Cass Sez. III n. 32143 del 26 settembre 2002 (Ud.30-05-2002 )
Pres. Savignano Est. Novarese Ric.Parodi G.
Rigetta, App. Milano, 20 dicembre 2001).
SANITÀ PUBBLICA - IN GENERE - Catalogo dei rifiuti - Rifiuto pericoloso - Individuazione - Criteri.

In tema di gestione dei rifiuti, la previsione contenuta nel nuovo elenco dei rifiuti, introdotto con il Regolamento della Commissione delle Comunità Europee 28 dicembre 2001 n. 2557, e per la quale, se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose e come non pericoloso in quanto diverso da quello pericoloso (cd. voce a specchio), esso è qualificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni, tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all'allegato III della direttiva 91/689/CEE, va intesa nel senso che il criterio della concentrazione limite va applicato esclusivamente nei casi in cui i rifiuti possano essere classificati nelle citate voci specchio o voci speculari, atteso che in tali ipotesi risultano nell'elenco due voci, l'una riferita al tipo di rifiuto pericoloso (contrassegnato con asterisco nel Catalogo) ed altra concernente quello non pericoloso; diversamente la concentrazione limite non è richiesta ove non esistano tali voci specchio, rimanendo unico criterio quello preesistente della natura e provenienza del rifiuto pericoloso. (Cfr. Direttiva 9 aprile 2001 del Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio, in G.U. 10 maggio 2002 n. 102).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. GIUSEPPE SAVIGNANO - Presidente - del 30/05/2002
1. Dott. GUIDO DE MAIO - Consigliere - SENTENZA
2. " VINCENZO TARDINO " N. 1253
3. " FRANCESCO NOVARESE " REGISTRO GENERALE
4. " AMEDEO FRANCO " n. 5300/2002
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Parodi Giovanni Maria Napoleone n. a Milano il 29 febbraio 1952 avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, del 20 dicembre 2001
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso, Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Novarese
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Parodi Giovanni Maria Napoleone ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, emessa il 20 dicembre 2001, con la quale veniva condannato per i reati continuati di gestione e di discarica abusive di rifiuti pericolosi, deducendo quali motivi la violazione del d. l.vo n. 22 del 1997, della legge n. 146 del 1994, della direttiva 91/689/ CEE e della decisione del Consiglio 94/904/CEE in tema di classificazione di rifiuti pericolosi, giacché erano stati ritenuti tali, indipendentemente dalla considerazione dell'effettiva concentrazione dei metalli pesanti ed in base ad una riclassificazione del rifiuto con altro codice CER ritenuto più corretto, in tal modo procedendo ad un'interpretazione in malam partem in violazione dei principi di legalità e determinatezza della fattispecie penale, ed ad una differente classificazione del rifiuto, la manifesta illogicità della motivazione al riguardo, poiché, da un lato, i giudici di merito affermano che non si può procedere sulla base di una personale e libera interpretazione degli allegati G, H ed I del d. l.vo n. 22 del 1997, e dall'altro si opera la classificazione in virtù del parere espresso dal perito; l'erronea applicazione del d. l.vo n. 22 del 1997 nella parte in cui si afferma che l'imputato non abbia proceduto al riutilizzo dei rifiuti secondo la comunicazione effettuata a nulla rilevando il mancato rispetto delle norme tecniche indicate in detto atto; la violazione dell'art. 51 d. l.vo cit., poiché non si era in presenza di una discarica abusiva, ma dell'abbandono di alcuni mucchietti, e la carenza dell'elemento psicologico o l'errore scusabile su legge penale, ingenerato dalla confusione normativa.
Con memoria, depositata il 24 maggio 2002 e, quindi, intempestiva, ma di cui si riassumono le questioni di diritto, il ricorrente evidenziava che il principio della concentrazione limite di un fattore di pericolo è comune a tutta la legislazione ambientale e si rinviene pure in materia di rifiuti ed in particolare di quelli pericolosi in base alla normativa comunitaria, in virtù della quale occorre interpretare quella nazionale qualora non sia chiara o possa aver violato la legge di delega.
Rilevava, inoltre, che nel caso di specie non è in questione la circostanza della dimostrazione della non pericolosità dei rifiuti contenenti metalli pesanti (cod. C.E.R. 060504), bensì l'erronea attribuzione di quel codice a rifiuti classificati dal produttore con codici C.E.R. non pericolosi e ricondotti dai giudici di merito a quello da considerare pericoloso sulla base della presenza al loro interno di elementi tossici e nocivi che non hanno mai superato i livelli di concentrazione limite richiesti dalla legislazione comunitaria e, comunque, dal nuovo codice C.E.R. in vigore dal 1 gennaio 2002, secondo quanto stabilito dalla "direttiva" del Ministero dell'Ambiente d'intesa con i ministri delle attività produttive, della salute e delle politiche agricole e sociali del 9 aprile 2002 in base alle decisioni della Commissione C.E. n. 532 del 2000 e n.n. 118, 119 e 573 del 2001.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Appare opportuno procedere ad una differente trattazione dei motivi dedotti, giacché, ove fossero fondati quelli relativi, all'insussistenza di una discarica abusiva e di una gestione di rifiuti oppure fosse configurabile un errore scusabile, sarebbe inutile l'esame delle prime due censure.
Tuttavia questi motivi appaiono manifestamente infondati ed, alcuni. neppure deducibili in sede di legittimità, perché contengono differenti apprezzamenti delle risultanze processuali, valutate in maniera ineccepibile dal giudice di merito, ed accertamenti in fatto. Ed invero la destinazione effettiva all'utilizzo dei rifiuti, nella fattispecie, peraltro, non dimostrata, giacché quelli in esubero venivano conferiti in una discarica abusiva, non determina la possibilità di stoccarli senza procedere alla loro messa in sicurezza e senza adempiere a tutti gli obblighi assunti con la comunicazione effettuata all'autorità competente (esistenza di eluato dai cumuli di fanghi non stoccati sotto la tettoia, ma a cielo aperto, su fondo non cementato in modo da costituire pericolo per l'ambiente), giacché non rileva l'impermeabilità del suolo, in quanto detta condizione non solo non era stata comunicata alla P.A. ma anche non esclude altri pericoli per l'ambiente. Perciò le differenti ricostruzioni del ricorrente non sono consentite in sede di legittimità.
Per quanto attiene all'esistenza di una discarica "entro la proprietà del Parodi è stata affermata dal primo giudice sulla base delle fotografie allegate al fascicolo del dibattimento .. e delle deposizioni dei testi che hanno riferito dell'esistenza nella cava di ingenti quantità di rifiuti fra cui anche rifiuti industriali utilizzati dalla ditta dell'imputato", mentre il giudice di appello esamina la doglianza e le allegazioni difensive del ricorrente e rileva che "accanto a materiale di demolizione ... vi erano dei fanghi, che .. risultavano provenire dalla laterizi di Senago, perché avevano lo stesso aspetto, lo stesso odore e risultavano ivi trasportati con gli stessi contenitori (in plastica ed in sacchi neri) dei fanghi che si trovavano sotto la tettoia di via Isolino". Aggiunge la Corte che "nell'area .. i fanghi visibili erano intorno ai 20/30 m.c, ma poiché l'attività di discarica appariva risalente nel tempo, erano stati asportati, scavando, circa 100 m.c di terra mista a fango", sempre riferendo la deposizione del teste Cozzupoli, e conclude che nella cava di proprietà del Parodi vi erano materiali di varia origine e provenienza, tutti destinati all'abbandono, accumulati a seguito di più scarichi succedutisi nel tempo e contenenti anche rifiuti provenienti dall'Industria del ricorrente, spiegando pure il motivo per cui l'imputato, nonostante avesse effettuato la comunicazione per poter procedere al recupero di rifiuti non pericolosi per fabbricare mattoni, ne avesse eliminati alcuni, in quanto non tutti potevano essere riutilizzati ed erano compatibili sia sotto il profilo tecnico sia sotto quello legislativo.
Infine la Corte meneghina evidenzia una considerazione lapalissiana secondo cui "ritirare rifiuti da riutilizzare e destinarli invece all'abbandono" in una discarica non autorizzata nella cava di proprietà non costa denaro, ma viene anche remunerato, tanto più che risulta dimostrato per tabulas che il "Parodi riceveva normalmente fanghi in eccedenza rispetto a quelli che gli servivano per fabbricare i mattoni".
Pertanto, le affermazioni del ricorrente secondo cui si sarebbe in presenza di un deposito incontrollato di rifiuti, appaiono destituite di fondamento e non è possibile insistere sull'esistenza di "mucchietti" e di solo "qualche traccia" di fanghi, proponendo accertamenti in fatto e differenti ricostruzioni di chiare risultanze processuali non consentite in Cassazione.
Peraltro, per completare il quadro fattuale, anche ai fini delle altre censure, oltre al reperimento di una quantità eccessiva di rifiuti, poi "tombati" in una cava divenuta una discarica, deve evidenziarsi l'omessa annotazione di un rifiuto pericoloso di cui si sconosce persino la destinazione, sicché stupisce l'omessa contestazione di altri e più gravi reati.
Pertanto, le modalità dei fatti, accuratamente narrati nelle due pronunce di merito, il protrarsi della vicenda nel tempo, la sussistenza di molteplici provvedimenti amministrativi, disattesi almeno in parte senza che tale fatto risulti contestato come specifico ed autonomo reato (art. 650 c.p.), l'aver accettato rifiuti in eccedenza, risultati pericolosi in difformità dalla compiacente allegazione del produttore, per conferirli nella discarica abusiva, il tornaconto economico esistente in detta attività illecita, la consapevolezza di indicare nella comunicazione alla Provincia circostanze non rispondenti al vero circa la natura dei rifiuti, ritenuti pericolosi dai periti e dai giudici di merito, senza che sia stata contestata la violazione dell'art. 52 secondo comma d. l.vo n. 22 del 1997, e con riguardo ad adempimenti mai effettuati, la sua qualità di imprenditore ed il conseguente obbligo di informazione e di chiedere consiglio a persone competenti sono circostanze tutte, chiaramente evidenziate nell'impugnata sentenza, la quale, in maniera ineccepibile, esclude la sussistenza di qualsiasi buona fede e di errore scusabile ed evidenzia un'elevata intensità del dolo. Restano da esaminare le due censure indicate per prime in ricorso, pretermesse per ragioni logiche e relative all'erronea applicazione della normativa nazionale e comunitaria in ordine all'individuazione dei rifiuti pericolosi ed alla manifesta illogicità della motivazione sul punto da trattare unitariamente, perché tra loro connesse.
A tal proposito, appare opportuno rilevare che, a differenza di quanto era previsto nel d.P.R. n. 915 del 1982, il quale basava la classificazione dei rifiuti tossici e nocivi quasi esclusivamente sulla loro composizione chimica e sulla concentrazione limite (vedi la delibera 27 luglio 1984 punto 1.3), il decreto legislativo n. 22 del 1997 fonda la distinzione fra rifiuti, pericolosi e non, sulla base della loro provenienza.
Infatti, mentre l'art. 2 quinto comma del d.P.R. n. 915 del 1982 indicava il criterio di individuazione dei rifiuti tossici e nocivi nel fatto che essi contenessero o fossero contaminati da sostanze di cui all'elenco allo stesso allegato, inclusi i policlorodifenili e policlorotrifenili e loro miscele, in quantità e/o in concentrazioni tali da presentare un pericolo per la salute, nel decreto legislativo in parola la valutazione di pericolosità non è rimessa all'analisi, caso per caso, dello specifico rifiuto, ma è effettuata dal legislatore attraverso una puntuale elencazione.
Ed invero l'art. 7 quarto comma d. l.vo cit. definisce come pericolosi i rifiuti non domestici elencati nell'allegato D e nella sua formulazione testuale e perentoria ("Sono pericolosi") esclude ogni prova contraria.
Questo allegato riproduce integralmente l'elenco dei rifiuti pericolosi contenuto nella decisione del Consiglio 94/904/ CE del 22 dicembre 1994, che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'art. 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/91/CEE relativa ai rifiuti pericolosi e finalizzata al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri.
Questa direttiva, a sua volta, all'art. 1 quarto comma, prima alinea, stabilisce che "ai fini della presente direttiva, si intende per rifiuti pericolosi, i rifiuti precisati in un elenco da stabilirsi conformemente alle procedure previste dall'art. 18 della direttiva 75/442/CEE e basato sugli allegati 1^ e 2^, contenuti nella direttiva del 1991, precisando che "tali rifiuti devono possedere almeno una delle caratteristiche elencate nell'allegato 3^. L'elenco precitato tiene conto dell'origine e della composizione dei rifiuti e eventualmente (sottolineatura dell'estensore) dei valori limite di concentrazione. L'elenco è riesaminato periodicamente e, se necessario, riveduto secondo la stessa procedura" cioè quella contemplata dall'art. 18 direttiva del 1975, che deve essere attivata dinanzi alla Commissione esclusivamente e direttamente dallo Stato membro.
Questo elenco è quello attuato dalla decisione 94/904 cit., nella cui Introduzione si legge che "i rifiuti precisati nell'elenco sono soggetti alla disposizione della direttiva 91/689 relativa alla definizione di rifiuti pericolosi", sicché l'elencazione in oggetto è certamente considerata dalla normativa nazionale e comunitaria come costitutiva della qualifica di pericolosità dei rifiuti, individuati con il codice a sei cifre dall'all. D.
Il punto quattro della decisione del 1994 citata, secondo cui uno Stato può considerare pericolosi dei rifiuti che presentino una delle caratteristiche dell'all. 3^ della direttiva 91/689/CEE, benché diversi da quelli elencati nella decisione, lungi dall'escludere la tassatività dell'elenco di cui all'allegato D del decreto Ronchi, nell'originaria stesura, ne esprime soltanto la sua non esaustività, prevedendo una specifica procedura su individuata ed azionabile unicamente da uno Stato membro.
Pertanto la normativa comunitaria, seguita da quella nazionale, in maniera pedissequa, ha voluto individuare la categoria dei rifiuti pericolosi in via convenzionale, predeterminata ed ad opera di un Organo comunitario, sancendo i principi della tassatività e della non esaustività dell'elenco dei rifiuti, della tipicità degli stessi e dell'integrazione dell'elenco solo in base ad una specifica procedura ex art. 18 della direttiva 75/445/CEE.
Perciò, nel sistema, antecedente all'istituzione del nuovo C.E.R., entrato in vigore in data 1 gennaio 2002, i rifiuti pericolosi erano quelli contenuti nell'allegato D del d. l.vo n. 22 del 1997, che riproduceva l'elenco della decisione del 1994 su citata, formulato in base ai quaranta gruppi suddivisi in due allegati (IA ed IB) individuati in base alla loro natura e provenienza e ritenuti pericolosi, perché presentavano, secondo una valutazione "a priori", basata sulla natura e sulla provenienza, quelli dell'allegato IA una qualsiasi delle caratteristiche di pericolosità elencate nell'allegato 3^, mentre quelli dell'allegato IB contenevano uno qualunque dei 51 prodotti chimici o loro classi elencati nell'allegato 2^ ed aventi una delle caratteristiche elencate nel predetto allegato 3^.
In conclusione, non è esatto affermare che il nostro legislatore non poteva discostarsi sul punto dalla normativa comunitaria, in quanto nè il d. l.vo n. 22 del 1997 ne' i suoi allegati hanno recepito il principio enunciato in uno dei "considerando" della decisione 94/904, secondo cui gli "Stati membri possono (sottolineatura dell'estensore) in casi eccezionali stabilire, sulla base di sufficienti prove documentali fornite dal detentore, che un dato rifiuto dell'elenco non presenta alcuna delle caratteristiche indicate nell'allegato 3^ della direttiva 91/689/CEE", sicché pure sotto questo profilo è confermata la tassatività dell'elenco D dei rifiuti pericolosi, mentre la stessa normativa comunitaria, come visto, era per la tassatività dell'elenco, la tipicità dei rifiuti pericolosi e la non esaustività degli stessi.
Del resto la Commissione CE, nella sua prima comunicazione al governo italiano in relazione alla bozza del decreto n. 22 del 1997, aveva testualmente precisato, rifacendosi all'art. 1 comma 4 della direttiva n. 91/689 che "i rifiuti pericolosi sono solo quelli di cui alla decisione del Consiglio 94/904/CE. Gli Stati membri, qualora ritengano che un rifiuto non contenuto in tale decisione presenti caratteristiche di pericolosità di cui all'allegato 3^ ... sono tenuti a notificare tali rifiuti alla Commissione, che predispone in ordine all'adattamento della decisione 94/904/CE attraverso il Comitato di cui all'art. 18 della direttiva 75/442/CE". Peraltro, la direttiva del Consiglio CE del 12 dicembre 1991 all'art. 1 punto quattro ritiene solo eventuale la considerazione dei valori limite di concentrazione ai fini di individuare la pericolosità di un rifiuto, giacché si riferisce all'origine ed alla composizione del rifiuto in via primaria e limita i rifiuti pericolosi a quelli precisati in un elenco da stabilirsi conformemente alla procedura prevista all'articolo 18 della direttiva 75/442/CE, formulato sulla base degli allegati 1^ e 2^ della direttiva, secondo una delle caratteristiche elencate nell'allegato 3^.
La presenza di queste caratteristiche nei rifiuti pericolosi indicati nell'allegato D al d. l.vo n. 22 del 1997 è ribadita dall'art. 1 della decisione 94/904/CE ed è confermata dalla richiesta della Commissione CE di inserire l'allegato 3^ nel decreto Ronchi e dalle correzioni apportate dal d. l.vo n. 389 del 1997 con l'introduzione "tautologica", secondo un illustre esperto, degli allegati G, H ed I (i maiuscolo), di cui solo l'ultimo riguardava il predetto allegato, recependolo pedissequamente.
L'introduzione di detta modifica aveva esclusivamente un carattere formale, giacché serviva solo a chiarire le caratteristiche di pericolosità dei rifiuti contenuti nell'elenco comunitario o in base al quale ampliare con la specifica procedura l'elenco, ma, secondo un altro illustre esperto, avrebbe un significato "recondito" per l'aggiunta degli altri due allegati (contra vedi sul punto Cass. sez. 3^ 30 ottobre 2000, non massimata ma in Riv. giur. amb. 2001, 459, per la perdurante tassatività dell'elenco).
Tuttavia, la dottrina quasi unanime e la giurisprudenza prevalente, di merito e di legittimità, hanno ritenuto che l'elenco di cui alla lettera D fosse da considerare ancora tassativo, costitutivo della qualità di rifiuto pericoloso, di cui predicava la tipicità, ed operativo, sicché, ove un rifiuto fosse indicato in quell'elenco non sarebbero state ammesse controprove o diverse analisi. Pertanto, il decreto legislativo n. 22 del 1997 prendeva in considerazione la provenienza del rifiuto, sulla base di valutazioni quali - quantitative aprioristiche concretizzatesi nell'allegato D, di cui gli allegati G, H ed I erano solo i presupposti, e legate alla considerazione del ciclo produttivo nel quale si era venuto a creare. Il quadro normativo, dottrinale e giurisprudenziale sul punto è rimasto stabile fino alla pronuncia della sentenza della Corte di Giustizia (sez. 4^ del 22 giugno 2000), che ha sollevato in dottrina numerosi dubbi e difformi interpretazioni, giacché, per alcuni, avrebbe attribuito al giudice penale italiano il potere di includere nel catalogo dei rifiuti come pericoloso uno non previsto nello stesso o considerato non pericoloso, mentre, per altri, non sarebbe plausibile una simile interpretazione, giacché la Corte consente alle autorità giudiziarie degli Stati membri di qualificare pericolosi rifiuti diversi da quelli figuranti nell'elenco dei rifiuti pericolosi, purché ciò avvenga nell'ambito dei poteri di dette autorità.
Orbene, anche se si volesse ritenere che alla prima analisi esegetica, in realtà semplicistica, non vi ostano i principi di legalità e di determinatezza o tassatività della fattispecie penale, perché questa può essere eterointegrata da altre disposizioni di differente rango, e pur se fosse possibile procedere ad un'interpretazione ritenuta in malam partem della direttiva comunitaria, poiché si dà attuazione ad una sentenza della Corte di Giustizia, immediatamente esecutiva ed obbligatoria per tutti i giudici dell'Unione Europea, la predetta pronuncia si riferisce "all'ambito dei poteri" delle rispettive autorità giudiziarie ed alla procedura nazionale che deve essere seguita per procedere alla qualificazione dei rifiuti come pericolosi, sempre nel rispetto dell'iter procedurale di cui all'art. 18 della direttiva 75/442. Pertanto, poiché il giudice penale italiano non ha questi poteri, a differenza di quello di "common law", e non è l'organo competente secondo la legislazione nazionale dello Stato membro ad effettuare le notificazioni alla commissione ed a procedere alla qualificazione dei rifiuti come pericolosi, diversi da quelli indicati dall'allegato D, giacché gli è consentito solo di accertare i requisiti di pericolosità, la su indicata pronuncia della Corte, nella specifica situazione, costituzionale ed ordinamentale italiana, assume più un effetto anticipatorio della decisione della Commissione europea in tema di nuovo CER ed un'indicazione di principio che ha un valore vincolante sul punto per il giudice italiano.
Pertanto, pure dopo questa sentenza, il rifiuto espressamente collocato nell'elenco di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997 e successive modificazioni era da qualificare pericoloso senza necessità di alcuna dimostrazione sia positiva, per confermarne la natura, sia negativa per smentirla, mentre non era possibile al giudice penale italiano inserire nell'elenco nuovi rifiuti da qualificare come pericolosi, nonostante ne sussistessero le caratteristiche di cui all'allegato I (i maiuscola), che ha recepito l'allegato 3^ della direttiva 91/689/CEE, come integrato dalla decisione comunitaria 94/904/CE, citate, senza attuare la procedura ex art. 18 dir. 75/445/CEE.
La situazione si è venuta mutando a seguito dell'introduzione del nuovo CER (Catalogo Europeo Rifiuti) con la decisione CE del 3 maggio 2000 n. 532, modificata con la decisione del 22 gennaio 2001 n. 2001/118/CE e successivamente rettificata con la decisione n. 573 del 2001, in vigore dal primo gennaio 2002, giacché, con il c.d. nuovo C.E.R., appare sorpassato, solo parzialmente, il criterio dell'origine-provenienza, precedentemente vigente, già ritenuto dalla Corte di Giustizia nella citata sentenza del 2000 come "non .. indispensabile ai fini della classificazione del rifiuto stesso come pericoloso", ma soprattutto si ritorna ad un sistema che predilige l'indagine chimica e stabilisce per alcuni rifiuti il riferimento a concentrazioni limite, riportate nell'art. 2 della decisione 2000/532/CE come modificata dall'art. 1 dell'altra 2001/118/CE. La rilevanza di questo nuovo codice europeo dei rifiuti in sede nazionale presuppone risolto in senso negativo il dubbio avanzato da un tecnico circa la necessità di un recepimento da parte dell'Italia mediante un decreto ministeriale, basata sull'art. 4 della decisione della Commissione, in cui è previsto che "gli Stati membri adottano le misure necessarie per conformarsi alla presente decisione entro il 1^ gennaio 2002" e sull'art. 18 secondo comma d. l.vo n. 22 del 1997, che prevede tra le competenze dello Stato alla lettera o "l'aggiornamento degli allegati al presente decreto". Orbene, a parere del collegio, un simile dubbio non ha ragione d'esistere, ove si consideri che la legge n. 443 del 2001 (al comma quindicesimo dell'articolo unico) ha previsto una disciplina transitoria per i soggetti che effettuano attività di gestione la cui classificazione è stata modificata dalle predette normative comunitarie, sicché, prima dello spirare del termine, il legislatore nazionale ha recepito tal quale il contenuto delle citate decisioni della Commissione Europea.
Ulteriore conferma a detta esegesi deriva dalla "direttiva" del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio datata 9 aprile 2002, pubblicata sul supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale del 10 maggio, contenente "indicazioni per la corretta e piena applicazione del regolamento comunitario n. 2557/2001 sulle spedizioni di rifiuti ed in relazione al nuovo elenco dei rifiuti", di cui si presuppone la vigenza.
Pertanto, in questo modo. senza necessità di un decreto ministeriale o interministeriale, lo Stato italiano ha aggiornato l'elenco dei rifiuti, sostituendo quelli precedenti con uno unico, ed ha adottato le misure per conformarsi alle decisioni della Commissione CE su indicate, tanto più che le decisioni predette, secondo la prevalente dottrina, qualora siano "self-executing", non necessitano di un atto formale dello Stato membro di recepimento, poiché spiegano la loro efficacia direttamente, onde, anche sotto il profilo della gerarchia delle fonti comunitarie, si dimostra l'entrata in vigore del nuovo elenco in data 1 gennaio 2002.
Ritenuta l'applicabilità di detto nuovo elenco, si pone un'altra questione interpretativa in relazione all'analisi esegetica del punto sei dell'introduzione a detto "nuovo C.E.R." in cui è previsto che "se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio percentuale rispetto al peso) tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all'allegato 3^ della direttiva 91/689/CEE del Consiglio. Per le caratteristiche da H3 a H8, H10 e H11 si applica l'articolo 2 della presente decisione. Per le caratteristiche HI, H2, H9, H12, H13 e H14 l'articolo 2 della presente decisione non prevede al momento alcuna specifica".
Orbene, secondo due illustri tecnici, per i rifiuti pericolosi in cui non vi è alcun riferimento specifico alla presenza di sostanze pericolose, la loro classificazione come "pericolosi" continua, comunque ed unicamente, a dipendere dall'origine degli stessi, mentre per molti di essi, per i quali il riferimento specifico o generico è effettuato a sostanze pericolose, questo sarà considerato tale solo se le sostanze raggiungano determinate concentrazioni che gli conferiscano una o più caratteristiche di pericolo di cui all'allegato 3^ alla direttiva n. 91/689/CEE.
Tuttavia altri due qualificati tecnici ritengono che il criterio della concentrazione limite introdotto dalla decisione 2001/118/CE si applica esclusivamente nel casi in cui i rifiuti possano essere classificati in "voci speculari" o "voci specchio", giacché, in detta ipotesi, risultano nell'elenco due "voci speculari": una riferita al tipo di rifiuto pericoloso, contrassegnato da asterisco nell'unitario catalogo, ed altra concernente quello non pericoloso (ex. gr. rifiuti agrochimici codici 020108 e 020109), mentre la concentrazione limite non è richiesta ove non esistano dette voci specchio.
Tale tesi è accolta dalla citata direttiva del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio del 9 aprile 2002, che, parafrasando ed esplicitando l'introduzione all'elenco dei rifiuti, contenuta nelle decisioni della Commissione C.E. del 2001/118/C.E., espressamente al punto sei prevede che "la classificazione di un rifiuto identificato da una 'voce a specchio' e la conseguente attribuzione del codice sono effettuate dal produttore/detentore del rifiuto", mentre nell'allegato B, in cui è previsto uno "schema di trasposizione dai codici C.E.R. di cui agli allegati del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, ai codici dell'elenco dei rifiuti di cui alla decisione 2000/532/CE come modificata dalle decisioni 2001/118/CE, 2001/119/CE e 2001/573/CE" e soprattutto nell'allegato C "Schema di trasposizione dei codici C.E.R. nei codici dell'elenco dei rifiuti (decisione 200/532/Ce e successive modifiche ed integrazioni)" allegato 1 sub allegato 1 ed allegato 2 sub allegato 1 i raffronti vengono effettuati attraverso l'utilizzazione delle voci specchio.
Una simile differenza interpretativa del punto sei dell'introduzione comunitaria al nuovo C.E.R. determina alcune rilevanti conseguenze, giacché, accedendo alla prima tesi, secondo quanto è stato evidenziato dagli illustri tecnici, i rifiuti pericolosi, che in totale sono 405, richiederebbero l'accertamento della concentrazione limite in numero di 120, ove si accedesse alla loro tesi, mentre la quantità sarebbe inferiore (novanta rifiuti pericolosi), qualora si seguisse la tesi ministeriale, avanzata dagli altri due autori e relativa alle c.d. voci specchio.
Logicamente nell'esaminare le due opinioni espresse non si può propendere per l'ultima soltanto sulla base della scelta ministeriale, giacché la "direttiva" del 9 aprile 2002, su richiamata, potrebbe essere illegittima sul punto, perché in contrasto con una normativa comunitaria, che, pure, si ha l'obbligo di rispettare e si vuole recepire.
Tuttavia, a parere del collegio, poiché l'introduzione all'elenco dei rifiuti si riferisce pure alla normativa comunitaria sulla classificazione, imballaggio ed etichettatura delle sostanze pericolose, recepita, inizialmente, dal legislatore nazionale con la legge n. 256 del 1974 e, poi, con il d. l.vo n. 52 del 1997, successivamente modificato con d.l. 6^ n. 90 e n. 285 del 1998 e, quindi, aggiornata con vari decreti (cfr. fra gli ultimi quelli del 26 gennaio, 11 aprile e 18 maggio 2001), nella quale si fa, a volte, riferimento ad un sistema tipo quello delle voci specchio, come, del resto, nella direttiva base comunitaria 67/548/CEE, varie volte modificata per adeguarla al progresso tecnologico (vedi, a titolo esemplificativo, direttiva, 88/379/CEE sui limiti di concentrazione, 91/410,CEE, 92/32/CEE, 92/37/CEE della Commissione del 30 aprile 1992 allegati 1^ e 2^, 93/67/CEE, sui rischi per l'uomo e per l'ambiente delle sostanze pericolose, 93/90/CEE sull'elenco delle sostanze, 96/56/CE e 99/45 Ce quali ulteriori aggiornamenti) la scelta della direttiva ministeriale appare come interpretativa del punto sei dell'introduzione al nuovo elenco C.E.R. e non si pone in contrasto con il dettato dello stesso, ma ne costituisce un'indispensabile e chiarificatrice precisazione, contribuendo ad esplicitare una formulazione generica.
Peraltro, poiché "i metalli pesanti", in base al punto 5 dell'introduzione, più volte citata, sono distinti dalle "sostanze pericolose", qualsiasi analisi ermeneutica si segua, nelle voci in cui sono previsti i primi e non vi è quella speculare non si deve considerare alcuna concentrazione limite, sicché vige il precedente sistema, fondato sulla natura e provenienza del rifiuto pericoloso. Tuttavia, un simile ragionamento è esatto, ove si tratti di un rifiuto indicato con un determinato codice dal produttore c/o detentore, per il quale non esista alcun dubbio circa una diversa provenienza o natura in virtù di indizi gravi, precisi e concordati, che facciano ritenere esistente un'attività di gestione ed una discarica di rifiuti pericolosi sotto la parvenza del recupero di quelli non pericolosi, come è avvenuto nella fattispecie in esame. Infatti, in tal caso, non rileva che sia sotto il vigore del precedente allegato D sia con il nuovo elenco dei rifiuti di cui alle delibere della Commissione CE del 2000 e del 2001, varie volte indicate, si sarebbe in presenza di rifiuti pericolosi, sicché non è ammessa alcuna prova contraria tesa a dimostrare l'insussistenza delle caratteristiche di pericolosità, ed, "ex adverso", non è consentito al giudice penale considerare pericolosi alcuni rifiuti non classificati come tali nell'allegato D del d. l.vo n. 22 del 1997 o nel nuovo C.E.R., in quanto non si tratta di "creare" un nuovo rifiuto da definire pericoloso (situazione riscontrata nella fattispecie decisa da Cass. sez. 3^ 28 ottobre 1997, Aprà e sottoposta all'esame della Corte di Giustizia CEE dal Pretore di Udine, sezione distaccata di Cividale del Friuli, e decisa con la citata sentenza sez. 6^ 22 giugno 2000), ma si è in presenza di una problematica soltanto processuale circa la sussistenza dei fatti contestati attraverso un'imputazione, invero, sintetica, ma di cui non si duole ne' si è mai occupato il ricorrente.
Orbene, dalle sentenze dei due giudici di merito risultano pacificamente i seguenti fatti:
a) solo una minima parte dei rifiuti da recuperare era stoccata sotto una tettoia, mentre la gran parte era accumulata su terreno nudo, in piazzale scoperto ed esposti alle intemperie, perché solo parzialmente coperti da teloni, sicché esisteva una diluizione "naturale" dei vari componenti del rifiuto;
b) l'esistenza, pure per tale ragione, di eluati con presenza di piombo e rame cioè di metalli pesanti ai sensi del punto 5 dell'introduzione al nuovo catasto C.E.R. ed anche delle direttive sull'etichettatura delle sostanze pericolose;
c) l'omessa annotazione sul registro di carico e scarico del ricevimento del carico di Kg. 4000 di "fango bonder di fosfatazione" codice C.E. R. 110108, rifiuto pericoloso sia sotto il vigore del precedente che del nuovo elenco (all. D d. l.vo n. 22 del 1997 ed allegato delle delibere della Commissione CE del 2000 e del 2001) senza necessità di considerare concentrazioni limiti;
d) l'esistenza di un rifiuto qualificato "fango da trattamento acque di processo" risultato, durante il vigore della disciplina transitoria di cui all'art. 57 d. l.vo n. 22 del 1997, non conforme al D.M. 5 settembre 1994 (caratteristiche 18.13 dell'allegato 3 al D.M. cit.), perché conteneva carbonio organico al 63,7% superiore al limite del 30% e corrispondente alla C. L. di un rifiuto, all'epoca, tossico-nocivo, sicché non corrispondeva a quanto dichiarato;
e) la presenza di un altro rifiuto non annotato nel registro di carico e scarico, di cui, a differenza del precedente, non era stato possibile neppure accertare la provenienza, sicché, sulla base della sua composizione chimica, unica ammessa nell'elenco D del d. l.vo n. 22 del 1997, veniva qualificato pericoloso, perché classificabile con il codice C.E.R. 070103) "solventi organici alogenati" oppure con l'altro 070104 "altri solventi organici", rimasti tali anche nel nuovo elenco, qualsiasi tesi si segua circa l'individuazione di quei rifiuti pericolosi per i quali occorre considerare la concentrazione limite;
f) la miscelazione dei vari rifiuti (pag. 40 della sentenza d'appello), consistente nell'attività di unione e mescolatura dei rifiuti, attuata in modo indistinto, in modo da rendere complessa, se non impossibile, la materiale distinzione tra le varie categorie di rifiuti pericolosi o tra questi ed altri non classificati come pericolosi;
g) l'ammissione del teste Marzorati di non aver mai ricevuto il formulario identificato dei rifiuti da controllare e di non aver mai conosciuto da quale tipo di lavorazione i fanghi analizzati provenissero, avendo ottenuto l'indicazione a voce, circostanza costituente ulteriore indizio dell'illecita gestione di rifiuti, classificati dal produttore con un codice relativo a quelli non pericolosi, ma, in realtà, pericolosi per la presenza di metalli pesanti;
h) l'esistenza di una serie di comunicazioni alle autorità competenti (Regione e Provincia) non rispondenti alla realtà circa le modalità di stoccaggio e di messa in sicurezza dei rifiuti da recuperare con particolare riferimento alla loro tenuta all'aperto;
i) la sussistenza di una discarica di rifiuti in una cava di proprietà della ditta, nella quale venivano "tombati" pure quelli identici agli altri rinvenuti nello stabilimento e risultati pericolosi;
j) le notevoli quantità di metalli pesanti rinvenute nei campioni di rifiuti analizzati, ulteriore dimostrazione della differente natura del rifiuto, classificato come non pericoloso da produttore, ma, in realtà pericoloso, mentre la perfetta conoscenza di una simile situazione da parte dei ricorrente deriva da tutti i fatti su evidenziati.
Alla luce di queste risultanze probatorie stupisce, secondo quanto già evidenziato, l'omessa contestazione di ulteriori reati dalla violazione dell'art. 650 c.p. per aver disatteso le diffide della Provincia, culminate con il divieto di prosecuzione dell'attività a causa dell'omessa adozione di tutte le misure di sicurezza falsamente comunicate all'autorità competente, alla contravvenzione di cui all'art. 52 terzo comma d. l.vo n. 22 del 1997 ed all'art. 483 c.p. ed al reato previsto dagli artt. 9 e 51 quinto comma d. l.vo n. 22 del 1997, essendosi il P.M. limitato a contestare la gestione e la discarica di rifiuti pericolosi a norma dell'art. 51 primo comma lett. b) e terzo comma del d. l.vo n. 22 del 1997, costituenti il risultato finale di una serie di illeciti deputati al suo raggiungimento.
Pertanto la presenza in quantità notevole di metalli pesanti per la loro particolare pericolosità, secondo quanto anche riscontrato dalla Corte di appello meneghina, e la perizia disposta concorrono ad avvalorare un quadro probatorio di per sè sufficiente a dimostrare la gestione e la discarica di rifiuti pericolosi senza alcuna autorizzazione, tanto più che la presenza di metalli pesanti in quelli classificati sulla base di codici C.E.R. non pericolosi erano chiaro indice di differente provenienza del rifiuto rispetto al ciclo produttivo indicato.
Peraltro la presenza di metalli pesanti da sola farebbe includere il rifiuto in quelli pericolosi, giacché in questo caso non è prevista alcuna concentrazione limite, ma solo la presenza di una delle caratteristiche dell'allegato 3^ alla direttiva 91/689/CE ed alla decisione 94/904/CE.
Pertanto, anche se non si fosse riscontrata nei rifiuti contenenti metalli pesanti, una delle caratteristiche dell'allegato I (i maiuscolo), che recepisce pedissequamente l'allegato 3^ della decisione CE n. 689 del 1991, per ritenerli pericolosi, circostanza tutta da verificare, non riscontabile in sede di legittimità, sussisterebbe la prova della gestione di rifiuti pericolosi e di una discarica degli stessi mediante la miscelazione di alcuni, l'omessa annotazione nel registro di carico e scarico di altri, sicuramente qualificati dal produttore come tali o non riscontrabili per la provenienza, l'esistenza di un rifiuto da ritenere pericoloso in base al D.M. 5 settembre 1994, applicabile durante il regime transitorio ed, in definitiva, in base a tutti quegli indizi gravi precisi e concordanti su indicati.
Pertanto, attraverso questa integrazione della motivazione della sentenza di appello, entrambe le ultime censure mosse non appaiono fondate.
Peraltro, nella fattispecie in esame, i rifiuti sono stati classificati, dopo l'effettuazione dell'analisi e della perizia, con il codice 060405, poiché contenevano metalli pesanti, e sono stati ritenuti pericolosi, indipendentemente dalla concentrazione limite, la quale è diversa dalle caratteristiche di cui all'allegato 3^ della direttiva 91/689/CEE, recepito nell'allegato I (i maiuscola) del d. l.vo n. 22 del 1997 e richiamato ora pure dal nuovo C.E.R., che li ritiene tali senza alcun riferimento a voci specchio, ma alla presenza di metalli pesanti, non costituenti neppure "sostanze pericolose" ai sensi del punto sei dell'introduzione, contenuta nell'allegato alle delibere della Commissione CE del 200 e del 2001 citate.
Infine, come evidenziato pure nella sentenza della Corte di Giustizia su citata, non esiste alcuna incongruenza fra l'affermare la tassatività dell'elenco dei rifiuti contenuto nel CER e la possibilità di qualificare come pericoloso un tipo di rifiuto ovvero di accertarne la natura di rifiuto pericoloso mediante analisi, le quali disvelino che, come nella fattispecie in esame, il codice originale dei produttore non fosse corrispondente alla sua effettiva natura, purché il rifiuto fosse contemplato nell'allegato D ed ora nell'allegato A (nuovo CER unificato), segnalato con asterisco con o senza voci specchio con le differenziate conseguenze evidenziate. Ed invero, "l'origine di un rifiuto non è l'unico criterio di qualificazione della sua pericolosità, bensì costituisce uno dei fattori di cui l'elenco dei rifiuti si limita a 'tener conto'" secondo quanto asserito dalla citata decisione della Corte di Giustizia (sez. 6^ 22 giugno 2000 punto 26).
Pertanto il ricorso proposto deve essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 30 maggio 2002. Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2002