art. 1: "Fermo restando quanto disposto dall'art. 14 del decreto
legge 8 luglio 2002 n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto
2002 n. 178,...".
La non manifesta infondatezza della questione risulta dalle considerazioni
svolte in precedenza, secondo le quali la norma denunciata é incompatibile (nei
limiti anzidetti) con il diritto comunitario e per conseguenza lede gli obblighi
costituzionali di adeguamento all'ordinamento comunitario stesso.
9.1 - Dalle considerazioni precedenti risulta altresì evidente la rilevanza
della questione, atteso che il processo non può essere definito prescindendo
dall'applicabilità del denunciato art. 14 e quindi dalla risoluzione della
relativa eccezione di illegittimità costituzionale.
Se la norma resistesse al vaglio di costituzionalità, infatti, la sentenza
impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio perché il fatto non é più
previsto dalla legge come reato, avendo l'art. 14 sottratto alla disciplina dei
rifiuti il siero di latte riutilizzato senza trattamenti preventivi in altro
ciclo produttivo.
Se invece la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima e quindi
inapplicabile al caso di specie, al giudice a quo si aprirebbe la duplice
possibilità di rigettare il ricorso, con la conferma della condanna degli
imputati, o di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per difetto
dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata, avendo gli imputati
fatto affidamento incolpevole sulla portata normativa di una disposizione
(l’art. 14) successivamente caducata dall’ordinamento. Nella prima, ma – sia
pure in misura minore - anche nella seconda ipotesi, la sentenza di accoglimento
della Corte costituzionale avrebbe un effetto in malam partem.
Emerge qui il noto problema del sindacato di costituzionalità sulle norme penali
di favore, cioè delle norme che, per determinati soggetti o ipotesi, abrogano o
modificano in senso favorevole al reo precedenti disposizioni incriminatrici.
Tale appare indubbiamente la norma dell'art. 14, giacché essa si configura come
disposizione extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui agli artt.
6 e 51 D.Lgs. 22/1997, che, "restringendo" l'ampiezza dell'oggetto materiale del
reato (i rifiuti), finisce per derogare o abrogare parzialmente, ovvero
modificare in senso favorevole al reo, la precedente norma incriminatrice.
9.2 - Com'é noto, muovendo dalla considerazione che l'eventuale accoglimento
della eccezione di illegittimità costituzionale della norma penale più
favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio
di irretroattività di cui all'art. 25, comma 2, Cost., e all'art. 2, comma 1,
cod. pen., si é tratta in passato la conclusione che le eccezioni di
incostituzionalità delle norme penali di favore sono "tipicamente" irrilevanti,
con la conseguenza che dette norme restano sottratte al controllo
costituzionale. Peraltro, occorre al riguardo precisare che nel caso di specie
il fatto contestato é stato commesso sino al 14 novembre 2000, cioè sotto il
vigore della norma incriminatrice di cui agli artt. 6 e 51 D.Lgs. 22/1997,
sicuramente conforme al diritto comunitario, e prima dell'entrata in vigore
dell’art. 14 D.L. 138/2002, che, escludendo alcune categorie di rifiuti, ha
ridotto l'area del penalmente illecito, in contrasto col diritto comunitario.
Orbene, è doveroso osservare che in un caso siffatto, se la Corte dichiarasse
costituzionalmente illegittima la norma più favorevole di cui all’art. 14, la
conferma della degli imputati in base alla norma più sfavorevole di cui ai
suddetti artt. 6 e 51:
a) non violerebbe il principio di irretroattività di cui al secondo comma
dell'art. 25 Cost., posto che la norma dell'art. 51 era entrata in vigore prima
del fatto contestato;
b) non violerebbe neppure il principio di retroattività dell’abolitio criminis
di cui al secondo comma dell'art. 2 cod. pen., giacché la norma dell'art. 14,
entrata in vigore dopo il fatto, con l'effetto di depenalizzarlo attraverso
l'abrogazione parziale dell'art. 6 D.Lgs. 22/1997, non potrebbe essere applicata
proprio in quanto resa inefficace dalla pronuncia di illegittimità
costituzionale: in altri termini, la retroattività della norma parzialmente
depenalizzatrice non potrebbe operare per la caducazione della norma stessa
dall'ordinamento.
Questa conclusione é indubbiamente in linea con la nota sentenza 51/1985 della
Consulta, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'ultimo comma
dell'art. 2 cod. pen., nella parte in cui prevedeva la retroattività ai fatti
pregressi della norma penale favorevole contenuta in un decreto legge non
convertito, per contrasto con l’art. 77, ultimo comma, Cost, (secondo cui i
decreti legge non convertiti perdono efficacia sin dall’inizio). Esaminando il
problema se il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole fosse
d'ostacolo al risultato normative derivante dalla pronuncia di illegittimità
costituzionale, la Corte ha precisato che detto principio sarebbe applicabile
soltanto per i fatti "concomitanti", commessi cioè sotto il vigore del decreto
legge non convertito, ma non per i fatti "pregressi", commessi cioè prima che il
decreto legge entrasse in vigore.
Anche nel presente processo il fatto è "pregresso" e non già "concomitante"
rispetto al periodo di vigenza della norma penale di favore.
9.3 - Comunque, il problema é ora risolto dalla sentenza 148/1983, che ha
argomentato la rilevanza e l’ammissibilità delle questioni di illegittimità
costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo
cui l'accoglimento della questione:
a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui
dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativi
della relativa motivazione;
b) avrebbe comunque un "effetto di sistema" la cui valutazione spetta ai giudici
comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perchè, senza vanificare la
garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare
al sindacato di costituzionalità, "a pena di istituire zone franche del tutto
impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria
diverrebbe incontrollabile".
Questo approdo ermeneutico non é scalfito dalle numerose statuizioni della
Consulta che hanno ribadito l’inammissibilità delle sentenze additive contra
reum per rispetto dell'art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale diversità
delle due ipotesi.
Infatti, quando è dedotta la questione di costituzionalità di una norma penale
di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo della deroga
oggettiva o soggettiva introdotta, con l'effetto di ripristinare la piena
portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la
sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma
sospettata "nella parte in cui non prevede" etc.) ha l'effetto di creare ex novo
una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale
esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla
discrezionalità del legislatore.
(Diverse sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un meccanismo di
tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forze del principio di uguaglianza,
ha esteso il reato di bestemmia della divinità anche a tutela delle religioni
non cattoliche, creando così una nuova figura di reato, che però non era
applicabile al fatto contestato nel processo a quo).
Per diversa ragione l’approdo della sentenza 148/1983 non appare intaccato
neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cost., la quale ha escluso la
possibilità di estendere l'ambito di applicazione della norma incriminatrice di
cui all'art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito
dall'art. 1 D.Lgs. 11 aprile 2002 n. 61, attraverso la rimozione delle soglie
minime di punibilità ivi previste. Qui infatti la Corte ha escluso la
possibilità di ampliare o aggravare la figura di un reato già esistente
attraverso la "demolizione" delle soglie di punibilità, sul rilievo che queste
soglie integrano requisiti essenziali di tipicità del fatto ovvero condizioni di
punibilità, e cioè sono comunque "un elemento che "delimita" l'area d'intervento
della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non già "sottrae"
determinate fatti all'ambito di applicazione di altra norma, più generale".
Tale essendo la ratio decidendi, essa non può essere applicata ai casi - come
quello presente - in cui la norma denunciata per incostituzionalità e una norma
penale di favore, la quale "sottrae" determinate ipotesi (nel caso specifico, la
gestione dei residui di produzione utilizzati in altri cicli produttivi) a una
norma incriminatrice generale (gli artt. 6 e 51 D.Lgs.). In altri termini,
facendo cadere per incostituzionalità l'art. 14 si ripristinerebbe la portata
originaria di una norma incriminatrice già presente nell'ordinamento, che l'art.
14 aveva parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilità previste
nell'art. 2621, invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma ai
di la dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata.
9.4 - Analogo problema si é presentato alla Corte di Giustizia europea, chiamata
a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto dal giudice del processo
Niselli, posto che la sua ricostruzione ermeneutica poteva avere effetti tali da
entrare in rotta di collisione con il principio di legalità e irretroattività
dei reati e delle pene, che è ritenuto parte integrante anche del diritto
comunitario.
Al riguardo la sentenza Niselli, premesso che "una direttiva non può avere
l'effetto, di per sé é indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato
membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la
responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue
disposizioni preso atto che il fatto contestato all'imputato era stato commesso
sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs 22/1997, e
prima dell'entrata in vigore dell'art. 14 D.L. 138/2002, ha concluso che non vi
era “motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio
di legalità delle pene per l'applicazione della direttiva 75/442” (parr. 29 e
30).
Non occorre qui sottolineare l'analogia fattuale tra il caso Niselli e il caso
presente riguardo al rapporto tra tempus commissi delicti e successione delle
leggi penali nel tempo. Diverso è il caso affrontato più di recente dalla stessa
Corte europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la
questione se il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dai novellati
artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in
danno dei soci o dei creditori) cod. civ. fosse o meno adeguato in relazione
all'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3
maggio 2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).
La sentenza ha osservato che il principio dell'applicazione retroattiva della
pena più mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli
Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e
ha concluso che "la prima direttiva sul diritto societario non può essere
invocata in quanta tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti di
imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere
come effetto, di per sé é indipendentemente da una legge interna di uno Stato
membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la
responsabilità penale degli imputati" (par. 78 e dispositivo).
Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato dalla corte europea, né gli
originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che prevedevano un trattamento
sanzionatorio più severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i
reati contestati, né i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto
un trattamento penale più mite, costituiscono attuazione di direttive
comunitarie; sicché si comprende l'affermazione secondo cui una direttiva
comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di
attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilità penale nella
soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva
comunitaria e stata trasposta nell'ordinamento nazionale attraverso il D.Lgs.
22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della
disciplina stessa, sicché né la previsione della responsabilità penale, né la
sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva comunitaria, essendo,
invece, state introdotte, la prima dall'art. 51 del D.Lgs. 22/1997, e la seconda
dall'art. 14 del D.L. 138/2002. Nella presente vicenda processuale, quindi, non
può farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del
3 maggio 2005, proprio perché presupposto di questo principio è la mancanza di
norme nazionali attuative della direttiva comunitaria.
9.5 - Per tutte queste ragioni non sembra dubitabile la rilevanza della dedotta
questione.
A conforto di questa tesi, peraltro, militano le numerose sentenze di questa
Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimità
costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio
provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n.
306/1992; n. 437/1992; n, 194/1993) o l'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e
nocivi (sent 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di
rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, così
esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998).
Qui la caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti
normative gerarchicamente superiori, costituzionali e comunitarie, é
perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione dell’art, 14 D.L.
138/2002; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati
nell'ambito dei processi principali.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione, sezione terza penale, visti gli artt. 134 Cost. e 23
legge 11 marzo 1953 n. 87, - solleva d’ufficio questione di legittimità
costituzionale dell’art. 14 del D.L. 8 luglio 2002, convertito in legge 8 agosto
2002 n. 178, per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione,
dichiarandola rilevante e non manifestamente infondata;
- sospende il giudizio in corso e ordina la immediata trasmissione degli atti
alla Corte costituzionale;
- ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata
agli imputati e al loro difensore, nonché al Presidente del Consiglio dei
Ministri;
- dà altresì mandato alla cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.