Cass. Sez. III n. 22245 del 4 giugno 2008 (Cc. 23 apr. 2008)
Pres. De Maio Est. Lombardi Ric. P.M. in proc. Rapino
Rifiuto. Particelle d’amianto

Non possono farsi rientrare nella nozione di rifiuto le particelle di amianto che si sono staccate dalle lastre di copertura di un capannone per effetto del dilavamento dovuto alle acque piovane, trattandosi di un fenomeno estraneo alla volontà del detentore.
Considerato in fatto e diritto
Con la impugnata ordinanza il Tribunale di Chieti ha rigettato l’appello proposto dal P.M. avverso il provvedimento del G.I.P. del medesimo Tribunale che aveva respinto la richiesta di sequestro preventivo di un capannone industriale nei confronti di Rapino Armando, indagato del reato di cui all’art. 256, comma secondo, del D.Lgs. n. 152/2006.
La richiesta di sequestro del capannone industriale era stata formulata dal P.M. a seguito di accertamenti eseguiti dall’ARTÀ, dai quali era emerso che la copertura del predetto capannone, di proprietà del Rapino, era costituita da lastre di cemento contenenti amianto del tipo crisolito e crocidolite; che una quota di tale copertura, corrispondente ad oltre il 10%, risultava danneggiata o degradata, sicché la pioggia, sciogliendo la matrice cementizia aveva determinato il fluire delle fibre di amianto presente nei manufatti negli scoli d’acqua piovana ove erano state reperite.
L’ordinanza ha respinto l’appello, osservando che l’esistenza e l’integrità della copertura impedisce di ritenere configurabile il reato di abbandono incontrollato di rifiuti, che non può avere ad oggetto le particele di amianto, il cui rinvenimento impone al proprietario di provvedere all’obbligo di bonifica e di messa in sicurezza dei materiali; obbligo la cui violazione costituisce illecito amministrativo.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica che la denuncia per violazione di legge con riferimento al fumus del reato contestato e delle esigenze cautelari.
Sul primo punto la pubblica accusa ricorrente osserva che il legislatore con l’art. 14 del D.L. n. 138/2002 ha formulato la nozione di rifiuto in termini riduttivi rispetto a quella derivante dalle direttive comunitarie 75/442/CE e 91/156/CE, in particolare avendo riferito il termine disfarsi alle sole operazioni di smaltimento e di recupero del rifiuto, come definite nell’allegato A) del D.Lgs n. 152/06, senza tener conto anche della attività di abbandono della cosa; che, infatti, ci si può disfare di una cosa anche mediante una sua oggettiva destinazione all’abbandono, prescindendo da una sua eventuale riutilizzazione. Si deduce, quindi, che nel caso in esame lo stato di degrado della copertura del capannone industriale, con il conseguente rilascio di fibre di amianto, avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a ravvisare a carico del proprietario l’obbligo di disfarsi dello stesso. Si aggiunge che le lastre di copertura proprio per il loro sfaldamento non possono essere riutilizzate, sicché doveva escludersi la possibilità di accedere ad una interpretazione restrittiva della nozione di rifiuto con riferimento a detta eventualità; che, pertanto, la condotta dell’indagato non poteva essere inquadrata esclusivamente nella fattispecie dell’illecito amministrativo di cui all’art. 15, comma secondo, della L. n. 257/92. Si osserva infine che l’attività di abbandono non deve necessariamente essere caratterizzata dal requisito dell’abitualità e che la stessa assume rilevanza di illecito penale e non meramente amministrativo in relazione alla qualifica soggettiva di chi procede all’abbandono.
Sul secondo punto la pubblica accusa si è riportata alle osservazioni svolte nei motivi di appello, osservando che l’aggravarsi della situazione di sfaldamento della copertura rende possibile il reiterarsi di fenomeni di scolo delle particelle di amianto soprattutto nel periodo invernale.
Con memoria difensiva il Rapino ha dedotto la infondatezza del gravame.
Il ricorso non è fondato.
Osserva in primo luogo la Corte che l’art. 14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in L 8 agosto 2002 n. 178, è stato abrogato dall’art. 264, primo comma lett. l), del D.Lgs. n. 152/2006, sicché il riferimento della pubblica accusa alla nozione di rifiuto, come delimitata dalla norma citata, si palesa inconferente, dovendo tale nozione essere desunta esclusivamente dalla formulazione dell’art. 183, primo comma lett. a), del testo unico attualmente vigente, non modificato sul punto dal D.Lgs. 16 gennaio 2008 n. 4.
Ai sensi del disposto citato, pertanto costituisce rifiuto, come peraltro in precedenza, “qualsiasi sostanza o oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.”
Peraltro, non influiscono sulla nozione di rifiuto, per quanto interessa ai fini del presente giudizio, quella di sottoprodotto e quella di materia prima secondaria, queste ultime, invece, modificate dal citato D.Lgs n. 4/2008, non avendo le cose di cui si chiede il sequestro alcuna delle caratteristiche proprie del sottoprodotto o della materia prima secondaria.
Sicché, per la definizione della nozione di rifiuto, deve farsi esclusivo riferimento al concetto di disfarsi utilizzato dal legislatore nella disposizione citata.
Sul punto è stato affermato da questa Suprema Corte che la definizione di rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della destinazione naturale all’abbandono, non rilevando l’eventuale riutilizzazione, sicché quando il residuo abbia il suddetto carattere ogni successiva fase di smaltimento rientra nella disciplina sui rifiuti (cfr. sez. III, 11 maggio 2001 n. 19125).
Orbene, nel caso in esame, l’ordinanza ha correttamente affermato che non possono farsi rientrare nella nozione di rifiuto le particelle di amianto che si sono staccate dalle lastre di copertura del capannone per effetto del dilavamento dovuto alle acque piovane, trattandosi di un fenomeno estraneo alla volontà del detentore.
In ogni caso, peraltro, la richiesta di sequestro preventivo aveva ad oggetto il capannone industriale ovvero le predette lastre di copertura e non certamente le particelle contenenti fibre di amianto staccatesi dalle stesse per effetto delle intemperie.
Con riferimento alla richiesta di sequestro dell’intero capannone industriale ovvero delle sole lastre di copertura dello stesso si è rilevato nell’ordinanza che la percentuale di deterioramento della copertura non è tale da far ritenere che si sia in presenza di un fenomeno di abbandono incontrollato di rifiuti, con valutazione di fatto non suscettibile di censura in sede di legittimità.
Peraltro, deve essere anche rilevato che la tettoia di copertura costituisce parte integrante del capannone industriale, sicché, fino al momento in cui le lastre di cemento amianto non vengono rimosse, sono prive di autonomia rispetto al fabbricato di cui fanno parte e, pertanto, non possono essere qualificate rifiuto.
Invero, non vi è alcuna condotta del detentore diretta a disfarsene e non sussiste neppure, quale conseguenza della omessa manutenzione, un obbligo del detentore di disfarsene, che deve essere espressamente previsto da norme o da provvedimenti amministrativi.
Tali rilievi, peraltro, trovano rispondenza nella nozione di rifiuti di amianto, di cui all’art. 2, primo comma lett. e) della L. 27 marzo 1992 n. 257, ai sensi del cui disposto rientra in detta categoria “...qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto contenente amianto che abbia perso la sua destinazione d’uso e...”.
Né, infine, quale conseguenza della carenza di manutenzione della tettoia, peraltro quantificata in termini particolarmente riduttivi in punto di fatto dai giudici del riesame, può essere qualificato rifiuto l’intero capannone industriale, in quanto manufatto edilizie per sua destinazione naturale stabilmente collegato al suolo.
In ordine alla rilevata carenza di manutenzione della tettoia, peraltro, è appena il caso di osservare che un’eventuale situazione di pericolo derivante da quanto accertato dall’ARTA trova rimedio nell’emanazione di appositi provvedimenti da parte dell’autorità amministrativa e nell’applicazione delle sanzioni conseguenti alla eventuale inottemperanza da parte del destinatario degli stessi. L’infondatezza del primo motivo di gravame rende superfluo l’esame del secondo.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.