Cass. Sez. III sent. 47269 del 29 dicembre 2005 (C.c. 4
novembre 2005)
Pres. Vitalone Est. Sarno Imp. Zuffellato
Rifiuti – Nozione di rifiuto e normativa comunitaria – Ritagli di pelle
Il riutilizzo o recupero di rifiuti (quali sono i ritagli di pelle derivanti dalle lavorazioni primarie di altre imprese) costituisce attività di gestione di rifiuti ai sensi dell’allegato C del D.Lv. 22-1997 e come tale soggetta ad autorizzazione amministrativa anche se la società che li acquista li utilizza come materia prima ciò in quanto l’applicazione dell’articolo 14 D.L. 138-2002 deve effettuarsi tenendo conto, in chiave interpretativa, dei contenuti della decisione della Corte di Giustizia, seconda sezione del 11 novembre 2004
Zuffellato Osvaldo, legale rappresentante di B.S.Z. s.p.a., propone ricorso
per cassazione in relazione alla ordinanza del Tribunale di Vicenza del 17
maggio 2005 con la quale è stata rigetta la richiesta di riesame avverso il
decreto in data 22 aprile 2005, con cui il P.M. ha convalidato il sequestro
probatorio, eseguito d'iniziativa dalla p.g., di 350 metri cubi di rifiuti -
tagli di pellame finito - e della relativa area di stoccaggio, depositati
all'interno di un capannone in uso alla B.S.Z. s.p.a., per i reati di cui
all'art. 51, commi 1, 2 e 3 del D.L.vo 22/97, commessi in Montebello Vicentino,
fino al 21 aprile 2005.
Il ricorrente eccepisce:
l) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 51, comma 1, D.L.vo 22/97,
art. 6 co. 1, lett. a), art. 14 D.L. 138/2002, convertito in legge 8 agosto 2002
n. 178, nonché per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in
relazione all'art. 606 co. 1 lett. b) ed e) cpp.;
2) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 355 e 253 cpp, nonché
mancanza e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 co. 1 lett. c) ed
e) cpp.
Con il primo motivo il ricorrente rileva che i ritagli di pelle non possono
essere considerati rifiuti in base a quanto dispone l'art. 6, comma 1, lett. a)
dall'art. 14 legge 8 agosto 2002 nr. 178 e che erroneamente sarebbe stato
ritenuto dal Tribunale che la B.S.Z. s.p.a. aveva svolto nell'occasione
un'attività di riutilizzo o recupero di rifiuti non autorizzata, in quanto la
B.S.Z. si limitava ad acquistare da alcune ditte dei "ritagli di pelle" e a
rivendere gli stessi ad altre ditte che li utilizzavano nel mercato
dell'abbigliamento per realizzare inserti in pelle o piccoli manufatti in pelle.
La B.S.Z, inoltre, secondo il ricorrente, non svolgerebbe alcuna delle attività
di recupero elencate nell'allegato C posto che i ritagli in esame sarebbero
immessi in altro ciclo produttivo e di consumo conservando uno standard
commerciale, senza alcun preventivo trattamento, e senza alcun pregiudizio per
l'ambiente.
Con il secondo motivo evidenzia, invece, che le cose in sequestro non risultano
necessarie all'accertamento dei fatti in quanto non presentano alcuna utilità
probatoria, essendo stata già accertata la qualità e quantità dei prodotti in
sequestro.
Quanto alle modalità di esecuzione del reato, le stesse non richiederebbero,
secondo il ricorrente, accertamenti ulteriori rispetto alla acquisizione, già
avvenuta, dei documenti fiscali che hanno accompagnato tutte le operazioni
commerciali della BSZ s.p.a..
Sono successivamente pervenuti a questa Corte, ai sensi dell'art. 611 cpp,
motivi di ricorso nuovi, nei quali si sottolinea la riconosciuta compatibilità
dell'art. 14 D.L. 138/2002 con l'ordinamento comunitario; che la stessa Corte di
Giustizia ha escluso dalla nozione di rifiuto di cui alla direttiva 75/442 beni,
sostanze e materiali che il detentore intenda sfruttare o commercializzare a
condizioni favorevoli, senza trasformazioni preliminari; che anche la Corte di
Cassazione ha escluso in alcuni casi per i sottoprodotti l'applicazione del
decreto Ronchi ed, infine, che l'operazione di utilizzo diretto di un rifiuto va
tenuta distinta sul piano concettuale da quella del suo recupero e non rientra
neanche in quella di gestione di cui alla lettera d) dell'art. 6 citato.
Il ricorso è infondato e va rigettato.
Rileva anzitutto il Collegio che, benché il provvedimento di convalida del
sequestro avesse più ampio oggetto ditalchè la contestazione riguardava la
violazione dei commi 1, 2 e 3 dell'art. 51 D.L.vo 22/97, il ricorso, contenente
anche l'esplicita richiesta di restituzione dei beni sequestrati, è, in realtà,
finalizzato a sindacare unicamente la legittimità del sequestro (e della
successiva convalida) del pellame.
E solo su questo punto il Collegio è chiamato, dunque, ad interloquire.
Vanno, inoltre evidenziati, sempre in via preliminare, i limiti del ricorso per
cassazione avverso l'ordinanza emessa in sede di riesame dei provvedimenti di
sequestro probatorio. Esso è, infatti, proponibile solo per violazione di legge.
Ne consegue che non possono essere dedotti con il predetto mezzo di impugnazione
vizi della motivazione, non rientrando nel concetto di violazione di legge, come
indicato negli artt. 111 della Costituzione e 606, lett. b) e c), cod. proc.
pen., anche la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione,
separatamente previste come motivo di ricorso dall'art. 606, lett. e), cod.
proc. pen. (Sez. 6, Sentenza n. 24250 del 4 aprile 2003 Rv. 225578).
Inoltre, in materia di sequestro probatorio la verifica, da parte del Tribunale
del riesame e della Cassazione, delle condizioni di legittimità del decreto che
lo ha disposto non può tradursi in una anticipata decisione della questione di
merito, concernente la responsabilità dell'indagato in ordine al reato oggetto
dell'investigazione, ma deve limitarsi al controllo, nei limiti del devolutum,
della compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata,
con valutazione prioritaria ed attenta della antigiuridicità del fatto (Sez. 2,
Ordinanza n. 26457 del 22 giugno 2005 Cc. Rv. 231959).
Ciò premesso, venendo al merito della questione sollevata sembra opportuno
procedere ad alcune puntualizzazioni.
Il tribunale motiva il provvedimento di rigetto affermando che il riutilizzo o
recupero di rifiuti (come sono nel caso in esame i ritagli di pelle, derivanti
dalle lavorazioni primarie effettuate da altre imprese) costituisce comunque
un'attività di gestione di rifiuti, ai sensi dell'allegato C del D.L.vo 22/92,
come tale soggetta ad autorizzazione amministrativa, anche se la società che li
acquista (nella fattispecie, la B.S.Z.) li utilizza come materia prima.
La decisione impugnata, dunque, rigetta il gravame già sul presupposto
dell'applicabilità della disposizione dell'art. 14 D.L. 138/2002, a lungo
richiamata, come visto, nei motivi di ricorso.
Ed, invero, l'art. 14 esclude dalla nozione di rifiuto beni o sostanze e
materiali residuali di produzione o di consumo solo se gli stessi possono essere
e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo
ciclo produttivo o di consumo, dopo avere subito un trattamento preventivo senza
che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate
nell'allegato C del decreto legislativo n. 22/97.
Il ricorrente contesta in fatto quest'ultima affermazione ma, prima ancora,
contesta che nella specie il materiale in sequestro possa essere in astratto
considerato "rifiuto".
E, ciò, sotto un duplice profilo.
Sostiene, infatti, che ai sensi dell'art. 14 citato, la riutilizzazione del
materiale sequestrato in altri cicli di produzione, ne faccia escludere la
natura di rifiuto ed, inoltre, che lo stesso sarebbe, in realtà, un
sottoprodotto della lavorazione principale, in quanto tale autonomamente
commerciabile quindi, anche sotto tale profilo, non qualificabile come rifiuto.
Al riguardo ritiene il Collegio anzitutto opportuno puntualizzare che il punto
4.00.00 del Codice CER espressamente fa riferimento ai rifiuti della lavorazione
di pelli e pellicce, ricomprendendo, tra l'altro, al punto 4.01.08, cuoio
conciato (scarti, cascami, ritagli polveri di lucidatura) contenenti cromo; al
punto 4.01.09, rifiuti delle operazioni di confezionamento e rifinitura ed, al
pronto 4.01.99, rifiuti non specificati altrimenti.
Inoltre, la qualifica di sottoprodotto dei ritagli di pellame in sequestro non
può essere semplicemente affermata ma va in concreto dimostrata.
Trattandosi, infatti, di scarti che sopravvivono al procedimento originario di
lavorazione, essi normalmente costituiscono un prodotto che, per rifarsi alle
definizioni della Corte di Giustizia Europea, non è stato ricercato in quanto
tale al fine di un utilizzo ulteriore (sentenza ARCO Chemie Nederland e a.) e,
pertanto, essi sembrano piuttosto inquadrabili, in via di principio, nella
categoria dei residui di produzione o di consumo. Ciò posto, con riferimento
alla prima questione, rileva il Collegio che la Corte di Giustizia - Seconda
Sezione - in data 11 novembre 2004, nel procedimento C-457/02, ha ritenuto che
l'interpretazione risultante dall'art. 14 del decreto legge n. 138/02, secondo
la quale, affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla
qualifica come rifiuto, sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere
riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di
trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo
trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi
dell'allegato II B della direttiva 75/442, si risolve manifestamente nel
sottrarre indebitamente alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di
consumo che invece corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lett. a),
primo comma, della direttiva 75/442.
Ed appare evidente che di tale decisione si debba senz'altro tenere conto in
chiave interpretativa come più volte affermato da questa Corte (ex multis, Sez.
3, Sentenza n. 17656 del 15 gennaio 2003 Rv 224716) con motivazioni che si
devono intendere in questa sede richiamate.
In relazione, poi, al problema posto dal ricorrente relativo alla
configurabilità della nozione di rifiuto in presenza di materiale avente
comunque valore commerciale, si deve precisare quanto segue.
Questa Corte ha più volte affermato, richiamando anche gli indirizzi assunti su
punto dalla Corte di Giustizia, che la nozione di rifiuto non può essere intesa
nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione
economica.
Si richiamano, in quanto pienamente condivise, al riguardo le motivazioni da
ultimo addotte da Sez. 3, Sentenza n. 31011 del 18 giugno 2002 Rv 222390.
In esse si ribadisce, ancora una volta, che nella "categoria dei rifiuti
rientrano quelle sostanze ed oggetti non più idonei a soddisfare i bisogni cui
essi erano originariamente destinati, pur se non ancora privi di valore
economico, sicché "abbandonato o destinato all'abbandono" va inteso non nel
senso civilistico di res nullius o di res derelicta, disponibili all'apprensione
di chiunque, sibbene di sostanza od oggetto ormai inservibile alla sua funzione
originaria, dismesso o destinato ad essere dismesso da chi lo detiene"; e si
rileva anche "che tale impostazione oggettiva questa Corte ha mantenuto pure
quando il legislatore con una serie di decreti-legge reiterati e mai convertiti
aveva introdotto la categoria dei "residui" cioè di rifiuti riutilizzabili,
richiedendo sempre "la destinazione attuale, effettiva ed oggettiva al reimpiego
produttivo, non essendo sufficiente una mera idoneità materiale al riutilizzo".
Quanto ai più recenti orientamenti assunti dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia, si deve rilevare come la stessa, anche nella decisione da ultimo
adottata il 14 novembre 2004, nel procedimento C-457/02, avente ad oggetto
specificamente una domanda di pronuncia pregiudiziale sottoposta alla Corte, ai
sensi dell'art. 234 CE, in merito all'applicazione dell'art. 14 citato, ha
operato alcune precisazioni importanti.
Ed, invero, sul presupposto, già peraltro affermato in altre decisioni, secondo
il quale la questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto
deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze emergenti, tenendo
conto della finalità della direttiva 75/442 ed in modo da non pregiudicarne
l'efficacia (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 73, 88 e 97), dopo
avere distinto tra residuo di produzione e sottoprodotto derivante dalla
lavorazione del prodotto principale, ammette, limitatamente ai sottoprodotti,
che essi possano essere oggetto di autonoma commercializzazione e, pertanto,
rimanere esclusi dalla nozione di rifiuto.
Senonchè, sottolinea la Corte di Giustizia, vi è l'obbligo di interpretare in
maniera estensiva la nozione di rifiuti, per limitare gli inconvenienti o i
danni inerenti alla loro natura; ed il ricorso alla argomentazione, relativa ai
sottoprodotti, dev'essere circoscritto, quindi, alle situazioni in cui il
riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo
eventuale, ma certo, senza previa trasformazione, e avvenga nel corso del
processo di produzione (sentenza Palin Granit, cit., punto 36).
Ed aggiunge anche, circostanza anch'essa rilevante in questa sede, che
quest'ultima analisi non è valida, invece, per quanto riguarda i residui di
consumo, che non possono essere considerati «sottoprodotti» di un processo di
fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del
processo produttivo; e che, pertanto, nel caso in cui essi siano utilizzati in
altro procedimento produttivo, sono, invece, da considerare rifiuti finché non
costituiscano prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati.
Peraltro, come più volte affermato da questa Corte, l'accertamento della natura
di un oggetto come rifiuto costituisce una "quaestio facti" demandata al giudice
di merito ed insindacabile in sede di legittimità se esente da vizi logici o
giuridici. (Sez. 3, Sentenza n. 31011 del 18 giugno 2002 Rv. 222390; Sez. 3, n.
7567, 27/6/1992, RV 190923).
Infondato appare anche il secondo motivo di ricorso.
Il tribunale motiva, infatti anche in relazione alla sussistenza del "periculum"
correttamente individuando ed elencando le esigenze probatorie.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna per il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.