Cass. Sez. III n. 42631 del 22 novembre 2021 (UP 15 set 2021)
Pres. Lapalorcia Est. Galterio Ric. Banti
Rifiuti.Caratteristiche del delitto di attività organizzate per il traffico illecito

Come si ricava dalla previsione di legge, per il perfezionamento del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti si richiede la predisposizione di una vera, sia pure rudimentale, organizzazione professionale con allestimento di mezzi ed impiego di capitali (cui rimanda la menzione di “attività continuative organizzate”), con cui gestire in modo continuativo ed illegale, ingenti quantitativi di rifiuti: da ciò deriva ai fini del perfezionamento del reato la necessità di una pluralità di condotte in continuità temporale, relative ad una o più delle diverse fasi nella quali si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti, costituendo, pertanto, la pluralità delle suddette condotte un elemento costitutivo dello stesso delitto, la cui commissione configura un’unica violazione di legge. Ne deriva che l’antigiuridicità della condotta dipende dalla configurazione unitaria del reato, perdendo al suo interno le singole condotte la loro autonoma rilevanza. Da qui l’infondatezza della assimilabilità della suddetta figura criminosa al reato continuato.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 12.12.2018 la Corte di Appello di Firenze ha confermato la penale responsabilità di Massimo Banti per il reato di cui all’art. 260 d. lgs. 152/2006 per aver in qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione del “Consorzio Conciatori di Fucecchio”, in concorso con il Direttore Generale, gestito abusivamente nel periodo compreso tra il 2006 e il 5.10.2012, al fine di far conseguire all’ente un ingiusto profitto costituito dall’abbattimento dei costi per lo smaltimento dei reflui derivanti dalla lavorazione conciaria e confluenti nell’alveo di un torrente, così come per la ricezione dei rifiuti da trattare eccedenti il limite imposto dall’autorizzazione ambientale integrata, ingenti quantità di rifiuti liquidi provenienti sia dalla propria attività produttiva che da terzi, omettendo di impiegare adeguati quantitativi per l’abbattimento del carico inquinante, alterando  i risultati delle analisi del laboratorio interno al Consorzio e falsificando anche i campioni relativi ai controlli effettuati dall’ARPAT; ha tuttavia, a parziale modifica della sentenza resa all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale di Firenze, ridotto la pena inflitta all’imputato da tre anni a due anni e sei mesi di reclusione.
2. Avverso il suddetto provvedimento il Banti ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando sette motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen..
2.1. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 157 cod. pen., l’intervenuta prescrizione che, attesa la natura di reato abituale improprio del delitto in contestazione, derivante dal fatto che i singoli episodi di cui si compone rivestono autonoma rilevanza penale come contravvenzioni ambientali ai sensi dell’art. 29-quattordecies del d. lgs. 152/2006, copre gli episodi antecedenti al 7.9.2010. Nel contestare l’orientamento giurisprudenziale dominante, secondo cui, in mancanza di espressa regolamentazione codicistica in materia di prescrizione, il reato abituale viene parificato al reato permanente con conseguente decorrenza del dies a quo dall’ultimo giorno della condotta abituale, sostiene che, invece, al fine di evitare che si ripercuotano in capo al reo, in caso di successione di leggi nel tempo, eventuali mutamenti di norme più sfavorevoli sopravvenute durante il tempo in cui perdura la condotta antigiuridica, debba trovare applicazione il principio patrocinato dalla dottrina più autorevole che assimila la disciplina prescrizionale  di tale reato con il reato continuato imponendo di fare riferimento per il decorso del termine di prescrizione al giorno in cui la condotta, unendosi alle precedenti, avrà assunto rilevanza penale oppure dal giorno della singola condotta ove questa integri già di per sé gli estremi di un autonomo reato, dovendo in altri termini aversi riguardo all’autonoma rilevanza delle singole condotte che sono parte del reato abituale ai fini della decorrenza della prescrizione, da calcolarsi per ciascuna di esse. Siffatto criterio è quello che si attaglia, secondo la difesa, alla particolarità del caso di specie essendo intervenuta nell’arco temporale in contestazione, che va dal 2006 al 5.10.2012, la legge 136/2010 che ha raddoppiato per il delitto ex art. 260 d. lgs. 152/2006, in senso sfavorevole all’imputato, i termini di prescrizione allungati a quindici anni. Costituisce perciò, tale essendo il nucleo della contestazione difensiva, violazione del principio di irretroattività della legge più sfavorevole al reo la condanna dell’imputato per fatti criminosi, quali quelli antecedenti al 7.9.2010, che secondo il previgente termine di legge, che prevedeva il minor termine di sette anni e sei mesi, sarebbero stati al momento dell’impugnata sentenza ampiamente prescritti, tenuto conto che il decorso della prescrizione costituisce eccezione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Conclude chiedendo l’annullamento della pronuncia in esame con rinvio al giudice a quo chiamato comunque a valutare, in considerazione del minor numero delle condotte punibili, sia la sussistenza del danno ingente in quanto elemento costitutivo del delitto in contestazione, sia l’entità della pena.
2.2. Con il secondo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 260 d. lgs. 152/2006 e al vizio motivazionale, la mancanza di accertamento del carico inquinante definito ingente in termini soltanto assiomatici. Deduce che quanto alle schede di analisi dei rifiuti in ingresso soltanto tre fra quelle esaminate risultavano alterate da correzioni manualmente effettuate, numero questo all’evidenza insufficiente a configurare l’elemento costitutivo del reato, mentre la circostanza che l’impianto operasse in costante violazione dei limiti autorizzativi è di per sè irrilevante in mancanza di accertamento del quantitativo dei rifiuti ricevuti. Lamenta in ogni caso che l’integrazione dell’ingente quantitativo non possa essere raggiunta attraverso il riferimento al solo dato ponderale, occorrendo per contro una valutazione globale che tenga conto di una pluralità di fattori, tra i quali valore preminente riveste la pericolosità del rifiuto, di fatto insussistente essendosi nel caso di specie trattato di rifiuti trasportati su gomma.
2.3. Con il terzo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 260 d. lgs. 152/2006 al vizio motivazionale, la mancata dimostrazione  del pericolo in mancanza di accertamento del carico inquinante dei rifiuti liquidi, nonché la omessa disamina delle prove fornite dalla difesa in ordine all’insussistenza di pericolo per l’ambiente delle condotte, fra cui  il rilievo del consulente  di parte secondo cui  lo smaltimento dei rifiuti conferiti su gomma costituiva un efficace strumento per l’abbattimento del carico inquinante derivando dalla loro miscelazione un effetto coadiuvante nel trattamento depurativo.
2.4. Con il quarto motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art.110 cod. pen. e al vizio motivazionale, l’affermazione di responsabilità dell’imputato quale concorrente nel reato, del quale non solo non viene individuato il contributo fattivamente prestato per la realizzazione della condotta criminosa venendogli esclusivamente rimproverato di non avere impedito l’evento, ma viene, quanto all’assunta consapevolezza da parte di costui della gestione illecita dell’impianto, fatto riferimento ad un’intercettazione del 19.12.2012 integralmente travisata. Evidenzia al riguardo la difesa, in primo luogo, che si trattasse di una conversazione tra terzi alla quale il Banti era rimasto estraneo, e non, come assume la sentenza impugnata, tra quest’ultimo ed il coimputato Botrini e che in ogni caso nessun riferimento fosse stato mai fatto dai due interlocutori alla sua persona. Deduce peraltro che quand’anche il concorso dell’imputato potesse essere ravvisato in un concorso morale, mancava comunque la dimostrazione della sua partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato, nonché della consapevolezza da parte di costui dell’illecito operato del concorrente Botrini, illogicamente desunta dalle dichiarazioni di quest’ultimo e da quelle del tecnico di laboratorio Ancillotti: al contrario, il Botrini aveva solo sostenuto di avere effettuato le correzioni di talune schede per avvicinare i risultati delle analisi di laboratorio ai valori reali, dalla qual non poteva evincersi alcuna consapevolezza in capo all’imputato, privo di conoscenze tecniche, della illecita gestione peraltro riferita alla sola analisi delle acque in uscita e non ai rifiuti liquidi, laddove l’Ancillotti aveva solo dichiarato che dopo aver riferito al Presidente del Consorzio che gli inquirenti a seguito del sopralluogo si erano accorti della falsificazione dei risultati delle analisi, questi gli avesse solo chiesto le ragioni per le quali le schede in questione si trovassero nel laboratorio, senza tuttavia aver mai detto che il Banti non si fosse mostrato sorpreso, come arbitrariamente affermato dai giudici del gravame.
2.5. Con il quinto motivo lamenta in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 300 d. lgs. 152/2006 e 539 cod, in relazione al. proc. pen.  e al vizio motivazionale, il mancato accertamento di un danno ambientale, illogicamente confuso con il fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, e la conseguente responsabilità risarcitoria dell’imputato che, quand’anche a seguito di una condanna generica, deve necessariamente fondarsi sulla concreta lesione di una posizione giuridica della parte offesa e sul nesso di causalità tra il danno causato ed il pregiudizio sofferto: entrambi i suddetti addendi vengono affermati invece, secondo la difesa, in termini incerti come attesta il termine credibilità utilizzato dalla Corte di Appello che impronta tutto il suo ragionamento su una mera potenzialità lesiva, senza considerare che i rifiuti liquidi erano una parte molto ridotta dei reflui trattati dall’impianto, che non ne è stato mai accertato l’apporto inquinante e che nel torrente in cui questi confluivano scaricava, a monte, un impianto con portata inquinante dieci volte superiore a quella del Consorzio
2.6. Con il sesto motivo lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla pena inflitta all’imputato che, seppur ridotta rispetto a quella determinata dal giudice di primo grado, si discosta comunque in misura sensibile dal minimo edittale, senza aver considerato che i rifiuti liquidi venivano utilizzati per ridurre l’impatto inquinante della concerie convogliate nell’impianto, nè risulta proporzionata alla mutata portata della decisione di appello, conseguente alla distinzione tra scarichi e rifiuti liquidi. Contesta altresì la difformità di trattamento rispetto a quello del coimputato Botrini che a differenza del Banti, responsabile solo a titolo di contributo morale, era stato l’artefice materiale delle condotte fraudolente.
2.7. Con il settimo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 539 cod. proc. pen. e al vizio motivazionale, la quantificazione delle provvisionali in assenza di alcun parametro di riferimento ed in aperta contraddizione con la mancanza di certezza del danno. Lamenta altresì la mancata riduzione della provvisionale in favore del Comune di Fucecchio all’esito del ridimensionamento della gravità del fatto ad opera della stessa Corte di appello.
3. Con memoria redatta in data 22.7.2021 il Ministero della Transizione Ecologica, costituito parte civile, ha dettagliatamente confutato i singoli motivi del ricorso concludendo per la sua inammissibilità o comunque per la sua infondatezza.
4. Con memoria redatta in data 6.11.2020 si è costituito per conto del Comune di Fucecchio l’avv. Sofia Cavini quale nuovo difensore che si è riportata a quanto dedotto nei precedenti gradi di giudizio, concludendo per la conferma della sentenza impugnata



CONSIDERATO IN DIRITTO

1.La tesi sostenuta dalla difesa con il primo motivo di ricorso, secondo la quale occorre fare riferimento ai fini dell’individuazione del tempo di decorrenza della prescrizione del reato in esame ai singoli episodi criminosi di cui si compone la condotta di traffico illecito di rifiuti, non può ritenersi fondata.
Del tutto fuorviante è il riferimento al principio dell’irretroattività della legge sfavorevole al reo in presenza del fenomeno della successione di leggi nel tempo, su cui si fonda l’asserita non punibilità delle condotte delle condotte antecedenti al 7.9.2010 in quanto prescritte per essere ad esse applicabile, secondo il ricorrente, il previgente termine di prescrizione di sette ani e sei mesi, elevato invece a quindici anni a seguito dell’entrata in vigore della L. 136/2010, l’applicabilità della quale si tradurrebbe in un regime più sfavorevole al reo.
Il vulnus prima di tutto logico che si annida nella tesi difensiva risiede nel fatto che con essa non viene affatto negata la figura del reato abituale in termini di unitarietà della condotta, la quale resta, invece, integra secondo la stessa difesa per tutti i fatti successivi alla data del mutamento del termine prescrizionale: è quindi evidente l’incongruenza del ragionamento propugnato che, nel sostenere che ogni singola condotta assuma rilevanza autonoma, finisce con il contraddire se stesso venendo invocata a decorrere da 7.9.2010 l’applicabilità di un’unica pena, e quindi sottintendendo l’unitarietà a decorrere da tale data della condotta, pena che si vorrebbe paradossalmente ridotta in ragione del minor numero delle condotte punibili.
In ogni caso, quand’anche voglia farsi riferimento alle peculiari problematiche di diritto intertemporale che si intersecano con la prescrizione allorquando una condotta reiterata nel tempo risulti compiuta in parte sotto la vigenza di una legge più favorevole ed in parte in regime di sopravvenienza di una legge meno favorevole al reo, la questione è stata espressamente affrontata da questa Corte che ha affermato come debba farsi comunque riferimento al tempo di consumazione del reato anche per le fattispecie caratterizzate da una peculiare proiezione dell’iter criminis nel tempo, precisando che l’applicabilità dello jus superveniens sfavorevole è subordinata alla circostanza che, dopo la modifica normativa in peius, siano stati comunque realizzati tutti gli elementi costitutivi del reato (Sez. U, Sentenza n. 40986 del 19/07/2018 - dep. 24/09/2018, Rv. 273934).
E’ invece muovendo dal carattere non unitario della nozione di tempo del commesso reato, che come sottolineato nella citata pronuncia costituisce un concetto da modulare a seconda della funzione che l’istituto al quale va ad applicarsi è chiamato a svolgere, e dunque da interpretare sulla scorta degli stessi principi che governano il funzionamento degli istituti di volta in volta rilevanti, che  deve essere affrontato il tema della prescrizione con riferimento all’individuazione del tempus commissi delicti nei reati cd. di durata.
In tale novero vanno ricondotti tanto i reati permanenti quanto quelli abituali, differenziati dal fatto che mentre i primi sono caratterizzati dal perdurare nel tempo senza interruzione della situazione antigiuridica posta in essere dall’agente, nei secondi ci si trova di fronte alla reiterazione, intervallata nel tempo, della stessa condotta o di più condotte omogenee che ove assumano tutte autonoma rilevanza penale, integrando ciascuna di esse un’altra figura di reato, danno vita alla figura del reato abituale improprio, mentre  ove siano costituite anche solo parzialmente da fatti penalmente irrilevanti configurano il reato abituale proprio.
E’ in tale seconda categoria che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, rientra il reato in esame il quale, come già affermato da questa Corte, è caratterizzato da una pluralità di condotte, alcune delle quali, se singolarmente valutate, potrebbero non costituire reato (Sez. 3, Sentenza n. 16036 del 28/02/2019 Ud.  (dep. 12/04/2019, Zoccoli, Rv. 275395; Sez. 3, n.44269 del 22/10/2015, Bettelli, Rv. 265573), dovendosi ai fini della sua classificazione avere riguardo alla formulazione normativa e non già alla fattispecie concreta: occorre, infatti, considerare non soltanto le plurime condotte specificamente indicate dal previgente art. 260 d. lgs. 152/2006 ed attualmente configurante, per effetto delle modifiche introdotte dal d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21, l'art. 452-quaterdecies cod. pen., costituite dall’attività di cessione, ricezione, trasporto, esportazione ed importazione, ma altresì quella “comunque” di gestione figurante a chiusura del precetto, dove è proprio l’avverbio utilizzato a lasciarne aperta l’individuazione. Come si ricava dalla previsione di legge, per il perfezionamento del delitto si richiede la predisposizione di una vera, sia pure rudimentale, organizzazione professionale con allestimento di mezzi ed impiego di capitali (cui rimanda la menzione di “attività continuative organizzate”), con cui gestire in modo continuativo ed illegale, ingenti quantitativi di rifiuti: da ciò deriva ai fini del perfezionamento del reato la necessità di una pluralità di condotte in continuità temporale, relative ad una o più delle diverse fasi nella quali si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti, costituendo, pertanto, la pluralità delle suddette condotte un elemento costitutivo dello stesso delitto, la cui commissione configura un’unica violazione di legge (così Sez. 3, Sentenza n. 46705 del 03/11/2009 - dep. 03/12/2009, Caserta, Rv. 245605). Ne deriva che l’antigiuridicità della condotta dipende dalla configurazione unitaria del reato, perdendo al suo interno le singole condotte la loro autonoma rilevanza.
Da qui l’infondatezza dell’invocata assimilabilità della suddetta figura criminosa al reato continuato il quale, presupponendo una serie di illeciti avvinti dall’identità del disegno criminoso, si risolve in un trattamento di favore riservato al reo in punto di quantificazione della pena, e che perciò si pone, fondandosi su una corrispondente pluralità di autonomi reati, in stridente antinomia con il reato abituale che costituisce un’unica figura criminosa. E’, invero, tale caratteristica a marcare la differenza, ancor più evidente nel reato abituale proprio (dove la mancanza di rilevanza penale delle singole condotte mostra tutta l’incongruenza della tesi difensiva che vorrebbe ancorare ad ognuna di esse l’applicabilità della prescrizione), con la struttura del reato continuato, in cui ogni condotta riveste una specifica e delineata, anche temporalmente, rilevanza penale (così come affermato per il reato di analoga natura di maltrattamenti in famiglia da Sez. 6, Sentenza n. 39228 del 23/09/2011 - dep. 28/10/2011, Rv. 251050)
Ed è proprio facendo leva sulla configurazione unitaria del reato abituale, che tanto la prevalente dottrina quanto la giurisprudenza hanno colmato il vuoto normativo lasciato dall’art. 158 cod. pen. in ordine all’individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, omologandolo a quello permanente con cui condivide la natura di reato di durata (cfr. per tutte Sez. U. n. 40986/2018 cit): pertanto così come per quest’ultimo il relativo termine viene individuato dal legislatore nel momento della cessazione della condotta permanente, nel reato abituale viene identificato con la realizzazione dell’ultima condotta che chiude il periodo consumativo iniziatosi con la condotta che, insieme alle precedenti, forma la serie minima di rilevanza ai fini dell’abitualità (così, in motivazione, Sez. 6, n. 39228 del 23/9/2011,S., Rv. 251050).
Del resto, anche la giurisprudenza sovrannazionale nell’affrontare la questione relativa all’individuazione del tempus commissi delicti nei reati cd di durata, qualificati come “continuous offence”, ha affermato che è compito esclusivo delle Corti nazionali valutare in quale momento il reato debba ritenersi commesso, essendo la Corte europea soltanto chiamata ad accertare se la valutazione discrezionale operata nell'ordinamento dello Stato membro sia contenuta in una "legge" che - anche per come interpretata dalla giurisprudenza - risponda a requisiti di accessibilità e prevedibilità. La Corte di Strasburgo, nel pronunciarsi nella causa Rohlena c. Repubblica ceca in relazione al reato di “abusing a person living under the same roof”, assimilabile al delitto previsto nel nostro diritto interno all’art. 572 cod. pen., per fatti commessi tra il 2000 e il 2006, ha ritenuto conforme all’art. 7 CEDU la previsione contenuta nell’ordinamento ceco che prevede l’applicabilità della legge in vigore al momento in cui è tenuto l'ultimo degli atti violenti posti in essere, analogamente all’indirizzo ermeneutico invalso nella giurisprudenza italiana a proposito del reato abituale. La Corte, muovendo dal presupposto che il reato in contestazione fosse stato introdotto nell’ordinamento ceco solo nel giugno 2014, ha osservato che, secondo il diritto interno in questione, un reato qualificabile come “continuous offence” potrebbe essere costituito da un solo e unico atto, la cui classificazione dovrebbe essere valutata alla luce delle norme in vigore alla data di cessazione dell’ultima delle sue manifestazioni, a condizione che anche gli atti commessi in virtù della legge precedente siano punibili. Ha perciò respinto la domanda rilevando come, in applicazione del principio della foreseeability (da intendersi come conoscibilità ex ante delle conseguenze derivanti dal compimento di una determinata condotta), le condotte del ricorrente costituivano già reato prima del 2004, e sarebbero state comunque punibili ai sensi degli artt. 197a o 221 § 1 Criminal Code ceco e come la regula iuris secondo cui, in presenza di continuous offences, il reato si considera commesso nel momento in cui viene tenuta l'ultima condotta rilevante è prevista dalla legge e pacificamente accolta dalla giurisprudenza ceca, così escludendo, in ragione della conoscibilità della nuova norma, la violazione del divieto di applicazione retroattiva in malam partem della legge penale (sentenza Corte EDU, grande camera, 27 gennaio 2015, Rohlena c. Repubblica Ceca).
Dovendosi in conclusione farsi riferimento ai fini del decorso del termine prescrizionale alla cessazione dell'attività organizzata finalizzata al traffico illecito, (Sez. 3, Sentenza n. 16036 del 28/02/2019, cit.), e dunque nella specie alla data del 5.10.2012 indicata quale termine finale nell’imputazione, la prescrizione non può a tutt’oggi, avuto riguardo al termine fissato dalla disciplina vigente in quindici anni, ritenersi decorsa.
2. Neppure può ritenersi fondato il secondo motivo.
La contestazione svolta dal ricorrente si incentra sull’ingente quantitativo, configurante elemento costitutivo del delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti,  lamentando la difesa che la disamina effettuata dai giudici distrettuali si sia focalizzata sul solo dato ponderale senza che fosse stata accertata né la natura né il carico inquinante dei rifiuti e senza comunque estendersi al giudizio complessivo volto ad evidenziare, in conformità alla ratio sottesa al bene giuridico tutelato dalla norma, la pericolosità dei rifiuti per la salute pubblica e l’integrità dell’ambiente, rispetto ai quali l’elemento quantitativo rappresenterebbe solo uno dei parametri di riferimento.
La doglianza è priva di pregio.
In punto di fatto occorre rilevare che mentre il carico inquinante deriva dalla stessa natura di rifiuto dei reflui trasportati dalle autobotti, la sua eccedenza sul piano quantitativo risulta, a tacer d’altro, dallo sforamento costante da parte dell’impianto di depuramento dei limiti previsti dall’autorizzazione integrata ambientale che avrebbe imposto l’automatica sospensione del trattamento dei rifiuti trasportati su gomma. Se tale rilievo è di per sé ampiamente sufficiente ad integrare l’ingente quantitativo solo che si abbia riguardo alla pericolosità complessiva della condotta rapportata al contesto di riferimento, va comunque soggiunto che la Corte distrettuale motiva diffusamente in ordine all’imponente quantitativo dei rifiuti su gomma, di per sé considerato, avendo evidenziato che perveniva quotidianamente presso il Consorzio, secondo le deposizioni testimoniali raccolte, un numero non inferiore ai  30-40 camion al giorno che scaricavano regolarmente il loro carico e che le analisi di ingresso, effettuate peraltro soltanto a campione e non con la regolarità prescritta, venivano a volte anch’esse falsificate, così come emerso da “molte delle schede sequestrate che riportavano correzioni manoscritte a matita con valori ridotti rispetto a quelli indicati nella scheda”: rilievo questo che non può ritenersi confutato dal fatto che la sentenza abbia analizzato il contenuto di sole tre schede atteso che la suddetta disamina risulta effettuata, come ivi precisato, esclusivamente a titolo esemplificativo. Peraltro, viene coerentemente osservato dai giudici del gravame come il fatto stesso della falsificazione delle schede costituisse la prova tangibile della violazione dei limiti di accettabilità delle sostanze inquinanti nella consapevolezza da parte degli imputati che l’impianto così come era gestito non era assolutamente in grado di smaltire i rifiuti nel rispetto dei valori limite prescritti.
Nella compiuta declinazione del principio giurisprudenziale secondo il quale l'ingente quantitativo non può essere individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l'ambiente (Sez. 3, n. 47229 del 6/11/2012, non mass.; Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016 - dep. 09/11/2016, Rv. 268667; Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019 - dep. 30/09/2019, Rv. 278531), la Corte medicea perviene pertanto, all’esito della disamina dell’intero quadro probatorio, a definire come ingente il quantitativo dei rifiuti rapportandolo all’attività abusiva nel suo complesso e, dunque, valutando l’insieme delle operazioni illecite svolte che quand’anche, ove considerate singolarmente, potessero essere definite di modesta entità, sono state, invece,  riferite al materiale complessivamente gestito, e al lungo arco temporale, pari a circa sei anni, in cui si è protratta. Anche in punto di diritto la pronuncia in esame è conseguentemente immune da censure.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato: è sufficiente al riguardo rilevare come la natura di reato di pericolo presunto, pacificamente accreditata al delitto di traffico illecito di rifiuti, prescinda dalla dimostrazione del pericolo concreto, non costituendo elementi costitutivi della condotta criminosa né il danno ambientale, né la minaccia grave di tale danno (Sez. 3, Sentenza n. 19018 del 20/12/2012 - dep. 02/05/2013, Accarino, Rv. 255395, che ha precisato che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato articolo si riferisce alla sola eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno).
4. Il quarto motivo, risolvendosi in doglianze che si appuntano sul giudizio valutativo in punto di affermazione della responsabilità rispetto alle quali la difesa si limita a fornire una lettura alternativa delle risultanze istruttorie, si destina anch’esso all’inammissibilità.
Oltre al rilievo che il contributo causale prestato dall’imputato non è affatto delineato in termini di omissività, essendo, al contrario, fondato sulla riconducibilità a costui delle decisioni assunte nella veste di vertice amministrativo del Consorzio, carica ricoperta dal 2006 al 2012, deve osservarsi come la Corte fiorentina delinei con stringente ed esaustiva motivazione altresì le ragioni economiche sottese all’illecita gestione, costituite dall’obiettivo di contenerne i costi, necessariamente ricadenti sullo stesso Consorzio, sulle quali si radica il dolo specifico di ingiusto profitto.
Che la finalità al contempo perseguita fosse quella di sfuggire ai controlli dell’impianto da parte degli organi preposti – finalità realizzata attraverso la alterazione dei risultati delle analisi e nella sostituzione dei reflui inquinanti nel campionatore cui avrebbe dovuto avere accesso esclusivo l’ARPAT - emerge con plastica evidenza dalla frase riportata dalla sentenza impugnata secondo il cui il prevenuto, nell’apprendere dall’Ancillotti che gli agenti della Guardia Di Finanza si erano accorti delle falsificazioni delle analisi del laboratorio, non si fosse “mostrato affatto sorpreso”: frase questa che non attiene a quanto dichiarato dal teste, ma costituisce l’eloquente commento del Collegio giudicante che trae dalla domanda posta dall’imputato al tecnico del laboratorio, in risposta all’informazione acquisita, sulle ragioni per le quali quelle schede si trovassero nel laboratorio e se fosse possibile che le alterazioni  dei dati potessero essere imputabili ad altri laboratori, la dimostrazione che egli fosse pienamente a conoscenza della eseguita falsificazione, avendo esternato, senza manifestare alcuno stupore, solo la sua preoccupazione per le prove acquisite in tal modo dagli inquirenti. A tale conclusione la Corte fiorentina perviene, del resto, anche sulla base delle univoche deposizioni degli altri testi escussi che mettono ben in luce come il Banti fosse perfettamente consapevole della situazione in cui versava la discarica e che, ciò nonostante, avesse proseguito nell'attività criminosa, dando conto del fatto che la diversa tesi dell'imputato era smentita, tra l'altro, dal contenuto di una conversazione telefonica intercorsa tra due dipendenti del Consorzio, come espressamente dà atto la sentenza impugnata. Con specifico riferimento a tale conversazione non ricorre, come inopinatamente eccepito dalla difesa, alcun travisamento della prova, sussistente nella sola ipotesi in cui si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia: e questo non è certo il caso atteso che la pronuncia in esame, nel puntualizzare che il dialogo era intercorso tra i due dipendenti, evidenzia come le frasi da entrambi pronunciate rivelassero in termini eloquenti le motivazioni strettamente economiche che avevano indotto il Consorzio e, per esso, l’imputato alle cui direttive costoro dovevano uniformarsi, alla disinvolta gestione dell’impianto. Neanche la suddetta doglianza, dietro la quale, in realtà, si cela, al pari delle altre articolate con il presente motivo, la richiesta di una nuova e differente lettura delle medesime emergenze istruttorie esaminate dal Giudice del merito, può pertanto trovare ingresso nella presente sede di legittimità.  
5. Alla censura di inammissibilità conduce anche il quinto motivo.
Ricollegandosi ai rilievi già spesi in relazione al terzo motivo circa la natura del reato in contestazione, occorre aggiungere che la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (Sez. 3, n. 36350 del 23/03/2015 - dep. 09/09/2015, Bertini e altri, Rv. 265637).
In ogni caso, la circostanza che l’attività illecita svolta dal Consorzio fosse potenzialmente produttiva di danno, esteso anche alle c. perdite provvisorie, ovverosia a quelle modifiche dello stato dei luoghi che secondo la direttiva 2004/35/CE comportino la mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, nella specie riferita al Torrente Usciana dove confluivano gli scarichi dell’impianto, risulta ampiamente evidenziata dalla sentenza impugnata sulla scorta delle relazioni e dei rilievi tecnici acquisiti.
Il fatto che nel suddetto torrente confluissero gli scarichi anche di un altro impianto sito a monte in località Acquarno è stata ritenuta irrilevante ai fini dell’attribuibilità del carico inquinante  al Consorzio alla luce delle conclusioni tratte dal consulente tecnico del Ministero dell’Ambiente, recepite dalla Corte distrettuale sul rilievo che dalla disamina del campionamento delle acque effettuato tra il 2006 e il 2012, era emerso un progressivo peggioramento rispetto ai dati già negativi del 2003, ma mentre la situazione degli scarichi dell’impianto a monte, sempre monitorata in modo corretto, era risultata invariata, il quantitativo degli apporti inquinanti immessi dall’impianto in esame, pur non registrando alcuna variazione sostanziale nel tempo, non poteva ritenersi attendibile in quanto il campionatore, ivi installato a suo tempo dall’ARPAT in attuazione di un piano di risanamento varato dalla Regione Toscana, era stato manomesso, come già accertato dalla sentenza impugnata: da qui la deduzione, per vero logica e comunque non specificamente confutata dalla difesa, secondo cui è da imputarsi al Consorzio  attraverso il rilascio da parte del depuratore di Ponte a Cappiano di reflui non conformi alle prescrizioni di legge e agli obiettivi del corpo idrico ricettore, l’incremento del carico inquinante immesso nel torrente. Né le suddette conclusioni risultano smentite, come sostiene il ricorrente, dalla relazione dell’ARPAT che conclude assumendo che le variazioni, seppur sensibili, degli scarichi dell’impianto de quo “avrebbero inciso relativamente poco sul carico inquinante complessivo recapitato nel canale Usciana” posto che il dato saliente, neanch’esso oggetto di specifica censura da parte della difesa che si limita a riportare il passaggio successivo della relazione, che ne viene tratto dalla Corte di merito è costituito, oltre che dal superamento, nel corso del periodo di osservazione, dei parametri di legge per numerose sostanze, dalla criticità dell’impianto in relazione al trattamento dei rifiuti trasportati dalle autobotti, confermata dal fatto che una volta cessati nell’ottobre 2012 i suddetti conferimenti i valori del COD si erano notevolmente abbassati.
6. Neanche il sesto motivo, involgente la dosimetria della pena, si sottrae allo stesso esito, dovendosi ribadire l’inammissibilità delle censure che, nel giudizio di cassazione, mirino ad una nuova valutazione della congruità del trattamento sanzionatorio la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Rv. 245596), nella specie neppure formalmente dedotto. A ciò si aggiunge che avendo la Corte di appello proceduto alla riduzione della pena irrogata dal primo giudice determinandola in misura comunque inferiore alla media edittale, nessuno specifico onere motivazionale incombe in tal caso sul giudice di merito, reputandosi a tal fine sufficiente il solo richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 - dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283): è la stessa contenuta quantificazione ad evidenziare un corretto esercizio del potere discrezionale da parte del giudice del gravame, frutto di una valutazione globale in rapporto alla complessiva considerazione del fatto ed alla personalità dell'imputato, tanto più che il ricorrente non ha indicato alcun parametro, tra quelli declinati dall'art. 133 cod. pen., indebitamente disatteso ai fini per un maggiore contenimento della dosimetria sanzionatoria. Del resto, la comparazione con la posizione del coimputato Botrini, di cui la Corte medicea sottolinea il differente contributo fornito, attraverso le proprie seppur parziali ammissioni, all’epilogo decisorio costituisce la compiuta rappresentazione, a fronte del maggior contenimento di pena riservato a quest’ultima, dei criteri seguiti nella rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
7. All’evidenza inammissibili sono le censure che il ricorrente rivolge alla sentenza in esame con riferimento alla provvisionale, essendo a tal fine sufficiente rimarcare, in conformità al costante orientamento di questa Corte, che non è consentito, in sede   di legittimità, sindacare la concessione della provvisionale immediatamente esecutiva né nell'an, né nel quantum (così, in motivazione, Sez. U, n.  53153 del 27/10/2016, secondo   cui   l’imputato può   solo   chiedere la  sospensione  della condanna al pagamento di una  provvisionale nei modi  e termini previsti dall'art.612,  cod. proc.  pen.). Invero, la natura meramente delibativa della statuizione con cui il giudice penale quantifica, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, la provvisionale in relazione al risarcimento del danno all’esito di condanna generica demandandone, in difetto di elementi sufficienti emersi nel processo, la definitiva liquidazione al giudizio civile, non ne consente l’acquisizione dell’autorità della cosa giudicata essendo la sua efficacia destinata a cessare con la pronuncia definitiva in sede civile contenente le statuizioni sul risarcimento del danno (così ex multis Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019 - dep. 05/11/2019, Rv. 277773).
8. Il ricorso deve essere in conclusione rigettato, seguendo a tale esito l’onere delle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen.
Il ricorrente deve essere altresì condannato, secondo il criterio della soccombenza, alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo, in ragione dell’apporto contributivo fornito alla decisione in conformità alle vigenti tabelle. La suddetta condanna va estesa in solido per quanto concerne il Ministero della Transizione Ecologica al responsabile civile

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Lo condanna alla rifusione delle spese delle parti civili Legambiente Toscana e Comune di Fucecchio che liquida in € 3.150 per ciascuna, oltre accessori di legge, nonché alla rifusione, in solido con il responsabile civile, delle spese della parte civile Ministero della Transizione Ecologica, che liquida in complessivi € 5.000
Così deciso il 15.9.2021